NUMERO 52 - Anno 30°- Giugno 2020 Redazione: Via Pianezza 2 , Mergozzo (VB) 28802 WN è stampato in proprio. Direttore Responsabile: Leicester Bangles
N° 52
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Considerazioni “Esco, non ho paura, morte sicura viviamo già” FRANCESCO BIANCONI
BAUSTELLE
“Canzoni contro il panico” (sulle rovine italiane)
DIEGO PALAZZO - MOTTA - TONY GATLIF MICHAEL KIWANUKA - THE DOORS PUNKY REGGAE PARTY - PAOLO BENVEGNU’ GULINO - DE ANDRE’ - TUTTI FENOMENI EDIZIONI VIOLET CARSON
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WN – n°52 – Giugno 2020 SOMMARIO
BAUSTELLE : Canzoni contro il panico !!! (sulle rovine italiane) Pag. 3
Capitolo 1 - “Il peccato originale” di Michele Griggi pag. 3 Capitolo 2 - “Baustelle 2005 - 2018: Sono solo canzonette...” di Giorgio Ferroni pag. 5 Capitolo 3 - “Le parole senza senso di Bianconi dentro le canzoni” di Massimiliano Stoto pag. 15 Capitolo 4 - “Il fascino di Rachele” di Kurt Logan pag. 29 Capitolo 5 - “Dentro ai Baustelle” intervista a Diego Palazzo” di Massimiliano Stoto pag. 31 Capitolo 6 - “Memorie del Tour di “Amen” intervista a Lorenzo Sartirana di Kurt Logan pag. 36 Capitolo 7 - “Sussidiario illustrato delle emulazioni” di Lewis Tollani pag. 38 Capitolo 8 - “...Voglio il ciuffo di De Andrè” di Angelo Monte pag. 41 Capitolo 9 - “Il cineterapista: Una fumata di Baustelle” di Mauro Giovanni Diluca pag. 43
MOTTA : Non sono immaginario di Alberto Nobili Pag. 52 PUNKY REGGAE PARTY di Marco Denti Pag. 56 MICHAEL KIWANUKA di Michele Anelli Pag. 59 THE DOORS - “Morrison Hotel” di Agostino Roncallo Pag. 63 DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE di Massimiliano Stoto Pag. 65 TUTTI FENOMENI, GULINO, PAOLO BENVEGNU’
L’ESTATE ENIGMISTICA : Cruciverba Baustelliano Pag. 67 LA VOCE DEL PADRONE - EDITORIALE & TITOLI DI CODA Pag. 68 WN – n°52 – GIUGNO 2020 – Anno XXX Redazione in carne e ossa: Mauro Giovanni Diluca, Giorgio Ferroni, Michele Griggi, Kurt Logan,
Angelo Monte , Alberto Nobili, Agostino Roncallo, Massimiliano Stoto, Lewis Tollani, Sauro Zani. A questo numero hanno collaborato: Michele Anelli e Marco Denti. Guida Spirituale: Francesco Bianconi (nel bene e nel male). Logo di copertina: Daniele Comello. Progetto Grafico: Kurt Logan.
QUESTO NUMERO E’ DEDICATO A: Giorgio Borghini, Roberto Pedretti, Genesis P-Orridge e Andy Weatherall Tutte le illustrazioni ed immagini riprodotte, (dove non indicato) sono degli autori o delle persone, agenzie, case editrici detenenti i diritti. WOLVERNIGHT – Via Pianezza n°2 Mergozzo (VB) 28802 e-mail: macy69@tiscali.it WolverNight è stampato in proprio. Questo numero è stato stampato in 50 copie Questa in tuo possesso è la n° di 50 - 1a stampa del 06/06/20 EDIZIONI VIOLET CARSON
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Illustrazione by Chiara Zaccagnino
BAUSTELLE
Canzoni contro il panico !!! (sulle rovine italiane)
“Non c’è nulla di casuale nel mondo degli uomini” Usiamo le parole di Fernando Vidal Olmos dal “Rapporto sui ciechi”, terza parte di “Sopra eroi e tombe” di Ernesto Sábato per cominciare questo lungo speciale sul gruppo di Rachele Bastrenghi, Francesco Bianconi e Claudio Brasini. Parafrasando le parole di Olmos/Sábato, possiamo dire che non c’è nulla di casuale nelle canzoni dei BAUSTELLE. Dopo più di vent’anni di carriera è giunto il momento di tirare le somme e rendere merito a questo gruppo toscano, che attraverso canoni musicali non desueti per le latidudini italiche, melodia e parti sinfoniche non mancano mai nei loro dischi, ha saputo costruirsi uno stile e un linguaggio proprio, ben riconoscibile, grandiosamente pensato e scritto. Se trattasi di musica leggera, è di certo di prima qualità. Capitolo 1
“Il peccato originale” di Michele Griggi Ma che ne sanno gli indie 2000 di cosa era indie nel 2000? Negli ultimi 20 anni, musicalmente, il termine indie ha assunto tanti di quei significati che non mi stupirei di ritrovarci, che ne so, un gruppo grunge che fa hip hop. Sicuramente, quando nel 2000
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preciso preciso, è uscito “Sussidiario illustrato della giovinezza”, i Baustelle erano indie e richiamavamo, quasi come avanguardia o campioni del genere, a tutta una serie di gruppi emergenti in quel periodo, quando il cantato (ma qui avevano aperto la strada gli Afterhours), doveva essere in italiano. Me li sono sempre immaginati milanesi i Baustelle, invece arrivano dalla Toscana, sarà perché la prima volta che li ho visti live è stato una per me mitica serata, un venerdì sera al Jail a Legnano, iniziata con me che parto da Verbania dopo una serata con gli amici finita troppo presto e conclusa a ballare fino alle 4 canzoni Brit e Indie con la partecipazione molto ubriaca dei membri del gruppo e in particolare della bella tastierista e cantante Rachele Bastreghi. È un bel disco, “Sussidiario illustrato della giovinezza”, il gruppo esiste già da quattro anni e Bianconi ha avuto tutta la sua giovinezza per mettere assieme dei testi originali e interessanti, di quelli che ti devi scervellare a capire se vogliono dire qualcosa, poi in genere ti arrendi e ne apprezzi la musicalità e perché no, la genialità, visto che riesce a far rima con bikini e Rimini. I suoni elettronici sono maggioritari ma non troppo invadenti, la band sa suonare, non è roba plastificata, ed hanno già un loro suono che li contraddistingue e ancora non li limita. In seguito chi non li apprezza troverà facile definirli un po’ ripetitivi e tristi, in parte è vero, ma è vero anche che musicalmente sanno scrivere e se si presta attenzione, c’è tanto da sentire. Tre anni passano prima che Bianconi e soci facciano uscire “La moda del lento”, con il quale si fanno conoscere ovunque e divengono i paladini appunto dell’indie del periodo. È un album lungo, 60 minuti sono un po’ troppi e un paio di canzoni sono un po’ faticose da ascoltare, non chiedetemi quali, sono sicuro che ognuno ha le sue, però i testi si mantengono molto interessanti, a Bianconi piacciono le parole ed ha il suo modo di usarle, infatti salta all’...orecchio lo sforzo di far stare le frasi nella musica, anche forzando accenti e sillabe, se utile al risultato finale. Le musiche si arricchiscono, certe parti, o partiture, strumentali sono di alto livello, è un album già maturo, già il rischio di ripetersi con il “difficile terzo disco” è ben presente. I detrattori li aspettano al varco, ogni somiglianza con i primi due dischi potrebbe essere usata contro di loro. Ma i Baustelle spiazzeranno tutto, amanti e nemici, però questa parte non ve la racconterò io. (MG)
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Capitolo 2
“Baustelle 2005 - 2018: Sono solo canzonette...” di Giorgio Ferroni In realtà no, spesso non sono solo canzonette.
I dischi dei Baustelle sono lavori di qualità alta, in alcuni casi con evidenti riferimenti al linguaggio cinematografico, alla società contemporanea e alla letteratura. Sono principalmente autori di canzoni, ma compongono anche un sacco di musica strumentale di qualità, come l’ethno Jazz di “Ethiopia” con ospite Mulatu Astatke o gran parte degli intermezzi strumentali dell’album “Fantasma”. Nella loro discografia i Baustelle hanno sempre seminato varie citazioni non solo musicali, ci sono espliciti richiami all’arte (anche pop art ovviamente), al cinema, alla letteratura e alla poesia: Si citano Lee Hazelwood, Baudelaire, Pasolini, Dante Alighieri, la serie TV “Il tenente Colombo”; Joseph Conrad, Luis Bacalov, Maurizio Cattelan, Jorge Luis Borges, Piero Manzoni e tanto altro… oltre ad evidenti riferimenti a contesti storici e politici (Fanfani, la DC, la P2; Pertini, Platinì, Bush, la guerra in Iraq e in Serbia et..). In tutto il loro lavoro e ai loro rimandi si nota una grande cura ai dettagli e ad una loro contestualizzazione mai banale e che apre le porte ad un gran numero di collegamenti con opere e situazioni che vale la pena di approfondire. Ho trovato assolutamente interessante raccogliere questi spunti e questi riferimenti nell’analisi della loro produzione, anche perché mi ha aiutato tantissimo a contestualizzare il loro percorso artistico.
Photo by Gianluca Moro
Bianconi è molto bravo nel raccogliere input relativi a storie di personaggi, ma anche di situazioni sociali emblematiche; la canzone “A vita bassa” (su “La malavita”) prende liberamente spunto da un articolo di Marco Lodoli su “La Repubblica” del 2004 (si trova ancora on line), l’articolo è una riflessione su una conversazione con una studentessa che parla di come solo le persone famose possano veramente permettersi di essere sé stessi, mentre per gli altri resta la rassegnazione ad essere inutili. Questa conversazione è descritta molto bene nel testo e quindi la canzone assume un significato completamente diverso se questo articolo e la conseguente riflessione vengono sviscerati. Cosi come assume tutto un latro significato la canzone “Colombo” (“Amen”) se ci si riferisce al contesto del telefilm americano e si nota, come fa Bianconi in un’intervista, che il tenente Colombo è una metafora della critica al sistema capitalistico. Insomma ci sono una montagna di citazioni, di note sulle copertine, di riferimenti nei video clip, questi vanno raccolti ed una volta scoperti mostrano come l’amalgama di musica e parole non sia mai banale o casuale, ma c’è un lavoro dettagliato per unire significato e significante, che è sempre sinonimo di qualità. I Baustelle sono un gruppo rock che ambisce all’orizzonte ampio della musica strumentale, della colonna sonora e dell’orchestrazione, con rimandi anche alla musica classica, alla letteratura, il tutto sempre con i piedi ben piantati nella tradizione della musica leggera e d’autore italiana, avendo un perno solido nell’ottima scrittura di Francesco Bianconi (voce principale, chitarre e tastiere). Senza trascurare l’apporto di Rachele Bastreghi e Claudio Brasini, ottimi musicisti rispettivamente a tastiere e chitarre; con la voce della Bastreghi a fare da contrappunto e coro al tono baritonale di Bianconi, non disdegnando parti soliste di tutta eccellenza. Brasini dal canto suo è un chitarrista piuttosto eclettico e lo dimostra spaziando fra diverse sonorità, passando dal post punk al country con qualche rara svisata verso la psichedelia floydiana. Il titolo l’ho scelto perché a differenza di molti altri gruppi italiani che partono dall’Indie rock (chissà poi cosa vuole dire, ma molti usano questo termine), non hanno paura di riferirsi anche all’universo della musica leggera italiana (non uso a caso il termine musica leggera invece del termine musica pop che descrive una cosa un pochino diversa). Infatti c’è chi pensa di inquadrare i Baustelle nel esclusivo contesto della nuova musica indie italiana, ma sbaglia clamorosamente, perché trascura o non analizza tutta la produzione major a partire dal terzo album, in altre parole la produzione migliore del gruppo.
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Ricordo molto bene che nell’edizione
del concreto del primo maggio del 2008, Bianconi e soci arrivano sul palco e nella seconda parte dell’esibizione invitano sul palco Irene Grandi per cantare un pezzo di Adriano Celentano: “Un albero di trenta piani” per concludere poi con “Bruci la città”, un pezzo scritto da Francesco Bianconi, e diventato famoso proprio nell’interpretazione di Irene Grandi. Tanto per dare qualche altro riferimento più o meno nello stesso periodo i Marlene Kuntz (altro gruppo “Indie” storico) incidevano una versione del classico brano progressive rock della PFM “Impressioni di settembre”. Perché ho citato i Marlene Kuntz? Perché anche loro vengono dal mondo della “Musica alternativa” e, così come i primi lavori dei Baustelle, che scontano una decisa influenza di gruppi inglesi come i Pulp, anche i Marlene Kuntz prima di trovare un linguaggio personale hanno attinto a piene mani ai lavori di gruppi stranieri, in questo caso i Sonic Youth. Dove sta la differenza: i Marlene Kuntz, e tutto quel tipo di mondo indie, non sarebbero mai usciti su un palco cantando un pezzo di Celentano o di Mina di fronte ad un pubblico che si aspetta l’alternatività come valore a prescindere. Nel mondo del “rock indipendente “si detestano Sanremo ed Irene Grandi. Però ci si dimentica che San Remo cinquanta anni fa era una cosa seria ed anche la musica leggera Italiana era una cosa seria, che produceva anche montagne di spazzatura ovviamente, ma che sapeva produrre grandi canzoni e musica di qualità. Per essere chiari, credo che lo stesso identico ragionamento valga per ogni genere di musica, rock compreso; non basta essere “indie” per fare buona musica, il rock indipendente ha partorito e continua a partorire, tonnellate di musica derivativa, insulsa ed inutile e a volte produce anche qualcosa di molto valido. La canzone “Sono come tu mi vuoi” di Mina del 1966 è un bellissimo brano di musica leggera e lo cito perché nel videoclip del rifacimento di Irene Grandi del 2007 compare proprio Francesco Bianconi come comparsa. Come già citato, Bianconi è anche uno di quelli che (come nella tradizione della musica leggera) scrive canzoni per altri. Ha scritto brani per Paola Turci e Noemi, è stato tra gli autori dell'album “Amore gigante” di Gianna Nannini e coautore del brano “Le parole sono niente” di Umberto Tozzi. Per quanto riguarda la composizione di una canzone ci sono molte strategie; ci sono molti gruppi/autori che dopo avere trovato un buono spunto musicale costruiscono una linea melodica con un linguaggio inventato, su cui poi si costruisce un testo che abbia un significato; dunque a volte il testo che ne segue è semplicemente consequenziale agli aspetti musicali. Il metodo a volte funziona molto bene, David Byrne dei Talking Heads lo ha fatto (lo ha scritto nel suo libro “Come funziona la musica”) e David Byrne è un grandissimo. Anche nei Baustelle il testo viene in genere prodotto dopo la musica, ma, come già detto precedentemente, la poetica del testo è un elemento imprescindibile e ha sempre un obbiettivo narrativo non secondario che deve essere adatto al contesto musicale. I Baustelle sono uno dei pochi gruppi in Italia di cui vale la pena fare un minimo di analisi del testo. Un esempio di soluzione lirica che ha colpito la mia attenzione la troviamo nel brano “Antropophagus” (Amen), in quel testo Bianconi prende due frasi di senso compiuto che descrivono due contesti completamente diversi e le unisce sovrapponendole per riuscire a conservare la metrica e la musicalità del testo: la prima è “Non c'è sindacato e non c'è stato” e la seconda è “Non c’è stato mai nessuno che mi ha amato tanto”, insieme diventano “Non c'è sindacato e Non c'è stato mai nessuno che mi ha amato tanto come questa notte, Muoio.” Ribadisco che non bisogna però pensare ai classici dischi cantautoriali che ruotano attorno alla narrazione e alle liriche; ci sono tante soluzioni musicali ed arrangiamenti molto interessanti, con un’ottima attenzione ai dettagli Photo by Gianluca Moro (che sono sempre quelli che fanno la differenza), soluzioni che richiedono un ascolto adeguato per poter essere apprezzate nel loro complesso. In questo contesto, un altro particolare da non sottovalutare, è che i dischi major dei Baustelle “suonano veramente bene” anche se sono abbastanza compressi, le versioni in CD hanno dei suoni eccellenti che ascoltati su un buon impianto stereo danno delle ottime sensazioni.
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A questo punto dovremmo avere chiare alcune cose
ed altre le chiariamo ora: Se detestate ogni riferimento alla musica leggera italiana; se non vi piacciono gli arrangiamenti con gli archi e le orchestrazioni; se quando sentite una tastiera vintage avete dei mancamenti; se vi piace la musica immediata e diretta, quella che impatta dandoti il “tutto subito”; se coltivate il mito dell’alternatività come pre-condizione di ogni ascolto musicale; allora i Baustelle non fanno per voi. Se non fate parte di queste categorie, potrete ascoltare della bella musica e per quanto mi riguarda i Baustelle sono probabilmente la cosa migliore della musica italiana degli ultimi quindici anni. Questo ragionamento su chi si dovrebbe auto escludere dall’ascolto dei Baustelle fa riferimento quanto meno alla seconda parte della loro produzione dal 2005 in poi, i due album del 2000 (“Sussidiario Illustrato della Giovinezza”) e del 2003 (“La moda del lento”) si muovono in un ambito decisamente più Brit Pop fra Pulp e Blur. L’articolo potrebbe anche finire qui, ma è ovviamente necessario andare oltre e quindi parliamo di loro, della loro discografia su major e delle loro canzoni.
La malavita (2005)
È l’album della consacrazione dell’importanza del gruppo ed è anche l’esordio per la major Warner Italia, la produzione è molto bella ed è in capo a Carlo Ubaldo Rossi, già produttore tra gli altri, anche di Jovanotti, Subsonica e Caparezza. È anche l'ultimo lavoro che vede nella formazione il tastierista e compositore Fabrizio Massara. L’introduzione è riservata allo strumentale “Cronaca nera” composto dalla Bastreghi in aria di anni 70.e condotto dalle tastiere. Poi arriva il singolo che deve lanciare il disco: “La guerra è finita” che è una canzone stupenda. Inizia con un riff di chitarra stile Wire che poi si appoggia su un arrangiamento di archi. Il testo parla di un suicidio di una ragazza. Bianconi la descrive come “una storia personale, nel senso che la protagonista era una mia amica. È una canzone che illustra una storia di "malavita", scritta con il distacco narrativo che cerchiamo sempre di mettere nelle nostre canzoPhoto by Gianluca Moro ni.” In questa descrizione si evince come il senso del tema narrativo sia raccontare storie di “vita vissuta male”. Il terzo brano “Sergio” è un'altra esplicita storia di disagio psichico con gli evidenti riferimenti nel testo (“Non c'è la cura, Cristo Gesù, Mi salvi tu, Le botte blu, Dottori blu, Mi fai, paura”). La canzone è dedicata a Sergio Gallastroni, un personaggio reale incontrato da Bianconi. Sergio era il "matto" di Montepulciano (i Baustelle sono originari di Montepulciano in provincia di Siena) ed aveva una storia terribile alle spalle: da bambino aveva delle crisi epilettiche, e ogni volta che capitava i suoi genitori, contadini di una volta, lo chiudevano nel recinto dei maiali e finì poi al manicomio di Siena. “Provinciali” ha un gran bel lavoro con le chitarre elettriche che stanno indietro nel mixer a vantaggio della sezione archi, insomma un gran bel pezzo rock chitarristico con svisate noise mascherato da brano pop, con un finale che finisce in una orchestrazione molto azzeccata; molto bello anche il solo di chitarra che ad un certo punto è accompagnato dal vocoder. Un brano che togliendo gli archi avrebbe fatto impazzire i puristi dell’indie nudo e crudo; a questi amici ricordo che il brano rock è sempre lì sotto, basta ascoltarlo. Segue la canzone “Il corvo Joe” che era stata proposta a Celentano che aveva declinato l’offerta; è un racconto di vita ai margini raccontata in prima persona da un corvo che vive in un parco e osserva la commedia umana che lo frequenta. Il corvo sa di essere detestato e di essere considerato un simbolo della paura e della morte; c’è un passaggio nel testo (“meritate di andare per me nell’eterno dolore”) dove il corvo augura agli uomini di finire all’inferno citando Dante Alighieri nel terzo canto dell’inferno “Per me si va ne la città do-
lente, per me si va ne l'eterno dolore, per me si va tra la perduta gente.”
Alla fine della canzone il corvo però perdona gli uomini perché è consapevole della loro mortalità e dunque dei loro limiti. “Un romantico a Milano” è una delle migliori canzoni del disco, inizia con un semplice ma efficace riff di chitar
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ra elettrica che apre a una ritmica chitarristica stile Velvet Underground. Il testo è sul tema dell’artista/dandy riferito al contesto milanese, la chiosa è una dei versi più famosi di Bianconi (“L’erba ti fa male se la fumi senza stile”) che dà una descrizione a mio avviso perfetta di una certa tipologia di intellettuali (o presunti tali) che abbiamo imparato tutti a conoscere. Il video è girato, ovviamente, a Milano e cita tutta una serie di icone degli anni 60 milanesi, fra cui la Via Gluck e Piero Manzoni con la sua “Merda d’artista”. Il video Clip è anche un esplicito omaggio alla “Nouvelle vaugue”, in particolare ai film “Baci Rubati” di Truffaut e “Bande à part” di Godard. I Baustelle hanno spesso la tendenza a mascherare quello che fanno, “Il nulla” è un brano all’apparenza super pop con chitarre cristalline ancora una volta molto belle per suoni e soluzioni (“Tu hai fiducia nel pop, sei rock 'n' roll, Indossi il mito, passeggi Puma”), ma Photo by Gianluca Moro dietro questa atmosfera falsamente easy aleggia il pessimismo richiamato da parte del testo (“Accorgersi, nel caos dell'ipermercato o in un beato megastore della bugia che sta alla base del mondo”). Nelle note al testo si fa riferimento alla canzone “Quello che non c’è” degli Afterhours di Manuel Agnelli che rimanda anche essa al concetto del vuoto richiamato dalla canzone dei Baustelle. “Cuore di tenebra” è un’altra chicca narrativa/musicale che chiude l’album, una ballata acustica condotta dalla chitarra strumming e sostenuta dagli immancabili archi con una parte centrale in cui il tema della canzone è sottolineata dal fischio (alla Morricone) e dalla chitarra elettrica.
Amen (2008)
Non cambia la produzione artistica che è ancora affidata a Carlo Ubaldo Rossi ed il risultato è fantastico, un doppio LP che a mio parere è l’apice della loro discografia. Uno di quei dischi che marcano il tempo e sono oggettivamente delle pietre miliari. Mentre “La malavita” era un album diretto e veloce con 11 brani e la durata di 44 minuti, “Amen” è un’opera più dilatata in durata e spazio, con molta più varietà di suoni, sono 15 tracce (più due bonus) che durano complessivamente circa 64 minuti (più i bonus), è uno di quegli album che una volta si chiamavano “doppi” perché in vinile si divide su due dischi. Ad oggi è il disco più venduto del gruppo ed è sicuramente uno dei primi da ascoltare da parte di chi si approccia per la prima volta al loro suono, si è anche aggiudicato la targa del premio Tenco come miglior album del 2008. Una particolarità è che sul CD per ascoltare le due bonus track occorre mandare indietro la prima traccia, solo così si possono ascoltare “No Steinway”, che inizia al minuto -5:02, e “Spaghetti Western”al minuto -3:50.
“È un disco sulla civiltà occidentale moderna. Una civiltà che ai miei occhi fa schifo. E che forse proprio per questo spinge chi la canta con occhio critico, cinico e cattivo a guardare
per reazione (o disperazione?) verso l'alto”, da quanto affermato è evidente che “Amen” è una preghiera laica, da parte di un consapevole e disilluso intellettuale occidentale come Bianconi. Mi prendo ovviamente tutta la responsabilità dell’uso del termine intellettuale, anche perché il termine si può certamente applicare anche a chi si occupa di cultura di massa. Sicuramente i Baustelle fanno musica che può anche essere pop nella struttura formale, ma questo non vuole dire che sia musica banale o che non assolve al suo compito di vettore emozionale e comunque nell’opera dei Baustelle si tende ad usare lo strumento della musica leggera anche per veicolare la cultura “alta”. Pasolini pensava che l’industrializzazione avesse spazzato via i valori della civiltà contadina senza sostituirli con un altro sistema di riferimento valoriale, questo vuoto in passato è stato in parte coperto dall’ideologia politica, in parte dall’idea di futuro, ma ora che anche quello schema di valori è in crisi resta il vuoto. Bianconi fa riferimento esplicito a questa crisi di valori e la mette in musica attraverso il rock. “Amen” inizia con “E così sia”, una breve introduzione strumentale pianistica composta e suonata da Mulatu Astatke; jazzista etiope (molto bello il suo disco del 2009 con “The Heliocentrics”, uscito un anno dopo “Amen”). La canzone che segue è anche uno dei singoli di lancio, si chiama “Colombo” ed è ispirato alla figura del tenente colombo, che nell’idealizzazione di Bianconi è un polizotto un po’ dimesso, con una vecchia auto ed un impermeabile sgualcito, che scova criminali che provengono tutti dall’alta società americana, Colombo è un giustiziere che combatte degli assassini che uccidono sempre per denaro o per potere, mai per motivi sentimentali. Il singolo di punta dell’album è però “Charlie fa surf”, si tratta ancora una volta di un brano molto riuscito e di
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grande successo. Anche questa canzone è costruita attorno alla figura di un personaggio adolescente come in “La guerra è finita”. Il personaggio è l’immagine di un ragazzo ispirata a Bianconi dopo una visita ad una mostra d’arte al castello di Rivoli dove vede l’installazione “Charlie Don't Surf” di Maurizio Cattelan, opera nella quale è raffigurato un bambino con le mani inchiodate al banco di scuola con delle matite (l’installazione è stata a sua volta ispirata a Cattelan da un dialogo del film Apocalypse Now, da cui è ispirato anche il brano dei Clash “Charlie Don't Surf”). Nel commentare il brano Bianconi ha dischiarato che la società riduce gli adolescenti a “dei piccoli cristi caricaturali vittime di una società vuota, senza valori, che li vuole tutti uguali anche nel momento della trasgressione.” Come continuo a ripetere, nel bene e nel male, nella musica pop l’immedesimazione con la canzone e con la storia narrata è fondamentale, perché la musica pop funziona solo se è capace di creare una identificazione fra artista e ascoltatore. Bianconi è nato nel 1973, sei anni dopo di me, siamo praticamente coetanei e quindi è evidente che condividiamo tutta una serie di esperienze storiche e sociali. Anche per questo sono stato fortemente coinvolto emozionalmente da due brani del disco. Il primo è “Alfredo” che racconta in un modo meraviglioso e delicato la drammatica storia di Alfredino Rampi, un bambino che nel 1981 cadde in un pozzo e, nonostante la mobilitazione generale, non fu salvato e morì dopo lunga sofferenza, (“Scivolo nel fango gelido, Il cielo è un punto Non lo vedo più, L'Uomo Ragno m'ha tirato un polso, Si è spezzato l'osso, ora…”). I fatti drammatici vennero trasmessi in diretta su RAI2. Fu la prima volta che la televisione di stato italiana costruì un evento mediatico di questo tipo. Secondo Bianconi la vicenda di Alfredino ha segnato l’inizio della degenerazione dei media e della brutta televisione e lui sottolinea questo passaggio con i versi che seguono quelli in cui Alfredino si rivolge a Dio pregando, il risultato è che Dio guardando il bambino lo manda in diretta TV (“E Lui guardava il Figlio Suo, In diretta lo mandò, A Wojtyła e alla P2, A tutti lo mostrò, A Forlani e alla Dc, A Pertini e Platini, A chi mai dentro di sé il vuoto misurò”). Musicalmente è un valzer lento che sembra quasi una ninna nanna, con Alessandro Alessandroni che suona la fisarmonica. Come tutti i miei coetanei ho conosciuto personalmente tantissime persone, ad anche molti famigliari, che hanno affrontato la seconda guerra mondiale, alcune erano state partigiani o internati nei campi di concentramento. Essere stati comunisti per quella generazione era un segno di speranza e un sogno di redenzione per tutto un popolo, che aveva patito una vita di stenti. Erano tutti portatori di grandi ideali che avevano visto evaporare e nei loro racconti sovente questa delusione traspariva in modo esplicito. Ciò detto, quando ho sentito “L’uomo del secolo” mi è sembrato che parlasse proprio di loro e delle loro vite; il testo parla di un ragazzo arruolato nell’esercito che diserta nel 1943, sopravvissuto alla guerra e diventato centenario si trova alla fine della sua lunga vita, immerso in un mondo che non capisce più si guarda indietro con consapevolezza malinconica (“Vi ho voluto bene, adesso vado, sono stato un comunista, avevo un sogno, una speranza, arrivederci, amore. Addio”), ma riesce comunque ad avere uno slancio d’amore verso i suoi cari segnato da un ritornello allegro (“All'epoca mia il telefono non c'era, mi arruolarono, era quasi primavera, e le radio ci trasmettevano, canti di paura da cantare quando è sera, quindi disertai, era il'43!”). C’è anche grande musica e Bianconi si conferma anche ottimo musicista, lo strumentale “Ethiopia” è un bellissimo e ritmato pezzo etno Jazz scritto da lui ed eseguito ancora con Mulatu Astatke. Questo brano molto ritmato sfuma nella traccia finale “Andarsene così” che è invece un lento malinconico che però pone il tema sul tema della ricerca dell’assoluto come valore (“Sarebbe splendido Amare veramente, Riuscire a farcela e non pentirsi mai). Per rimarcare la qualità della composizione musicale citerò anche il brano “La vita va” che
Photo by Gianluca Moro
Photo by Gianluca Moro
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ritroviamo in una versione strumentale nella colonna sonora del film “Giulia non esce la sera”, è un brano con un bell’arpeggio di chitarra e tastiere, un sontuoso arrangiamento d’archi e il motivo sottolineato dalle capane tubolari. Inutile dire che il brano funziona benissimo anche nella versione strumentale, ascoltatelo... Altra collaborazione molto importante da citare per contestualizzare l’album è stata quella con Alessandro Alessandroni (1925 - 2017). Alessandroni è stato un compositore, direttore d'orchestra, arrangiatore e polistrumentista italiano, noto per essere il fischio dei brani western di Morricone, nel disco suona la fisarmonica in “Alfredo”, il sitar in “Il liberismo ha i giorni contati” e la chitarra acustica in “Ethiopia” e “Andarsene così”. In conclusione segnaliamo anche “Panico!” che è un esplicito omaggio a Lee Hazlewood e al suo successo “These Boots Are Made for Walkin” citati nel testo e nella musica.
I mistici dell’occidente (2010) È un album leggermente più breve del suo precedente, poco meno di un’ora per 13 tracce, è stato coprodotto da Bianconi e da Pat McCarthy, conosciuto per aver prodotto gli U2 e i R.E.M. Il titolo dell'album è preso dal saggio “I mistici dell'occidente” di Elémire Zolla. È un disco ancora una volta inteso e denso, con tanta musica e tanti testi interessanti. È l’ideale congiunzione fra “Amen” e il successivo “Fantasma”, entrano infatti in campo diverse suggestioni Morriconiane nelle soluzioni musicali e assumono importanza le orchestrazioni che troveranno l’apice nel disco successivo del 2013. Il brano omonimo è stato direttamente ispirato dal saggio di Zolla, che studia la mistica occidentale antica e contemporanea, in particolare il testo della canzone cita nel ritornello degli scritti di Iacopone da Todi (“No! Ci salveremo disprezzando la realtà, e questo mucchio di coglioni sparirà, e né denaro e né passione servirà gentili ascoltatori, siamo nullità”), “Jacopone da Todi diceva che, in realtà, il suo disprezzare la realtà era non darle prezzo, perché l’uomo alla fine tornerà polvere” (F. Bianconi). Musicalmente è una cavalcata dal sapore western. Il contesto del misticismo rimanda in maniera inevitabile a tutti i lavori di Franco Battiato che Bianconi non ha mai fatto mistero di apprezzare molto, i riferimenti a Battiato dal punto di vista musicale si apprezzano poi in modo molto maggiore nel disco “L’amore e la Violenza”. In un’intervista del 2010 Bianconi ha dichiarato che il tema riprende la critica alla cultura occidentale: “Stavolta è utilizzato in maniera attiva, perché ci troviamo davanti a una società che non solo si avvita su sé stessa, ma è sempre più monotematica e monoculturale, non ti lascia alternative, hai dei modelli che sono quelli e non puoi trasgredire. Di fronte a tutto questo ciò che si può fare, da novelli mistici, è prendere coscienza che tutta questa offerta monoculturale non è l’unica via possibile, o che comunque ha un valore che va preso per quello che è. Non è importante, non è la vita. C’è qualche altra cosa. Che sia qualcosa, come intendono i religiosi, di natura divina e trascendente, oppure che si tratti più semplicemente di un altro modo di pensare all’organizzazione della società, quello dipende da te.” Nel disco una canzone è dedicata a San Francesco, ha un attacco con un riff grintoso di chitarra che si ripete durante il brano, ma poi entra un’orchestrazione molto ariosa che ci conduce verso un contrasto musicale molto interessante realizzato volutamente per sottolineare la natura ambivalente del personaggio del santo nella visione di Bianconi
“San Francesco è stato un personaggio materialista, edonista, guerrafondaio che a un certo punto decide di pensare in maniera diversa. Questo passaggio, al di là del valore religioso, è un atto eroico. Forse di atti eroici come questo ne abbiamo bisogno anche oggi”. Visto il tema conduttore “I mistici” è inevitabilmente un disco complessivamente cupo, su cui aleggia il pessimismo cosmico di Bianconi, ma paradossalmente i due brani scelti come singoli sono fra quelli musicalmen-
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te più allegri, ma soprattutto sono due brani molto riusciti. Il primo si intitola “Gli spietati” (come il western con Clint Eastwood). Il video clip (da vedere) rimanda immediatamente agli anni 60, nelle scene compare anche un attore con una cinepresa che è un evidente omaggio a Andy Warhol, tra l’altro la Bastreghi nel video suona senza sgabello la batteria come Maureen Tucker dei Velvet e ad un certo punto nel video compare una lattina di zuppa Campbell con la scritta Baustelle. Il riff di chitarra è una citazione abbastanza esplicita del brano dei “The Rokes” “Che colpa abbiamo noi”. Nonostante l’apparente disimpegno nel testo non manca la consueta riflessione, alla domanda su chi fossero gli spietati Bianconi risponde “Purtroppo siamo proprio noi stessi: quando rifiutiamo di pensare o siamo dominati dall’interesse personale, dall’individualismo”. Il secondo singolo “Le rane” ha una ritmica di chitarra stile Blur in “Coffee and TV” (ottavi – terzina di ottavi) e una bella chitarra elettrica che fa un assolo arioso sotto il cui suono si sentono le voci di ragazzi che giocano. Il tema narrativo del brano è proprio il ricordo dell’infanzia raccontato attraverso la storia di due ragazzi di provincia che condividono l’esperienza estiva della pesca delle rane in uno stagno, quando i due ragazzi crescono uno dei due lascia il paese. I due si ritrovano dopo anni e questo mette in campo un forte rimpianto del passato da parte del protagonista. L'idea del video è di Bianconi, che si è ispirato al film “I quattrocento colpi” di François Truffaut e vede un ragazzo che attraversa di corsa prima la campagna, poi una città di notte ed infine quando arriva sulla spiaggia gli spuntano delle ali e prende il volo. È una canzone bellissima che parla delle amicizie che cambiano nel tempo e chiunque abbia perso di vista una persona con cui aveva un rapporto speciale che credeva sarebbe durato in eterno non può non lasciarsi emozionare. “Le Rane è una canzone che parla del tempo che passa, del ricordo. Crescendo, invecchiando, si tende a ricordare la parte più bella di quello che si è vissuto, anche perché il ricordo è selettivo, e così confrontato con il presente dà spesso un senso di perdita. (F. Bianconi)”. Il livello dell’album è molto alto e sono tanti i brani memorabili: “La canzone della rivoluzione” è un pezzo rock tosto e tirato con un bel riff di chitarra semplice ma efficace, un testo grintoso, un ritornello accattivante e un bell’intermezzo chitarristico. Sul finale il brano vira verso il country punk con la batteria in sedicesimi e accenni “spaghetti western”. “Groupies” è una canzone che parrebbe un po’ decontestualizzata nel tema del misticismo, in realtà è intesa come una canzone sul sesso. È una canzone di compassione verso le donne che decidono di essere groupies (“Vivere, dicevamo una sera in Hotel, è così: come mangiare una mela, così sia, venga eterna la felicità, non così, come sta in chiesa la cera”) ed è una canzone anti rock star. Inizia con un vocalizzo femminile molto “Morricone” che introduce una chitarra ritmica country, la musica continua con gli archi e le campane tubolari che sono sostenute da una chitarra elettrica che nel finale riprende la linea melodica del cantato e poi si lancia in un solo country punk molto riuscito. Photo by Gianluca Moro
Anche il brano seguente “La bambolina” riprende queste sonorità country punk, anche se inserite in un arrangiamento molto elegante con archi e percussioni, anche il testo ritorna alla compassione ver-
so il ruolo della donna.
“Il sottoscritto” è un altro pezzo bellissimo, un lento pianistico accompagnato dagli archi e dalla ritmica sul tema dell’amore e del perdono (“Perché io ti canto questo ed altro, vorrei darti tutto, amarti, meglio poter vivere altre vite insieme a te, solo tu puoi perdonarmi.”) Il brano “Follonica” è una descrizione nuda e cruda della spiaggia dell’omonima città balneare frequentata dei senesi. Il sindaco di Follonica si è pubblicamente lamentato della cattiva pubblicità che emergeva dalla desolante descrizione (“Buttati lì, come eroi, come Dei, cicche e collant, penne Bic, lische e caffè, Tampax e qualche Hatù, ossi di seppia e bidet”).
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“L’ultima notte felice del mondo” ha un mood che rimanda al brano di De André “La canzone dell’amore perduto”; per pura informazione la musica del brano di De André è basata sull'Adagio del Concerto per tromba, archi e basso continuo in re maggiore TWV 51: D7 di Georg Philipp Telemann, anche se sul disco di De Andrè Telemann non è citato. (questo tanto per ricordarsi come nella musica indie rock si vive spesso il mito dell’originalità, come se fosse possibile fare musica senza rifarsi, volenti o nolenti a qualcosa di già composto).
Fantasma (2013)
È un disco molto cinematografico e “morriconiano”, composto da 19 tracce di cui 6 strumentali che vengono usati come introduzione delle canzoni e come intermezzi, è un lavoro di rara intensità ed importanza, uno di quei dischi che non puoi ignorare, su cui evidentemente il gruppo ha investito tantissime risorse creative. Per la sua registrazione è stata coinvolta l'orchestra “FilmHarmony” di Bratislava. È il primo album in cui la produzione viene gestita direttamente della band con la collaborazione dell'ingegnere del suono Marco Tagliola. In quattro brani, (“Maya colpisce ancora”, “Cristina”, “Radioattività” e “Il finale”) ha collaborato come compositore anche Diego Palazzo degli Egokid. Il tema portante del disco è quello del tempo e il fantasma è la metafora di qualcosa che non c’è più ma che vive nel ricordo e quindi
il tema è necessariamente anche la morte.
Il legame con l'immaginario cinematografico è evidente già dalla lettura dei titoli dei brani del disco, in particolare di alcuni strumentali. L'introduzione del primo strumentale “Fantasma – Titoli di testa” inizia con una cantilena di una voce infantile su un tappeto di percussioni eteree che nel mio immaginario mi ha rimandato immediatamente al ricordo del tema di Gaslini “School at night” di “profondo rosso”, finite le percussioni e la voce si entra un tema musicale che potrebbe essere quello di un western, con la chitarra in evidenza e con la traccia che sfuma poi nella prima vera canzone dal titolo: “Nessuno”; il tema musicale proposto dalla voce ritorna poi anche negli altri due ottimi strumentali omonimi: “Intervallo” e “titoli di coda” che sottolineano appunto il carattere cinematografico dell’album. Ad alcune parti strumentali viene accreditato come compositore anche Enrico Gabrielli già membro dei Mariposa e dei “Calibro 35”. Il brano “Nessuno” ha un crescendo orchestrale fantastico. Il testo è secondo me uno degli archetipi “Bianconani”: una dichiarazione di pessimismo cosmico (“Non prego la chiesa il fetore che fa, non credo nel cielo e nemmeno all’inferno, e non so distinguere il bene dal mare”) che sfocia nel ritornello di redenzione attraverso l'amore (“E vieni a vivere con me, un mondo atroce vieni qua, a sopportarne la follia, e dammi figli e oscenità, e tenerezza e dignità, non ho amato mai nessuno come te”). Dopo il secondo ritornello il riferimento a Morricone è ancora più evidente per l'intervento della voce femminile che serve a sottolineare il sentimento di salvezza e rimanda inevitabilmente ad un’atmosfera modello “Giù la testa”. Vale decisamente la pena di guardare il video clip della terza traccia “La morte non esiste più” (altro singolo), la musica ha un incidere ancora molto western, con una bella chitarra elettrica che doppia la linea del cantato. Per tutta la durata del video si alternano immagini della band e di una modella (la stessa raffigurata nella copertina dell’album) che è apparentemente morta e stesa su un tavolo. Alla fine del brano, la ragazza apre gli occhi e in sovraimpressione appare il titolo della canzone. Il tema della canzone è quella del punto di vista di un anziano che guarda alla fine dei suoi giorni e pensa in modo consolatorio alla sua compagna morta “È una canzone in cui il protagonista trova conforto in una visione pura, quasi ultraterrena, dell'amore. E che in questo modo riesce ad allontanare, almeno in alcuni momenti dei giorni che gli restano da vivere, la paura della morte. È una canzone sul passare del tempo tema che lega tra loro le canzoni di questo disco”. Originariamente la canzone era stata pensata per essere intrepretata
da Adriano Celentano (seconda occasione persa per il molleggiato).
Il terzo singolo dell’album si chiama “Monumentale” ed è dedicata al cimitero monumentale di Milano ed è una grande interpretazione della Bastreghi (“I cimiteri non danno pensieri, sei tu che ti sbagli, se stanco, disperi, e piangi per colmare i buchi dell’assenza, vive come il pieno la vacanza e non spira mai. Quindi lascia perdere i dibattiti, la rete, i palinsesti per un giorno non studiare, non chattare, ma piuttosto stringi forte chi ti ama, fra le mute tombe del monumentale…”) Complessivamente è un disco con dei momenti veramente molto alti e con diversi riferimenti riusciti alla musica classica, ad esempio nel brano “La natura” che è anche il primo pezzo scritto interamente da Rachele Ba
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streghi, si può ascoltare nel finale una rielaborazione del celebre Adagietto della V Sinfonia di Gustav Mahler (accreditato). Da rilevare anche alcune piccole criticità, a mio parere la voce di Bianconi nelle orchestrazioni più strutturate e corpose non esce molto bene ed è un po’ “indietro”, probabilmente per scelta, perché reggere il confronto con un’orchestra non è facile se non sei un grande cantante, mentre emerge molto meglio la vocalità della Bastreghi. Bianconi è comunque un ottimo cantante di musica leggera, con una bella timbrica baritonale che rimanda molto a De Andrè, soprattutto in questo album. In questo album io adoro la sua interpretazione in “Contà l'inverni”, cantata in romanesco e dedicata ad un carcerato recluso per avere sgozzato la compagna. Al netto di tutti i giudizi che si possono dare va comunque riconosciuto al gruppo il grande coraggio di cimentarsi in un corpo a corpo violentissimo con una produzione per nulla semplice e di uscirne vincitori.
L’amore e la Violenza (2017)
Come già detto i Baustelle solitamente scrivono prima la musica e poi sulle musiche Bianconi realizza i testi, spesso immaginando un tema conduttore, in questo caso il tema dichiarato è la guerra; ad essere sinceri il tema conduttore non sono riuscito a coglierlo molto nei risultati, probabilmente è rimasto più nelle intenzioni che altro. Infatti Bianconi ha affermato “ho pensato che siamo diventati un occidente in guerra, da qui è stato consequenziale scrivere delle canzoni d’amore pensate in tempo di guerra”; insomma una specie di tema omnicomprensivo perché se ritieni che l’occidente sia in guerra allora tutte le canzoni che puoi scrivere nel contesto culturale occidentale contemporaneo sono al tempo stesso canzoni in tempo di guerra. A differenza di “Fantasma” che era un disco poco ritmico con tante orchestrazioni e brani strumentali, “L’amore e la violenza” è un album vivace con canzoni brevi, decisamente pop, caratterizzato da un ritorno a delle sonorità vintage stile anni fine 70 – primi 80, la caratteristica timbrica sta infatti anche nell’uso di tutta una serie di tastiere analogiche e di drum machine, è il loro primo album in cui la batteria non compare se non campionata. (“Fantasma è stato un disco importante ed ingombran-
te, c’era bisogno di scansarlo...”) insomma una boccata d’aria fresca e “leggera” dopo un’immer-
sione in apnea nel mare profondo, per un risultato sicuramente meno impegnativo all’ascolto del suo precessore, ma non per questo da trascurare, ci sono infatti come sempre delle ottime canzoni. È stato prodotto direttamente da Bianconi e mixato da Pino "Pinaxa" Pischetola, noto per essere stato collaboratore di Franco Battiato. Dopo il consueto strumentale introduttivo arriva il primo brano cantato “Il vangelo di Giovanni” che per sonorità, uso della voce e testo elencativo rimanda inevitabilmente proprio a Battiato (soprattutto nel ritornello e nell’arpeggio di tastiera che lo segue). Il singolo “Amanda Lear” è costruito su un simbolo femminile degli anni settanta ed è per questo evocativo fin dal titolo, ha un arpeggio di sintetizzatore iniziale che a me ricorda molto i Kraftwerk (e quindi mi piace), il ritornello è super pop ma con la classica visione “intensa” del pop (“niente dura per, sempre figurati io e te…”).“Basso e Batteria” è un’altra chicca con una citazione iniziale della sigla della serie TV Sandokan, degli Oliver Onions, (quando si dice non avere paura di sporcarsi le mani con la musica leggera). “Betty” è un altro pezzo molto interessante in cui torna il racconto di una storia di “malavita” di una ragazza (“Betty ha sognato di morire, sulla circonvallazione, prima ancora di soffrire, era già in putrefazione, un bellissimo mattino, senza alcun dolore, senza più dolore”). Una delle mie canzoni preferire è “La vita” che mi ricorda in qualche modo quel grande cantante che era Sergio Endrigo con quella sua vena di serena tristezza, (“Lo so, la vita è tragica, la vita è stupida, però è bellissima, essendo inutile, è solo immagine, un soprammobile, pensare che la vita non è niente aiuta a vivere”). In conclusione “L’amore e la violenza” è sicuramente un gran bel disco, ma è anche evidente che è un lavoro che soffre un pochino il paragone con il poker d’assi formato dai suoi predecessori, quattro album in cui fai fatica a trovare qualcosa di fuori posto. Non era semplice continuare a mantenere uno standard qualitativo di quel livello e d’altronde “niente dura per sempre”. Lo stesso ragionamento vale per il suo gemello, “L’amore e la Violenza 2” che esce nel 2018. Alla fine del 2019 Bianconi ha annunciato che sta realizzando un suo lavoro solista; è il segno evidente che la magia che si era creata nella band sta finendo ed è ora di trovare altre strade, sul suo profilo Instagram Bianconi ha scritto che “c’è un tempo fatto per viaggiare insieme, lasciandosi cullare dalla carovana e immaginando la gioia dell’arrivo. Ce n’è un altro che è fatto per attraversare il deserto da soli nella notte: questo tempo è arrivato, e anche lui è meraviglioso ed eccitante”. Il suo esordio da solista avrebbe dovuto essere pubblicato nella primavera del 2020 ma è stato posticipato in autunno.
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L’amore e la violenza volume 2 (2018)
Come già detto, il disco riprende il clima del suo predecessore, valgono dunque delle considerazioni analoghe, esplicite fin dal suo sottotitolo: Dodici nuovi pezzi facili. Sono però sempre dodici pezzi di musica leggera nello stile dei Baustelle e composte da musicisti che hanno un grado di professionalità altissima e sono in grado di infilare anche nei brani meno riusciti qualche elemento di interesse di qualità alta, un po’ come Woody Allen nei suoi film. Il tredicesimo brano è il consueto strumentale introduttivo “Violenza” che è un mix dei tardi Tangerine Dream, con un intermezzo chitarristico alla Black Sabbath e un pizzico di Claudio Cecchetto (bello, ma io sono di parte perché adoro i Tangerine e i BS, molto meno Cecchetto). L’album è arrivato al quarto posto delle classifiche di vendita in Italia; il primo singolo è l’energico brano “Veronica n. 2”, il secondo è il solare “Jesse James e Billy Kid”. Quest’ultimo ha un duetto voca le bellissimo fra Rachele e Francesco con un ritornello che ti resta appiccicato in testa come una gomma da masticare sotto la suola, proprio come dovrebbe fare ogni buona canzone pop (Amore è tardi, amore è già la fine, Amore che non piangi mai, In questa terra di violenza e puttane, Amore, adesso come stai? I nostri corpi fuorilegge e il dolore, Saranno seppelliti qui, Sotto la polvere da sparo e il sole, Jesse James e Billy Kid.) Un altro duetto fantastico è “A proposito di lei” con un ritornello che potrebbe essere tranquillamente di una canzone di Mina degli anni sessanta e intervallata da un efficace solo di chitarra elettrica. La fine del disco è occupata da “Il Minotauro di Borges” che un altro gran bel brano che dopo un’introduzione per piano, sintetizzatore e voce con uso del vocoder che diventa elemento ritmico, sul finale diventa un bello strumentale a metà tra i Tangerine Dream anni ottanta e i Pink Floyd (nell’assolo di chitarra). La discografia finisce sostanzialmente per ora qui, in realtà ci sarebbero da aggiungere la colonna sonora del film “Giulia non esce la sera” del 2009 e nel 2015 un disco live (Roma Live) che probabilmente serviva a riempire il vuoto temporale e riprendere un po’ di fiato fra l’impegno eccezionale di “Fantasma” del 2013 e “L’amore e la Violenza” uscito nel 2017. L'album è stato registrato durante il tour di Fantasma è interessante perché contiene anche due cover: la versione italiana di “A Lady of a Certain Age” dei The Divine Comedy e “Col tempo” di Léo Ferré. Per quanto riguarda la colonna sonora è da rilevare che nelle note di copertina del disco d’esordio (Il sussidiario…) si riportava che il gruppo era disponibile proprio per colonne sonore, è un ulteriore sottolineatura di come i Baustelle siano un gruppo di persone che avevano un obbiettivo artistico ed un’idea di un percorso per raggiungerlo. Il disco funziona molto bene, oltre alla citata versione strumentale di “La vita va” e la ripresa di “L’aeroplano” (Amen) da ricordare anche il bel duetto di Bianconi con l’attrice Vittoria Golino sull’inedito “Piangi Roma”. Ciò detto, non mi sembra che questi due album aggiungano o tolgano gran che all’importanza del lavoro della band. Ora conclusione e consigli: I dischi dei Baustelle dal 2005 in poi sono una spanna sopra la media delle produzioni italiane e francamente li ascolterei/acquisterei tutti, lasciando il live e la colonna sonora ai fan. Se volessi ridurre a quattro sceglierei “La Malavita”, “Amen”, “I mistici dell’occidente” e “Fantasma”. Se dovessi ridurmi ad uno sceglierei “Amen”. (GF)
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Capitolo 3
“Le parole senza senso di Bianconi dentro le canzoni” di Massimiliano Stoto
I Baustelle sono passati sopra di me abbastanza inos-
nario “Il nuotatore” ci ha consegnato un gruppo formida-
servati e ammetto, male ascoltati, almeno fino al 2010.
bile e in stato di grazia. Ovviamente il nome di questo
Poi, soprattutto grazie al ripescaggio di “La Malavita” e
gruppo è Massimo Volume. Che tutti questi gruppi siano
“Amen”, ho incominciato a capire il loro linguaggio musi-
anagraficamente più “vecchi” rispetto ai nostri, non lo si
cale e espressivo . Inizialmente un trentenne che canta-
può certo negare, ma che i Baustelle siano comunque
va di ragazzini suicidi o strafatti, di erezioni, corna, eroi-
figli degli anni ’90, per influenze e suoni si “formano”
na, pubertà, riformatorio, sesso orale e quant’altro sem-
musicalmente in quel decennio, è altrettanto vero. Che
brava prima di tutto alieno e poi assolutamente non cre-
poi il loro esordio sia datato 2000 è solo una scherzo del
dibile. E nemmeno “L’uomo del secolo”, una delle più
destino o delle croniche problematiche di un paese vec-
belle canzoni italiane di sempre, riuscì a farmi cambiare
chio stile.
idea.
Ritengo che nel corso del tempo Cristiano Godano dei
Forgiati dal sacro fuoco grunge, tenuti a battesimo dalla
Marlene Kunts e Manuel Agnelli degli Afterhours, sono
gioventù sonica e svezzati dai CSI (in cima alle classifi-
riusciti a raggiungere attraverso percorsi diversi, deter-
che), gli anni ’90 del rock made in Italy vedono nascere
minati traguardi mediatici. Sono anche sicuro che a Emi-
tre gruppi che oltre ad attraversare indenni più di due
dio Clementi non è certamente mai importato raggiun-
decenni, giungendo fino ai giorni nostri, ne diventano
gerli, e credo fermamente che i Baustelle di BianconiBa-
cardine e riferimento. Marlene Kuntz, Afterhours e Bau-
strenghiBrasini, pur incidendo da anni su major, avreb-
stelle, diversamente sdoganati, c’è da dirlo, dai grossi
bero meritato di più. Non credo siano riusciti pienamente
media, sono giunti piuttosto integri all’anno di grazia
a raccogliere quello che hanno seminato e che merite-
2020, un traguardo tutt’altro che scontato all’inizio delle
rebbero, in virtù di canzoni belle e orecchiabili, di una
loro storie. A onore del vero c’è un quarto importante
capacità descrittiva centrata, di una visione dei nostri
cardine dell’indie-rock italiano di quel tempo, che non ho
tempi lucida, e di una preparazione culturale di alto livel-
volutamente citato, in quanto lo straordinario percorso
lo. Mi viene da pensare che forse non sono mai stati
intrapreso li ha portati solo brevemente a lambire terreni
spinti oltre perché comunque “vendono”, ma per la TV,
“popolari”. Percorso che ancora nel 2019 con lo straordi-
con quello che cantano, non vanno proprio bene. Ed
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eccoci al nodo della questione, i Baustelle sono poco pre-
la bellezza la verità, si potrà salvare il mondo e
sentabili alla massa e suonano canzoni scomode.
le nostre vite. I testi di Bianconi sono sorretti da
Sono uno strano caso insomma. Lo sono sempre stati, fin
autentici colossi della letteratura e della canzo-
dagli esordi. Cantano un’Italia popolare, di istinti bassi, di
ne “colta”. Baudelaire e il suo “dandysmo”, il
azioni incontrollate, non consolatorie, esplicitamente dirette e
“male di vivere” di Montale, la canzone colta di
spesso anche violente. Le canzoni dei Baustelle non ci con-
De Andrè e Battiato, ma anche degli chanson-
solano, non parlano di “feste meste” o di “canzoni per un
nier francesi, con Brel e Gaingsbourg in prima
figlio”, nè “dell’odore della giacca di mio padre” o che “forse
fila. E poi la laicità religiosa di PierPaolo Pasoli-
sei un congegno che si spegne da sé”. Parlano di ragazzi
ni. Ecco la religione è spesso un tema portante
che si fanno male, molto male e di adulti che se ne fanno
delle canzoni dei Baustelle con riferimenti espli-
anche peggio. Parlano di cimiteri, religione e di politica. Di
citi al cosiddetto “silenzio di Dio” ai vangeli, alle
cinema, tantissimo cinema. E di altrettanta letteratura. E par-
preghiere, ai santi, alle scritture e tradizioni sa-
lano di tutto questo usando tematiche dirette, senza fronzoli.
cre, cristiane e non solo. Non fate l’errore di
Sono talmente espliciti che a volte penso che usino gli stessi
scambiarlo per un intellettuale da bar, ben altra
argomenti diretti, calcio escluso, di cui il “sancta sanctorum”
è la grana. Essere riuscito a raccontare le no-
italico per eccellenza, ovvero il bar, è zeppo. Le loro canzoni
stre disillusioni, i nostri tradimenti, il nostro esse-
sono talmente sature di cronaca, di diceria, di provincia, di
re un paese crudele, pio e provinciale, che si
realtà, di credenza, di storie comuni e popolari le cui odi epi-
tradisce e stordisce attraverso canzoni spesso
che solo in quel luogo possono riecheggiare. La ragazzina
molto belle, molto melodiche e più ricercate di
suicida e il suo furto al supermercato, il ragazzino in perenne
quello che appare, significa avere un visione d’
dopa e i suoi filmati porno, la coppia che sta scoppiando de
insieme profonda e vicina alle persone comuni e
“L’aereoplano” e quella scoppiata di “Amanda Lear”, il fem-
alle loro storie. Belle o brutte che siano. I Bau-
minicidio di “Contà l’inverni”, lo sfregio de “La canzone del
stelle possiedono una cultura popolare, e delle
riformatorio” e per restare su cose più leggere le gesta del
più vive espressioni di essa, pura e inattaccabi-
matto del paese, la vita dello studente (?) a Milano, l’estetica/
le. Cultura che spesso ricordiamo, cerchiamo e
anestetica della provincia cronica, l’amicizia mitica ma inter-
rimpiangiamo non notandola viva e in salute
rotta de “Le rane” che si annienta nel cesso del bar prima del
sotto i nostri occhi o nelle canzoni di un gruppo
lungo finale strumentale o il capolavoro “Betty” dove nel cor-
rock toscano.
po di un’adolescente del nostro tempo, si fondo la Brexit e la
delle canzoni dei dischi dei Baustelle.
Questo è un viaggio fra i testi
storia dura di una ragazza da via Millelire. I Baustelle cantano le macerie di un paese perennemente a troie. I Baustelle cantano un paese vero e infatti non parlano di calcio e non vanno in TV. tro a gran parte di testi dei Baustelle, ha un grande amore per il cinema e la letteratura, scrive canzoni utilizzando un linguaggio
che
si
nutre
di
“cultura
alta”
usando
l’
immediatezza della comunicazione giovanile. Ha una visione abbastanza apocalittica dei nostri tempi, anche se fondamentalmente crede nel motto del protagonista de “L’idiota” di Dostojevsky, il principe Myskin, che in sostanza diceva che solo attraverso la ricerca della bellezza, sottintendendo con
Photo by Gianluca Moro
Avvertenze per l’uso!!! Francesco Bianconi colui che sta die-
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Paragrafo 1 – “Sadik si fa un trip e balla il twist” Le tematiche privilegiate dei testi dei Baustelle, principalmente scritti da Francesco Bianconi, sono state presenti nelle canzoni fin dall’esordio di “Sussidiario…” . Si sono certamente evolute nel tempo ma fondamentalmente di certe cose parlavano allora e delle stesse parlano oggi. Nel primo disco emergono tanti riferimenti al sesso, al cinema, alla violenza ai miti dello stesso Bianconi e anche riferimenti blandi a politica e un uso diffuso di termini religiosi (apostolo, angelo, calvario, golgota. “Sussidiario…” si apre con “Le vacanze dell’ottantatré” una sorta di spiata, immaginaria o meno, di una giovinezza che veniva avanti e che reclamava ben altro “mi nascondevo li spiavo lei e il mio amico del cuore perché si toccavano”, e poi lascia spazio a un trittico di testi veramente disorientante “Martina”, forse una donna impossibile da dimenticare “un rasoio inciderà la mia pelle ora ridi... dietro lenti scure riderai”, “Sadik”, il titolo è ispirato dal personaggio dei fumetti creato da Nino Cannata negli anni ’60, “Gusta sulle guance il
cuoio / tocca il golgota / meglio di una gita al mare la domenica / incatena con la seta squillo platino / Chiuso dentro il bagno / nostro padre amplifica le storie nere / è l'apostolo dell'uomo in maschera Sadik” e poi il riferimento politico/ sociale “antiomologata adolescenza torbida / meglio di dovere lavorare in fabbrica / mio padre spera venga sotterranea la modernità”. Chiude il trittico “Noi bambine non abbiamo scelta” già dell’incipit abbastanza stordente ”Mi telefona promette che mi rapirà / Mi porterà al cinema / è la mia droga non mi può far male / non abbiamo altro / non abbiamo scelta noi bambine”. A questo punto l’attacco di “Gomma” è fin liberatorio, è questa la canzone che vede la prima parte importante per la voce femminile di Rachele Bastrenghi, è la rappresentazione dei ricordi della nascita di una storia d’amore, in un ambito provinciale che
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viene rimarcato, attraverso i riferimenti di un’ adolescenza liceale vissuta tra “sigarette, giornali-
ni porno, disco gomma-americana e caramelle amare”, con il passaggio iconico e fondamentale che ci fa immaginare che il lieto fine non ci sarà ” E già ti odiavo dal profondo / Avevo piombo da sparare / Se stereofonica posavo d'imbarazzante giovinezza lamé”. “La canzone del parco” la prima di ben poche canzoni d’amore, come comunemente sono intese, dei Baustelle. E’ costruita con un pathos da tragedia, tra frasi mezze abbozzate che trasmettono timidezza e desiderio. “Se mi ami ora domani è lontano” è il topos poetico prima che inizi a parlare il platano. Con “La canzone del riformatorio” si raggiunge uno dei primi titoli importanti dei Baustelle degli esordi. Il pezzo racconta lo sfregio di un ragazzino alla più bella del liceo, crudeli le parole per descriverne i passaggi salienti, aldilà del pastiche dopante, viene definito “storico” il pomeriggio del misfatto, l’identikit dell’assalitore “sono il ragazzino della tua scuola che non ride mai” fino alla presa di coscienza e al domandone finale che chiude il ritornello “Fuori dal riformatorio le vite perdute come gioia passata per sempre, come moda, cos'è che ci rende prigionieri?”. Il dialogo di “Cinecittà” (il famoso pezzo del provino per il film erotico), pieno di citazioni cinematografiche, nasconde la sua perla dopo l’abbraccio con la produttrice quando Bianconi canta “Signorina…lei mi fa male dentro... come in quella
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scena di Pietrangeli dove la sera a Roma si muore d'amore. E’ la vita è… che siamo stelle… è che siamo miseri”. “Io e te nell’appartamento” racconta l’esplicito abbordaggio di una cameriera con il solo di fine di finire nell’ appartamento e prendersi come cani. Sesso per fuggire dal nulla perché per ben due volte nel pezzo ci sono queste sottolineature “Ma sempre meglio di morire di tanti anni uguali e neanche un attimo” a metà e “Ma sempre meglio di una sera d'inverno contro la città non ti sembra?” alla fine. Chiude “Il Musichiere 999” viaggio nei miti bianconiani per eccellenza Gainsbourg, De Andrè, Brel e nei mitici sessanta dove eccelle l’aggiornamento de “Il ballo del mattone” “Se con gli altri balli il twist se con gli altri prendi il trip” e il verso “voglio copulare in hit parade”. Qui Bianconi non si
Paragrafo 2 – “La moda passerà…dove sei tu adesso?” Il secondo atteso album dei Baustelle si apre con il triste brindisi di “Cin Cin” “Alla nostra grazia nello scrivere versi senza forza / Al non vivere / Al nostro "per sempre" e ai nostri "mai" / Alle dipendenze / allo stile che ci rende noi io e te / Un futuro non c’è” le macchinazioni elettroniche di Massara fanno da incipit alla seconda parte, tre anni dopo, de “Le va-
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prende molto sul serio e il pezzo è godibile.
canze dell’ottantrè” dal titolo “Arriva lo Ye-Ye”, tematiche meno torbide ma stessa ambientazione estiva con finale amaro “Brancolo nell'agosto torrido questo film ridicolo quando finirà?”. Molto meglio è “La canzone di Alain Delon” memorabile nella suo passaggio più famoso “Rubare negli autogrill ti rende Alain Delon” ma è ancora una volta l’incipit ad affascinare “L'unica cosa che ho è la bellezza del mondo / La sola cosa
che so è che vorrei conservarla / (pausa) Per me”. Se “La canzone del parco” raccontava del desiderio degli innamorati all’ombra dei platani in “Love affair” si passa direttamente ai fatti della prima volta, e anche questo testo può essere letto come una seconda parte della storia degli amanti del parco, giovani o meno che siano. Il passaggio emblematico è quello a sfondo religioso “Ti ricordi noi la sera in cui le rondini / Sopra la scuola / Sopra la scuola /Volavano per proteggere i nostri blue jeans / Dalle suore dai parroci /Sarà peccato? Sarà reato la prima volta strapparsi gli slip?”. “Il Seno” e “Mademoiselle boyfriend” sono due brani molto interessanti dal punto di vista musicale e entrambi trattano tematiche molto al limite e torbide. Un incontro, una tentazione, magari la follia di un maniaco caratterizzano il primo brano chiuso dal poco rassicurante verso “Capezzoli come souvenir” mentre il secondo ha tutta l’aria di raccontare i pensieri di un “cliente” verso il suo molto giovane amato o amata “Ti stravolgerò il divano-letto / Il samurai che porto dentro ti sposterà Il baricentro”. Con la semplicità pop rock di “La settimana bian-
ca” si percepisce un po’ di leggerezza (e c’è un grande lavoro di Rachele alla seconda voce) e il testo ben si adatta all’atmosfera raggiungendo il top nel passaggio “E sarete più belli dentro / Più belli dentro / Negativi vivi esistenzialisti tristi / Quarti arrivati ai campionati di discesa libera all'inferno”. Con “EN” si torna a respirare atmosfere rarefatte, un po’ lounge un po’ colonna sonora anni sessanta, archi, elettronica e l’indimenticabile ritornello che cita mitiche figure femminili dei sixities, le auto Jaguar, il Cabernet Sauvignon in un’ode alla bellezza di Elisa, che ha un forte sapore d’invidia… il passaggio da sottolineare è incontestabilmente “La tua purezza è nell'essere inconsapevole art déco / Sei decadentemente nuda / I tuoi fianchi li avessi io”. “Reclame” diventa ben presto un inno dei primi anni, con la sua intro accattivante, il ritmo che incalza e il ritornello che si memorizza facilmente, è nota ai più per la cita-
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zione di più marche di sigarette, termina, tra squilli di tromba, con la considerazione personale, smontata e rimontata a seconda del bisogno, che “In ogni morte trovo che un po' d'estate in fondo c'è / In ogni estate trovo che in fondo un po’ di morte c’è”, veramente anomala per un pezzo fottutamente pop. Anche la title-track è un bel pezzo, magari un po’ penalizzato dalle possibilità produttive di cui il gruppo disponeva e da alcune scelte che ne derivarono (p.es. il suono della batteria a mio avviso non si può sentire e la chitarra è schiacciatissima), il pezzo parla di un donna persa tra discoteca, ricordi, illusioni e storie tormentate che si stupisce per la puntualità delle mode musicali e a cui tocca pure di psicanalizzare il proprio uomo “Te ne rendi conto? Guarda come sei ridotto mi fai pena cerca uno psicologo lo capisci, amore mio? Io sono l'unica che ti ha capito puoi contare su di me essere depressi oggi provoca troppi dibattiti”. “Bouquet” espressione pura del dandysmo sporco del Bianconi dei primi anni “La solitudine è stile di vita per me / quando mi stanco di chi mi giudica un cantante fra le nuvole / allora succede che torna la nausea” è cantata a due voci con Rachele, ha un bellissimo arrangiamento di fiati soul anche se, parte con l’aria di essere solo una ballatona, nasconde però raffinate effetti elettronici d’atmosfera e un finale amaro “Guardo voi / le vostre vite / mi chiedo la bellezza che cos’è? /Ma resto qui / con un bouquet di viole che non gradirai”. Chiude il disco “Arrivederci”, lungo pezzo che si divide in due parti, la prima parte pianistica cantata a due voci e la seconda più elettronica che nasconde aperture melodiche e una lunga coda strumentale che forse vuole coprire il torbido di una storia di incontri occasionali che termina nello splendore di un giardino illuminato da luce estiva con un suono di piano in lontananza e l’amletico dubbio Beethoven o Chopin ? Peccato sia tutta un’illusione in quanto “non eri stanca / eri stanca di me / i ricci sulla fronte / le lettere d’amore sfumare l’orizzonte / stare male / il senso della morte e la sifilide / per archiviare il caso riguardante te”. Piaciuta la bastonata?
Paragrafo 3 – “Vivere un morire” Il terzo disco dei Baustelle “La Malavita” esce sul finire del 2005 ed è un disco importante nella storia del gruppo in
quanto può essere tranquillamente considerato, a posteriori è chiaro, come il perfetto simbolo dei Baustelle che sono stati e quelli che verranno. La firma per una major, l’abbandono di un elemento importantissimo come Fabrizio Massara e la produzione di Carlo Ubaldo Rossi a quel tempo produttore di grido tracciano una via che il gruppo prenderà per non tornare più indietro. Non è un concept ma la raccolta di poetica di Eugenio Montale “Ossi di seppia” lo ispira. E’ un disco che a mio avviso ha minutaggio perfetto e tracklist perfetta, lo strumentale “Cronaca Nera” scritto da Rachele Bastrenghi già rappresenta un cambiamento con uno sguardo sicuramente retrò, ma allo stesso tempo nuovo e indicativo sulle intenzioni/intuizioni che il gruppo sta per prendere. “Sul foglio lasciò / Parole nere di vita / La guerra è finita / Per sempre è finita / Almeno per me" è il ritornello della canzone più famosa dei Baustelle del primo periodo, quella che riuscirà ad aprire loro molte porte. La storia è arcinota, quindi passo alla successiva “Sergio” altra dolorosa storia di vita vera in cui
affiorano il dramma e la serenità di una persona realmente esistita e proveniente dalla gioventù di Bianconi “E il cielo è blu, lo dici tu / Nessuno è blu, nessuno più / Non c'è la cura / Cristo Gesù, non serve più / Le botte blu, dottori blu / Mi fai paura”. La protagonista femminile di “Revolver” disperata, nella sua solitudine “E non ho più Photo by Gianluca Moro
niente / Non piango più / Non voglio più / Altro
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che freddo”. E non c’è pausa, perché anche ne “I provinciali” c’è dolore “Morire la Domenica / Chiesa Cattolica /
estetica anestetica / provincia cronica”. Poi arriva “Il Corvo Joe”, canzone simbolo. Un personaggio da “Antologia di Spoon River” talmente è miserevole l’analisi che fa dei personaggi che girano nel parco dove “abita”. “I Bambini dicono : ”Mamma guardalo che bestiaccia è” ” oppure “Gli studenti li evito / Preferisco le ricche vedove / Con gli anelli di platino / Sono un ladro ma / Fine gentleman” fino ai versi cardine “Solo certi poeti mi sanno cantare” e “Ma vi perdono / Perché in fondo portate nel cuore / Sangue che è destinato a seccare / Vivete un morire”. A Milano a lavorare in un rivista di giardinaggio Bianconi si immedesima con la vita di uno scrittore suo conterraneo: Luciano Bianciardi e gli / Quanta gioia, quanti giorni, quanti sbagli / Quanto freddo nei polmoni che dolore / Non è niente, non è niente, lascia stare / “Se la Madonnina muore nasce un fiore”. ”A vita bassa” il cui testo è tratto da un vero articolo di giornale e di cui vi parla già Giorgio, entra a gamba tesa su usi e costumi della nostra società, sviluppandosi in un dialogo fra prof e allieva, l’ammissione di sconfitta da parte del Prof è agghiacciante e consapevole e quasi oscura anche quella del cantante
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scrive “Un romantico a Milano” “Cara, scriverà sulle tovaglie dei Navi-
che chiude dicendo “Ed ogni anno foglie morte nascono / Comete nuove cadono / Ed un errore cosmico / E l'universo è inutile”. Una storia di corna è alla base di “Perché una ragazza di oggi può uccidersi?”, ballatona cantata in duo da Rachele e Francesco. Il testo ipotizza vari fallimenti nella “Milano da bere” della suicida, che in realtà compie il gesto fatale perché tradita da fidanzato e migliore amica infatti: “Ma la causa scatenante, il motivo vero / Siamo io e te, oh yeah / Io che l'ho tradita, tu che le sei stata amica”. Chissà se il Tenente Colombo li scoprirà? Ancora male di vivere ne “Il nulla” il cui testo è un continuo rimbalzo fra due personalità, fra luce e buio, cultura e ignoranza, in un gioco simbolico che indica il buco nero in cui la nostra società è finita e la chiusura è un pugno allo stomaco “Ma io non sono io, sono i trans / Lungo i viali, tu del loro nulla che ne sai? / I segnali spesso non significano mai”. Ma in fondo al tunnel, di un disco non certo cupo in ritmi e melodie, “Il Nulla” per esempio è un pezzo ballabilissimo, c’è una luce vera e forte. Una speranza. La marcetta di “Cuore di tenebra” con gli archi e un arrangiamento arioso e un fischiettio finale, ci regala un cielo sereno e una speranza “Tempo fa ragazzo tenebra / Morsi di vipera le storie tue / C'è una salvezza che adesso stringi / E non è l'angelo / Non è un miracolo / Non è la mano del Signore /Sei tu / Amore”.
Paragrafo 4 – “Il Tenente Colombo e la catastrofe inevitabile” Lo “strike” perfetto dei Baustelle arriva con “Amen”. Lo dicono tutti e quindi lo dico anche io. E’ paradossale che l’ album più di successo del gruppo e che mette tutti d’accordo, sia anche quello più critico nei confronti della società dei consumi in cui viviamo. Lo è in maniera esplicita e ferma fin dall’inizio e per tutta la sua durata racconta storie da “declino dell’impero occidentale”. Dopo un altro strumentale “E così sia” che dà inizio alle danze parte “Colombo” che è proprio il Tenente della famosa serie degli anni ’70 interpretato da Peter Falk. Il personaggio, Bianconi si è dichiarato un fan della serie, è usato come simbolo per combattere: “La logica spietata del profitto o chissà cosa / Ci fa figli dell'Impero Culturale Occidentale / Meno male che qualcuno o che qualcosa ci punisce / Arriva un investigatore ci deduce l'anima / La nostra cognizione del dolore illumina”. “Charlie fa surf” è un altro attacco al gola dei ben-
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pensanti gozzovigliosi. Si parte certamente dalla scultura di Catellan, che rappresenta questi ragazzi inchiodati da
mille stereotipi, ma poi si dice anche altro. Charlie scarica tonnellate di filmati porno, si fa, non vuole crescere e vuole farci il culo… fondamentalmente fa l’anticonformista a tutti i costi per rifiuto di una società che l’ha inchiodato subito. Il testo è arcinoto quindi lo salto e mi fermo per proporvi un paio di brevi passaggi del testo che sono due omaggi a Ramones e CCCP. Nel passaggio della canzone che dice “Vado in chiesa e faccio sport” a essere tirati in ballo potrebbero essere i CCCP di “Io sto bene” mentre invece nel seguente “Non abbiate pietà / Una mazza da baseball / quanto bene gli fa” sono citati i “fratelli” Ramone che nel loro famoso pezzo “Beat On The Brat” cantavano una frase similare proponendosi di dare una ripassata al ragazzino con la mazza da baseball. Il manifesto politico dell’album è “Il liberismo ha i giorni contati” non c’è nulla da dire se non che Anna: “Vede la fine / In metropolitana / Nella puttana / Che le si siede a fianco / Nel tizio stanco / Nella sua borsa di Dior / Muore il mercato / Per autoconsunzione / Non è peccato / E non è Marx e Engels / È l'estinzione / È un ragazzino in agonia”. Se scoppia l’impero occidentale, scoppia anche la coppia di “L’Aereoplano” con i rimandi alla guerra in Iraq (nel 2008 siamo nel mezzo della seconda guerra del golfo) e a una sorta di promessa spezzata, il presente non è come lo si era immaginato, perché ad un certo la ragazza dice: “Cosa rimane di noi, ragazzini e ragazzine / La domenica dentro le chiese / Ad ascoltare la parola di Dio / Il futuro era una nave tutta d'oro / Che noi pregavamo ci portasse via lontano”. A proposito di questo pezzo è magistrale l’interpretazione di Rachele Bastrenghi. Altro cardine del disco è “Baudelaire”, dove il testo cita vari artisti con il solo fine di prenderne esempio, con i loro insegnamento/sacrificio ci rendono la vita più tollerabile ” Vivere per sempre / Ci vuole coraggio / Datti al giardinaggio dei fiori del male / È necessario vivere / Bisogna scrivere / All'infinito tendere / Ricordati Baudelaire”, ma bisogna desiderare, ambire, lottare. Il pezzo si regge tutto il tempo su un ritmo brasiliano, festaiolo, allegro che stride con il messaggio e proprio per questo risulta essere geniale. “L” è una canzone d’amore dedicata all’ex-compagna di Bianconi, grande pezzo che ci ricorda gli esordi del gruppo “Sui monitor: Segnali di Laura dovunque / Macchie di luna e di tè / Gioia che afferri improvvisa / In un giorno qualunque / Grazia che è estranea agli umani / Alle Fughe di Bach, alla chimica”. “Antropophagus” prende il titolo da un film di Joe D’Amato, che fa parte del filone cannibal-movie, lo spunto del testo invece da un’immagine registrata da Bianconi fuori da Milano Centrale, donne dell’est Europa che fanno un pic-nic sulle aiuole antistanti la stazione. Il tema è la cannibalizzazione di questa società ingorda a non finire tant’è vero che il finale fa “Non c'è stato mai nessuno / Che mi ha amato tanto come questa notte / Muoio. Ho fame, amore mio / Dice il governo che è passato ormai l'inferno / E ti ho sposato. Qui, fra i topi neri e i fiori / Il cranio ti ho mangiato”. Il lungo finale del brano campiona la colonna sonora di un altro cannibal-movie “Cannibal Holocaust” di Ruggero Deodato. Per dare una continuità “Panico!” inizia con la domanda “Hai mai provato l’orrore?”. Sappiamo che il pezzo è un omaggio al grande autore e cantante americano Lee Hazlewood, ma in realtà la canzone parla dei molti attacchi di panico che Bianconi ha avuto nella sua vita e delle situazioni angoscianti
che creano “Una canzone nata contro il panico / Un esorcismo, un tocco di voodoo / Un modo per allontanare il baratro / Senza ansiolitici, senza lo Xanax”. La triste vicenda di Alfredino Rampi è la protagonista di “Alfredo” con tutto l’impianto mediatico che ne seguì. Se nella lunga intro di questo pezzo, ho fatto cenno al “silenzio di Dio” qui ne abbiamo un primo cenno quando c’è il passaggio che dice: ”E lui guardava il figlio suo / In diret
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ta lo mandò / …. / A tutti lo mostrò / … / … / a chi mai dentro di sé il vuoto misurò”. Dal vuoto di un pozzo artesiano a quello dei privèè di alcune discoteche, dove vanno in scena incontri occasionali senza storia e futuro, consumati come pasti e immolati all’estetica. Il pezzo è magnifico, musicalmente scritto da Rachele con i testi Farncesco e della poetessa Francesca Genti, il suo passaggio simbolico è il seguente “Tu sei qui con me, vicino a me / Che posto strano / Io ti annuso, ti codifico / Essere umano”. Su “L’uomo del secolo” non aggiungo niente, ci pensa Kurt in chiusura di giornale, a me la canzone pare commovente e mi fermo qui. “La vita va” è una storia d’amore che finisce male con sullo sfondo un “Mondo incomprensibile” e l’amara conclusione “che ha Dei avari la vita”. “Ethiophia” e “No steinway” sono due strumentali, la seconda e una delle due tracce fantasma del disco l’altra è “Spaghetti Western” il testo è ispirato a un articolo intitolato “Io schiavo in Puglia” apparso su L’Espresso nel settembre del 2006. Nel testo Bianconi paragona la campagna foggiana al Far West ”Tanti messicani in un deserto a Foggia / e pochi pistoleri fanno si che i nostri maccheroni al sugo restino i migliori”. Ma la chiusura del disco vera e propria è “Andersene così, un brano che nasce dalla coda di “Ethiopia”. E’ un pezzo che chiude un album pieno di riflessioni sul mondo in cui viviamo e che al termine sembra esternare un desiderio di fuga, ma sembra solamente perché il condizionale è usato da subito, il che fa presuppore che la fuga sia impossibile “Sarebbe splendido / Amare veramente / Riuscire a farcela / E non pentirsi mai / Non è impossibile pensare un altro mondo / Durante notti di paura e di dolore / Assomi-
gliare a lucertole nel sole / Amare come Dio / Usarne le parole / Sarebbe comodo / Andarsene per sempre / Andarsene da qui / Andarsene così”.
Paragrafo 5 – “San Francesco parla alle rane” Il quinto disco dei Baustelle, super prodotto da Pat McCarthy, si sviluppa fin dal primo pezzo, “L’Indaco”, come una riflessione sia interiore e personale, che rivolta verso l’esterno, verso il mondo. Ancora una volta le riflessioni più marcate sono quelle rivolte alla società in cui viviamo. Il richiamo al misticismo del titolo, è forse auspicato come ricerca di un qualcosa di alternativo. “Non angosciarti più / Che bisogno c'è / Quando partono le rondini / Lasciale andare / Non domandare più / Che ragione c'è”. Nei “I Mistici” prendono forma i Baustelle che appronteranno “Fantasma” e “San Francesco” nonostante mostri i muscoli, anticipa le orchestrazioni che troveremo nel disco del
2013. La vita e le leggende di San Francesco patrono d’Italia e mistico per antonomasia, riempiono la canzone di citazioni ma una in particolare è degna di nota perché cita l’Huckleberry Finn di Mark Twain, il ragazzo che rifiuta il tesoro trovato perché rimpiange la vita povera e libera dal denaro che conduceva prima. Il paragone tra il santo e il personaggio è bellissimo “Sono andato / Sono ancora qui / Huckleberry Finn / Sono la vita violenta / San Francesco / Si diventa”. Nel pezzo che titola l’album la citazione di Jacopone da Todi la fa certamente da padrone, ma il testo del pezzo a me ricorda molto certi canoni stilistici di De Andrè, nello specifico mi sembra una via di mezzo fra “Coda di lupo” e “Sally” “Cos'altro ti può servire se vai nel bosco / Cos'altro ti può aiutare laggiù in città / Tuo padre consiglierà il coltello contro tutti i guai / Cos'altro, se non il ferro, ti salverà”. Notate bene: il presidente menzionato è Berlusconi e sono pregiatissimi gli arrangiamenti morriconiani del pezzo. Segue l’hit “Le rane” storia di incontro im
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provviso al bar fra due amici che si sono persi di vista da tempo. Tanti riferimenti a bucanieri, corsari e Yanez, segno che l’amico riappare dall’infanzia di Bianconi “Perché il tempo ci sfugge / Ma il segno del tempo rimane / Ma voglio immortalarti e ricordarti così / Coi sandali e il coraggio di Yanez / E porterò, morendo / quella gioia corsara con me” . “Gli spietati” usa il canovaccio già usato per “Il nulla” su “La Malavita”. Due filosofie all’opposto, quella degli spietati che non dubitano mai, che rinnegano l’anima e vivono senza pietà contrapposti agli “antichi eroi” che si salutano baciandosi e dicendosi melodrammaticamente “addio” “Gli spietati salgono sul treno e non ritornano / Mai più, non sono come noi innamorati eroi / Noi due che al binario ci diciamo addio”. Nella ballatona sulla spiaggia deturpata di Follonica dove si ritrovano anche gli ossi di Bic / Lische e caffè / Tampax e qualche Hatù / Ossi di seppia e bidet” si verifica lo stato di una relazione al capolinea, infatti si chiude
con
la
sconsolante
ammissione
“Andiamo alla deriva” e “Verifichiamo di essere vivi sulla spiaggia di Follonica”. “La canzone della rivoluzione” dice già tutto dal
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seppia di Montale “Cicche e collant / Penne
titolo ma nel testo si fa un riferimento temporale importante agli anni ’80 e ai loro politici insufficienti che di fatto annientarono lo spirito della rivoluzione sessantottina. Perché bisogna fare la rivoluzione? “Fallo contro i cori dei mercanti nel tempio / Per i cristi assassinati senza una verità / Per i vivi e i morti che santifica il caso / Per i l
pene e la vagina e per quel che era sacro e non è più / Fallo perché gli ultimi diventino i primi”. “Groupies” e “La bambolina” sono due canzoni “legate” fra loro per tematiche e suoni. La prima inizia con la simulazione di un amplesso ed elenca nel testo una serie di nomi femminili, la tematica è la superficialità e l’ostentazione della sessualità in questi nostri tempi “ "Vivere dicevamo una sera in Hotel / È così, come mangiare una mela / Così sia Venga eterna la felicità” , nella seconda la tematica è la condizione femminile nella società contemporanea, costretta sempre ad essere all’altezza di un estetica che sembra essere l’unica cosa che conta e il ritornello diventa una preghiera affinché questa condizione cambi “Cristo delle peggio borgate / delle vite sprecate / buon Dio dell'Estate / Accendi un bel fuoco / brucia la modella smagliante / sul cartello gigante / e il suo triste sesso / sia fine a sé stesso” . Entrambe hanno un suono western e devo ammettere che non mi fanno impazzire. Mentre invece il finale del disco è assolutamente notevole a partire da “Il sottoscritto” un ballata dominata dal pianoforte dove vengono elencati tutta una serie di fallimenti forse legati a vicende personali o forse no. Rimane il fatto che il pezzo è molto bello e molto drammatico e
un po’ come “L” in “Amen” appare un po’ fuori tema. “L’Estate enigmistica” è un grande pezzo pop-rock che come “Le rane” ha le stimmate della canzone memorabile. Come spesso succede però nei Baustelle l’apparenza inganna perché utilizzando uno dei passatempi estivi più gettonati si tende non solo a dare un senso di leggerezza al pezzo ma anche a rappresentare l’assoluta incomprensione del nostro tempo “Bambina, voglio bere un'aranciata / Perché amara sfinge è la realtà / E io non ho più l'età per riuscire ad illudermi” . Chiude “L’ultima notte felice del mondo” un ballata interpretata da Rachele Bastrenghi intensa come “Il sottoscritto”, dove c’è una sorta di pacificazione e consapevolezza di essere molto soli a questo mondo “Così ti stringevo al mio cuore come fosse / L'ultima notte felice del mondo / L'ultima notte importante per dimenticare di essere soli / Di essere soli da sempre”.
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Paragrafo 6 – “IL FUTURO E’ RADIOATTIVO” “Fantasma” è il primo concept album dei Baustelle, anche se non c’è una storia vera e propria che lega i pezzi, ma, come detto dallo stesso Bianconi “è una sorta di raccolta di canzoni a tema”. Dove il tema fondamentale è il tempo che viviamo, la realtà che si dissolve e diventa un fantasma. E’ un disco “carico” di musica e riferimenti, di bordate sparate ad alzo zero ma anche di speranza e pace. “Non credo alla Bibbia, mi chiedo perché / Dovrei consultarla, offende gli dei / Non prego la chiesa il fetore che fa / Non credo nel cielo e nemmeno all'inferno” questo è l’incipit di “Nessuno”, ma poi si citano il figlio di troia che appalta la Rai, il mercato che produce demenza, l’ego dei calcoli dei governanti. Se “Nessuno” sembra un apocalisse che trova la quie-
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te solo nell’amore “La morte non esiste più” segue lo stesso canovaccio ma rimane più sull’intimo e sulla riflessione per-
sonale. C’è un finale di speranza ma anche una sensazione di assuefazione alla tragica realtà “La vita non uccide più / I nostri baci / I nostri sogni / E le parole / Il tempo non le imbianca più / E non si seccano / A lasciarle stese al sole / Stringimi le mani / Non è niente / Che la guerra passerà” mentre la realtà è cristallizzata ed eterna nei diorama del Museo di Storia Naturale, immutata e immutabile da sembrare un oasi fuori dal tempo che ci mette al riparo dalle realtà che viviamo “Nel diorama il tempo non ci può far male / Non c’è prima e non c’è poi / Solo il culmine di vite singolari / L’ illusione che non marciranno mai” . “Monumentale” è monu-
mentale. Punto e basta. Dedicata al celebre cimitero di Milano è la prima canzone del disco interpretata dalla Bastrenghi. Sarebbero molti i passaggi da sottolineare, dal celebre incipit al ”trovi Dio trovi Montale ed un’ opaca infinità”, al “Non chattare, ma piuttosto stringi forte chi ti ama” oppure “Dona amore al pomeriggio a chi sospende la sua vita” ma il passo che voglio mettere in evidenza è quello che apre il secondo bridge del pezzo “I camposanti non hanno rimpianti / Sei tu che li covi, li rendi fantasmi / Li canti per sentirne meno la mancanza / Come non bastasse l'esistenza e l'eco che fa / Giace qui ad libitum la tua imbecillità”. La canzone “Il Finale” è il grande simbolo di quello che stiamo dicendo dall’inizio Bianconi non è uno che scrive a caso. Nelle canzoni racconta episodi che spesso in determinate “canzoni” non è lontanamente pensato che possano esistere. La storia de “Il finale” è presto detta, la canzone si ispira ad un fatto vero, la prima esecuzione di “Quatour pour la fin du temps” nel campo di prigionia di Görlitz in Slesia nei primi mesi dell’inverno del 1941. L’autore del brano, Olivier Messianen, compositore francese è prigioniero assieme ad altre 30.000 persone, gran parte francesi. Esegue la sua composizione vestito inverosimilmente e con strumenti rotti davanti ad ufficiali e prigionieri. L’opera di Messianen, composta da otto movimenti, è dedicata a l’ Apocalisse di Giovanni, l’ultimo libro del nuovo testamento ed è considerata musicalmente una dei più alti esempi di musica da camera del secolo scorso. In rete troverete molte informazioni su di essa, una tra le più importanti è questa dichiarazione del compositore che si riallaccia al tema del disco dei Baustelle. La trovate su Wikipedia "non ho voluto in alcun modo realizzare un commento al libro della Rivelazione, ma semplicemente giustificare il mio desiderio di cessazione del tempo". La canzone parla certamente dell’esecuzione ma si immagina il pensiero di Olivier verso una donna amata di cui vi riporto il finale “È l'amore mio per te / Perché quando poi l'Apocalisse arriverà / Tu
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ritrovi un altro me / E la vera libertà”. In “Cristina” c’è lo stesso tema, il tradimento, che era centro di “Perché una
ragazza di oggi può uccidersi” su “La Malavita”. Qui la storia è finita meglio, Cristina non si è suicidata, l’exfidanzato fedifrago si domanda se il proprio “fantasma” aleggia ancora attorno alla donna ma conclude i suoi pensieri rendendosi conto che “Gli spettri agitano coscienze storiche / Fatti epocali, stragi piccole / Colpe e peccati e scie di cenere / Ciò che ci fa paura siamo noi”. La seguente “Il futuro” è una sorta di preghiera al tempo andato e ai contorni del tempo che verrà, in questi nostri anni sempre più indefinibile e indecifrabile. Regala passaggi molti belli, ne citerei due “Ho guardato la casa che una volta abitai / Perché quando te ne vai è davvero come se /Capissi per la prima volta l'uomo che sarai” e il finale “Il futuro cementifica la vita possibile / Qui la vista era incredibile / Da oggi è probabile / Che ciò che siamo stati non saremo più / Il passato adesso è piccolo / Ma so ricordarmelo”. “Maya colpisce ancora” potrebbe anche essere la seconda parte de “Il liberismo ha i giorni contati”, la Maya indicata nel titolo è chiaramente la profezia del grave evento planetario che avrebbe dovuto sconvolgere il mondo sul finire del 2012. In diversi passaggi “Maya” è una raffinata canzone di critica sociale e politica, ho solo l’imbarazzo della scelta “Sono millenni che da scimmie cazzeggiamo col potere / Col mito dell'avere, amori e religioni e non cambiamo mai / Banchieri, operazioni, studenti ed operai” o anche “Fondiamo sul piacere, su ottuse dittature, la nostra civiltà / Fiammiferi o splendore, che differenza fa?” e per chiudere “Vieni pure, Maya di peste nera e di colera ci ucciderà / Nel frattempo canto, che me ne importa /Canzone morta, cantiamo già”. “L’orizzonte degli eventi” non può essere considerata una canzone, difatti è uno strumentale, parte morriconiana a parte, il testo è praticamente recitato e rimane schiacciato fra oboe e parti sinfoniche, si struttura come un breve poema surreale alla “Desolation Row” dylaniana, contiene il riferimento a un non precisato scrittore americano del novecento accusato di razzismo, anti progressismo e di fare letteratura da
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quattro soldi solo perché aveva semplicemente paura dei tempi in arrivo. Ci sono diverse tesi su chi possa essere, le più valide indicano i nomi di Ezra Pound e Charles Bukowski. “La natura” è un testo interamente scritto da Rachele Bastrenghi, è un pezzo abbastanza anomalo musicalmente nel contesto del disco ma non lo è nel testo che scorge nella mutazione l’unica possibilità di sopravvivenza, “Sai cosa penso di noi due? / Sbagliamo a voler resistere / Alle difficoltà, ai cambiamenti / Non lo trovi emozionante ciò che sai che sfiorirà / L'ora dell'ibisco, l'epoca del disco son finiti già / Alla fine è commovente ciò che sai che muterà / Sta nella crisalide l'essenza della vera libertà”. In “Contà l’Inverni” c’è un altro ri-
mando al passato e nello specifico a “La canzone del riformatorio”. Qui i protagonisti sono adulti e il finale è decisamente tragico. Lo sfondo è il mondo superficiale che ci creiamo, falso e mai sufficiente a colmare gli egoismi di ognuno di noi. “Senza morte nun c’è vita” / Me so’ fatto tatua’ / Esisteva solo lei / Me so’ fatto licenzia’ / Pe’ compraje er monno intero / E non sorideva mai” questo è un passaggio decisivo del testo, canzone cantata in romanesco pare per esigenze di metrica, rimane una grande prova interpretativa di Bianconi, non tanto per la tecnica ma per la tensione emotiva che trasmette. L’unica speranza dopo l’efferato delitto? “L’estinzione della razza umana” “Tornerà la terra / Follemente bella / Dopo l'estinzione della razza umana / Senza di noi / Un'era disumana sarà Nessuna pestilenza verrà / Ad inquinarci mai / Ci spazzerà / La nostra prover-biale viltà / Saremmo avvolti dalla foschia” infine a chiudere il disco la dolcezza e la speranza di “Radioattività” “Bisogna avere fede / Navigare nello spazio side-
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rale Presuppore l'aldilà Che siamo troppo avvezzi a stare male A proteggerci dal sole / Dalla radioattività”. La canzo-
ne è un incoraggiamento, una carezza, un sostegno. I tempi sono duri e amari ma la speranza siamo noi. “Così ti stringo forte grido amore / Cerco il bene nell'orrore / E l'eterno nell'età” è l’ultimo soffio che stringe il cuore.
Paragrafo 7 – “IL VANGELO DELLA MUSICA ELETTRONICA DEL SABATO SERA” “L’amore e la violenza” il primo dei due ultimi controversi album dei Baustelle ha forti connotazioni con l’universo musicale di Franco Battiato, non in tutte le canzoni ma in quelle decisive certamente. I testi sembrano essere scazzati e superficiali, diretti ed espliciti. Parlano di guerra? Non saprei. Mi sembrano parlino di una violenza cieca e strisciante e di un amore perlopiù distratto e nato male. Ne “Il Vangelo di Giovanni” c’è una sorta di alienazione in
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un estate popolata da profughi, dalla solita musica
leggera e da anonimi lungomare “Certe volte l’ esistenza si rivela con violenza intorno a me”. Il titolo del pezzo non sembra essere messo a caso, il Vangelo di Giovanni è uno dei quattro vangeli contenuti nel Nuovo Testamento. Dei quattro è quello più diverso, quello che si occupa del ministero di Gesù e nel farlo lo fa, dando una propria interpretazione ai fatti raccontanti. Come il Giovanni della canzone sembra fare del suo credo, in una torrida,
anonima e solita estate italiana. “Amanda Lear” sfrutta l’iconica figura dell’attrice, modella e show-girl franco britanni-
ca, raccontando essenzialmente una storia di corna reciproche ben consapevoli che “Che niente dura per sempre nemmeno la musica”. “Betty” è uno dei grandi pezzi del disco, sicuramente parla di una tipica ragazzina social, ma anche d’altro di Brexit per esempio “Come la foglia al vento / Trema l'Europa unita / Parli di Elisabetta / Temi per la sua vita / Che sfida il buio come una fine di galleria” e disagio sociale perché Betty si fa prendere e lasciare ed è dipendente da questa cosa perché non conosce la differenza fra lo sbocciare di una rosa e l’adolescenza, che in un secondo passaggio diventa la decadenza. A me questa figura di ragazza mi ha ricordato molto, la Betty protagonista del film di Gianni Serra “La ragazza di via Millelire”, certo sono passati quarant’anni da allora ma certe cose non appaiono poi molte cambiate. “Eurofestival” è un condensato di Battiato quasi puro con sullo sfondo una crisi infinita “Gravi stati di allucinazione / Mentre passa l'ultima canzone all'Euro festival / E il nostro amore è ai titoli di coda / Chi siamo noi, chissà quest'anno cosa andrà di moda” è il passaggio memorabile. “Basso e batteria” è una storia di ab-
bandono “Lei ti ha consumato come un disco dell’estate” è di per sé un incipit grandioso e unito alla sampler della sigla di Sandokan funziona anche meglio. “La musica sinfonica” è una fotografia alla gioventù e a certa musica che si ballava in discoteca, nel testo ha rimandi a un passaggio de “L’aereoplano” in “Amen” “Ricordo solo il tuo vestito / Il sangue di Gesù / Sulla statua in processione / Quanto ti volevo bene / Mentre servivamo messa”. “Lepidoptera” è una storia di solitudine con rimandi a “Nessuno” di “Fantasma” soprattutto nel passaggio iniziale che dice “stai con me stasera fai quello che sai già fare” per esempio. C’è un passaggio curioso dove volutamente o meno si schiaccia l’occhio al Baglioni di “W l’Inghilterra” “Ce ne andremo in Inghilterra / A far l'amore senza paura, io e te”. All’inizio di “La vita” c’è un abbandono, lei non ce la fa più con lui, che ha tutte le sue menate esistenziali, il pezzo vive tutto sui
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rimandi e tormenti di un lui che vive a fatica e si/ci libera solo alla fine quando a dice “La vita è tragica / Però è fantastica / Essendo inutile / È solo immagine / È tutta estetica / Io penso che la vita non è niente / Provo a vivere”. Pezzo bellissimo. A seguire “L’era dell’Acquario” canzone amara sull’assuefazione al dolore di questa società, il ritornello del pezzo è al contrario orecchiabile, spensierato e pop. L’era astrologica non è nemmeno più auspicata perché oramai “Ci si abitua a tutto / Alle bombe, alle esplosioni, alla storia, al calendario / Non aver paura, non piangere mai Lascia consumare il presente / Tutto sarà niente, il compiuto è già passato / Nell'era dell'acquario”. Ci sono i rimandi alle stragi terroristiche degli ultimi anni ma anche uno sguardo al passato, infatti vengono menzionate le strade degli anni ’70 e l’eroina all’università, come a volere unire i fili dell’orrendo e provocare un corto circuito temporale di terrore e dire la merda di allora è la stessa merda di oggi. Infine chiude “Ragazzina” che è una canzone per la figlia di Bianconi. Una canzone di protezione e di dolcezza. Ma anche di difficoltà verso un ruolo, quello del genitore, che non
potrà essere protettivo per sempre, consapevole di questo Bianconi la avverte “Biancaneve tra milioni di maiali / Orsi buoni e rime giuste da rappare / Guardi il mondo che ti sbuccia le ginocchia / E ti fa sanguinare”.
Paragrafo 8 - “PERDERE L’AMORE NEGATIVO Dopo l’intro di “Violenza” inizia con “Veronica N°2” il secondo volume di “L’amore e la violenza” uscito nel marzo del 2018. Un album pervaso da un senso di amore profondo e anche un po’ malato, ossessivo e cieco. Ne è un esempio la prima canzone dove un uomo arriva a fregarsene di tutto per la sua Veronica. Sulla stessa linea viaggiano “Lei malgrado te”, scritta con Giuseppe Rinaldi aka Kaballà, “Tutto mi parla di te pesino la tua assenza mi fa compagnia”, “Jesse James & Billy Kid” storia d’amore turbolenta dal finale sereno, “A proposito di lei” ispirata dal testo della “Per Elisa” che Franco Battiato
gi, oggi ho perso tempo / Hai già detto tutto a proposito di lei / Oh si” anche questa scritta con Rinaldi, o l’innocua “Baby”. “Tazebao” è una raccolta di aforismi sul presente in cui la storia d’amore se c’è è appena accennata nel ritornello, “Perdere Giovanna” racconta la gioia effimera di un uomo di mezza età che dopo aver perso la sua compagna torna a fare “il giovane”. “Caraibi” è un vecchio pezzo scritto ai tempi di “Sussidiario…” che racconta la fine di un amore giovanile di Bianconi.
Photo by Gianluca Moro
scrisse per Alice e che ha l’ultima strofa che è meravigliosa “Ridi, pian-
“L’amore è negativo” e “Il minotauro di Borges” meritano invece qualche riga in più. La prima è ispirata al libro “Eros in agonia” del filosofo coreano e nostro contemporaneo Byung-Chul Han. Io il libro non l’ho letto e voglio essere onesto nel non dirvi cose che in rete sono alla portata di
tutti voi, se le volete approfondire. Bianconi elabora una parte di questa lettura dicendoci che l’amore vero comporta innanzitutto l’ammazzare il proprio io per darsi completamente all’altro, sia esso un compagno/a, un figlio/a o un Dio. Chiude infatti la canzone dicendo “Non sacrificare Isacco a Dio / Salva tuo figlio muori al posto suo”. “Il Minotauro di Borges” è invece ispirato a racconto di Jorge Luis Borges “La casa di Asterione”. Il racconto recupera il mito del Minotauro greco a cui ogni dodici anni veniva sacrificata una ragazza. Donna che lui nemmeno riusciva ad amare perché le malcapitate morivano di spavento appena lo vedevano. La canzone in sostanza parla di questo “Io sono un mostro e tu chi sei? / Come ti chiami? Come stai? / Vor
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rei parlarti, ma è impossibile /Sono una bestia e adesso sai / Che non appena incontrerai / Il Minotauro morirai” . Sono tutti amori impossibili quelli del Minotauro e lui arriva a un punto che non li vuole più vivere. Le canzoni di questo secondo volume di “L’amore e la violenza” a me piacciono molto, le trovo fresche e le ascolto piacevolmente. Non sono certamente ricercate a livello di scrittura come moltissime altre dei Baustelle e da questo punto di vista il passo indietro non si può negare. A parte ovviamente le eccezioni su cui mi sono speso con qualche riga in più. Vi risparmio il finale di questa maratona, che vi avrà sfiniti, consigliandovi tre libri il primo è “I Baustelle mistici dell’occidente” di Paolo Jachia e Davide Pilla uscito per Ancora nel 2011 nella collana Maestri di Frontiera. Un grande libro che analizza fino a “Fantasma” quasi tutti i testi del gruppo senese con approfondimenti specifici, grande cultura e precisione. Un testo magari non per tutti, ma fondamentale se volete comprendere il retroterra culturale di quel grande autore di canzoni che è Francesco Bianconi. Il secondo è “L’amore e la violenza: Una storia dei Baustelle” di Federico Guglielmi uscito per Giunti nel 2017 per la collana Bizarre e che ripercorre tutta la storia del gruppo dagli esordi fino a “L’ amore e la violenza”, attraverso interviste, dichiarazioni e un’accurata ricostruzione discografica. Un libro che si legge in un fiato. Infine il terzo è “I musicisti arrivano già stanchi negli hotel. Fotodiario intimo di Baustelle in movimento” di Francesco Bianconi e Gianluca Moro. E’ un libro principalmente fotografico dove la “parola” è nelle immagini del fotografo ufficiale dei Baustelle, Gianluca Moro. E’ un libro per fans, molto bello devo dire. E’ uscito nel 2019 per l’editore La Nave di Teseo +. Due precisazioni. Sul Bianconi scrittore non mi sono espresso in quanto non ho letto nessuno dei suoi due romanzi pubblicati. Ho evitato anche di prendere in analisi i testi scritti per altri artisti, di cui per onestà non posseggo alcun supporto. I Baustelle per me sono stati un amore impossibile che infine è giunto. (MS)
“E le canzoni me le scrive il cane / Nel bene nel male” Francesco Bianconi da “Veronica N.2”
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Capitolo 4
“Il fascino di Rachele”
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di Kurt Logan
C’è un episodio raccontato nel libro di Federico Guglielmi “L’amore e la violenza – Una storia dei Baustelle” dove Claudio Brasini racconta che al rientro in Hotel dopo la data di Rimini del tour di “Amen” era un po’ troppo euforico e fece un bel casino. Francesco lo riprese duramente, ricordandogli che non erano soli in albergo. “Fece bene a farlo” aggiunge il chitarrista. Questo è un episodio banale che dà l’idea di come possano funzionare le cose all’interno di un gruppo, non solo musicale, che si basa prima di tutto su un’amicizia storica. Non lo dico solo io, che ho conosciuto l’episodio leggendo il libro di Guglielmi, lo dice proprio su queste pagine il Road Manager del Tour di “Amen”, Lorenzo Sartirana e lo dice anche Diego Palazzo. I Baustelle sono quello che sono anche grazie ai rapporti personali di Francesco, Rachele e Claudio. Un alchimia unica e speciale. Una cosa che si riflette anche musicalmente nel gruppo. Perché i meriti di Francesco Bianconi sono sotto gli occhi di tutti ma vogliamo parlare di Rachele e Claudio? Rachele venne chiamata nel gruppo perché il nucleo primigenio dei Baustelle ha la fissa che la ragazza nel gruppo fa tendenza. Hanno in mente Kim Gordon dei Sonic Youth e Kim Deal dei Pixies. Rachele è una ragazza che al liceo non perde l’occasione di cantare, è una che si fa notare. Al primo provino fece “Zombies” dei Cramberries e “What’s Up” delle 4 Non Blondes. Ha personalità e la prendono subito. Claudio nei Baustelle c’è da sempre. Non ha mai preso lezioni di chitarra è un autodidatta, che con la musica ha avuto principalmente un approccio punk. “La cosa deve piacermi da subito. Ho la mania di suonare bene la nota, ma a modo mio” dice nel libro di Guglielmi, oltretutto è un profondo conoscitore di chitarre elettriche. Questo è il ritratto di famiglia e del legame più che ventennale che li lega spingendoli ad essere più di un gruppo. Ma io conosco un mondo, una terra alternativa dove l’ idilio si è spezzato. E la storia non è finita bene. E’ una terra dove Bruce Springsteen si è ritirato dalle scene dopo “Born In The U.S.A.” per tornare a pubblicare un doppio album solo l’anno scorso (vedi WN # 51) e dove i Baustelle dopo il disco la “La moda del lento” si sono sciolti. Claudio è tornato a lavorare in banca, Francesco redige una rivista di giardinaggio a Milano e Rachele
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dopo aver fatto per qualche anno l’assicuratrice è tornata a cantare, prima con qualche cameo in dischi di vari amici dell’ambiente indie italiano (Afterhours, Perturbazione, Dellera, Le luci della centrale elettrica, Mara Redeghieri, Mauro Ermanno Giovanardi e altri ancora) e poi realizzando il suo sogno, un disco tutto suo. La diatriba che portò a spezzare il progetto Baustelle prima che le registrazioni del disco, che avrebbe dovuto chiamarsi “La malavita” iniziassero, la coinvolse personalmente facendole tanto male. Il suo schierarsi dalla parte di Fabrizio Massara e contro la scelta di farsi produrre il disco da Carlo Ubaldo Rossi, mise di fatto la parola fine all’avventura del gruppo toscano. Forse a margine di questa tensione pesarono anche le poche parti che le furono riservate in “La moda del lento”. Chi può dirlo ? Le cose sono andate come dovevano, rimane il rimpianto di aver perso l’opportunità di veder maturare uno dei gruppi più interessanti del rock indipendente italiano di fine ann’90. Per Rachele la profonda ferita è guarita, quel che rimane è una brutta cicatrice. “Senza di lui” (il titolo forse ammicca all’ingombrante personalità di Bainconi ?) è un album che ci restituisce una straordinaria interprete che flirta con diverse influenze musicali ma che mantiene come riferimento principale le grandi interpreti della canzone italiana degli anni ’70, Patty Pravo, Milva, la prima Antonelle Ruggiero e Anna Oxa. Hanno umori melodici, sinfonici e drammatici le canzoni del disco, ci parlano di storie sempre al limite della tenuta mentale. Le donne protagoniste dei suoi pezzi sono schiave di una società disumana e sfruttatrice, che spesso le sbatte in faccia i loro fallimenti senza consolarle mai, senza mai dar loro fiducia. E da cui cercano di fuggire tradendo, ingannando e cercando gioie effimere. E’ un disco anche vario “Senza di lui” se si pensa alla diversità fra il capolavoro “L’aereoplano” e pezzi come “La musica sinfonica” e “A proposito di lei” più leggeri e diretti, “Dark room” e i suoi sentimenti sudamericani, il torbido andamento di “Revolver”, il lirismo epico di “La vita va”, le due ineccepibili cover, una di Patty Pravo “All’inferno insieme a te” e una di Lucio Battisti “Le cose che pensano”, scelta questa non proprio ordinaria e molto coraggiosa. Due strumentali ad aprire e chiudere l’album e prima dell’ultimo la serenità de “L’ultima notte felice del mondo”. Se vi eravate innamorati di quella voce ai tempi di “Gomma” e “La canzone del parco” sul primo disco dei Baustelle, la ritrovata magicamente intatta in questo disco che ci presenta una Rachele Bastrenghi in forma strepitosa e ovviamente con il suo fascino intatto. (KL)
RACHELE BASTRENGHI “Senza di lui” WolverNight Records 003 - 12 tracks - 46’ circa
01 Cronaca nera (strumentale) 02 Dark Room 03 Revolver 04 L’aereoplano 05 Senza essere 06 La musica sinfonica 07 La vita va 08 All’inferno insieme a te 09 A proposito di lei 10 Le cose che pensano 11 L’ultima notte felice del mondo 12 Folle tempesta (strumentale)
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Capitolo 5
“Dentro ai Baustelle” intervista a DIEGO PALAZZO di Massimiliano Stoto Diego Palazzo è chitarrista, tastierista e voce degli Egokid, sei dischi all’attivo fra il 2003 e il 2019. E’ un giornalista e un insegnante e dal tour de “I mistici dell’Occidente” fa stabilmente parte dei Baustelle di cui è anche co-autore di alcuni pezzi, fra questi “Cristina”, “Maya colpisce ancora”, “Il finale”, “Radioattività” e “Il minotauro di Borges”. Nel 2016 ha pubblicato l’album “Prima” firmato solo con il suo cognome. Lo abbiamo sentito per presentarvi una testimonianza dei Baustelli dal di dentro. Lo ringraziamo per averci regalato un po’ del suo tempo. MS: Sei entrato nei Baustelle dopo il temine delle registrazioni de “I mistici dell’occidente” quindi per il tour che ne è seguito…come è stato l’approccio e come mai ti è stato chiesto di partecipare al tour? DP: Con Francesco ci conoscevano da tempo, dai primi 2000 quando si bazzicavano gli stessi posti e concerti a Milano. La prima volta, credo, in assoluto fu a un concerto dei Blonde Redhead appena fuori Milano. Da lì la conoscenza si è trasformata gradualmente in frequentazione e amicizia. Molte cene, grandi giochi da tavolo fino a tardi e ogni tanto ci scappava la strimpellata casalinga. Poi alla fine del 2009, una sera dopo mesi che non ci sentivamo (erano appena reduci dalla fine delle registrazioni dei “Mistici”) ricevo una sua mail in cui mi chiedeva se fossi interessato a partecipare al tour, perché avevano bisogno di un chitarrista ritmico. Francesco già aveva visto qualche concerto degli Egokid, primissima formazione e credo che la cosa gli fosse venuta in mente da lì. Fu una sorpresa tanto inaspettata quanto gradita. Accettai praticamente subito. MS: Tu sei un autore di canzoni, generalmente con gli Egokid canti quello che scrivi e suoni la chitarra…le tastiere…. come ti sei trovato a svolgere una parte da non protagonista sul palco con i Baustelle. DP: La questione del sentirsi protagonisti o meno non è mai stata il punto, anche se una certa dose di egocentrismo in questo mestiere è inevitabile e forse pure sana. Non per altro il nome della band che ho fondato è Egokid, progetto in cui però paradossalmente il ruolo di frontman e autore è condiviso con Pier, ah ah ah. Quando ho cominciato a lavorare con Francesco Rachele e Claudio l’ho fatto in primis perché la loro musica mi piaceva molto e perché c’era un rapporto di amicizia e reciproca stima. Non mi reputo un musicista così tecnicamente abile da poter funzionare in qualsiasi progetto, né mi interesserebbe fare il session man come idea. Con loro c’era già un’affinità artistica oltre che umana. Di fatto rimane tutt’oggi l’unico progetto in cui sia stato coinvolto come collaboratore. Mi bastava e mi basta tutt’oggi sapermi parte di una cosa bella e di un gruppo dove i rapporti umani e la musica, nel senso di condivisione di una radice e di una visione comune, vengono prima di tutto. MS: Il tuo peso però nel gruppo è aumentato, oltre a scrivere con Francesco Bianconi per altri interpreti hai dato un contributo importante in qualche brano basilare di “Fantasma”…sto parlando di “Cristina”, “Maya colpisce ancora”, “Il Finale” e “Radioattività”…. DP: È stato Francesco a coinvolgermi nel processo creativo di scrittura. Prima ancora che su “Fantasma” abbiamo passato po-
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meriggi interi nel suo studiolo, piano voce e chitarra, a lavorare su canzoni per altri. È stato il periodo in cui abbiamo scritto ad esempio “Utopia” per la Turci. Parte di quel lavoro è confluito in “Fantasma”, penso a “Radioattività” ad esempio, o “Maya”. Era una situazione inedita per me lavorare in quel modo e comunque estremamente stimolante proprio come esperimento. Mi interessava soprattutto capire come ragiona musicalmente Francesco, inserirmi in quella logica con le mie modalità. “Cristina” e il “Finale” sono stati invece frutto di un lavoro a più mani, che ha coinvolto anche Alessandro Majorino, bassista fin dal tour di Amen. Ricordo che eravamo tutti a casa di Francesco ed Ettore a Castiglione della Pescaia quell’estate di fine tour, quando ci mettemmo a buttare giù le progressioni per quei pezzi. È stato un momento bello: ci sentivamo un po’ come gli Stones in ritiro a scrivere sul mare, ma in una modalità diciamo più tranquilla e godereccia. MS:E’ vero che “Radioattività” l’avevate scritta per Alice? DP: E’ vero. Il pezzo è nato pensando a lei. Poi, come spesso accade nello strano mondo degli “autori per altri,” la cosa non è andata in porto. Poco male, anzi meglio. Di fatto cantata da Rachele è la morte sua. Vedi come a volte il caso ti porta comunque dalla parte giusta. MS: Ci parli degli ultimi due dischi dei Baustelle “L’amore e la violenza” vol. 1 e 2? Intendo dire….nel primo volume sei co-autore di gran parte dei pezzi nel secondo solo di quello finale che chiude l’album “Il minotauro di Borges”…pezzo bellissimo…scusa la sottolineatura….sono due dischi che s differenziano molto da “Fantasma”….hanno una produzione molto spinta, particolare, non l’ho interpretata come una scelte commerciale o radiofonica anzi…ma che idee di suono avevate in mente nella fase produttiva ? DP: L’idea di base era quella di cambiare direzione sonora rispetto a “Fantasma”. Ogni disco dei Baustelle è un mondo a parte, un viaggio in una certa estetica, anche perché molte sono le influenze, le passioni, i guilty pleasure che si condividono. Diciamo che L’amore e la violenza, soprattutto il primo volume, rappresenta un po’ la fase “guilty pleasure”, quella voglia di ripescare suoni del passato, della prima adolescenza, della tradizione se vogliamo meno nobilitata dalla critica musicale nostrana: la disco, il disco-punk, il glam, le sigle degli sceneggiati tv, il synth-pop degli ultimi settanta/primi ottanta, certe vecchie glorie del pop nostrano come Amanda Lear e Viola Valentino (“La disco fine 70 ma cantata da Gabriella Ferri”, come diceva Francesco in quelle prime sessioni di scrittura). E poi l’uso dei sintetizzatori: fu quello il momento in cui Francesco si mise a ricercare in lungo e in largo synth analogici vintage, come un umanista in cerca di codici antichi. All’epoca anche io stavo cominciando a lavorare al progetto Palazzo con Giacomo e l’elettronica stava diventando preponderante nel mio gusto rispetto alle chitarre. Per cui insomma fu la classica scintilla, una comunione di intenti davvero virtuosa, stimolante e prolifica, tanto che alla fine c’era un sacco di materiale. Da qui l’idea di fare un secondo volume, volutamente scritto in corsa, fra le brevi pause del tour, ma che fungesse un po’ da contraltare estetico al precedente episodio: per cui un ritorno alla semplicità del rock, le chitarre, una scrittura più lineare e urgente. Mi fa molto piacere che il Minotauro chiuda quel disco: era una delle cose scritte per prime insieme a Fra al pianoforte, un giro di accordi davvero uscito così dal nulla, tipo epifania, uno dei primi demo, ma anche l’ultimo pezzo a venire completato in studio. Epico il solo di Claudio: la leggenda vuole (in realtà l’ho visto con i miei occhi) che alla fine di quella registrazione l’ampli abbia preso fuoco. Se non è questo rock’n’roll! (O forse un segno di approvazione degli dei). MS: I Baustelle sono fondamentalmente un gruppo pop. Ma fin dal primo disco sia a livello di scrittura e di suoni hanno sempre cercato di distinguersi e non sono mai risultati banali….questa può essere anche una dote naturale ma a me ha sempre trasmesso la sensazione che dietro ci sia un grande lavoro, un grande passione e soprattutto, cosa non trascurabile, delle cose da dire…
DP: Nella vena artistico-compositiva dei Baustelle convivono il momento apollineo della scrittura misurata, ragionata, ponderata e quello dell’urgenza dionisiaca, dell’ “esaltazione tremenda”, nell’immediatezza della comunicazione. La magia sta tutta nel saper cavalcare in quella linea d’ombra che si crea soprattutto nella sinergia ormai consolidata fra Francesco Claudio e Rachele e in cui ho imparato gradualmente a inserirmi. La lavorazione del disco è sempre un momento di grande organizzazione e pianificazione, perché sono tanti gli elementi in gioco, le cose da fare e suonare, i ruoli da dividersi. Devo dire che ho imparato un sacco lavorandoci a fianco e in mezzo. MS: Nel preparare questo speciale sui Baustelle abbiamo fatto questa considerazione:” dopo vent’anni e più di carriera i Baustelle sono sicuramente un gruppo affermato e che vende… ma è un gruppo che non si vende….intendiamo con
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questo che in tv con quello che cantate è difficile passare.
Diego, Rachele, Claudio e Francesco. Photo by Gianluca Moro
DP: Guarda, non so risponderti sinceramente. Nel tempo ho imparato che questa cosa del vendere e vendersi è un aspetto che elude ogni regola. Ritengo che i Baustelle, per il percorso che hanno fatto, abbiano dimostrato di essere sempre padroni della propria narrazione, totalmente in controllo del processo artistico e della loro immagine. I tempi sicuramente erano diversi da oggi, così come le modalità per far emergere una realtà nuova e per fruirne. Oggi sarebbe davvero difficile riuscire a rimanere così fedeli a se stessi.
MS: Ho coniato una definizione: “I Baustelle cantano un’Italia perennemente a troie” secondo te è centrata? DP: I Baustelle cantano di molte cose, l’immaginario dei testi di Francesco copre un ampio spettro tematico e ha una stratificazione letteraria che ne è la cifra stilistica. I temi sono quelli della tradizione lirica: l’amore, la vita, l’esistenza, il problema del rapportarsi come individui al proprio tempo e al proprio contesto, il sentirsi soli e in fondo non così diversi dagli altri, la ricerca di qualcuno con cui condividere questa “cognizione del dolore”. Ci sento e vedo Montale, Leopardi, Gozzano, ma con un linguaggio rinnovato, contemporaneo, forse post-moderno. L’Italia c’è e non c’è. Ovviamente si canta in italiano, si vuole comunicare con un pubblico italiano, ma il discorso cerca sempre di essere universale: dalla provincia alla metropoli all’universo mondo, insomma. È un po’ come quando Bianciardi nella “Vita agra” fa quel suo discorso del passaggio “dal neorealismo al realismo”. Dalla cronaca (rigorosamente nera) alla storia.
MS: Con Francesco sei stato co-autore di canzoni quindi mi immagino rapporti fitti, scambio di idee e vedute unità di intenti….ma con Rachele e Claudio artisticamente che rapporto c’è? DP: Per forza di cose il rapporto con Francesco è più assiduo da sempre, perché ci si frequenta di più, si condividono più cose e occasioni. Il nostro modo di lavorare è sempre stato quello di trovarci da lui, magari dopo un buon pranzo, metterci al piano e via per un pomeriggio bello intenso a creare e produrre. Quasi sempre si parte da una cellula melodica, da un giro di accordi, improvvisando, a volte pensando a dei modelli che cambiano a seconda di cosa si vuole raccontare. I momenti che preferisco sono quelli in cui si parte da zero, senza sapere dove andare, con una parola o un’immagine in testa a far da guida e stop. Anche con Rachele è capitato, anche se più raramente, di lavorare insieme. Penso alle sessioni di scrittura di La musica sinfonica. Rachele ha questo gusto pazzesco nel costruire le armonie che mi esalta parecchio. Con Claudio finora ci sono stati meno momenti di condivisione più per la distanza geografica che altro. Ma prima o poi una bella session di scrittura in studio sarebbe proprio da farsi. Parliamo spesso di fare un disco così, da band chiusa in studio in campagna per un po’. Chissà, magari al prossimo giro… MS: Quando penso al Bianconi autore di canzoni penso a uno, mi ripeto, che ha delle cose da dire ma penso anche e soprattutto che lui sia uno bravo e con bravo intendo uno di livello, uno che ha qualcosa in più….non è solo lo scrivere o musicare bene….questo una visione dell’insieme ce l’ha ed è più profonda di quel che sembri…che ne pensi? DP: All’inizio di un nuovo capitolo Francesco è sempre quello che ha la visione, il concept, la narrazione. Poi le cose si evolvono, la musica si precisa con gli interventi di Claudio e Rachele che sono una fucina di idee musicali. Francesco è bravissimo a raccogliere tutti questi input e frammenti e collegarli insieme come se fossero le sequenze di un libro o di un film. Dico sempre che è un po’ come il regista, quello che si pone il problema della continuità e della coerenza del copione nelle sue articolazioni e nel complesso. E ti assicuro che per seguire un processo di questo tipo, con così tanti elementi e anime in gioco, ci vuole una grande determinazione, una certa chiarezza intellettuale oltre che disciplina e metodo. È forse
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la cosa che ammiro più di lui, anche perché sono uno che è più soggetto a distrarsi e perdersi per via. MS: Infine due domande su di te …..tre anni fa hai dato alle stampe il tuo primo e per ora unico disco solista “Prima” c’è in programma qualcosa di tuo a breve ? DP: Fra il 2015 e il 21016 ho sentito che era giunto il momento giusto per dedicarmi a qualcosa che nascesse da un’esigenza diciamo “privata”. I tempi erano maturi. La tecnologia lo permetteva. E ho trovato in Giacomo Carlone, già batterista degli Egokid, il complemento ideale, e direi indispensabile, per fare questo passo. “Prima” è stata una parentesi, un momento di passaggio che forse ho saputo sfruttare troppo poco. Adesso che ho un po’ più di tempo Giacomo e io abbiamo ripreso i fili di quel discorso. Stiamo lavorando da qualche mese a del nuovo materiale per un disco, o per un paio di Ep o forse solo una sequenza di singoli killer da far uscire nel corso dell’anno ah ah ah. Non so dirti molto di più perché tutto comincia a muoversi e definirsi solo ora. Posso dirti però che non sarà “il nuovo disco solista di Palazzo”: il progetto ha ormai assunto la fisionomia di un duo, una specie di act alla Pet Shop Boys, con l’acceleratore spinto su techno, weird-disco e un suono pastoso low-fi. Si canterà di una Milano un po’ distopica con le movenze di Detroit. In alcune produzione compare anche lo zampino di Benoit Trigari (in arte Treega) che anni fa suonava con noi dal vivo. Come si dice in questi casi: chi vivrà vedrà. MS: Mentre Egokid sono usciti l’anno scorso con “Disco disagio” dopo una pausa di cinque anni, un disco fondamentalmente ben accolto, ben scritto, ben suonato, che ha cose da dire… ma che mi risulta macellatto da tanto pop da sciacquette che gira nelle radio e sui nostri pc….una tua riflessione a riguardo DP: Be’ è difficile fare presa in un mercato che è praticamente tutto votato al gusto dei super super giovani: quel piccolo mercato discografico che è l’Italia. Un attimo e lo intasi subito. Disco Disagio nasceva dall’esigenza del gruppo di rivedersi e suonare insieme dopo una lunga pausa, dettata da situazioni personali complicate. È stato un modo per reagire alla nostra piccola crisi. Ci siamo presi le nostre soddisfazioni a livello artistico, abbiamo detto quello che volevamo dire e come volevamo dirlo. È il primo disco in cui abbiamo veramente suonato come volevamo. Ci abbiamo messo solo quasi 20 anni a capirlo… ah ah. Per il resto non so che dirti sul “pop da sciacquette” come lo chiami tu. Penso che ci sia molto conformismo in quello oggi ci si ostina a chiamare indie. Potrei citare Morissey, e dire quella musica “tells nothing to me about my life”, ma sicuramente parla a molte persone. È un dato di fatto e va bene così. Successo o non successo, artisticamente sono appagato del mio, degli incontri, delle persone conosciute, delle esperienze fatte. Quello che mi interessa al momento è solo continuare a fare ciò che mi piace, come alla fine ho sempre fatto. Se bene o male, lo giudicherà chi ascolta.
EGOKID
MS: Fra i gruppi che mi sono immolato a seguire e consigliati da te su Blow Up ci sono stati i Wild Beasts di Hayden Thorpe e Tom Fleming. Scoperta esaltante e completamente soddisfacente, una “tragedia” lo scioglimento solo parzialmente mitigato da "Diviner" il solista di Thorpe uscito nel 2019. Un tuo commento da giornalista su di loro, così magari qualche nostro lettore se li va a scovare, ma soprattutto secondo te la loro è una sconfitta creativa o il mondo è troppo brutto per capire la bellezza della loro proposta? DP: Ho molto amato il loro disco di esordio. E quello dopo. Diciamo che me li sono un po’ persi per strada quando hanno cominciato a porsi troppo il problema di conformare il loro suono al mainstream autorale inglese. Un po’ come è successo agli El-
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bow per dire. Mi piaceva molto il fatto che avessero due cantanti con due personalità vocali così diverse. Capirai che questa cosa del doppio cantato maschile è un po’ un pallino di famiglia... ah ah. Il loro primo disco rimane un capolavoro dei 2000: post -punk pop fatto con tutti i crismi, un bell’immaginario fra il barocco e la baracca, una versione più gender-fucking degli Smiths. Poi è arrivato il lamento, la produzione elettronica un po’ troppo ripulita, il cantato più lirico e meno schizzato. Diciamo che non ho patito il loro scioglimento. Ma ogni tanto quel primo disco lo sento ancora volentieri. Il mondo è quel che è, ma non credo sia colpa sua se le cose finiscono. (MS)
“L’album dei nostri ricordi baustelliani” Scritta fotografata nel secondo bagno, entrando sulla destra, dei sotterranei dell’ Accademia di Belle Arti di Bologna, il 7 Ottobre 2019, giorno della Laurea della Giulia Monte.
BAUSTELLE al Phenomenon a Fontaneto d’Agogna. Il 13 Aprile 2018. (Foto del direttore)
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I POSSIBILISTI
Ma possiamo dire che: i Baustelle sono meglio quando canta la ragazza ? LETTORI RISPONDETE NUMEROSI !!!!!!!
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Capitolo 6
“Memorie del Tour di “Amen” Intervista a Lorenzo Sartirana di Kurt Logan
Lorenzo Sartirana detto “Lorenzone”, ha lavorato per un grosso management milanese ed è stato per molti anni road manager di tantissimi gruppi. Non ha seguito tutte le date del tour di “Amen”, il tour che ha lanciato la band toscana nel 2008, perché poi durante l’anno fu spostato a seguire il tour di Elio e le storie tese, però nella primavera del 2008 ha fatto gran parte delle date dei Baustelle fino all’inizio della stagione estiva. Ho ritenuto importante sentirlo per capire bene dinamiche di palco e lavoro, carpire qualche segreto e soprattutto catturare ricordi di un tour pazzesco. KL: Allora innanzitutto spiegaci quale è il ruolo del road manager e che funzioni svolge… Lorenzone: In poche parole la figura del “road manager” consiste in quella persona che va a prendere gli artisti, vive a stretto contatto con loro e si preoccupa di prenderli e accompagnarli in tutti i luoghi dove la produzione dice che devono andare, hotel, luogo del concerto, camerino, palco, cena dopo l’esibizione. Rispettando gli orari che la produzione detta e cercando di rendere tutto questo il più piacevole possibile KL: Ti ricordi bene il tour di “Amen” dei Baustelle ? Al primo approccio come ti sono sembrati musicalmente e umanamente, li conoscevi già? Lorenzone: Il tour di “Amen” me lo ricordo benissimo. Mi ricordo bene di loro certo, anche se non li conoscevo musicalmente. Era una tournée molto importante per loro perché era la prima sotto una produzione major e quindi di loro mi ricordo che volevano fare bene. Umanamente mi sono sembrati dei ragazzi. Emozionati e semplici. Mi sono trovato bene con loro perché da subito siamo riusciti a instaurare un ottimo rapporto lavorativo e di amicizia. KL: Qualche info che ho raccolto parla di qualche problema musicale di troppo in quel tour, me lo confermi? Che problemi c’erano? Lorenzone: Io ho seguito le prime date, li ho raggiunti a Torino all’Hiroshima, ma non avevo fatto le primissime tre date che si erano tenute nel triveneto. Le info di cui parli non sono sbagliate anche se non ritengo che ci fossero tanti problemi ma uno solo: il fonico. Era un loro amico ed un bravo ragazzo, era sempre stato il loro fonico ma non aveva secondo me l’esperienza necessaria per un tour del genere. Non riusciva a settare bene i suoni dei vari posti dove si tenevano gli spettacoli anche perché una volta capitava un teatro, una volta un club, un’altra volta un posto all’aperto. In questi casi è meglio avere gente di esperienza. Se non ricordo male poi nella seconda parte del tour questa cosa venne aggiustata ma non mi ricordo se lo sostituirono. KL: Descrivici i tre Baustelle….partiamo con Claudio…quieto quieto, ma sul libro di Federico Guglielmi “L’amore e la violenza una storia dei Baustelle”, proprio lui descrive un episodio avvenuto a Rimini un po’, come dire…. euforico… Lorenzone: Sulla data di Rimini non mi pronuncio. Si, Claudio è un bravo ragazzo. Una persona con cui si parla bene e una persona tranquilla. Un padre di famiglia. Lui è un grande artista. Guarda che non mi riferisco al ruolo di musicista nei Baustelle ma è un artista in quanto lui è un costruttore di chitarre, le modifica, le fa e le disfa. Mi aveva affibbiato un soprannome “Masters Of The Universe”….che risate…
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KL: Francesco…..menoso ? sofisticato ? oppure….. Lorenzone: Francesco non è per niente menoso. E’ una persona riflessiva, cosciente e presente. Non è uno se si lascia molto andare al divertimento, è una persona concentrata sul suo lavoro e sul suo ruolo di artista. Pienamente cosciente e presente sui doveri che il ruolo di artista impone. Ti racconto un aneddoto su di lui, mi ricordo che ad Ancona eravamo andati a fare un giro nella piazza e a bere qualcosa in tutto relax. Ad un certo, qualcuno lo riconosce e un fan gli si avvicina. Questo è uno di quelli che hanno un atteggiamento goliardico e tendono a dire cose in maniera provocatoria, per attirare l’attenzione. Io lo noto subito e sto in guardia perché è il mio lavoro ma Francesco no. Francesco si mette a discutere con lui, non lascia correre. Lui è uno che discute e ragiona fino a quando non riesce a farti presente tutte le ragioni del suo punto di vista e non viene a capo della discussione. E’ uno a cui piace usare il cervello. KL: Rachele ……brava, bella…misteriosa…intrigante….raccontacela tu…. Lorenzone: Brava e bella certamente. Misteriosa e intrigante non saprei, mi sa che la vedete voi così. Nel senso che magari da fuori trasmette quelle sensazioni. Avendola conosciuta posso dirti che quando sei con lei instauri subito un rapporto di amicizia talmente diretto che sembra quasi una tua amica d’infanzia. E se posso andare oltre posso dirti che Rachele è una di noi. A lei piace stare fuori, divertirsi. In quel tour io l’ho conosciuta come una persona sempre sorridente…ci siamo fatti un sacco di risate con lei veramente. KL: E degli altri musicisti di quel tour che ci racconti? Sergio Carnevale, Alessandro Maiorino, Nicola Manzan Lorenzone: A certo me li ricordo bene, tutta brava gente, Maiorino era un bassista molto professionale e puntuale. Manzan è un grandissimo personaggio, un polistrumentista fuori di zucca che teneva alto il morale della truppa. Ancora mi sento con lui che chiamavamo “il Manzo”. Sergio Carnevale era il batterista dei Bluvertigo e la prima impressione che ho avuto è che fosse sofisticato, in realtà si è rivelato un amico con cui ci vediamo e ci sentiamo puntualmente. Figurati che durante il tour ad un certo punto si è messo a darmi una mano, perché l’appuntamento per il gruppo era importante, c’era un po’ di inesperienza, e lui aveva qualche anno in più di noi e buoni consigli da dare. Mi ha dato una mano su certe delle cose della produzione che da fuori sembrano non contare. E’ per questo che ci sentiamo ancora. KL: Hai qualche episodio che si possa raccontare che renderà questa intervista memorabile? Lorenzone: Memorabili no…direi l’episodio di Ancona con Bianconi e il fan mi fece pensare molto a che tipo era Francesco e quindi a che persona avevo davanti. Una cosa curiosa che mi capitò in quel tour è che la produzione mi chiese espressamente di creare un distacco netto tra i tre Baustelle e gli altri musicisti. Cosa che disattesi perché non è il mio modo di lavorare. Una cosa strana che non mi è mai più capitata.
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Capitolo 7
“SUSSIDIARIO ILLUSTRATO DELLE EMULAZIONI” Guida a tutte le appropriazioni più o meno esplicite della band di Montepulciano
di Lewis Tollani Con il volgere del millennio i Pulp si dissolvono e dopo qualche tempo Jarvis Cocker si lascia crescere la barba... Bianconi, stranamente, di lì a poco farà lo stesso. Estetica, struttura della formazione, tematiche ed immaginario, impostazione vocale, grafica delle copertine, finanche il font usato durante i concerti; fanno dei Baustelle (per molti) un'ottima “cover-band” del gruppo di Sheffield; ma non solo, ci sono continui riferimenti ed “omaggi” (come Bianconi avrà a chiamarli) alla musica indie britannica degli anni 90, ma anche dei primi 00, con gruppi a loro contemporanei, come tanto per non fare nomi Kings Of Convenience; senza peraltro disdegnare incursioni anche negli 80, sempre dalla Perfida Albione. Ma andiamo con ordine. I prodromi di questa avventura si possono riscontrare già nelle note di copertina del primo omonimo demotape del 1995 che recita: “attenzione: leggere soltanto mentre ascoltate dalla cassetta. Grazie. Francesco”, tipico messaggio che i Pulp erano soliti lasciare nei loro dischi fin dala fine degli anni 80. Ma una citazione è pur sempre e solo una citazione. Sulla struttura della formazione, ci sono ben poche cose da sottolineare ed ancor meno dubbi, con Rachele alle tastiere ed ogni tanto alla voce, così come Candida Mary Doyle oltremanica. Ma una formazione è pur sempre solo una formazione. Nel 2000 i Baustelle danno alle stampe il loro esordio su lunga distanza, quel “Sussidiario Illustrato Della Govinezza” che già a partire dall'immagine di copertina “omaggia” i Pulp di “Common People”. Ma non si fermano qui, assolutamente, la struttura di molti brani del disco (e di quello successivo, “La Moda Del Lento” 2003) sono tipicamente “pulpiani”, nelle atmosfere, nelle strutture e soprattutto nel cantato forzatamente “teatrale” di Bianconi a scimmiottare quello di Cocker, con sussurri e gridolini compresi, a cantare di un'umanità desolata, piuttosto volgare, squallida, fatta di estremo provincialismo, droghe ed una quotidianità popolata di “losers”; temi che riempiono i testi di Cocker fin dai primi lavori nella seconda metà degli anni 80, con l'accortezza di sostituire personaggi famosi inglesi con altri molto più vicini alla cultura nostrana, se non addirittura formativi per suddetta cultura, come il “povero” De André (troppo) spesso tirato in ballo da Bianconi, o come anche Battiato. Si ma sono solo coincidenze... eh certo, “La Canzone Del Riformatorio” che inizia come “Common People” e nel ritornello cita pedissequamente quello di “Disco 2000” sono solo coincidenze. Ma una canzone è pur sempre e solo una canzone. Come detto, gli omaggi non sono solo indirizzati alla band di Sheffield, ad esempio gli scozzesi Belle And Sebastian sono molto più che presenti in tutti i lavori dei Baustelle, tanto da dedicargli pure una copertina in stile, quella del disco che li lancerà nello stardom della musica italiana, quel “La Malavita” del 2005
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con la hit “La Guerra E' Finita”, in tutto e per tutto un brano à la Belle And Sebastian di Stuart Murdoch (altro idolo/ossessione di Bianconi) che in formazione avevano addirittura due ragazze, Sarah e Isobel (prima di lasciare per una discreta carriera solista); e come dimenticare i nord-irlandesi The Divine Comedy, progetto più o meno solista di Neil Hannon, altro artista che non penso sia passato inosservato al “nostro” Francesco, sia da un punto di vista musicale, che da quello estetico. Ma un omaggio è pur sempre e solo un omaggio. Tre anni dopo, nel 2008, esce “Amen” il lavoro che li conferma come gruppo di punta della nuova scena indie italiana, qui cercano (riuscendoci anche abbastanza) ad affrancarsi dall'ingombrante presenza di Jarvis e soci, ed anche i testi di Bianconi si fanno più crudi, arrabbiati ed arroganti, eliminando totalmente la vena comica ed ironica dell'illustre collega inglese, fase che svilupperanno per i successivi 6/7 anni (con tre dischi in studio ed uno dal vivo). Ah dimenticavo, la copertina di “Amen” credo che sia più che un semplice omaggio a quella del disco omonimo dei La's di Lee Mavers e John Power del 1990, gruppo di Liverpool fondante e fondamentale per la nascita e soprattutto per lo sviluppo di quello che di lì a poco diventerà il “Britpop”, alla pari dell'omonimo dei mancuniani Stone Roses dell'anno precedente. Ma una copertina è pur sempre e solo una copertina. Ma il primo amore non si scorda mai e nel 2017 ritornano prepotentemente alla ribalta con l'album “L'Amore e La Violenza” anticipato dal singolo (e relativo video) “Amanda Lear”, che tolti la vernice fosforescente ed i lustrini popedelici del titolo, sembra proprio un remix molto ben confezionato di “Disco 2000”, ma un anno più tardi riscono a fare anche di meglio, esce “L'Amore E La Violenza Vol. 2” con il brano-traino “Veronica N.2” che rappresenta l'apice assoluto del citazionismo di Bianconi per il suo gruppo preferito, dove la canzone è in tutto per tutto strutturata su “Babies” dei Pulp (anche qui usiamo il termine remix, che copia o plagio sono scorretti ed esagerati) della quale il video ne è un nemmeno malcelato remake. Il nostro incalzato sull'argomento si limiterà a dichiarare, laconico e distaccato, per non dire infastidito “è solo “un omaggio” alla band inglese di Jarvis Cocker”. Ma un remix ed un remake sono pur sempre e solo un remix ed un remake. Arrivati a questo punto, il fatto che l'outfit di Bianconi sembri identico a quello di Jarvis Cocker ed il carattere al neon usato alle spalle del palco nei concerti dai Baustele sia identico a quello dei Pulp (usare il minuscolo al posto del maiuscolo sembra una finezza e/o una paraculata) sono discorsi da trasmissione televisiva pomeridiana e generalista, in caso che la famosa “casalinga di Voghera” fosse anche solo minimamente interessata a detti argomenti. Ma una giacca è pur sempre e solo un giacca.
“Ci siamo incrociati nei bagni di un concerto di Richard Hawley a Londra, ma non è questo il legame. Lui ha una ottima scrittura pop nel senso più complesso ed elegante.” Francesco Bianconi
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Discografia essenziale più o meno ragionata “Attenzione: ascoltare soltanto mentre leggete. Grazie. Lewis.”
Pulp – His 'n' Hers – Island Records 1994 Pulp – Different Class – Island Records 1995 Pulp – This Is Hardcore – Island Records 1997 The Divine Comedy – A Short Album About Love – Setanta 1996 The Divine Comedy - Fin De Siècle – Setanta 1998 Belle And Sebastian – Tigermilk – Electric Honey 1995 Belle And Sebastian – The Boy With The Arab Strap – Jeepster 1998 The La's - The La's – Go! Disc 1990 The Stone Roses – The Stone Roses – Silvertone 1989 BMX Bandits – Life Goes On – Creation 1993 The Pastels – Mobile Safari – Domino 1994 The Vaselines – Dum-Dum - 53rd 6 3rd 1989 Tindersticks – Donkeys 92 - 97 – Island/This Way Up 1998 Arab Strap – Elephant Shoe – Go! Beat 1999 Geneva – Further – Nude Records 1997 Unbelievable Truth – Almost Here – Virgin 1998 Catherine Wheel - Adam And Eve – Chrysalis 1998 Kings Of Convenience – Quiet Is The New Loud – Source 2000 The Last Shadow Puppets – The Age Of The Understatement – Domino 2008 Saint Etienne – So Tough – Heavenly 1993
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Capitolo 8
“ ...VOGLIO IL CIUFFO DI DE ANDRE’ ” Le canzoni di Fabrizio De André che potrebbero aver ispirato la poetica bianconiana
di Angelo Monte Franco Battiato e Fabrizio De André. Due piloni della musica italiana degli ultimi cinquant’anni, che sono stati e sono tuttora, fonte d’ispirazione per Francesco Bianconi. Ma se quella del maestro siciliano è un’ispirazione più sottotraccia, quella del poeta ligure è più esplicita. E mai negata. “Voglio il ciuffo Di André….il tabacco di De André….Voglio essere Gainsbourg” cantava Bianconi nell’ultimo pezzo de “Il Sussidiario….” ed ora che “Il bene” e “L’abisso”, i singoli che hanno anticipato per “Forever”, il primo disco solista del leader dei Baustelle, ce lo presentano in una versione ancora più ispirata a Faber, ho scavato nel repertorio del “mito” per trovare qualche storia maledetta che può essere stata fonte d’ispirazione per il giovane Francesco. Nel molto che ho trovato ecco quello che ho scelto, imponendomi la scelta di una sola canzone per disco, fra quelli ufficiali ed escludendo i live, anche per dimostrare una continuità disperata, cruda ma anche tragicamente ironica, nell’opera di Fabrizio De André. Photo by Official Facebook Page
"Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità di verità" Per raccontare e capire la narrazione di De Andrè bisogna partire da qui, dalla sua ultima canzone del suo ultimo disco “Anime salve”. La canzone è “Smisurata preghiera” ispirata alle opere del grande scrittore colombiano Alvaro Mutis e al suo personaggio principale Maqroll il gabbiere. Mutis autore della disperanza durante uno dei suoi incontri con De Andrè gli riconobbe un talento straordinario nel sintetizzare un'intera opera letteraria in una sola canzone, aggiungo che questa sintetizza come nessun'altra l'intera opera e vita di Fabrizio De Andrè. Perché cosa è stato lui nei suoi lunghi anni di cantautorato e di poesia se non un servo disobbediente, uno che ha viaggiato in direzione ostinata e contraria. Cantore di quella speciale disperazione che si portano attaccati come una seconda pelle i tossici, i reietti, le puttane gli ultimi che De Andrè ha da sempre raccontato e umanizzato nelle sue canzoni per rendere giustizia agli ultimi e consegnare alla morte una goccia di splendore di umanità e di verità. Ripercorrendo a ritroso il filo invisibile che collega “Smisurata preghiera”, che a ragione può essere considerata il suo testamento spirituale, alle canzoni iniziali in un viaggio ideale a tappe che inizia nel 1967 con “Via del Campo” la strada dei travestiti di Genova i primi esclusi dalla società benpensante di allora come di oggi, canzone d'amore meravigliosa con quelle due strofe finali tanto citate e famose "dai diamanti non nasce niente dal letame nascono i fior" e il fiore può essere anche un femminiello, come vengono chiamati a Napoli, che sta al primo piano del Paradiso che "ama e ride se amor risponde e piange forte se non ti sente." Da “Via del Campo” il filo prosegue fino al “Cantico dei drogati” un altro un canto disperato di rimpianti, dolore e affetti lontani. Lo slancio lancinante verso quel buco che altro non era che il tentativo di riempire il proprio vuoto interiore. Queste sono le persone che racconta Fabrizio, drogati, ultimi, esclusi, un'umanità che brancola nel buio in cerca della luce e spesso vittima del proprio cammino come Marinella che muore proprio nel momento in cui scopre l'amore, "Marinella volata in cielo su una stella e che come tutte le più belle cose è vissuta solo un giorno come le rose", canzone fra le più belle e famose della storia della musica italiana che é anche uno spartiacque nella carriera di Fabrizio De Andrè. Portata al successo da Mina proprio nel momento in cui Fabrizio, dopo 7 anni di tentativi senza risultati pratici, aveva ormai deciso di finire gli studi in legge e accantonare la carriera musicale. Con i proventi SIAE della canzone continuò a scrivere e a cantare. E scrisse quello che da molti è considerato uno dei suoi capolavori, “La buona novella”, disco nato da una lettura dei vangeli apocrifi e anche qui Fabrizio De Andrè desacralizza e umanizza i protagonisti della più incredibile storia mai raccontata. Ne “Il ritorno di Giuseppe”, si parla del ritorno a casa del falegname che subito dopo il matri-
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monio con Maria partì e stette fuori dalla Giudea per 4 anni. Al suo ritorno trovò Maria incinta. Maria gli corse incontro e gli buttò le braccia al collo e piangendo gli raccontò di aver fatto un sogno e in questo sogno di avere incontrato un angelo del Signore "e a te che cercavi il motivo d'un inganno inespresso dal volto, lei propose l'inquieto ricordo fra i resti d'un sogno raccolto." Vale la pena ricordare, a differenza di quanto ufficialmente è stato sempre raccontato e iconograficamente rappresentato, che Maria era poco più che adolescente e Giuseppe un vecchio falegname con molti figli. Il viaggio prosegue e arriva al 1971 e a quello che per me rimane il disco più bello di Fabrizio de André, “Non al denaro non all'amore né al cielo”, liberamente e meravigliosamente tratto dall'antologia di “Spoon River” di Edgar Lee Masters e magnificamente tradotto da Fernanda Pivano. La canzone scelta da questo disco non poteva che essere “Un matto”, lo scemo del villaggio, e in ogni paese ce n'è uno quello sui cui la gente scarica le proprie frustrazioni e cattiverie. "Tu prova ad avere un mondo nel cuore e non riesci ad esprimerlo con le parole.” Un matto, che forse e spesso altri non è che una persona sensibile fragile e sola che vuole essere solo accettata nel gruppo ma che la crudeltà del branco spinge alla follia e da lì al manicomio fino a rimpiangerne l'assenza... "ma la vita è rimasta nelle voci in sordina di chi ha perso lo scemo e lo piange in collina." E si arriva al disco più politico di Fabrizio De Andrè, “Storia di un impiegato”, il 68, la ribellione, il Maggio francese, alla bomba lanciata “Al ballo mascherato”. L'impiegato, lo sfruttato, sogna di far saltare tutti i simboli del potere durante un ballo in maschera dove i potenti nascondono il loro vero volto e le loro intenzioni, e la vera natura è nascosta dietro una facciata. Tutti gli idealismi saltano in aria compresa la famiglia e il ruolo del padre e della madre nella sua vita. L'amore non corrisposto e il pentimento finale dell'amata sono cantate nella “Ballata dell'amore cieco”. Un uomo disposto a tutto pur di avere il suo amore, arriva a tagliarsi le vene come prova ultima del proprio amore, il sacrificio finale di una vita consumata a rincorrere un amore crudele che non ha nessuna possibilità di redenzione ma solo rimpianti. Il 1975 è l'anno di Fabrizio De Andrè “Volume 8” e della collaborazione con Francesco De Gregori e della canzone “La cattiva strada”, a mio parere una delle canzoni più autobiografiche di Fabrizio De Andrè ma anche una poesia visionaria ispirata da quelli che sono alcuni dei maestri di Fabrizio, Leonard Cohen, Dylan Thomas lo stesso Bob Dylan ma soprattutto ci vedo molto lo stile narrativo di De Gregori. E il nostro viaggio arriva a “Rimini” e qui lo confesso, ho un debole per questa canzone, ascoltandola mi innamorai perdutamente di Fabrizio De André e della sua voce, la voce che lui usa per cantare la storia di "Teresa che ha gli occhi secchi e guarda verso il mare" la storia di un aborto frutto di un amore effimero della durata di un'estate in quella Rimini che è sia patria del divertimento ma anche malinconia e solitudine che portano Teresa a sognare di incontrare Cristoforo Colombo e ritrovarsi a Venezia seduta al Harry's Bar desiderosa di avventura. E arriviamo al disco che Fabrizio De Andrè scrisse nel 1981 subito dopo Il rapimento suo e di Dori Ghezzi e che continua la collaborazione con Massimo Bubola e porta tutte le cicatrici di quel rapimento ma anche la volontà di capire la genesi e la natura di chi compie un tale atto criminoso. E qui sta tutta la grandezza di Fabrizio De Andrè che, neppure di fronte ai propri rapitori, vede venir meno la sua umanità e voglia di capire. “Se ti tagliassero a pezzetti” è una canzone sulla libertà che nessun uomo riuscirà a distruggere definitivamente ciò che la natura ha instillato in ogni individuo. Il giorno dopo la sua liberazione Fabrizio De André disse al TG "i veri sequestrati erano loro che stanno ancora là mentre noi siamo qua liberi a fare una vita normale." Il viaggio lentamente si avvicina alla fine al “Le Nuvole” e alla “Domenica delle salme”, il giorno della caduta del muro di Berlino, la fine del Comunismo e il sogno utopico di una società più giusta per tutti con l'illusione che l'entrata nella società occidentale avrebbe risolto ogni problema. Il filo partito nel 1967 con “Via del campo” è arrivato a conclusione con la canzone che apre questo lungo racconto, quella “Smisurata preghiera” che possiamo considerare come il contenitore di tutte le canzoni, i personaggi, i drogati, le puttane, gli innamorati respinti e delusi, i vinti, gli sconfitti, gli ultimi, che Fabrizio De Andrè ha sempre raccontato nella sua vita e nella sua arte e come concludere questo pezzo se non con le parole ultime di questa meravigliosa e “Vera poesia” che è “Smisurata preghiera”. "Ricorda signore questi servi disobbedienti alle leggi del branco, Non dimenticare il loro volto che dopo tanto sbandare e appena giusto che la fortuna li aiuti come una svista come un'anomalia come una distrazione come un dovere." (AM) # 1 - “VIA DEL CAMPO” da “Vol.1” # 2 - “LA CANZONE DI MARINELLA” da “Vol.3” # 3 - “CANTICO DEI DROGATI” da “Tutti morimmo a stento” # 4 - “IL RITORNO DI GIUSEPPE” da “La buona novella” # 5 - “UN MATTO” da “Non al denaro non all’amore né al cielo” # 6 - “AL BALLO MASCHERATO” da “Storia di un impiegato” # 7 - “BALLATA DELL’AMORE CIECO” da “Canzoni” # 8 - “LA CATTIVA STRADA” da “Vol. 8” # 9 - “RIMINI” da “Rimini” # 10 - “SE TI TAGLIASSERO A PEZZETTI” da “Fabizio De Andrè” (L’Indiano) # 11 - “LA DOMENICA DELLE SALME” da “Le Nuvole” # 12 - “SMISURATA PREGHIERA” da “Anime Salve”
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Capitolo 9
Il Cineterapista
“Una fumata di BAUSTELLE” di Mauro Giovanni Diluca Una terapia si basa sull'osservazione e la comprensione di segni e sintomi finalizzata a una diagnosi, a cui segue valutazione delle disponibilità curative per concedere sollievo (eventualmente cura) al paziente. Noi cinterapisti di WN procediamo così: cerchiamo le specificità cinemusicali, le ridondanze, che raccontano del paziente e dei suoi loop. Poi tentiamo di sintonizzarci e, parlando di un cinema che gli si avvicina, risuonare. Infine, consigliamo una cura che è una variazione sul tema; proposte di visione collegate al paziente che possano aprire nuovi spazi e portarci oltre. E che, soprattutto, sono una scusa per parlare di un cinema, o anche di un solo film, che ci piace.
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UNA FUMATA DI BAUSTELLE Avrete intuito dalla copertina della rivista che non state leggendo Nature. Dunque, non troverete un'anamnesi su solide basi scientifiche. Ci faremo bastare ciò che il nostro direttore ha scritto nel momento in cui ci ha assegnato il caso e le successive due giornate di iniezioni musicali al nostro staff. Sollevati da qualsiasi pregiudizio, in ascolto libero e in assenza di velleità risolutive, da perfetti sconosciuti reciproci quali eravamo, proveremo infine a dare qualche spunto terapeutico. Detta con le parole di Bianconi, ci faremo una bella fumata con stile.
A UN PRIMO SGUARDO... Baustelle è un gruppo di mezza età, cultura universitaria, ricercato nelle liriche e molto poco espressivo dal punto di vista facciale. Radici anagrafiche musicali negli anni '90. Si presenta con parole e movenze da cultore dell'estetica (quella filosofica). Il frontman Bianconi, in particolare, appare un tipico dandy, sopra le ri-
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ghe “La solitudine è stile di vita per me / quando mi stanco di chi mi giudica un cantante fra le nuvole / allora succede che torna la nausea” (La moda del lento), asociale “Che brutta storia esser liberi dentro / solitudine di corridoi”, vive il destino solitario di chi si ritiene abbastanza coraggioso da guardare il mondo con spietata lucidità, una lucidità di stampo materialista e nichilista dove “Tutto è niente / L'Essere è / Sotto il Sole / Colpevole” (Il nulla).
CHE COS'E' L'AMORE Ce n'è tanto di amore, si nota subito, nelle canzoni dei Baustelle. Amore importante ma del tutto effimero e inaffidabile. Come via di fuga dalla solitudine lucida ci cui sopra, l'amore rappresenta un momentaneo sollievo. Dove c'è amore, c'è sesso, spesso un po' di violenza e, soprattutto, dall'altro lato della medaglia, c'è la morte, come luce che non può che stendere ombre (vedi dopo). La nostra finitezza ci inchioda all'assenza di senso nel progettare un futuro. Ci porta, come nella canzone (nostra preferita) “Monumentale”, a scoprire un cimitero antico, pieno di miti e di storie, un luogo bandito e già morto, in centro a Milano, che ci permette di amare “Quindi lascia perdere i dibattiti, / la re-
te, i palinsesti / per un giorno non studiare, / non chattare, ma piuttosto / stringi forte chi ti ama, / fra le mute tombe del Monumentale, / non c'è Dio e non c'è male, / solo vaga oscurità / […] I camposanti non hanno rimpianti, / sei tu che li covi, li rendi fantasmi, / li canti per sentirne meno la mancanza, / come non bastasse l'esistenza e l'eco che fa. / […] stringi forte chi ti vuole bene / tra le tombe del Monumentale, trovi Dio, trovi Montale, ed un'opaca infinità.” Ed è solo nel mito (vedi dopo) che l'amore non morirà.
QUI E ORA
Mummificato in un “Diorama” perchè “solo il culmine di vite singolari / non c'è il prima e non c'è il poi”, Baustelle scansa il futuro, non crede nella stabilità e nel progetto. Dove l'amore si stabilizza...diventa altrimenti sogno, mito, o pellicola. Come Photo by Gianluca Moro un recitante Alain Delon, o uno Spietato, eroe del West (vedi dopo), sospeso in una scena di Godard, il presente è fuga che rompe con il passato per il semplice fatto di scoprirsi vivente e desiderante, spezzando, con la sola apparizione di sè, il formalismo di certa ideologia che si parla addosso.
RIMUGINA A proposito del parlarsi addosso, il gruppo capitanato da Francesco Bianconi presenta sintomi di abbondante rimuginazione nelle liriche, nei simboli e negli scenari richiamati (https:// www.stateofmind.it/2017/02/rimuginio-ruminazione-psicologia/). Un vocabolario vasto, parole d'impatto mai scelte a caso, generano visioni umane terribili, ripetute e senza scampo; a peggiorare il tutto, si canta e si suona indossando maschere, monoespressive: il risultato è che le parole arrivano sempre a stridere molto con le sonorità pop della musica, spesso scanzonate, addirittura ballabili e quasi allegre. L'effetto straniante è garantito.
TRA PANICO E BRASILE Prima o poi l'acqua tracima e... cucù, si naufraga. Baustelle ha avuto esperienza, come molti, di “Panico” “Fottere tutto e naufragare / Mettere gli stivali e farli andare / Correre per non arrivare / Amare il rogo,
amare il suo bruciare / Una canzone nata contro il panico / Un esorcismo, un tocco di voodoo / Un modo per allontanare il baratro / Senza ansiolitici, senza lo Xanax”, dimostrando di essere riuscito a coglierne il
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richiamo selvaggio, in senso psichiatrico (leviamoci lo Xanax) ma anche antropologico (Pan, il fuoco). La dimensione antropologica in altri testi però è tenuta più distante. Ad esempio, “Il Brasile lo invento” (Cin Cin) forse perché non lo sento (come me lo aspetto, almeno), non c'è, allora me lo immagino, e lo suono, lo scrivo; per riuscire a andare avanti, ballare, vivere, insomma, ci vuole il rimedio dell'arte “E' necessario vivere / Bisogna scrivere / All'infinito tendere / Ricordati Baudelaire” (Baudelaire).
MORTE, E COMPAGNIA CANTANTE Senza intento costruttivo o progetto, viviamo in fuga panica, corriamo in un presente che costeggia il baratro. La fine. Irretito dalla morte e dalla sua controparte “In ogni morte trovo che un po' d'estate in fondo c'è / In ogni estate trovo che in fondo un po’ di morte c’è” (“Reclame”), Baustelle canta di chi “prima ancora di soffrire / era già in putrefazione” (“Betty”), discorso che torna in “L’estinzione della razza umana”, quando noi, come diceva un altro Francesco, non ci saremo: “Tornerà la terra / Follemente bella / Dopo
l'estinzione della razza umana / Senza di noi / Un'era disumana sarà / Nessuna pestilenza verrà / Ad inquinarci mai / Ci spazzerà / La nostra proverbiale viltà / Saremmo avvolti dalla foschia”. E poi la scelta del morire di “La guerra è finita / Per sempre è finita / Almeno per me" (La ragazza del supermercato); il suicidio incazzato e sexy di “Revolver” “faccio sesso col revolver / sparo / giuro / E non ho più niente / non piango più / non voglio più / altro che freddo / dimentica /e scordami / E non ho più niente / non piango più / ti dedico / la mia vendetta / e un buco di proiettile” e l'enorme impatto che lascia su chi resta perchè chi l'ha ucciso “siamo io e te/ Io che l'ho tradito e tu che sei stata amica” (“Perché una ragazza d'oggi può uccidersi”). La colpa, un sentimento che da occidentali conosciamo bene. Dal boom economico in poi ha la particolare crudeltà di illuderci che tutto potremmo, tutto sappiamo di tutte le ingiustizie del mondo, ci sembrano così vicine eppure...non possiamo nulla, o quasi, perlomeno visibilmente. Sentirsi inutili e colpevoli, pietosi e traditori nella propria impotenza. Chi a cambiare ci ha provato, come Pasolini (vedi dopo), è stato “ammazzato per te” (Baudelaire). E all'ingiustizia si collega un altro tema, forse quello più terribile e al tempo stesso caratterizzante.
LA VERITA' (...E IL CINEMA) Dov'è la verità? Può esserci, verità? Nel momento in cui, vivendo, mettiamo un passo dopo l'altro e ci immaginiamo il prossimo, per un nichilista come Bianconi, entriamo in un copione e recitiamo una parte (“Cinecittà”). E' solo nella finzione dell'arte, o nel mito, come già detto, che la verità non morirà (come ne “Gli spietati” o come per “Colombo” che scoperchia le vergogne dei ricchi e potenti). Tra queste forme di finzione non a caso affascina il cinema, una forma espressiva che prende la materia Photo by Gianluca Moro reale (vera?), fotografica e luminosa, la sintetizza e la reimpasta, come un estrattore d'anima; eccolo, il lavoro dell'arte. Il cinema richiamato, sognato, dai Baustelle è, prima di tutto, tanto. Perché la dimensione del sogno è una delle parole chiave del loro progetto artistico e del paroliere e musicista Francesco Bianconi. Tra i vari cinema citati (nouvella vague, b-movie cannibali, Fellini, Pasolini, Argento, Oshima, Delon, Western e soprattutto Western all'italiana, Caligari, e Sandokan e il tenente Colombo per la tv, per la ricerca estetica sulla morte e la violenza, certo ruvido cinema orientale) ci soffermiamo un po' sul Western e Pasolini.
PASOLINI Pier Paolo Pasolini osservava il mondo che cambiava
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Pier Paolo Pasolini
un po' come Francesco Bianconi in “Il liberismo ha i giorni contati” - “Vede la Fine / In metropo-
litana / Nella puttana che le si siede a fianco / Nel tizio stanco / Nella sua borsa di Dior / Muore il Mercato / Per autoconsunzione / Non è peccato / E non è Marx & Engels / E' l'estinzione / E' un ragazzino in agonia / Vede la Fine in me / che spendo soldi e tempo / in un Nintendo / dentro il bar della stazione / e da anni / non la chiamo più”. Ascoltando “Canzone della rivoluzione” “Il mio Amore è muto e parla solo coi corvi / I profeti e il sindacato non lo ascoltano più / ragazzini attenti, non battete le mani / col cianuro nei sogni / la visione si sgonfia e cade giù”, San Francesco, il corvo (con l'immortale “Uccellacci e uccellini”) e la vita violenta sono punti in comune molto forti tra “Mistici dell'Occidente” di ieri e di oggi. Pasolini subiva una disperata vitalità che non trovava spazio nel mondo in transizione sulle ceneri di Gramsci “Sono andato / Sono ancora qui / Huckleberry Finn / Sono la vita violenta / San Francesco / Si diventa” e inveiva contro il proletariato che tradiva le sue origini (appunto, le ceneri di Gramsci...), impegnato ormai a scimmiottare la borghesia, le sue alienazioni televisive, e a deprimersi con la condanna del consumismo di massa. I corpi e la sessualità dei giovani impiastricciati (e impasticcati) di conformismo borghese sono quelli di “Bambolina” “Cristo delle Peggio Borgate / delle Vite Sprecate / buon Dio dell'Estate / accendi un bel fuo-
co / brucia la modella smagliante / sul cartello gigante / e il suo triste sesso / sia fine a se stesso”.
WESTERN “Accendi un bel fuoco”: fuoco, la parola più pronunciata in un solo genere cinematografico. E il fuoco ci parla di ribellione e rivoluzione. Ecco uno dei mali dell'oggi; esaurita la dialettica di origine marxista della controparte, il nemico (di classe, generazionale, culturale), tutto fa brodo, si guarda al confine esteriore, all'amor patrio come “speranza” di salvezza. Come nei film western, la frontiera da conquistare, l'Occidentale in Occidente da colonizzare, il mito e il selvaggio. E finisce che la rivalsa, allora, arriva nei confronti del nemico sbagliato, come lo sfregio alla più bella della scuola della “Canzone del riformatorio” “La paura mi portava via la libertà di non amare”. Nel western gli sfregi si sprecano, i duelli di Sergio Leone sono un'apologia della morte, unica vincitrice. Nella storia, il 99% delle persone è vittima. Il bene (la verità, la giustizia) non esiste. Non che manchi (come del resto negli affreschi storici di Sergio Leone) la denuncia; in “Spaghetti Western” il west è la campagna foggiana in cui la violenza “dei nostri imprenditori esperti” porta in tavola un pomodoro buono, italiano (!), a portata di tasca. Il punto è che “Il mondo va così”, quindi “magrebino” taci e “Porta la tua donna che la scopa il capo / Se vuoi lavorare”. Insomma, è una merda, rassegnati.
Amore e morte in Sergio Leone
QUALCOSA CAMBIA LASCIA ANDARE Con l'album “Fantasma” qualcosa cambia. Lo sguardo si mantiene disincantato e brutale ma non infierisce più sull'impotenza colpevole e la crudeltà delle cose. Anzi, forse, può trasformarsi in accettazione e, infine può (persino) ger-
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mogliare. Questo lasciare andare, a ben vedere, traspariva già nell'album “I mistici dell'occidente”. Nella canzone “L’Indaco”, in particolare: “Non angosciarti più / Che bisogno c'è? / Quando partono le rondini /
Lasciale andare / Non domandare più / Che ragione c'è / Quando passa il carro funebre / Fallo passare / E non buttarti giù / Che in fin dei conti c'è /Un azzurro che fa piangere / Oltre le nubi / E non soffrire più / Che in fondo forse c'è / Al di là di Gibilterra / un indaco mare” . C'è questo lasciare andare, senza giudicare. Lascia fare, lascia che si faccia, una delega anzitutto, alla Maestra dei Maestri, “La natura” - “Non m'importa di cercare leggi di stabilità / Tolgo la sicura, seguo la natura, forse arriverà / Un tempo dove la diversità amore mio sarà / L'unico modo per mostrare a tutti la felicità / E' la metamorfosi, la sola possibilità / Ne sono sicura, muove la natura e la biologia / Di conseguenza anche nella nostra società / Tutto si trasforma, l'ignoranza, l'arte, la democrazia / Sai cosa penso di noi due? / Sbagliamo a voler resistere / Alle difficoltà, ai cambiamenti / Non lo trovi emozionante ciò che sai che sfiorirà / L'ora dell' ibisco, l'epoca del disco son finiti già / Alla fine è commovente ciò che sai che muterà / Sta nella crisalide l'essenza della vera libertà / Offrendo il corpo ad un bagliore, / Pensando "può non durare, / Essere sole, l'ultima volta, sì, vivo così" / E bacio un seno o una bocca / Pensando "può non durare, / Essere amore, l'ultima volta sì, meglio così".
Grande enfasi sulla trasformazione e l'adattamento, le cui basi psicologiche sono l'accettazione dell'ambivalenza e dei nostri limiti, cioè quello stato di maturità che in psicoanalisi si può anche chiamare posizione depressiva. Ma questo non diciamolo a Bianconi. Lo stesso concetto, forse in modo più trascendente, lo si trova nelle parole de “La morte non esiste più” “Nei tramonti dentro gli occhi tuoi / e lungo i viali di Parigi o di Los Angeles / ritrovo il mondo nei fiori di
campo / e nei passeri se nevica / li vedo campare senza niente da mangiare / osservo Dio, lo lascio fare//. […] La morte non esiste più, non parla più / non vende più mio folle amore / La vita non uccide più i nostri baci / i nostri sogni e le parole// Il tempo non le imbianca più / e non si seccano a lasciarle stese al sole / Stringimi le mani non è niente che la guerra passerà// Certi inverni freddi, certi guai / mi fan paura, prego per restare ancora qui / mi illudo ancora // Poi improvvisamente arrivi tu sorridi e penso che / non ho più timore lascio correre / il dolore non c’è più e niente muore, baby// La morte non esiste più, non parla più / non vende più mio folle amore / La vita non uccide più i nostri baci / i nostri sogni e le paPhoto by Gianluca Moro role // Il tempo non le imbianca più / e non si seccano a lasciarle stese al sole. / Credimi morire non è niente se l’angoscia se ne va // […] Il tempo non le imbianca più / e non si seccano a lasciarle stese al sole / Parlami d’amore nonostante la stagione che verrà”. Queste ultime indicazioni di apertura e cambiamento ci segnano chiaramente (!) il percorso per dischiudere qualche altra porta e provare ora ad assolvere il nostro difficile compito di terapisti.
CINETERAPIA Diversi motivi spingono il nostro staff alla prescrizione che seguirà. Il primo: colui di cui caldeggiamo la conoscenza è un regista i cui suoni hanno la stessa importanza delle immagini (e già questo potrebbe bastare). Lavorare sulla musica ci sembra funzionale per via di quell'ossimoro tra testo e parole baustelliane di cui scrivevamo sopra: lascia pensare a un aspetto analogico (musica) più libero, e quindi esplorabile, di quello digitale (testo). E in effetti, nella musica del gruppo di Bianconi si vive quel divertimento, quel movimento che nei testi è spesso, di contrasto, del tutto assente.
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Come a dire: nel testo, spietato, lucido, ci butto tutta la merda; l'umano in senso storico ed esistenziale, non ha speranza. Nella musica (come nell'amore, quando citato, nei testi), e quindi nel corpo e nella dimensione analogica, c'è sollievo, sospensione, gioia. Il secondo motivo; l'autore che proponiamo è un contaminato e contaminatore per natura; aspetto di per sé curativo, uscire dai confini e adottare differenti punti di vista. Soffre, ama, migra, cambia, si alleggerisce. Come Bianconi poi, è ridondante, e a volte kitsch. Il terzo motivo è il fuoco. Il cinema di questo autore ama follemente la musica, i corpi, il sesso, le donne. E' appassionato e infiammato come pochi altri possono dire. Lo è in ogni fase produttiva, dal casting alla scrittura, dalle musiche (va da sé) alla regia. Concludendo, la prescrizione prende spunto da un'infelicità di fondo che con questa proposta terapeutica può permettersi di sganciarsi dal cupo materialismo in loop dei Baustelle, senza entrare nel territorio del fantastico o dello spirituale, che ci sembra troppo lontano dal mondo della band, ma restando in quella materia invisibile che nessuno potrebbe mai mettere in discussione: la musica.
Tony Gatlif
LA CURA Che si sappia, è l’unico regista rom del mondo. Da quarant'anni anni abbatte pregiudizi raccontando di incontri appassionati al ritmo di musica dal vivo. Tony Gatlif (il cui vero nome è Michel Dahmani), nasce il 10 settembre 1948 alla periferia di Algeri, da una famiglia di gitani andalusi dediti all’arte di strada. A dodici anni, per evitare un matrimonio combinato, scappa di casa, e a sedici è in Francia sulle tracce dei suoi attori prediletti, tra cui il grande Michel Simon (“La passione di Giovanna D’Arco” di Dreyer, “L’atalante” di Vigo). I due hanno in comune una lunga gavetta circense, una carriera come acrobati e, ovviamente, la passione per la recitazione e la settima arte. Leggenda vuole che proprio infilandosi nel camerino dell’attore al termine di una pièce teatrale, il giovane Gatlif ottenga una segnalazione all’impresario e cominci così la sua carriera di attore. Mentre si guadagna il pane recitando in una serie televisiva e studia recitazione (debuttando a teatro insieme a Gerard Depardieu), scrive le prime sceneggiature per cortometraggi. L'attenzione del giovane regista è da principio per la natia Algeria dei Piedi neri e della rivoluzione, tema ancora scottante per il pubblico francese dell'epoca. “La terre au ventre” (1978), il suo secondo lungometraggio, è il racconto tutto al femminile della guerra d'Algeria, attraverso gli occhi di una madre pieds noir morente e delle sue quattro figlie (tutte di padre diverso), ognuna in lotta con un destino segnato dall'indifferenza e dalla violenza.
EPOPEA ROM Nei primi anni Ottanta Gatlif dà inizio alla lunga parabola sul mondo gitano e giungono i primi riconoscimenti dalla critica. In Spagna fra i Rom di Siviglia e Grenada gira “Corre Gitano” (1982), che presenta lui stesso con queste parole: “il primo film dentro cui rivendico la mia condizione gitana. E' un film che dice: Io sono gitano, nonostante tutto, nonostante le persecuzioni e il disprezzo, io esisto, noi esistiamo”. Alla fine dello stesso anno esce “Les Princes” (“L'uomo perfetto”). Qui il regista fa succedere alla rivendicazione culturale di “Corre Gitano” la contrapposizione fra la società moderna francese, che tenta di normalizzare il diverso, e la “perfezione”, in senso lirico ed ovviamente ironico, dello zingaro che conosce il linguaggio del mondo, non chiede niente a nessuno e se la cava sempre. Ambienta la vicenda nelle banlieue parigine, mostrando, probabilmente per la prima volta al cinema, l'emarginazione dei Rom nelle città europee. Nara, il protagonista gitano del film, ha appena ripudiato la moglie, perchè usa anticoncezionali, quando subisce lo sfratto dall'appartamento fatiscente in cui abita con madre e figlia. Il trio, seguito a distanza dalla moglie che ancora ama il suo uomo, va alla ricerca di un amico avvocato a Parigi. Durante il tragitto muore l'anzia-
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“Latcho Drom”
na nonna, custode della magia e tradizione gitana, e il cammino senza fine della famiglia sembra evocare il destino nomade di un intero popolo che si confronta con un mondo che cambia troppo velocemente. La prima sintesi completa dello sguardo di Gatlif sul popolo Rom si compie con “Latcho Drom” (1992). Con questa pellicola prende forma lo stile tuttora riconoscibile dell'autore, a cominciare dalla musica, suonata e improvvisata dai gitani, che sale alla ribalta, racconta e affabula spesso più delle immagini e dell'intreccio narrativo. Come accadrà per molti altri film a venire, è lo stesso Gatlif che collabora alle composizioni musicali. La storia di “Latcho Drom” è la fotografia, o meglio la danza, delle culture tzigane nel mondo: un caleidoscopico viaggio dall'India all'Andalusia, passando per il Bosforo e i Balcani, secondo una delle leggende più diffuse tra i Rom sulle origini mitiche del proprio popolo. Un carretto sgangherato parte dall'India, e a ogni scossone semina negli angoli del globo bambini gitani che danno vita a nuove comunità. Fluido, colorato, tattile e sonoro, a metà tra fiction e documentario, “Latcho Drom” porta al regista la prima vera affermazione internazionale. Successivamente, Gatlif torna a parlare del confronto fra gagi (i non-zingari) e Rom. Siamo in Valacchia, Romania, e un giovane parigino, Stephane, sta smaniosamente cercando Nora Luca, una vecchia cantante rom ormai lontana dalle scene, che ha segnato l'ultima parte della vita del padre. “Gadjo dilo” (“Il gagio pazzo” – 1997) è un film che con realismo e divertimento illustra, nel bene e nel male, l'incontro con il diverso dal punto di vista romani. Mentre vaga in Romania, il protagonista del film incappa in Isidor, un vecchio rom ubriaco che piange l'arresto dei suoi figli, e passa con lui tutta la notte tra lacrime, canti e situazioni surreali. Isidor, legato ormai al giovane e strano francese, decide il mattino seguente di ospitarlo nel suo villaggio, tra le proteste e i pregiudizi dei compaesani. E'interessante scoprire come lentamente Stephane si radichi nella comunità, dimenticando la propria iniziale ossessione per la cantante e, soprattutto, sconfiggendo i pregiudizi che lo riguardano in quanto straniero.
MUSICA: VENGO – Demone Flamenco e SWING – Musica Manouche L’elemento musicale, come dicevamo sin dalle indicazioni teraputiche, è di primaria importanza nel cinema di Gatlif, non solo per qualità e quantità della testimonianza culturale che riesce a esprimere, ma anche come strumento necessario per comprendere i personaggi, soprattutto se gitani. Dopo essersi occupato a lungo di nomadi, la sensibilità e capacità di raccontare popoli e tradizioni consente a Gatlif di sperimentarsi su temi e territori differenti. A metà degli anni novanta gira un documentario dedicato ai Rumbero cubani per conto di Canal+ e uno sulla tradizione corale polifonica corsa, prodotto da Arte. In due soli film però la musica è esplicitamente il soggetto dell'opera. Il primo è “Vengo” (2000), che si riallaccia idealmente a “Corre gitano”: è infatti dal lontano 1981 che il regista rimandava la realizzazione di un film sulla scena flamenco “Gadjo Dilo“- Musica e danza per i cari estinti che aveva avuto modo di conoscere in An-
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dalusia. Il pretesto è la storia di Caco, un passionale rom che annega in interminabili feste il dolore per la morte della figlia, uccisa da un membro di una famiglia rivale. Splendide ballerine flamenco, alcol, hashish, vendette e sentimento sono le parole chiave di “Vengo” una storia legata indissolubilmente alla musica. Il flamenco non emerge solo come insieme di tradizioni coreutiche e musicali, ma anche come codice di comportamento sociale, elemento risolutorio della crisi dell’individuo, nonché congiunzione tra umano e divino. Dal particolare all’universale, fatalmente, la storia di Caco lascia sempre più spazio alle frenetiche danze flamenco che, ipnotiche e vorticose, accompagneranno il protagonista mentre si chiude il cerchio della vendetta.“Swing” (2001) è ancora incontro fra rom e gagi, ma questa volta nell'età di passaggio fra condizione infantile e adolescenza. Il protagonista è Max, un ragazzino spedito a Strasburgo dalla nonna per le vacanze estive. La scoperta di un campo manouche nelle vicinanze spinge Max a dimenticare studi estivi e regole domestiche, allettato com'è dalla possibilità di imparare a suonare la chitarra con i maestri gitani. Swing è una giovane e forte coetanea manouche di Max che, dopo averlo messo alla prova, lo aiuterà intermediando in suo favore prima con Mandino Reinhardt (il nipote di Django Reinhardt, interpreta se stesso) per l'acquisto della chitarra, e poi con Miraldo, al secolo Tchavolo Schmitt (pure lui nei suoi panni), famoso chitarrista manouche, per le lezioni. Sebbene rispetto a quella di “Vengo”, la trama di “Swing” sia più elaborata, in particolare per le tribolazioni adolescenziali viste da un punto di vista nuovo, anche in questo caso la parte del leone è per le “Swing” scene in cui i maestri manouche dimostrano la loro abilità e passione per la musica. E' per questo motivo che, da un certo punto di vista, film come questo vengono considerati anche preziosi documenti etnomusicali. Nostro suggerimento, se avete figli dai nove anni in su, è proporre “Swing” appena potete.
GIOVANI AMORI IN FUGA La grande libertà espressiva di Gatlif nel raccontare incroci culturali, tragedie, fughe, avventure sospese fra storia e immaginazione, non è meno efficace e appassionante quando si parla di sentimenti ed erotismo. L'incontro, che sia musicale, culturale o sensuale, per l'autore è sempre una generosa sorgente di fascino e vitalità. Gatlif ha intuito uno dei modi più belli di raccontare i sentimenti e le emozioni, ovvero quello di lasciarli andare, specialmente quando gli amanti sono giovani e alla ricerca della propria identità. La condizione instabile dell'adolescenza e della gioventù è infatti la circostanza migliore per aprirsi all'altro, mettersi in discussione, o perfino intraprendere un percorso iniziatico e un tentativo di rinascita (come già accadeva in “Gadjo Dilo”). “Exils” (2003) è l'affascinante viaggio di due giovani parigini di famiglia algerina verso la loro terra d'origine. Mentre i protagonisti compiono il lungo viaggio a piedi verso l'Africa, alla ricerca delle proprie radici, si innamorano. Le sequenze dedicate ai giochi e alla sensualità dell'incontro carnale, sono sempre molto coinvolgenti e naturali, in grado di toccare il più duro dei cuori. Viaggiando per la Francia, nella zona Rom andalusa, e giungendo in Algeria, dove tutto ebbe inizio anche per Gatlif, si passa dal pulsare della tecno music francese, al “demone” Flamenco a Siviglia, e infine alla trance catartica e curativa dei rituali sufi nella
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periferia urbana algerina. Secondo noi cineterapisti di WM, “Exils” è uno dei film più belli in assoluto. In “Transylvania” (2006), due ragazze partono nel tentativo di ricucire una storia d’amore nata in Francia, cercando il padre del bambino che Zingarina (Asia Argento), vulcanica e cosmopolita cittadina di origine italiana, porta in grembo. Si dice che il papà, musicista un po’ zingaro, un po’ rumeno, un po’ ungherese, sia tornato in Transilvania dopo un’espulsione amministrativa. Quando però le giovani lo incontrano, in uno degli innumerevoli festival-rituali che incrociano in questa regione meticcia per antonomasia, la verità sarà un’altra. Di qui il difficile viaggio a spirale della protagonista, tra solitudine, passione e soprattutto tanta musica suonata da variegata umanità. E' il primo (e unico) film a non convincerci di Gatlif; benché in “Transylvania” vi sia una pregevole fotografia e si goda di una buona prova attoriale e di ottima musica, è più difficile trovare nuovi approcci e argomenti. Tutto sembra meno fluido del solito, più simile a un puzzle di elementi diversi incastrati insieme con un certo sforzo, che a una visione originale. “Libertè” (2010) e “Indignados” (2012) non sono pervenuti, non distribuiti e purtroppo non ancora rimediati. “Geronimo” (2014) è un film urbano scatenato, sui giovani e giovanissimi delle banlieue e sulla figura di un'educatrice, la “selvaggia” Geronimo del titolo. Faide di bande di strada, questioni di onore che dividono una periferia in cui tutti vivono insieme ma pochi si uniscono. Geronimo si muove qui, precaria e apparentemente senza nulla da perdere, forte e leggera. Film sporco e un po' kitsch, con sequenze dionisiache a controbilanciare. Coltelli, battle di breakdance, spose in fuga e gitani pazzi sono gli ingredienti di questo sgargiante mosaico filmico-musicale. “Djam” (2017) è l'ultimo film di frontiera di Gatlif, in particolare quella tra Europa e Asia. Epicentro delle vicende è l'isola di Lesbo, luogo di meraviglia ma anche di inferno umanitario per molte persone, ieri come oggi. E Gatlif stravolge tutti gli stereotipi e tratta la drammaticità con la solita naturalezza e spontanietà dell'incontro. Djam è una splendida ed esplosiva Daphne Patakia, giovanissima greca fuori dagli schemi, incrocio di lingue e culture, spedita dal patrigno a Istanbul per trovare una biella per la sua barca da turismo. Djam intraprenderà il (solito) splendido on the road, accompagnata da una giovane parigina rimasta bloccata a Istanbul senza documenti. Musica e passione, dramma e sensualità, come sempre, si sprecano. La cosa più bella del film, però, è un'assenza: niente smartphone, e ti accorgi di come non ce ne sia per nulla bisogno.
CONCLUSIONE Raccontando le storie dei poveri e degli emarginati con ironia, passione e leggerezza, Gatlif dona dignità e cultura non solo ai popoli nomadi, ma a ogni essere umano che senta di non riconoscersi completamente negli angusti modelli dominanti della nostra civiltà dell’apparire, e che trovi, nonostante tutto e tutti, il miracolo della vita una cosa effimera ma meritevole di essere vissuta, con grazia e meraviglia. Chissà Bianconi cosa ne penserebbe. (M.G.D.)
“Geronimo” - fatti sotto uomo !!!
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MOTTA. Non sono immaginario E’ da ormai molti anni che parlare di indie o mainstream ha poco senso. Lo ha avuto, forse, sino alla fine degli anni 90’ quando i canali e le piattaforme su cui si veicolava la musica potevano fare la differenza negli ascolti e nella collocazione dell’artista. Eri indie se incidevi per etichette indipendenti, se la tua musica era veicolata su fanzine e riviste che vendevano poche migliaia di copie, i concerti più o meno per pochi, non finivi in TV se non in trasmissione di nicchia e, vera differenza, la musica rimaneva un hobby a cui dedicare il tempo tra lo studio o, al massimo, un lavoro molto precario. Essere mainstream, voleva dire incidere per una major, avere il supporto delle grandi riviste non solo musicali (da Sorrisi e Canzoni in giù), finire nei programma di MTV, RAI o Mediaset, avere gli stadi e palazzetti come contenitore per i live e, vera differenza, essere un vero e proprio lavoro. Ovviamente c’erano le eccezioni in questa divisione, un po’ manichea, tra il presunto “bene” (indie) e il presunto “male” (mainstream) ed era anche, un preventivo giudizio critico per valutare la qualità della musica (sbagliando ovviamente) e giudicarsi a vicenda (chi se le ricorda le polemiche nel mondo indie sui passaggi di Sonic Youth, REM, Husker DU alle major, o quelle avvenute nella musica italiana (anche recenti… le menate che ci siamo fatti su Manuel Agnelli a X Factor?). Gli anni duemila hanno ribaltato il tutto, soprattutto dall’avvento di YouTube prima e dei social dopo. Ma lo sapete meglio di me. Oggi si passa direttamente da un video postato in autonomia (roba indie) a diventare in poche settimane un idolo di massa (roba mainstream). Un modo di operare che calza con il fenomeno
Photo by Claudia Pajewski
di Alberto Nobili
dell’indie italiano che dal 2010 circa in poi è diventato una
scena (o presunta tale) ben identificata. Quello che mi è sempre apparso strano è stato/è il tentativo di chi (giornalisti, critici, ecc.), ha provato/prova ad unire con un filo rosso l’indie (pop) italiano con l’indie (rock) dei ’90 di Baustelle, Afterhours, Marlene Kuntz, Verdena, Tre
Allegri Ragazzi Morti, Offlaga Disco Pax, Teatro Degli Orrori, One Dimensional Man, Fine Before You Came ecc.
Credo che sia una bella cantonata. Al massimo hanno condiviso il palco del I° Maggio, ma la distanza, per questioni commerciali, culturali, di sensibilità musicali è notevole. Un fraintendimento, forse, nato da Le Luci della Centrale Elettrica che sembrava il collante tra i due mondi, l’ultimo indie rock e il primo indie pop, ma che in realtà ha finito solo per essere un caso fortuito, perché i riferimenti di questa nuova scena anni duemila in realtà sono probabilmente Max Gazzè, Luca Carboni e Vasco Rossi. L’indie italiano post 2010, pur partito con tante proposte e canzoni interessanti con Cani, Calcutta, The Giornalisti, Gazzelle, Liberato, Coez, Lo Stato Sociale ecc., non è cresciuto qualitativamente in parallelo ai numeri quasi da mainstream acquisti. In poco tempo ha perso senso e indirizzo, lasciando il campo a poche nuove interessanti leve come i Coma_Cose (in alcuni pezzi divertenti e inarrestabili vedi Granata, “ i ponti son fatti per buttarsi non per metterci i lucchetti”) e soppiantato, tra l’altro, dal fenomeno trap che ha assorbito la quasi totalità degli ascolti delle nuove generazioni. Però….Però non tutto va buttato, rimangono un’ampia manciata di belle canzoni e alcuni autori (pochi) da tener d’occhio.
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Uno degli autori inquadrati/incastrati (da altri) in questa scena è indubbiamente Motta che ha prodotto due dischi di ottimo livello sapendo trovare una propria strada, una propria forza e identità dettata da un songwriting, a mio modo di intendere, nettamente superiore ai suoi coetanei. Non so, forse è anche una simpatia di “pelle”, a partire dal suo giubbotto ramonesiano molto presente nel suo look e alla sua faccia scazzata, imbronciata, fortemente toscana e rock oriented; ma vale la pena spendere delle parole su suoi due dischi ad oggi sfornati. Sarà anche il rapporto con il produttore romano Riccardo Sinigallia (grande autore e che infatti co
mia, cariche appunto di granitiche certezze). Un disco ricco di personalità, sorprendentemente marcata per essere un esordio, e con una manciata di canzoni che riascoltate oggi (dopo quattro anni) convincono sempre. Dall’iniziale, rumorosa e volutamente confusa nella sua maniacale ricerca dei suoni (a detta dello stesso Motta) “Del tempo che passa la felicità” che inquadra il disco insieme a “Prima o poi ci passerà” (forse la mia preferita) con quel suo pattern sincopato e veloce sui cui il nostro costruisce una melodia che si insinua e testi “Ritroviamoci per strada / Per urlare il
nostro nome con quel poco che rimane Fra milioni di persone / Finalmente dormiremo Avremo un posto dove stare / Ma saremo troppo stanchi / Per poterlo raccontare” sempre can-
Photo by Claudia Pajewski
tati con una delicata e feroce tensione che lascia quel senso di verità all’ascoltatore, anche quando si apre alla ballata pop universale di "Sei bella davvero", forse l’unica così solare e serena in mezzo a ceselli più cupi come testimonia “Roma Stasera”, martellante, ossessiva e dark“Ho piene le tasche di denti spezzati / di
-firma alcuni pezzi), ma il suo disco d’esordio del 2016 attrae e sorprende nell’essere intimo ma non mieloso, semplice e al contempo, in alcuni passaggi, necessariamente spigoloso. Un album che arriva dopo le esperienze come batterista dei Criminal Jokers (e paroliere e cantante), collaborazioni con i Zen Circus, Nada e Pan del Diavolo (polistrumentista dicono le cronache) corredato dalla frequentazione del corso di compositore per film al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma. La “Fine dei vent’anni “è un disco che si riassume anche solo nella sua tittle track, ascoltata - da me - infinite volte, una canzone completa e spiazzante (“c'è un sole perfetto, ma lei vuole la luna”) che sussurra un senso di inadeguatezza che stride con le certezze che, alla fine dei vent’anni, invece si dovrebbero avere (come lo era invece per le vecchie generazioni come la
sogni bruciati / da questa città ma a me piace lo schifo / la puzza di gente raccontare le storie ai figli degli altri sarà divertente / Roma stasera mi prendi dal collo / mi tieni in ginocchio / mi bagni e poi mi lasci per terra”. Un disco che resiste qualitativamente, in tutti i sensi, sino alla fine, e che segnala a tutti la personalità e le potenzialità del musicista toscano, come in “Prenditi quello che vuoi”, un pezzo alla Afterhours (anche nel cantato) o nella successiva “Se continuiamo a correre” maledettamente rock, scarna, tribale e spiazzante quasi alla The Birthday Party “Quello che
ho sbagliato / Non è servito a nientHai perso il tempo ed il denaro / Le due cose più importanti” o come in “Maternità” costruita su un testo punk in un bozzolo musicale che dischiude un
incedere che incanta e rapisce sino al suo finale, con gli archi in primo piano. “Distruggere
tutto / per il gusto di farlocambiare finestra / cambiare nemici / per un nuovo risveglio e d'improvviso ti accorgi / di tutto quello che hai ci hai sputato / ma alla fine lo terrai” E cosa
aggiungere alla perfezione della chitarra e piano del desolato e sinuoso pezzo finale “Abbiamo vinto una guerra”, così classica e maledettamente avvincente? “Ci taglieranno le
mani / ci faranno a pezzetti con il coltello fra i denti / li guarderemo negli occhi ci spareranno le gambe / per non farci
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pensare poi strisceremo di notte / per non farci vedere”. Un disco d’esordio
praticamente perfetto, abbagliante, incisivo e diretto. Tra il primo e il secondo album, "Vivere o morire" di fine 2018, c’è da segnalare il Premio Tenco (ricevuto come Miglior Opera Prima – e Vivere o Morire riceverà poi anche quello per il miglior disco in assoluto), il passaggio da un'etichetta indipendente a una major come la Sugar guidata da Caterina Caselli e il nuovo produttore Taketo Gohara (che ha lavorato con Vinicio Capossela e Brunori Sas) e una nuova “morosa” ovviamente bella, nota e brava (attrice). Tra i due dischi non ci sono stravolgimenti (d’altronde scrive in un testo che “di cambiare accordi no, non me ne frega niente”). Sempre il suo volto in primo piano sulla copertina, nel primo solo in b/n ora con il rosso a farla da padrone; sfumature diverse, piccoli cambiamenti che si ritrovano anche nel disco che rimane comunque intimo e contenuto (pure nei numeri dei pezzi, ora nove, nel predecessore dieci), se pur più ricco e variegato ma meno aspro e diretto. La chitarra questa volta non è sempre protagonista e nuovi suoni si affacciano, con testi come sem-
pre pungenti, essenziali e incisivi. Se l’incipit “E’ quasi come essere felice” si differenzia con la forte presenza di elettronica che diventa nel finale ossessiva e tribale, segno di una ricerca di chi non ha tanta voglia di ripetersi pedissequamente, “Quello che siamo diventanti” è un pezzo bellissimo (aggettivo “banale” ma per una volta utile a spiegare) che segnala la statura qualitativa di questo autore. La seguente “Vivere o morire” non solo è il titolo del disco ma è il pezzo che più lo caratterizza, un piccolo dolce inno che colpisce nel suo essere (guardateci davvero dentro) un pezzo dolente, con quella chitarra acustica e l’intro di basso che sembrano maledettamente (in tutti sensi) velevettiani sino al midollo (sostituite Livorno con New York nel testo e il “plagio” è perfetto). “Livorno è
una città strana / Piena di gambe nude e personalissime posture Riesco a mettere la mia vita in una valigia / e a volte riesco a stare anche un po' da solo smettere di odiare, smettere di bere / e avere voglia di cambiare idea continuamente ho imparato anche a farmi male / di cambiare accordi no, non me ne frega niente vivere o morire / aver paura di dimenticare vivere o morire / aver paura di tuffarsi di lasciarsi andare / e di lasciarsi andare”. Si prosegue con due pezzi che lasciano incantati e che segnano il disco nel profondo: soprattutto “La nostra ultima canzone” che nel video clip si apre con un tuono in sottofondo che annuncia una ballata con il “solito” gusto agrodolce, segno distintivo del nostro, in cui perdersi dentro e, appunto “lasciarsi andare” come recita il testo, e la minimale “Chissà dove sarai”, così fragile e appassionata, appoggiata a una ritmica etnica in equilibrio perfetto con la piccola sinfonia di archi nel finale. E se “Per amore e basta” a me ricorda una intensa versione cantautorale di “Quelli Che Ben pensano” di Frankie HI-NRG MC (con tanto di tromba a rimarcare il – mio - collegamento), le tre canzoni finali del disco spiccano leggermente meno: “La prima volta” ricorda il repertorio di Cat Stevens nella sua limpidezza (credo di averlo letto da qualche parte il paragone con Cat Stevens e, come dice nel testo, “non c’è niente di male” in questo), “E ci penso a te” con un ritmo leggermente bossanova, sino alla finale “Mi parli di
Photo by Claudia Pajewski
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te” che sembra una versione di “Pony boy” di springsteeniana memoria, una ninna nanna che chiude e ci lascia beati e, decisamente, contenti.
“E tu fai il mostro e io che ritorno bambino / le strade stravolte dalle case io che riuscivo a non perdere i calzini / magari andiamo a cena e mi parli di te / degli abbracci mancati dei tuoi diciott'anni / dei sorrisi spezzati a metà e di cosa volevi diventare”
Probabilmente il suo essere stato inserito nel contesto del nuovo indie italiano sembra, a posteriori, un’operazione forzata, vista la struttura delle sue proposte; probabilmente solo per una questione generazionale. Anche perché un disco live di fine 2019 ci regala una carrellata dei suoi successi in una chiave tutt’altro che scontata (registrato il 28 settembre nella sala Santa Cecilia dell’Auditorium Parco della Musica a Roma durante l’ultima data del tour, di successo), con sonorità molto più ricche e pezzi che si vestono di arrangiamenti nuovi e diversi. Un esempio ne è “Se continuiamo a correre” che sembra una outtake di qualche brano di successo dei Black Rebel Motorcycle Club, con quel suo ritmo ossessivo e le chitarre taglienti in prima linea. Nel 2019, come certo saprete, ha partecipato al Festival di Sanremo con il brano “Dov’è l’Italia” (un brano composto durante un viaggio a Lampedusa; insomma non si nasconde sui temi etici e sociali) classificandosi quattordicesimo
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e duettando con Nada e, a inizio 2020, ha pubblicato un libro (non solo un’autobiografia così leggo dalle recensioni) per scelte dettate da un marketing che indica direzioni per essere, apparire, guadagnare (giustamente). Vedremo il terzo disco cosa porterà, se continuerà il suo percorso di crescita con la voglia di non accontentarsi e provare a costruirsi una carriera che, potrebbe, viste le premesse, rivelarsi davvero sorprendente, per uno dei pochi autori italiani di questi anni ad avermi colpito. Consigliato a chi se l’è perso all’interno del calderone indie. L’incipit è davvero promettente; la speranza è che non si perda, che rischi e che non diventi un’altra figura immaginaria del nostro panorama musicale. Abbiamo bisogno di autori che diventino riferimenti negli anni, e non semplici apparizioni. Ps I: Un consiglio: ascoltate i suoi dischi in cuffia. Ps II: Il suo nome è Francesco Ps III: Divagazione sui Coma_Cose (maledettamente divertenti e cazzoni in alcuni pezzi, va scritto). Lezione generazionale per il loro testo di quel fantastico pezzo che risponde al nome di Mancarsi, là dove recita “che schifo avere vent’anni, però quanto è bello avere paura”. Quando avevo io la loro età, anni 80, l’avrei cantata all’esatto contrario: “che bello avere vent’anni, però che schifo avere paura”. I tempi cambiano e non sempre in meglio. (AN)
I POSSIBILISTI: Ancora BRUCE !!!
In merito al quesito che ponevano nella rubrica “I Possibilisti”, sul numero scorso, e sui problemi di produzione dei dischi di Bruce, abbiamo ricevuto una vera lettera francobollata. Ce l’ha scritta Renzo, un 34enne milanese, che durante la pandemia ha riflettuto molto sui dischi del Boss. Riflessione ci ha scritto, per lo più dovuta alla solitudine, essendo impossibilitato a raggiungere la sua fidanzata Lucia a Como. Ecco la sua breve conclusione: “Gentile Redazione e carissimo Direttore credo che i problemi relativi alla produzione dei dischi di Springsteen siano principalmente dovuti al fatto che non si sia mai drogato. Grazie per l’attenzione sono felice che siate tornati a pubblicare. Mi mancavate. Renzo”
Bruce & Patty da casa loro durante la raccolta fondi “Jersey 4 Jersey”
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Punky Reggae Party di Marco Denti All’alba degli anni settanta, Londra è un pulviscolo di sogni coloniali e incubi della seconda guerra mondiale. Un territorio di rovine e gloria perduta che sta macinando abitudini e orgoglio. Le istituzioni, dalla monarchia in giù, si fanno carico del passato, ingombrante e pesante, ma non hanno la più pallida idea del futuro, che resta un’incognita. Ma c’è movimento nelle strade: dalle periferie dell’impero arrivano frotte di esuli richiamate dai miraggi occidentali, invitati a fornire mano d’opera a basso costo e poi costretti a subire l’oppressione, la segregazione e, in definitiva, la brutalità del razzismo, mai sopito e soprattutto mai archiviato. È stato Salman Rushdie in “Patrie immaginarie” (Mondadori), un titolo peraltro molto eloquente, a fornire una precisa panoramica del momento e del contesto: “Allora com’è questo paese verso il quale gli immigrati sono venuti e nel quale i loro figli stanno crescendo? Non lo riconoscereste. Perché questa non è l’Inghilterra del fair play, della tolleranza, della decenza e dell’uguaglianza, benché forse un tale luogo non sia comunque mai esistito se non nelle fiabe. Nelle strade del nuovo impero, si abusa delle donne nere e i bambini di colore vengono picchiati al rientro da scuola. Nelle case popolari decrepite del nuovo impero le famiglie di colore vivono con le finestre rotte, hanno paura di uscire al buio e ricevono escrementi umani e animali nella buca delle lettere. Invece di proteggerli, la polizia li tiene sotto costante minaccia e i tribunali offrono tenui speranze di giustizia. La Gran Bretagna è oggi costituita da due mondi totalmente differenti e quello in cui abiti dipende dal colore della tua pelle”. È solo una questione di tempo perché le anime ribelli si risveglino, scendendo nei vicoli, occupando quartieri e abbattendo frontiere visibili e invisibili. La fotografia in copertina a “Black Market Clash” con il giovane rasta che fronteggia la falange di poliziotti londinesi rende bene l’idea della contrapposizione e dello scontro tra diverse culture che, poi, nelle intersezioni dell’underground si rivelerà un felice incontro. Osservatore privilegiato e protagonista di primissimo piano di quell’imprevisto ma efficace rendez -vous è stato Don Letts che ne racconta la genesi e gli sviluppi nel suo avvincente memoir “Punk & Dread” (Shake). Non è un caso (anzi) che la copertina riprenda la stessa immagine di “Black Market Clash”: il temerario “rebel dread” nelle strade di Londra è proprio lui, che si premura ben presto di spiegare come la fotografia sia ingannevole, visto che in realtà stava cercando un modo di sparire in fretta e furia, prima che cominciasse davvero il casino. Non si può certo biasimare, ma l’inquadratura rende alla perfezione il clima dell’epoca, che Don Letts riassume così: “La classe dirigente inglese era riuscita a inimicarsi anche la gioventù bianca del paese, politicamente, musicalmente, artisticamente e in ogni altro modo possibile. In quanto nero britannico di prima generazione di origine giamaicana ero già bello incazzato, quindi era inevitabile condividere questo senso di disillusione”. È stato quello il momento in cui, come ha scritto Robert Elms, “i parametri vennero spinti molto più indietro, il guardaroba fu rovesciato e il suo contenuto scagliato in tutte le direzioni”.
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La furibonda metamorfosi e la liberatoria rivolta contro un sistema decadente e ormai rancido videro affiancarsi il punk e il reggae che trovarono nella musica il mezzo più rapido ed efficace per esprimersi. Ricorda Don Letts: “Il sound system per tradizione aveva un modo di trasmettere le informazioni che era spirituale culturale e politico. In quanto giovane nero britannico ero molto sensibile ai messaggi delle canzoni: “Burn Down Babylon”, “I Need A Roof Over My Head”, “Money In My Pocket”, “Police And Thieves” e “Two Seven Clash”. Anche i punk erano molto i ricettivi, i Clash giravano con scritti addosso slogan come Hate And War e Under Heavy Manners che erano ispirati a frasi di Tappa Zukie, Prince Far I e dei Culture. I Clash e Johnny Rotten comprendevano e si schieravano con le posizioni rivoluzionarie del reggae e con il suo odio spietato per il sistema. Per i punk era una scelta. Ma noi eravamo neri e di scelta non ne avevamo”. La constatazione vale a individuare quella scintilla che Linton Kwesi Johnson spiega così: “Abbiamo avuto un impatto trePhoto by Lawrence Watson mendo sulla società! La gente diceva: se possono farlo i neri possiamo farlo anche noi! Non mi stupirei del fatto che lo spostamento delle canzoni pop verso testi orientati socialmente fosse il risultato di un’influenza diretta del reggae”. Forse la progressione non è così immediata, ma resta il fatto che, come diceva Brinsley Ford degli Aswad: “Il reggae ha una risposta, ed è per questo che piace ai punk: loro non sanno con che cosa sostituire ciò che distruggono”. Gli elementi in comune erano più forti delle differenze, a partire dall’avversione all’establishment, che forniva quotidianamente motivi per l’attrazione reciproca, così come la descriveva Greil Marcus: “Ciò che il punk assorbì dal reggae e dai rastafariani che lo animavano fu l’idea di autodeterminazione all’interno di una nazione percepita come un carcere e il paradosso di una lotta intesa in termini strettamente culturali: una lotta che avrebbe dato origine a richieste che nessun rappresentante del potere, nessun governo avrebbe potuto soddisfare, che sarebbe stata stoica e messianica e che non poteva essere davvero rivoluzionaria ma era sicuramente molto sovversiva”. D’altra parte, l’equilibrio era più complesso e delicato, così come l’ha presentato Dick Hebdige in “Sottocultura. Il fascino di uno stile innaturale” (Costa & Nolan), ed è rimasto legato a una distinzione ben precisa tra le due identità, perché “comunque nonostante la forte affinità, l’integrità delle due forme, il punk e il reggae, fu scrupolosamente mantenuta e, lungi dal simulare una forma e un timbro reggae, la musica punk, come ogni altro aspetto dello stile punk, tendeva a svilupparsi in diretta antitesi alle sue fonti apparenti. Il reggae e il punk erano distintamente opposti. Laddove il punk si lanciava negli acuti, il reggae puntava sui bassi. Laddove il punk scatenava attacchi frontali ai sistemi di significato stabilizzati, il reggae comunicava attraverso l’ellissi e l’allusione. In realtà il modo in cui le due forme erano rigorosamente, quasi volontariamente, separate sembrerebbe orientarci verso un’identità nascosta, la quale a sua volta potrebbe essere usata per illuminare più ampi modelli di interazione fra la comunità degli immigrati e quella ospite”. Al Roxy, il locale durato soltanto cento giorni al centro dell’esplosione punk, Don Letts era il dj residente e ricordava così a Chris Salewicz in “Redemption Song. La ballata di Joe Strummer” (Shake) come ha cominciato ad alternare le due musiche: “Non c’erano abbastanza dischi punk da mettere, così mi portavo dietro la mia collezione di reggae”. Il flusso sonoro conteneva qualcosa in più come spiega ancora Don Letts: “Il reggae parlava un linguaggio con cui i punk potevano identificarsi. Era il gusto di andare contro la moda, l’atteggiamento ribelle e, cosa più importante, il fatto che il reggae fosse una forma di denuncia, perché affrontava questioni essenziali”. Lo conferma anche lo stesso Chris Salewicz: “Le scelte musicali di Don Letts contribuirono a
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innescare la famosa fusione di punk e reggae che troverà le sue interpretazioni più intense nella musica dei Clash e che verrà celebrata nel 1977 nel brano di Bob Marley “Punky Reggae Party””. La canzone inneggiava esplicitamente alla commistione di reggae e punk citando in prima linea Clash, Jam, Damned e Dr. Feelgood (e in una prima versione anche le Slits) con Bob Marley in veste di testimone oculare. Fuggito dalla Giamaica in seguito all’attentato del dicembre 1976, Bob Marley aveva trovato rifugio a Londra dove, con gli Aswad, incise “Punky Reggae Party”. La connessione era anche politica, se non altro per l’estrazione e la condivisione e partiva da lontano, almeno da quando, qualche anno prima, Bob Marley & The Wailers avevano inciso “Catch A Fire”, che portava nel reggae sonorità che andavano nella direzione della musica occidentale. Se la rielaborazione di “Catch A Fire”, per tutte le logiche discografiche e commerciali immaginabili, correggeva le sfumature dei Wailers, lasciava immaginare anche un’osmosi spontanea e naturale verso il mondo del rock’n’roll. Da lì, il reggae era già filtrato attraverso Graham Parker con “Hey Lord Don’t Ask Me Questions” e avrebbe fatto capolino in seguito nei dischi di Elvis Costello “Watching The Detectives” e di Joe Jackon “Fools In Love” per finire con i Police che si affidarono ai ritmi in levare per trasformarlo in uno splendido affare, levigandolo e spurgandolo dal contesto originale. Era ben più profondo l’intreccio con i punk, dove, tra gli altri, ebbe un ruolo decisivo tra le Slits, confermato direttamente dalla bassista Tessa Pollitt: “Eravamo definitivamente influenzate dal reggae. C’era così tanto reggae ovunque, ed è ancora la mia musica preferita”. Ma, come è noto, furono i Clash, più di tutti, a coltivare il terreno comune con il reggae, e più avanti, grazie alla visione coraggiosa e cosmopolita di Joe Strummer, con altre forme e influenze musicali. Il rapporto venne celebrato ben presto con l’inclusione di “Police & Thieves” di Junior Murvin nel primo, fondamentale disco dei Clash, ma si ritroverà a scadenze regolari con le versioni di “Pressure Drop” di Toots and The Maytals, nella strepitosa interpretazione di “Police On My Back” di Eddy Grant o in quella di “Armagideon Time” di Willie Williams, ma nell’evoluzione dei Clash il reggae ha rappresentato una prima, significativa porta verso l’esplorazione di un intero mondo musicale. Arrivati a “Combat Rock” i Clash andavano oltre ogni confine, viaggiando dal Medio all’Estremo Oriente, dalla Beat Generation ad “Apocalypse Now” fino alle radici del rock’n’roll nell’amata e odiata America. La prova del nove è nella struggente versione di “Straight To Hell” di Phil Cody, da “The Songs Of Intemperance Offering” (ed era già il 1996): lì ci si accorge che i Clash erano andati molto lontano, prima di tornare a casa. Meno appariscente, ma altrettanto densa è stata l’influenza su Johnny Rotten alias John Lydon, che avrebbe avuto modo di sperimentare le variazioni ritmiche (con il basso di Jah Wobble, soprattutto) con i PIL. Tra l’altro, John Lydon, messi da parte i Sex Pistols, volerà in Giamaica per conto della Virgin in cerca di artisti da inserire nella nuova label dedicata al reggae, la Front Line, e si porterà dietro Don Letts. Nella sua breve esistenza (un paio d’anni in tutto) la Front Line rappresenterà un catalogo significativo, comprensivo di Abyssinians, I Roy, U Roy, Culture, Gregory Isaacs, Big Youth, Tapper Zukie, tutti nomi che scorrono senza soluzione di continuità nella storia del legame tra Punk & Dread raccontata da Don Letts che renderà così un ultimo omaggio al punk: “Fu magnetico. Io mi sentivo un affiliato a quel movimento. Tutto quel periodo fece intuire alle persone il proprio potenziale creativo. La roba che ho imparato allora mi è utile ancora oggi. Se escludiamo l’hip-hop, nessun altro movimento dopo il punk ha avuto un’importanza che va al di là della musica. Il punk, come l’hip-hop, è partito da gente che non aveva niente e che usava quel poco che aveva per procurarsi ciò che voleva”. Il collegamento apparentemente iperbolico di Don Letts contiene invece l’elemento che distingue e unisce reggae, punk e hip-hop che, al di là delle differenti inclinazioni musicali, si ritrova nella cultura, sempre attuale e pertinente, del “do it yourself”. Dai sound system ai tre accordi sulla chitarra ai campionamenti sul computer, l’unica, vera rivoluzione è non chiedere niente a nessuno, farsela da soli e tenere il ritmo che poi rimane la cosa più importante. (MD)
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Soul, folk e l’emozione di una canzone: ladies and gentlemen,
MICHAEL KIWANUKA
Photo by Jeroen Komen
di Michele Anelli
Era dai tempi di “Yankee Hotel Foxtrot” (2002) di quei “marziani” di Chicago dei Wilco che un disco non mi sorprendeva così tanto. Allora l’album della band americana cambiò definitivamente il mio percorso musicale i cui primi tentativi, verso nuove o diverse direzioni, nacquero sul finire degli anni novanta, esattamente dopo un concerto milanese del gruppo di Mr. E, gli EELS (ricordo ancora oggi l’attacco strumentale del concerto che, diversamente da quanto ci si poteva aspettare, iniziò in stile vintage con un distorto organo Hammond a palla accompagnato da una sezione ritmica incalzante). Negli ultimi anni sto indirizzando il mio inquieto animo musicale verso una direzione che, nonostante sia scolpita perfettamente nella mia mente, non sempre è di facile realizzazione. Quando nel 2016 ho ascoltato l’album “Love & Hate” di Michael Kiwanuka ho percepito nuovamente quella sensazione che, quattordici anni prima, avevo avuto all’uscita di YHF. Con sfumature differenti, i brani di Kiwanuka hanno confermato l’idea che canzoni caratterialmente folk vestite con abiti soul possono avere suggestioni importanti. Nella mia trilogia di album in italiano ho lavorato in una direzione arrivando, con l’ultimo lavoro, a definire una parte di questa idea. Al risultato finale manca ancora qualcosa. Complice anche il fatto che non ho le stesse qualità di Jeff Tweedy e dello stesso Michael Kiwanuka. La prima canzone che apre “Love & Hate” dura dieci minuti e undici secondi. Per gusto personale, solo un’altra canzone con una lunga introduzione, prima di arrivare al cantato, mi aveva dato un’emozione simile, “Papa was a rolling stone” cantata dai Temptations pubblicata nell’album del 1972 “All directions”: undici minuti e quarantasei secondi. Una canzone, quella del combo della Motown, che meriterebbe un articolo a parte, così come lo meriterebbe l’album, citato in apertura, “Yankee Hotel Foxtrot”
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dei Wilco. La redazione di WN è avvisata. Quella perla di canzone posta in apertura all’album di Kiwanuka è “Cold Little Heart”, diventata famosa, come si dice abitualmente, in quanto sigla della serie tv HBO “Big Little Lies”. Una serie intrigante, affilata come una lama di coltello e interpretata in modo sublime da formidabili donne (Nicole Kidman, Reese Whiterspoon, Shailene Woodley, Zoe Kravitz, Laura Dern e, nella seconda e ultima stagione, anche con la pluripremiata Meryl Streep), capaci di tenerci, per due stagioni, con il fiato sospeso e psicologicamente sotto pressione. La lunga introduzione del brano di Kiwanuka, assente nella sigla televisiva, è una lenta danza che progressivamente scioglie i nodi interiori portandoti lentamente dentro l’inizio di un viaggio. Una canzone che ha tutto: dall’espressione vocale al contenuto del testo, dalla musica che rotola e che smuove prima i pensieri e poi le gambe (…e ti ritrovi, inaspettatamente, a ballare…). Non è un caso se all’artista britannico sono stati accostati artisti come Curtis Mayfield, Marvin Gaye e, il recentemente scomparso, Bill Whiters. Accostamenti per nulla azzardati che fanno di MK un soul-rocker rispettabile e completo. L’intero album “Love&Hate” è cosparso di gemme emozionali nelle quali il talento di Kiwanuka ha modo di esprimersi su vari livelli, da quello compositivo a quello vocale, e viene quasi difficile segnalare quale sia il brano migliore. Oltre al brano di apertura, “Black Man In A White World”, “One More Night”, “Final Frame” (con un riff di chitarra tanto semplice quanto accattivante) e la canzone che dà il titolo all’album sono canzoni difficili da escludere da una ipotetica playlist, che sia su cassetta o cd o, di questi tempi, su piattaforme come Spotify. Ho scelto di raccontare Kiwanuka, partendo dal secondo (2016) dei tre dischi a oggi pubblicati (oltre un EP, svariati singoli e il mini live, bellissimo e da avere, “Out Photo courtesy by UMC Loud” del 2018), in quanto non si può escludere, dal meritato successo del cantante inglese, l’incontro con il produttore Danger Mouse alias Brian Burton. Il precedente album “Home Again” (2012) conteneva già i semi di un sound che andava perfezionato. Nonostante includesse eccellenti canzoni come la title-track, “Always Waiting” e “I’ll Get Along”, gli arrangiamenti dei brani rimanevano, nella maggior parte dei casi, sulla linea di partenza, andando a toccare sonorità belle ma non esclusive nel risultato finale. Prodotto da Paul Butler, che sarà nuovamente in cabina di regia in “Love&Hate”, in compagnia di Danger Mouse e Inflo (quest’ultimo, produttore, tra gli altri, di Belle and Sebastian nel 2018 e The Kooks nel 2017), “Home Again” svela solo in parte la naturalezza con cui MK compone piccoli gioielli sonori. L’incontro con Danger Mouse sarà decisivo per trasportare Kiwanuka al di fuori di una cerchia ristretta di ammiratori. Il sound di “Love&Hate” è alla base della crescita esponenziale della vena creativa e, con l’ultimo omonimo album del 2019, è diventato un marchio di fabbrica. Danger Mouse viene considerato un super produttore (The Black Keys, Beck, Norah Jones, Red Hot Chilli Peppers, Sparklehorse) e la sua ricerca sonora applicata ai brani di MK parte da lontano. Nel 2011 pubblica insieme a Daniele Luppi l’album “Rome”. Quest’ultimo, nato a Padova e trapiantato da anni negli States, è un produttore, arrangiatore e compositore con la passione per il jazz e le colonne sonore italiane degli anni sessanta e settanta. Nel disco, le voci sono di Jack White e Norah Jones (tra l’altro entrambi molto bravi a entrare nella parte) e il mood che trasuda dai brani è il medesimo che, nel 2016, viene ap-
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plicato con maestria ai brani di Kiwanuka. Per non parlare delle copertine di entrambi gli album: sia “Rome” che “Love&Hate” sono rappresentati da un cuore stilizzato (nel primo caso nero su sfondo bianco, nel secondo con sfumatura di grigi su sfondo nero). Sette anni nei quali il sound non è invecchiato ma che invece, come nelle migliori tradizioni alcooliche, è aumentato di sapore e valore. Considero “Rome” (che appare come una soundtrack di un film immaginario, nulla a che vedere con il pluripremiato film di Alfonso Cuarón) un album prezioso, oltre che per il pregiatissimo contenuto, anche per l’eterogena collaborazione degli artisti coinvolti. Senza barriere e confini, uniti per un progetto che, sebbene non abbia lasciato il segno nella discografia mondiale, rientra a pieno titolo in quei piccoli gioielli sonori che, una volta scovati, sai che verrà suonato parecchie volte sullo stereo casalingo. È pertanto consigliabile avere sia “Love&Hate” che “Rome”, per quel senso di completezza che può dare la musica a distanza di tempo. Le buone idee non hanno scadenza e, in questi anni usa e getta, l’accoppiata dimostra come il tempo non abbia cancellato i semi gettati da Danger Mouse in “Rome”. Una volta incontrato Kiwanuka è come se i pezzi di un puzzle sonoro avessero trovato la loro destinazione migliore. Analogo lavoro, Danger Mouse, lo aveva realizzato sempre lo scorso anno, sei mesi prima dell’ultimo lavoro omonimo di Kiwanuka, con l’album di Karen O, ovvero “Karen Lee Orzołek” già cantante con gli Yeah Yeah Yeahs. Il brano di apertura, “Lux Prima”, condivide con “Love&Hate” arrangiamento (dai cori ai suoni) e durata. Tutto il disco di Karen O ha il suono di Danger Mouse, che si è poi sviluppato ulteriormente con le canzoni di Kiwanuka. Tra l’altro, lo stesso Michael, ha collaborato con Karen O nel brano “Yo! My Saint” (colonna sonora di un corto per la casa di moda francese Kenzo). Quando, a novembre 2019 esce l’ultimo album di Michael Kiwanuka, ci accoglie una grafica particolare. Un ritratto in stile regale dello stesso Kiwanuka, frutto del lavoro di Markeidric Walker, giovane artista del mondo dell’arte con forti legami nella tradizione della pittura classica, che non è nuovo a prestare la sua abilità ad artisti provenienti dal mondo della musica (markeidric.art). L’immagine scelta per l’album sottintende un risveglio culturale della comunità black, un richiamo alle proprie origini (nel caso di Kiwanuka, ugandesi). Nell’album precedente il brano “I’m A Man Black In A White World” risultava come un mantra che non ha necessariamente bisogno di molte spiegazioni e/o elucubrazioni. Nel titolo e nella ripetitività dello stesso c’è la necessaria rivendicazione di un’identità che, incredibilmente ancora oggi, non è così scontata. Il seme di quel brano è germogliato nella visione politica di “Hero”, semplice quanto stupenda, che riporta alla memoria Fred Hampton, afroamericano membro e portavoce del movimento Black Panther Party, ucciso a Chicago la mattina del 4 dicembre 1969 da un efferato attacco delle forze di polizia. Durante l’incursione, Hampton non fu Photo by Official Facebook Page l’unico a cadere sotto i colpi della polizia. Gli omicidi scaturiti da un assalto premeditato non hanno mai avuto la giusta condanna dei colpevoli e solo nel 1982 le famiglie degli attivisti caduti si sono viste riconoscere un indennizzo monetario a fronte di una giustizia che deve fare ancora parecchia strada prima di ritenersi tale. Canzoni che delineano i tratti del pensiero politico di Kiwanuka e che rientrano in un percorso personale fatto di auto-determinazione e
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accettazione della propria individualità. Negli ultimi anni le sofferenze personali avevano gettato alcune ombre nella vita di Michael risolte anche, e non solo, attraverso la scrittura di canzoni intime. Necessarie a sviluppare un proprio percorso che avrebbe potuto rivelarsi troppo fragile in un mondo spietato come quello dello spettacolo. Proprio su questi argomenti si appoggiano i testi di perle come “You Ain’t The Problem”, “Piano Joint”, “Living In Denial” o “Solid Ground”. Vengono passati al setaccio i luoghi comuni (sei nero? La tua musica è il rap), i pregiudizi, le avversità sentimentali e le emozioni di un black man che sa di camminare sotto gli occhi di molte persone la cui unica peculiarità è l’aridità di pensiero. Amo questo disco e lo ascolto a ripetizione. È una lezione di storia, di sentimenti, di musica. Ricordo che la prima reazione che ebbi, quando ascoltai per la prima volta i suoi brani, fu quella di argomentare come se fosse avvenuto un passaggio di consegne che fino a oggi era rimasto incompiuto. Quando Otis Redding scrisse “The Dock Of The Bay”, non solo scrisse una grande canzone, uscita postuma alla sua scomparsa e terminata in studio dal chitarrista Steve Crooper (un bianco alla corte della musica soul, argomento questo che andrebbe approfondito insieme a tutto quello che gravitava intorno a Muscle Shoals), ma era una sorta di ponte tra la musica soul e la musica folk. Non possiamo immaginare cosa Otis Redding ci avrebbe potuto regalare negli anni ma, ascoltando i brani di Kiwanuka, mi sono fatto questa idea, ovvero che Michael è quello che più di ogni altro è riuscito a completare quel ponte, a passarci sopra e arrivare dall’altra parte. In un’intervista pubblicata dopo l’uscita di “Love&Hate”, oltre a compiacersi degli accostamenti con Curtis Mayfield e Marvin Gaye, disse che quello che l’aveva inorgoglito era stato il giudizio di chi l’aveva paragonato a un Bob Dylan nero. Soulfolkrock che diamine! Sono proprio entusiasta di questo artista. Dopo averlo visto lo scorso dicembre a Milano (e ancora non immaginavo potesse essere uno degli ultimi spettacoli live sulla terra…. Ok esagero, ma sicuramente passerà del tempo prima di poter stare sotto l’ennesimo palco e, ahimè, anche sopra naturalmente), ho avuto la conferma dell’onestà che contraddistingue la sua musica, dello spessore dei suoi testi accompagnati da scelte semplici ma arrangiate con una cura che fa diventare grandi i soliti tre accordi. Lo stesso discorso applicato ai Wilco: due, tre accordi suonati con l’idea giusta diventano grandi canzoni. Accordi che può suonare chiunque, come nella migliore tradizione. Non serve complicarsi la vita, già complicata di suo, serve solo la giusta occasione, spesso aleatoria, per trasformare un giro folk nella canzone che ti porterai dentro per mesi e mesi. A margine segnalo che, tra “Love&Hate” e l’album omonimo, ha pubblicato il singolo “Money”, in collaborazione con il bassista Tom Misch. Un brano prettamente funk-dance anni ottanta dal significativo testo sulla pericolosità dell’amore per il denaro e dell’avidità che da esso può scaturire. Avevo bisogno di questo soulman: non è edulcorato, è semplice, è onesto, suona e canta come se fosse l’unica cosa che può renderlo vivo. È musica dai suoni e dalla scrittura vintage arrangiata con gusti moderni. Apprezzabile sotto ogni punto di vista. Ha le mani e la testa per scrivere belle canzoni. Sulla sua strada ha trovato i produttori giusti per la sua musica e le nostre orecchie. E siccome sognare pare non costi ancora nulla, un bel lavoro a quattro mani con Jeff Tweedy (che ha già esplorato in tre lavori la musica soul producendo e scrivendo canzoni per la grandissima Mavis Staples) aiuterebbe la mia curiosità a esplorare ulteriori territori sonori. Play it loud. (MA)
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Rock Covers # 1
“THE DOORS - Morrison Hotel” Un capolavoro che compie 50 anni di Agostino Rocallo - Buongiorno, noi vorremmo fare una fotografia qui, nella hall dell’hotel. - Una fotografia, adesso ? - Sì certo, in questo momento, è possibile ? - No no, non è possibile, vedete, il proprietario non c’è, dovrei chiedere a lui ! - Ma scusi, perché mai il proprietario dovrebbe essere contrario all’idea ? - Non lo so, ma senza di lui non posso darvi il permesso. Il Morrison Hotel era un vecchio e fetido albergo nel centro di Los Angeles. Jim ne era affascinato, un po’ perché quel luogo portava il suo cognome ma anche per il carattere alquanto “retrò” che l’ambiente possedeva. Così quel giorno i Doors avevano convocato Henry Diltz per scattare le fotografie all’interno. Ma non avevano previsto di incontrare tante difficoltà : il ragazzo dietro al banco sembrava avere un timor panico del proprietario che, con ogni probabilità, doveva essere uno dei capi mafiosi dei bassifondi di quel quartiere. Guai a fare qualcosa senza il suo permesso! Jim uscì dal locale con le pive nel sacco, andare in quel momento a cercare il proprietario dell’hotel appariva un’impresa disperata. Tuttavia, una volta all’esterno, Henry vide una luce particolare provenire dall’interno della hall, osservò con attenzione e notò che il ragazzo era scomparso, probabilmente era salito ai piani superiori in ascensore. Così, rivolse lo sguardo ai musicisti.
- Presto, rientrate dentro e mettetevi dietro al vetro delle finestra! - Rientrare? Dico ma sei impazzito? - So quello che dico, ma sbrigatevi, non c’è tempo da perdere! Fu così che Henry scattò un intero rullino di fotografie per poi allontanarsi rapidamente. Fu a quel punto che Jim disse “andiamo a bere qualcosa”. Si ritrovarono così, Henry e i Doors, a Skid Row, nel centro della città, lontano sei isolati dal Morrison hotel. Laggiù, erano tutti anonimi bar, ma a un certo punto la la comitiva notò un locale stile anni trenta dal nome suggestivo : Hard Rock Cafe.
- Ma no, che coincidenza! - Entriamo a bere qualche birra! - D’accordo, ma prima voglio scattare alcune fotografie. Una di queste fotografie compare sul retro di copertina e completa così il progetto grafico del quinto album dei The Doors “Morrison Hotel”, pubblicato in vinile nel febbraio del 1970. Il disco segnerà il ritorno del gruppo verso atmosfere più hard rock e blues e, anche senza singoli di particolare successo, ebbe buon impatto. Fu data più importanza alla musica e agli arrangiamenti che non ai testi, cosa che ai fan non andò giù un gran che a dire il vero.
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Era un tipo particolare Henry Diltz, non aveva studiato fotografia né frequentato scuole d’arte, tantomeno le tecniche di illuminazione dei fondali; tutto quello che sapeva fare era guardare dentro il mirino, inquadrare nel modo desiderato e scattare. Un giorno, partecipando a un raduno hippy conobbe l’architetto Gary Burden col quale da subito era nata una spontanea amicizia. Un giorno entrambi si trovarono con Mama Cass per la quale Gary stava disegnando la nuova casa. Mama aveva da poco rotto col quartetto Mamas & Papas e aveva chiesto a Gary:
- Perché non disegni la copertina del mio primo album solista? - Ma io sono un architetto, non saprei davvero come fare! - Ma progettare una casa o la copertina di un disco, è la stessa cosa, no? Voglio dire, pur sempre è arte! - Potrei provare ma tu, Henry, mi daresti una mano per le fotografie? Fu così che i due diventarono una squadra e tra le prime copertine che realizzarono vi fu quella di Crosby, Stills e Nash. Il loro modo di lavorare era veramente particolare, amavano portare gli artisti lontano dalle famiglie e dalle ragazze, in viaggi avventurosi che tuttavia erano l’occasione per conoscersi e per scattare fotografie. Era in quelle occasioni che nascevano le idee per le copertine che diventavano così autentiche opere d’arte. Henry e Gary portarono un giorno gli Eagles nel parco naturale di Joshua Tree e finirono per passare tutta la notte a mangiare peyote, una pianta alcaloide dagli effetti allucinogeni. Che tipo era Gary! Un produttore artistico dalla grande personalità. Henry non dimenticherà le discussioni con la tipografia:
- Voglio che stampiate questa fotografia di Morrison Hotel non sul lato lucido su cui si stampano di norma le copertine degli album, voglio che girate e lo stampiate sul lato non rifinito. - Ma non l’abbiamo mai fatto! - Non mi importa, lo facciamo ora!
Photo by Henry Diltz
La casa editrice protestò ma alla fine si scoprì che la soluzione era bella ed elegante perché aveva anche una certa consistenza al tatto. Da quel giorno, con l’uscita dell’album dei Doors, negli states si iniziarono a stampare cover “cartonate”, non più in laminato ma su un cartone grezzo e spesso, più spesso delle copertine europee. Ma non è solo questione di tatto: occorre vederla la foto di Henry Diltz, osservare quella fotografia stampata intenzionalmente a grana grossa, notare quei volti perplessi dietro un vetro, preoccupati del possibile sopraggiungere del proprietario dell’hotel Morrison. (AR)
DISCHI DI ULTIMA GENERAZIONE
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TUTTI FENOMENI - GULINO - PAOLO BENVEGNU’ TUTTI FENOMENI — Merce funebre (42 Records, 2019) - 11 tracce, 34 minuti a stime. CD acquistato c/o 42 Records shop € 14,00 + spese di spedizione L’esordio Indizi. La “Marcia funebre” di Chopin citata nella prima e ultima traccia. “Hiknet” è dedicata al poeta turco Nazim Hikmet e contiene versi di opere famose di Mozart, Verdi e Bizet. Un altro pezzo è dedicato a Proust. Potrebbe ricordarvi qualcuno di cui abbiamo brevemente parlato in questo numero? E poi vai con Leopardi, Anna Bolena, Che Guevara, Battisti e Mogol, Diabolik, Mozart, Ratzinger, David Byrne, Napoleone, Leonardo, Enrico Fermi, Richard Feynman, Caravaggio e Carlo Magno. Un pantheon degno della cover di Sgt.Pepper. E di sicuro qualcuno me lo sono dimenticato. Giorgio Quarzo Guarascio è poco più di un ragazzo con alla spalle svariate esperienze nella scena Trap romana, scena in cui si è contraddistinto soprattutto per un sapiente e tagliente uso delle parole. Ma la Trap non è il suo stile e se la frequenta lo fa più per amicizia con molti suoi compagni di liceo. Lentamente quello che ha in mente cresce in cameretta, e alla fine ci prova a farla la sua cosa e addirittura 42 Records gli mette a fianco Niccolò Contessa de I Cani, un produttore/autore sulla bocca di tutti. Sembra una fiaba, ma non lo è perché “Merce Funebre” non è un disco simpatico, e non ha un finale che può piacere a tutti. Quello che mi ha colpito è la personalità di Tutti Fenomeni. Se soprassediamo dal valore musicale delle basi, della produzione, e dei suoni veri, in paio di brani suona il sassofono Francesco Consaga, fedele scudiero di Rosanna Casale ci troviamo davanti uno che ci dice che l’Italia dal punto di vista culturale è già fallita. Un disco breve e concentrato dove il gusto elettronico si mischia con melodia e parola, per creare l’ennesimo sguardo stranito su questo paese. Dopo l’intro strumentale della title track partono una dietro l’altra “Valori aggiunti” e “Metabolismo”. Due hit ? Chi può dirlo se canti cose del tipo “i poeti morti non portano il cane / non hanno tatuaggi” o “viscidi burattini si fingono senza fili” non posso giurare che si vada in cima all’Hit Parade degli ascolti su Spotify. “Mogol” è strisciante nenia disperata “io quando mi impicco penso positivo che prima o poi la corda si spezza”. “Reykjavik” è divertente ma quel “rivoluzionari vestiti di merda come me….come il Che” qualcuno non la digerirà. “Diabolik” è geniale ha un paio di versi epocali “Mediocri governano la nostra estetica / Ti amo solo dopo il 91°” oppure “al 99% delle donne non piace il calcio perché sono furbe”. Di “Hikmet” abbiamo detto a chi è dedicata e il suo finale ci consegna un ometto che sta diventando grande “Io mi innamorerò di te e nel momento stesso in cui ti afferrerò sarai inaccessibile”. “Filosofia” e “Marcel” sono steroidi per le casse ad alta fedeltà, la prima “L’unica filosofia che studi sono i milioni in banca di Jovanotti” e la seconda “Qui c’è odore persistente di quel tipo di ambiente / Vorrei trovare un sinonimo ma mi viene proprio borghese”. A seguire la spedita “Qualcuno che si esplode” un testo che parla di rabbia e amore “Ed io farò di te un’icona santa / Mortale come volontà, cieca a sé stessa” e infine “Trauermarsch” che chiude il tutto alla grande con il passaggio memorabile “non sono appariscente come un papa tedesco” e con le litanie lauretane a suggellare il tutto. Credo che Tutti fenomeni sia molto rock mentre Giorgio Quarzo Guarascio è un po’ tipo un rapper. Sono criptico? Bè allora ci vado giù diretto, il ragazzo è un diamante puro e io so già che quest’anno “Merce funebre” lo suonerò tantissimo. Forza Giorgio “andiamo a fare il mondo bello!” (MS)
GULINO — Urlo Gigante (WOODWORM, 2020) - 11 tracce, 32 minuti scarsi. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 19,50 L’esordio di Francesco Gulino, noto ai più come il cantante di Marta sui tubi, è un bell’esordio. Lo dico subito. Sono diverse le sfumature che prende questo disco soprattutto a livello musicale, mentre i testi tendono perlopiù al sentimento, a parte “Sto” e “Fammi ridere”, che definirei socio esistenziali. Dicevamo della musica, essendo un esordio solista potrebbe anche essere un tentativo per trovare una direzione prossima ventura, anche se qui la strada
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intrapresa sembra ben delineata, Francesco cammina verso un pop diciamo “radioraffinato”. Molti dei pezzi incisi sono stati scritti e prodotti per “suonare”, non c’è dubbio o vergogna in questo. Sgomberiamo il campo, Marta oltre che essere sui tubi è molto lontana da qua. Non per fare lo snob ma i pezzi più ricercati, coraggiosi e anomali del breve disco, una mezzoretta, “Albergo a ore” uno scheletro jazz con parte evocativa che contiene il richiamo alla copertina del disco, “Dormiveglia” bella interpretazione e la conclusiva e breve “Il tempo lo dai tu”, mi piacciono molto e sono il vero stacco con il passato di Gulino. Il resto, che è anche la maggior parte del disco, viaggia molto bene, ma su ben altri canoni. Anche questi distanti da Marta. Il tentativo è quello di proporre canzoni pop, radiofoniche con dei testi intelligenti e se possibile sfruttare le grandi doti vocali dell’interprete. Tutto qui. A volte la sfumatura è più raffinata e pop vedi “Un grammo di cielo” oppure “Tra le dita” o “Sballamore” altre è più rock-pop sentire “Bambi”, “Fammi ridere” e “Sto” la canzone che il Liga non riesce più a scrivere e dove Gulino gioca un po’ con il rap. A mettere d’accordo tutti c’è poi “Lasciarsi insieme” un featuring con Veronica Lucchesi de La rappresentante di lista e il produttore veneto Matthew S, un pezzo pop d’amore e dolore che farebbe strage di cuori sulle nostre spiagge se solo la prossima fosse un’estate normale. Pezzi così ne hanno già scritti mille ma ogni volta nuova è sempre un piacere. Alla produzione c’è Fabio Gargiulo uno che ha lavorato con Motta, Clementino, Arisa e Ramazotti, al pianoforte, strumento importante in queste canzoni, Andrea Manzoni, alle chitarre Carmelo Pipitone di Marta sui tubi, alle percussioni Daniele Plentz dei Selton e gli arrangiamenti degli archi sono stati realizzati e scritti da Davide Rossi (Verve, Coldplay, Röiksopp, Dido e molti altri). Un disco bello, scritto, suonato e interpretato ottimamente. Se cercate solo capolavori sarete delusi se vi danno ancora soddisfazione i dischi “normali” godrete sicuramente. Una critica? Ci volevano due pezzi in più. (MS)
PAOLO BENVEGNU’ — Dell’odio dell’innocenza (Black Candy Records, 2020) - 11 tracce, 45 minuti meno qualcosa. CD acquistato c/o Papermoon Biella € 14,00 C’è una sorta di preveggenza nell’opera di certi artisti? Con un titolo come “Dell’odio dell’innocenza”, questo disco non poteva uscire in un periodo migliore. Se mi sente Benvegnù mi spacca la chitarra sulla testa. La musica dell’ex frontman degli Scisma nella sua storia cantautorale, perché di questo tratta la materia, di cantautorato, non è mai stata di facile assimilazione. Non siamo davanti a un tipo di cantautore alla “anni settanta” per capirci, ma a uno che innanzitutto suona con una band e scrive canzoni come fossero un flusso di coscienza. C’è poco da dire, Benvegnù è da anni uno dei migliori nella sua categoria e questo disco ce lo dimostra ancora una volta. La raccolta ricalca perfettamente lo stile del cantautore milanese, abbastanza quadrato, tutto sommato più tranquillo rispetto agli ultimi suoi dischi e fieramente indipendente, nella scrittura, nelle tematiche e nel modo di svelare linee melodiche avvolgenti e vibranti. C’è un passaggio del pezzo che apre l’album, “La nostra vita innocente” che dice “io ti difenderò come solo le bestie sanno fare” è un immagine che mi piace molto, l’anteporsi a difesa del più debole, porre il proprio corpo a difesa di un figlio, di un amore di un’idea. Un istinto fiero che non scende a compromessi, non tratta, non dialoga. Come la musica di Paolo. Che vi devo dire dei pezzi? Blocchi di granito scolpiti da un Michelangelo questo mi sembrano. Parola dopo parola, fraseggio dopo fraseggio, visione dopo visione sembra di assistere allo svelamento di un’opera d’arte. Segnalerei il trittico “Infinito” numerato in sequenza 1, 3 e 2 e chiuso da “Infinitoalessandrofiori” come trama del disco, ragnatela che lega il tutto in un immaginifico finale che comprende anche la stupenda “Non torniamo più”, l’indie pop di “Altra ipotesi sul vuoto”, il rockaccio di “Animali di superficie”. “Conoscere non è niente / è il centro di ogni cosa che è sacro”, “La costruzione è non inventare niente”, “Io conosco gli umani e preferisco le pietre”, “A voi non interessa niente / Sfamate il mostro e azzannate l’innocente / libertà e distruzione ecco il sol dell’avvenire”. Eccolo il Paolo Benvegnù del 2020, in tutto il suo splendore. Bellissimo. Dei tre presentati in queste pagine il migliore. (MS)
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L’ESTATE ENIGMISTICA : cruciverba baustelliano 1
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ORIZZONTALI 1. Quelli dell’Occidente 6. Lo sport di Charlie 10. La canzone di Delon 11. Contrario di male 12. Una canzone di “Amen” 13. Iniziali di Diego Palazzo 15. Iniziali di Eric Rohmer 16. Targa di Ravenna 17. Iniziali di Amerigo Verardi 18. Targa di Asti 19. Targa di Siena 20. La protagonista de “Il liberismo ha i giorni contati” 21. Iniziali di Nicola Manzan 22. Il corvo in “La malavita” 24. Una canzone di “La moda del lento” 26. Iniziali di Ettore Bianconi 28. Repubblica Federale 30. Joseph autore di “Cuore di Tenebra” 33. Iniziali di Ezra Pound 34. La città del brano cantato con Valeria Golino 35. Targa di Teramo 36. Iniziali di Marco Tagliola 38. La targa della città citata in “Cristina” 39. Nazione del produttore de “I mistici dell’Occidente” 40. Il nome di McCarthy 41. La ragazza di “A vita bassa” 42. Iniziali di Platini Michel 46. Gianluca storico fotografo dei Baustelle 47. L’era della canzone contenuta in “L’amore e la violenza” VERTICALI 1. Una canzone de “La moda del lento” 2. L’articolo che precede sottoscritto 3. C’è ne “Il sussidiario illustrato della giovinezza” 4. Pronome personale è nel verso “sei sistemato che prezzo hai pagato” 5. Il colore che apre “I mistici dell’Occidente” 6. Un pezzo di “La malavita” 7. Precede “romantico a Milano” 8. Il pezzo con le sigarette da “La moda del lento” 9. Parla ne “La canzone del parco” 11. Baustelle: inizio e fine 14. Targa di Pavia 16. Gracchiano negli stagni 23. Il genere del film nel provino di “Cinecittà” 25. Iniziali di Bastrenghi Rachele 27. Una canzone de “L’amore e la violenza” 28. La dark in “Amen” 29. Iniziali di Fabrizio Massara 31. La cronaca che apre “La malavita” 32. Iniziali di Alessandro Alessandroni 34. Iniziali di Rachele Bastrenghi 36. Metà di mare 37. La moda che da il titolo a un album dei Baustelle 39. Esercito Italiano 40. Iniziali di Piero Manzoni 43. Iniziali di Alessandro Maiorino 44. Iniziali di Maurizio Catellan 45. L’articolo che precede “Bambolina”
LA VOCE DEL PADRONE
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Facciamo noi la festa ai Baustelle. A vent’anni dall’uscita di “Sussidiario illustrato della giovinezza”, il secondo numero della rinata WolverNight è (quasi) tutto per loro. Riserviamo onori, applausi e riverenze ma, in perfetto stile western, anche un po’ di polvere sull’abito buono. Il gruppo toscano, è la perfetta incarnazione di quelli che ce l’hanno fatta. Punto di riferimento per molti gruppi “provinciali” disseminati nella nostra profonda e anestetica provincia. Loro, partiti da una terra periferica rispetto alle rotte del rock sia major che indipendente, e arrivati a conquistare il premio Tenco (primo gruppo ad aggiudicarselo), il Nastro d’Argento e a realizzare quattro dischi d’oro e uno di platino, tanto per restare solo sui riconoscimenti maggiori. Certo che per arrivare dove sono arrivati cose da dire ne devono avere avute e mica sempre sono state parole dolci e accomodanti. E per arrivare dove sono hanno soprattutto creato un suono, uno stile, un mood. Qualsiasi loro pezzo passi alla radio, in banca, al supermarket, in spiaggia o al bar lo riconosci. E queste sono le stimmate della grande band. Grande band anche perché sono un bel gruppo di persone e l’alchimia fra i tre, musicale e umana, non è un particolare da pesare con leggerezza. La scrittura di Bianconi, la sua voce e quella di Rachele, gli stili eclettici e puliti di Claudio sono colonne su cui poggia la base de il successo di Baustelle, ma, prima viene l’intesa fra loro. Sarebbe stato perfetto poter parlare anche del primo disco solista di Francesco Bianconi “Forever”, dato in uscita in primavera e poi spostato in autunno a causa della pandemia. Nel tanto dolore ingoiato in questi mesi dire una cosa del genere, sembra un insulto a chi ha perso affetti , lavoro e ha lottato negli ospedali, perdonatemi ma andava detto. Averne potuto parlare avrebbe chiuso un cerchio. Per farcela passare abbiamo inventato però... il primo solista di Rachele. E’ un numero che vi sfinirà di Baustelle, poi non ne potrete più. Ne parla sotto diversi aspetti, da quelli più seriosi e quelli più leggeri. Ma parliamo anche di altro. Di Motta e di alcuni dischi di artisti italiani Gulino, Benvegnù e Tutti Fenomeni, usciti a inizio anno. Salutiamo Grandi Firme che ritornano su WN (Michele, Lewis, Agostino), un esordio Mauro e gradite conferme come Marco Denti (Punky-Reggae-Party) e Michele Anelli che ci parla di Michael Kiwanuka. Buona lettura e buona estate enigmatica e ricordatevi che in fondo in fondo “Francesco cerca il bene”. (MS) Un abbraccio alle famiglie di Giorgio Borghini e Roberto Pedretti
TITOLI DI CODA BAUSTELLE - L’uomo del secolo (da “Amen” Atlantic, 2008) La canzone dedicata al nonno di Bianconi. Quella dall’inizio che è un martello. Introdotta dalla Rachele e presa per mano dal Francesco. Uno sguardo al passato per una canzone non autobiografica ma personale, intima, sentita. In questi decenni nero becero, tra virus, sovranismi, austerità e relazioni sviluppate sull’ Iphone se ci venisse in mente una sola volta, una, chi coi fazzoletti rosso, verde, giallo, azzurro e viola ha combattuto per darci questa “libertà condizionata”, magari se ci pensassimo, potremmo anche iniziare a picconare quel “condizionata”. Il finale con la fisa di Alessandroni la lega inesorabilmente a “Le radici e le ali” dei Severini. Sono commosso ? No, fuori di me. (KL) “Avevo un sogno, una speranza / Arrivederci, amore, addio” Other Notes: WolverNight 52 è stato prodotto, mixato e arrangiato da Kurt Logan presso lo studio “Hyde Park House” in via Pianezza n°2 a Bracchio di Mergozzo (VB). Nelle notti del 15, 16, 25, 26, 29 Maggio e 1,2,3 e 4 Giugno 2020 sulle note di: GULINO - Urlo gigante, ANDY SHAUF - The Neon Skyline, PAOLO BENVEGNU’- Dell’odio dell’innocenza, THE WAVE PICTURES - Look Inside Your Heart, PORRIDGE RADIO - Every Bad, LEONARD COHEN - You Want It Darker, RY COODER - My Name Is Buddy, DAVID BYRNE & BRIAN ENO - My Life In The Bush Of Ghosts, KING CRIMSON - Islands, THE PERFECT DISASTER - Heaven Scent, PEARL JAM - Gigaton, THE HIGH - Somewhere Soon.
# 52 GIUGNO 2020