N. 03 . A. II . 05.2019 COPIA OMAGGIO I
LA GRANDE ANNÉE
champagne
food
HENRI GIRAUD, L’INCONTRO TRA LA FORESTA E LO CHAMPAGNE
TERRA RESTAURANT: ARTE, POESIA E MATERIA
Henri Giraud, a meeting between forest and Champagne food
[BU:R] FONETICA, IDEE E GENIO
[bu:r] phonetics, ideas and geniality
Terra restaurant: art, poetry and matter travel
SAN FRANCISCO DREAMIN’ San Francisco dreamin’
travel
ZILLERTAL: LA RELAXING VALLEY Zillertal: relaxing valley
hotel
STANGLWIRT, UN SOGNO LUNGO 400 ANNI Stanglwirt, a dream that has been going on for 400 years
beijing
forlĂŹ
london
los angeles
miami
milan
milano marittima
luxurylivinggroup.com
moscow
new york
paris
luxury leader
di Bruno Petronilli
ELOGIO ALL’IMPERFEZIONE in praise of imperfection
There is nothing more boring than perfection. Those who live perfectly are condemned to a nightmare life, constantly dealing with the parameters of a planned existence, with mandatory choices to follow the lines which have been drawn along their path a long time ago. Perfection means getting rid of the unforeseen. On the other hand, it is exactly the unforeseen that defines our creative ability, in everything we do. While I write this editorial I am listening to The Köln Concert by Keith Jarrett, a very famous record, which I’m sure I have played on my sound system at least several hundred times… and I still have not got tired of it. Why? Right, why? The answer is simpler than it might seem: that record – unanimously acknowledged as a masterpiece – is not perfect. The Keith Jarrett 1975 concert is possibly the most celebrated piano solo in the history of jazz. I have been lucky enough to see dozens of Jarrett concerts over the past 25 years. In 1975, however, I was far too young, and I did not even know that jazz existed, let alone Jarrett. So for all these years I have felt kind of sad thinking about how exciting it would have been to be in Cologne on 24 January 1975, in front of that stage. One thing I have understood, though: if you expect to have everything from life, the risk is that you get left with nothing. This includes the joy of appreciating what we have and what we have gained by reading, loving, travelling, struggling, facing up to victories and defeats. Imperfection is the key, the subtle awareness that you have never got there completely. It is the certainty that every day is different from any other, that it is bound to bring another challenge, another struggle, new excitement. Indeed, there is always something to learn, new inputs, new suggestions. If Jarrett had thought that he had played the best concert in his life, this would have deprived us of all the rest of an amazing career. Those music pieces resulting from a genius mind have moments of extraordinary rhythm, but also instants of pauses, uncertainties, imperfections, where Jarrett searches for notes, reflects, suffers, looking inside himself to find a way out, a sense for what he is playing. It is a gentle, harmonic shape, a musical face to be attributed to its unlikely interiority. Everything we do speaks of love, death, pain, a happy, carefree approach, effort, commitment and - of course - beauty. This applies to everything we do, without exception. What is important is to remain always consistent, being aware that we have done our best. This involves knowing that we are imperfect, that tomorrow we may enhance our life, our job, our affections. Expecting to be perfect, hiding our true identity, is a failure which will make us miserable. There is, paradoxically, one lower step which we can reach in striving for perfection: expecting it without fail from other people. JAMESMAGAZINE.IT
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Non c’è cosa più noiosa della perfezione. Coloro che vivono nella perfezione sono condannati a una vita da incubo, costantemente alle prese con i parametri di un’esistenza programmata, con scelte obbligate per rispettare i paletti già piantati da tempo sul loro cammino. La perfezione prevede l’annullamento dell’imprevisto. Ma è proprio l’imprevisto a definire la nostra capacità creativa, in tutte le cose che facciamo. Mentre scrivo questo editoriale sto ascoltando The Koln Concert di Kieth Jarrett, un disco molto famoso, che avrò messo sul piatto del mio impianto stereo almeno qualche centinaio di volte. E ancora non mi sono stancato. Perché? Già perché? La risposta è più semplice di quanto sembri. Quel disco, che è un capolavoro unanimemente riconosciuto, non è perfetto. Il concerto in cui si esibì Jarrett nel 1975 è forse l’esibizione piano solo più celebre della storia del Jazz. Ho avuto modo di assistere dal vivo a decine di concerti di Jarrett negli ultimi 25 anni. Ma nel 1975 ero troppo piccolo e non sapevo neppure dell’esistenza del Jazz, figuriamoci di Jarrett. E in tutto questo tempo ho sempre avvertito un senso di tristezza pensando a quanta emozione mi avrebbe dato essere a Colonia il 24 gennaio 1975, davanti a quel palco. Però ho capito una cosa: se si pretende di avere tutto dalla vita, si rischia di non avere niente. Neppure la gioia di apprezzare quello che abbiamo e che ci siamo conquistati leggendo, amando, viaggiando, lottando, affrontando vittorie e sconfitte. L’imperfezione è la chiave, quella sottile consapevolezza di non essere mai arrivati fino in fondo. La certezza che ogni giorno è diverso dall’altro, che sarà un’altra sfida, un’altra battaglia, una nuova emozione. Che c’è sempre qualcosa da imparare, nuovi stimoli, nuove suggestioni. Se Jarrett avesse pensato di aver suonato il miglior concerto della sua vita ci avrebbe negato tutto il resto di una carriera incredibile. Quei brani scaturiti da una mente musicale geniale hanno momenti di ritmo straordinario, ma anche istanti di pause, d’incertezze, d’imperfezioni, nelle quali Jarrett ricerca note, riflette, patisce, scrutando dentro si sé, per trovare una via d’uscita, un senso a quello che sta suonando. Una forma dolce, armonica, un volto musicale da dare alla sua inverosimile interiorità. Tutto quello che facciamo parla di amore, morte, sofferenza, felicità, spensieratezza, fatica, impegno e ovviamente bellezza. Qualunque cosa facciamo, senza distinzione. L’importante è essere coerenti con sé stessi. Sapere di avercela messa tutta. Consapevoli che siamo imperfetti, che domani possiamo rendere migliore la nostra vita, il nostro lavoro, i nostri affetti. La pretesa di essere perfetti, celando la nostra vera identità, è un fallimento che ci rende dei miserabili. Ma c’è per assurdo un gradino più basso che possiamo raggiungere nel pretendere perfezione. Quello di volerla per forza dagli altri.
N. 03 . A. II . 05.2019 Supplemento trimestrale a: Quarterly supplement to: jamesmagazine.it maggio 2019 / may 2019
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luca bonacini
manlio giustiniani
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bruno petronilli
hanno collaborato contributors
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San Francisco dreamin’
Barone Pizzini, le “radici” sono importanti
Giovanni Angelucci
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Giovanni Angelucci
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Mauritius, il paradiso (non) può attendere
Le auto nobili di 007
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Pietro Carlo Ferrario
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Manlio Giustiniani
Fût de Chêne: l’incontro tra la foresta e lo Champagne
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Manlio Giustiniani
Bollinger, tempo e leggenda
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Eleonora Galimberti
Armand De Brignac, lo champagne del lusso
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Gualtiero Spotti
La rivoluzione di Lima
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Bruno Petronilli
Terra: arte, poesia e materia
38
Luca Bonacini
[bu:r], fonetica, idee e genio
Bruno Petronilli
Zillertal, la relaxing valley
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Bruno Petronilli
Stanglwirt, un sogno lungo 400 anni
Alessandra Piubello
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Emanuele Alessandro Gobbi
La “mirabile visione” di Castiglion del Bosco
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Francesco Annibali
Sherry, armonie musicali
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Bruno Petronilli
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A. Lange & Söhne, tra arte e tecnologia
Hotel Metropol Mosca, tra mito e leggenda
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Bruno Petronilli
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Bruno Petronilli
Hotel Fanes, il lusso del vero benessere
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Bruno Petronilli
Hotel Vilòn: storia, cuore, Roma
77
Sofia Landoni
Satèn, la finezza assoluta della Franciacorta
Bruno Petronilli
CRN Latona, arte nautica su misura
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Carlo Mandelli
Range Rover Sport PHEV, il lusso è Green
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Carlo Mandelli
Moto Guzzi V85TT, l’aquila vola alto
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Bruno Petronilli
Painting the Stage by Skira
james bond
007’s aristocratic cars
LE AUTO NOBILI DI
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di Pietro Carlo Ferrario
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
According to the essay by Umberto Eco “Narrative structures in Fleming” in the collection “The Bond case” published by Bompiani in 1965, the creator of James Bond builds a perfect fictional machine using the safest and most universal “Manichean” elements, widely used archetypes in traditional fairy tales. This includes a set of antithetic characters: M is the King and Bond is the Knight, who is vested – on each occasion – with a mission; if Bond is the Knight, the Bad Guy is the Dragon; Damsel and Bad Guy are in the same relation as Beauty and the Beast; Bond, bringing back the Damsel to the fullness of spirit and senses, is the Prince who wakes up Sleeping Beauty; between Free World and Soviet Union, England and non-Anglo-Saxon countries the primal epic relation between Black and White, Good and Evil is restored. There are also other typical elements from “Fiabe italiane”, the fairy tales from popular tradition, collected and transcribed into standard Italian by Italo Calvino: Bond receives from Q a sort of wizard, weapons and magical objects which – like the capes or lamps of ancient times – will help the protagonist defeat the dragon, i.e. the gadgets. But what this modern-day Knight cannot do without is the ride, which in the popular and “thinghood” literature of the post-war period by a style-enthusiastic copywriter, is bound to be a dream car. Nevertheless, since there are as many cars as there are 007s, it’s difficult to decide what car James Bond drove, in the same way as it is hard to tell how his Martini cocktail should be prepared. Most people, thinking of famous movies, will say that Bond’s car is the Aston Martin, possibly in the DB5 version. We are actually talking about “The Most Famous Car in the World” (the title of a ground-breaking essay by Dave Worrall, Solo, 1981); this fame, apart from the legendary films made from Goldfinger and Thunderball in 1964 and ’65 respectively, is due to a promotional world tour which attracted the attention generally reserved to movie stars; between 17 September 1964 and January 1966 it reached London, Glasgow, Newport Pagnall and many other cities in the United Kingdom, the Motor Show in Paris, the Castle of Anet, New York, Los Angeles and San Francisco, St. Moritz, Germany, the Australian and Japanese coasts. It is bizarre to say the least to note that, along his path, the most unusual occurrences took place in Italy: for example, early one morning, on the Italian-Swiss border, Mike Ashley showed up driving a DB5, in smart clothes; he was the twenty-four year old Englishman chosen to drive the car because he was handsome and single (although he met his future wife exactly during that tour); the Italian customs officer who inspected the boot of the vehicle with interchangeable plates, bulletproof shield and smoke bombs, began to shout “Danger! Danger!”, assuming they had stopped a terrorist; in Milan, later, after the news had got out that the DB5 would be in Piazza Duomo at the end of Sunday Mass, 250,000 people crowded the square, some of them trying to rip out parts of the car; this was reported on the first page of La Domenica del Corriere; finally after stops in Modena, Florence and Rome, the car reached Sicily, where Ashley had to be protected by the police because there were rumours that the Aston was being targeted by the Mafia. In actual fact, it was discovered that also the local boss was a 007 fan; he proved extremely hospitable, inviting the Connery stand-in for lunch in his home (something which local government representatives did not do...). JAMESMAGAZINE.IT
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Come Umberto Eco esamina nel saggio “Le strutture narrative in Fleming” nella raccolta “Il caso Bond” edito da Bompani nel 1965, l’inventore di James Bond costruisce una macchina narrativa perfetta ricorrendo ai più sicuri e universali elementi “manichei”, archetipi ampiamente collaudati nelle fiabe tradizionali. Una serie di caratteri che entrano in opposizione: M è il Re e Bond il Cavaliere, che viene, di volta in volta, investito di una missione; se Bond è il Cavaliere, il Cattivo è il Drago; Donna e Cattivo stanno come la Bella alla Bestia; Bond, che riporta la Donna alla pienezza dello spirito e dei sensi, è il Principe che risveglia la Bella Dormiente; tra Mondo Libero e Unione Sovietica, Inghilterra e paesi non anglosassoni si ripropone il rapporto epico primitivo tra Bianco e Nero, Bene e Male. Non mancano altri elementi tipici anche delle “Fiabe italiane” raccolte dalla tradizione popolare e trascritte in lingua da Italo Calvino: Bond riceve da una sorta di Mago, Q, armi e oggetti magici che, come i mantelli o le lampade di un tempo, aiuteranno il protagonista a sconfiggere il drago, i gadget. Ma, soprattutto, a questo moderno Cavaliere non difetta la cavalcatura, che nella letteratura popolare e “cosale” del dopoguerra di un copywriter appassionato di stile, non può che essere un’automobile da sogno. Tuttavia, essendoci tante auto quanti 007, stabilire quale sia l’auto di James Bond è difficile, quanto definire come debba essere preparato il suo Martini cocktail. I più, pensando ai successi cinematografici, diranno che l’auto di Bond è l’Aston Martin, magari nel modello DB5. Del resto stiamo parlando della “The Most Famous Car in the World” (titolo un imprescindibile saggio di Dave Worrall, Solo, 1981), fama cui contribuì, oltre alle mitiche pellicole Goldfinger e Thunderball rispettivamente del ‘64 e del ‘65, un tour promozionale mondiale che attirò quell’attenzione che di solito si riserva alle star del cinema e che toccò, tra il 17 settembre 1964 ed il gennaio 1966, Londra, Glasgow, Newport Pagnall e moltissime altre città del Regno Unito, il Motor Show di Parigi, il Castello d’Anet, New York, Los Angeles e San Francisco, St. Moritz, la Germania, le coste australiane e giapponesi. Quantomeno bizzarro è constatare che, in tutto il percorso, gli episodi più singolari si sono verificati in Italia: ad esempio, quando, una mattina presto, al confine italo-svizzero, si presentò, al volante della DB5, in abiti eleganti Mike Ashley, il ventiquattrenne inglese scelto per condurre la vettura perché attraente e scapolo (ma che incontrò la sua futura moglie proprio durante quel tour), i doganieri italiani, ispezionando il bagagliaio con targhe interscambiabili, scudo antiproiettile e fumogeni, urlarono “Pericolo! Pericolo” ipotizzando di avere fermato un terrorista; a Milano, poi, dopo essersi diffusa la notizia che la DB5 si sarebbe presentata in Piazza Duomo alla fine della messa domenicale nel Duomo, accorsero 250.000 persone, alcune delle quali cercarono di divellere alcune parti della vettura, così come vennero immortalate nella prima pagina de La Domenica del Corriere; infine dopo le tappe a Modena, Firenze e Roma, l’auto arrivò in Sicilia, ove Ashley dovette essere scortato dalla polizia perché circolavano voci che l’Aston fosse entrata nel mirino della mafia. In effetti, si scoprì che anche il boss locale era un fan di 007, ma fu molto amichevole, ospitando il sostituto di Connery a pranzo nella propria magione (cosa che non fecero i rappresentanti del potere istituzionale…).
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L’Aston Martin DB5 rimane indissolubilmente legata a Bond tanto che in quasi tutti gli ultimi 8 film, quelli di Brosnan e Craig, ricompare frequentemente (nella quasi totalità dei casi) come auto di proprietà dell’agente segreto, magari perché vinta al gioco, mentre, parallelamente, il servizio segreto continua a fornire, come auto aziendali, i modelli dello stesso marchio inglese (Casinò Royale, Quantum of Solace, Spectre) o della BMW (Goldeneye, Il domani non muore mai, Il mondo non basta). In realtà nei romanzi di Ian Fleming (e di molti prosecutori) l’auto di proprietà di Bond è la Bentley a partire da Casinò Royale: una grande cabriolet convertibile color battleship grey comprata quasi nuova nel 1933 (infatti è del ‘29), custodita gelosamente durante la II Guerra Mondiale e revisionata da un vecchio meccanico vicino al suo appartamento a Chelsea, una delle ultime da 4.5 litri, con un compressore (volumetrico, non si usava il turbo) Amherst-Viliers, che raggiungeva comodamente la velocità di 145 km/h, con una riserva di altri 50. Non male già per il ‘53, figurarsi nel ’29, quando venne costruita per la 24 ore di Le Mans del 1930. Questa auto, tanto pittoresca, quanto vistosa (forse troppo per una spia) si fracassa definitivamente contro un guard-rail nel terzo romanzo della serie, dopo che nella prima missione era rimasta gravemente incidentata a causa del fatto che Le Chiffre aveva utilizzato il primo gadget letterario: un tappeto chiodato che viene sganciato dal bagagliaio della vettura di quest’ultimo. Bond la sostituisce con una Bentley MK VI del ‘53, di tipo sportivo, sempre scoperta e sempre dello stesso grigio (anche se nella traduzione italiana diventa grigio perla) e dalla lussuosa imbottitura in cuoio blu scuro. Questa vettura verrà cambiata in Thunderball (forse perché troppo “di serie”) con la “più personale di tutta l’Inghilterra”: una Continental Bentley Mark II, che un ricco idiota aveva sposato ad un palo telegrafico, cui 007, comprati i rottami a 1500 Sterline, aveva montato il nuovo motore della Mark IV con 9,5 di compressione, munito di larghi sedili in cuoio nero e di capotta automatica, verniciato di grigio opaco (difficile che le auto di 007 non assumano una delle tristemente note “Sfumature di grigio”). Il comandante Bond, particolare di non poco conto e degno del celebre snobismo dello scrittore, aveva voluto sostituire il marchio della B alata con un tappo ottagonale d’argento. Del resto, grazie alla biografia dell’amico John Pearson, scopriamo che Fleming aveva scritto una lettera al suo vicino di casa giamaicano Ivam Bryce, invitandolo a rimuovere tutti i contrassegni della casa dalla propria Bentley: “Dopo che hai pagato quel po’ po’ di quattrini, perché dovresti fare anche della pubblicità gratuita alla Rolls-Royce?”, la holding cui faceva capo il marchio Bentley. Tra tutti i film compaiono Bentley, come auto di proprietà dell’agente, in Dalla Russia con Amore del ’63 e Mai dire Mai del ’83 (tralasciando quella del primo Casinò Royale del ‘67, che pur rappresentando una parodia, ha il pregio di rendere fedelmente i gusti very british del protagonista, non a caso interpretato da David Niven): rispettivamente una Bentley verde, cabrio, con telefono, interno crema, che si direbbe una 4 ¼ prodotta tra il ‘36 ed il ‘39 in 1241 esemplari, non ancora completamente omologata alla versione strategica della Rolls Royce (forse in omaggio a Fleming che detestava il nuovo azionista) e una Bentley cabriolet grigio verde, una 4 ¼ Gurney Nutting Drophead Coupé del ’37. Nei romanzi che seguirono si mantiene la tradizione della nobile casata britannica, che ricompare ciclicamente, sempre per le auto di proprietà personale: nella serie di Gardner una Bentley Mulsanne Turbo comprata da Jack Barkeley Square, il più antico concessionario della marca, di color British Racing Green; una Turbo R in Obiettivo Decada del ’98 di Raymond Benson; appena citata in Solo di Boyd del 2013; semplicemente come 4 ½ in Trigger Mortis del 2015 e Mark II Continental in Forever and a Day di Horowitz del 2018; sinteticamente come “locomotiva” Continental ricostruita secondo le proprie esigenze in Non c’è Tempo per Morire di Sebastian Faulks del 2008 e nella aggiornata versione Continental GT coupé in Carta Bianca di Jeffery Deaver del 2011: un “lampo grigio” che 007 aveva sempre sognato grazie ai ritagli di giornale raccolti dal padre e acquistato prosciugando quanto restava del risarcimento assicurativo incassato dopo la morte dei genitori.
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and worthy of the famously snob writer, decided to replace the brand of the winged B with an octagonal silver cap. As a matter of fact, thanks to the biography of his friend John Pearson, we know that Fleming had written a letter to his Jamaican neighbour Ivam Bryce, inviting him to remove all logos of the house from the company: “After you paid so much money, why should you also advertise Rolls-Royce for free?”, the holding to which the Bentley brand belonged. All of the films include Bentley cars, owned by the secret agent, in From Russia with Love (1963) and Never Say Never Again 1983 (not to mention the first Casino Royale of 1967, which even though it is a parody, serves the purpose of very faithfully reproducing all of the very British tastes of the protagonist, who not by chance was played by David Niven): respectively a green Bentley cabriolet, with telephone, cream-coloured interiors, which looks like a 4¼ produced between 1936 and ‘39 in 1241 samples, not yet completely in line with the strategic Rolls Royce version (possibly as a tribute to Ian Fleming who hated the new shareholder), and a grey-green cabriolet Bentley, a 4 ¼ 1937 Gurney Nutting Drophead Coupé. In the following novels, the tradition of the aristocratic British house was preserved, which reappears on a regular basis, always on personally owned cars: in the Gardner series a Bentley Mulsanne Turbo bought from Jack Barkeley Square, the oldest dealer for this brand, in British Racing Green colour; a Turbo R in The Facts of Death of 1998 by Raymond Benson; mentioned in passing in Solo by Boyd of 2013; merely as 4½ in Trigger Mortis of 2015 and Mark II Continental in Forever and a Day by Horowitz of 2018; in short as Continental “locomotive” reconstructed according to individual needs in No Time to Die Sebastian Faulks of 2008 and in the updated Continental GT coupé version in in Carta Bianca by Jeffery Deaver in 2011: a “grey flash of lightning” which 007 had always dreamed about, because of newspaper cuttings collected by his father; he bought it using all that was left from the insurance refund which he collected after his parents’ death.
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The Aston Martin DB5 is of course inextricably linked with Bond, to the extent that in nearly all of the last eight films, specifically the ones with Pierce Brosnan and Daniel Craig, it is featured very frequently (in almost all cases) as the car owned by the secret agent, possibly having been won at a casino; at the same time, the secret service offices kept providing, as company cars, models from the same British brand (Casino Royale, Quantum of Solace, Spectre) or from BMW (Goldeneye, Tomorrow Never Dies, The World Is Not Enough). In actual fact, in the novels by Ian Fleming (as well as by many of his followers), the car owned by Bond is a Bentley, starting with Casino Royale: a large battleship-grey cabriolet convertible which was bought almost new in 1933 (it was made in 1929), carefully kept during World War II and checked by an elderly mechanic near his flat in Chelsea, one of the last 4.5 litres, with a (volumetric, no turbo was used) Amherst-Viliers compressor, which easily reached a speed of 145 km/h, with 50 more as reserve. It was not bad for 1953, let alone ’29, when it was built for the 24-Hour Le Mans race in 1930. This car, as picturesque as it was flashy (possibly too much for a spy), disastrously crashed against a guard-rail in the third novel of the series, after suffering a serious accident during the first mission due to the fact that Le Chiffre had used the first literary gadget: a carpet with nails which was released from the boot of his car. Bond replaced it with a 1953 Bentley MK VI sports car, also convertible and in the same shade of grey (even though in the Italian translation it has become pearl grey), and with luxurious dark-blue leather padding. This car was changed in Thunderball (probably because it was seen as too “standard”) with the “most individual model in the whole of England”: a Continental Bentley Mark II, which a wealthy idiot had hit against a telegraph pole, onto which 007, after buying the scrap for 1500 pounds, had assembled the new Mark IV engine with 9.5 compression, fitted with large black leather seat and automatically convertible, painted matt grey (it is unlikely for 007 cars not to have one of the sadly known “Shades of Grey”). Captain Bond, a not insignificant detail
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culti.com
di Manlio Giustiniani
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FÛT DE CHÊNE a meeting between forest and Champagne La Maison Henri Giraud si trova ad Aÿ, villaggio Grand Cru della Grande Vallée de la Marne, con i vigneti per la maggior parte piantati a Pinot Noir su suoli molto particolari: circa 30 centimerti di terra e poi il gesso della craie che arriva fino a 200 metri di profondità. Questo caratterizza il vino con la classica salinità dei terroir gessosi. La famiglia Hémart si stabilì ad Aÿ verso il 1625. All’inizio del XX secolo Léon Giraud sposò Miss Hémart e ricostruì i vigneti della famiglia distrutti dalla fillossera. Entrato in Azienda nel 1970 Claude Giraud, dodicesima generazione della famiglia Giraud-Hémart, dal 1983 conduce la Maison, che possiede 10 ettari di proprietà ad Aÿ, 35 parcelle, delle quali 26 piantate a Pinot Noir e 9 a Chardonnay, con vigne di età media tra 45 e 50 anni. Si approvvigiona da conferitori selezionati della Montagna di Reims per altri 15 ettari e la produzione totale è di circa 250.000 bottiglie.
Maison Henri Giraud is located in Aÿ, a Grand Cru village in the Grande Vallée de la Marne, where most of the vineyards are planted with Pinot Noir on very special soils: about 30 centimetres of earth, then the gypsum of the craie which reaches a depth of 200 metres. This characterizes a wine with the typical salinity of gypsum territories. The Hémart family moved to Aÿ around 1625. At the beginning of the 20th century, Léon Giraud married Miss Hémart and rebuilt the family vineyards which had been destroyed by phylloxera. Claude Giraud, started working for the company in 1970, the twelfth generation of the Giraud-Hémart family; he has been managing the Maison since 1983, owning 10 hectares of land in Aÿ, 35 plots, 26 of which planted with Pinot Noir and 9 with Chardonnay, where the average age of the vines is between 45 and 50 years. Selected suppliers from the Reims Mountain area are used for procurement on another 15 hectares, with total production amounting to about 250,000 bottles. JAMESMAGAZINE.IT
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L’INCONTRO TRA LA FORESTA E LO CHAMPAGNE
champagne
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In vigna si seguono i principi organici, non vengono utilizzati prodotti di sintesi, insetticidi o pesticidi, si fa l’inerbimento e si attua la confusione sessuale nei filari, vendemmiando nel momento di maturità ottimale dell’uva. Dal 2016 hanno abbandonato l’uso di contenitori in acciaio e tutte le cuvée sono vinificate in barrique: ne hanno 1.000 da 228 litri della foresta delle Argonne. La Henri Giraud è anche impegnata nella riabilitazione proprio di questa meravigliosa foresta, i cui legni alla fine degli anni ’60 servivano per la costruzione di imbarcazioni navali e per le botti. Poi fu abbandonata per l’avvento dei contenitori in acciaio. Oggi tutte le botti utilizzate hanno una tracciabilità del legno, che proviene da 10 diversi terroir: dopo aver registrato il numero della pianta e la data del taglio, le liste dei legni vengono invecchiate per 3 anni all’aria aperta. L’espressione che questi legni apportano ai vini dipenderà dunque dal tipo di suolo sui quali crescono questi alberi, dove la caratteristica del sottosuolo è la gaize, roccia di origine sedimentaria silicia, a grana fine e porosa, che permette all’albero di crescere più lentamente e quindi il legno è più fine: questo dona al vino un discreto tocco boisé, senza mai denaturare la natura e gli aromi del vino. La vinificazione in legno dà complessità e leggere note ossidative senza dominare sul frutto. Piacevolezza, maturità e territorio sono il motto della Maison. Sono Champagne dove prevale l’uso del Pinot Noir, vini corposi e strutturati, complessi ma di mirabile bevibilità. A inizio degli anni ’90 Claude ha creato la cuvée Fût de Chêne, che è stata millesimata fino all’annata 2000. Dal 2002 è diventata un multivintage (MV) con una base di circa il 70% di vino dell’annata indicata dopo il suffisso MV, e il restante 30% è affinato con il metodo della réserve perpétuelle. La cuvée millesimata ha preso il nome di Argonne ed prodotta dal 2002. Entrambe le cuvée svolgono la fermentazione alcolica e malolattica in Fût de Chêne da 228 lt. Dopo il tirage affinano tra 5 e 8 anni sui lieviti con un dosaggio finale di circa 7 g/l. Il dosaggio è importante dichiara lo Chef de Cave Legolvet, perché supporta l’espressione aromatica e aiuta lo champagne a una buona evoluzione nel tempo. Tutte le bottiglie sono chiuse con il metodo antico della graffa. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Piacevolezza, maturità e territorio sono il motto della Maison Pleasantness, maturity and territory are the motto of this Maison JAMESMAGAZINE.IT
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Claude Giraud
Organic principles are followed in the vineyard: no synthetic products, insecticides or pesticides are used; on the vines the practices of grassing and sexual confusion are used, with the grapes being collected when they are perfectly ripe. Since 2016 no steel containers are used, and all wine cuvées are produced in barriques: they have 1,000, holding 228 litres each, in the Argonne forest. Henri Giraud is also committed to reclaiming these wonderful forests, whose wood - at the end of the 1960s - was used to make boats and barrels. It was then abandoned when steel containers started to be used. Today all the barrels they use have a wood traceability system, from 10 different terroirs: after having recorded the number of the plant and the date it was cut, the wood strips are aged for three years in the open air. The expression which these woods bring to the wines will therefore depend on the type of soil on which these trees grow: where the characteristic underground rock is gaize, of sedimentary silica origin, with a fine and porous grain, which allows the tree to grow more slowly, so the wood becomes finer: this gives the wine a gentle boisé touch, without ever altering the nature and aromas of wine. The winemaking process in wood results in complex and light oxidation notes, without prevailing over the fruit. Pleasantness, maturity and territory are thus the motto of this Maison. In its champagne the use Pinot Noir prevails, full-bodied and well-structured wines, but excellently pleasant to taste. In the early 1990s Claude created the cuvée Fût de Chêne, which has been vintage until the year 2000. In 2002 it became what is known as multi-vintage (MV), with a base of about 70% wine from the year indicated after the suffix MV, and the remaining 30% refined using the method called réserve perpétuelle. This vintage cuvée has been named Argonne, and it has been produced since 2002. Both cuvées undergo alcohol and malolactic fermentation in Fût de Chêne holding 228 litres. After tirage they mature for five to eight years on yeasts, with final dosage of about 7 g/l. Dosage is important, says the Chef de Cave Legolvet, because it supports the aromatic expression and helps the correct development of champagne over time. all bottles are sealed using the ancient clip method.
champagne
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ARGONNE 2011 Pinot Nero (90%) e Chardonnay (10%). Annata non millesimata da molti in champagne, ma ad Aÿ con le vigne di proprietà esposte a sud e ben ventilate, lo Chef de Cave Sébastien Le Golvet è riuscito a fare un grande Champagne. Aroma intenso e complesso, seducenti profumi di frutta matura, albicocca, note agrumate di pompelmo, sentori di coquillage, per poi passare su sentori mentolati e balsamici e virare su note di torrefazione e boisé. Al palato, fresco, dinamico, vivace, una bella materia densa, con un ritorno di note iodate, un finale profondo salino e al stesso tempo mielato e una persistenza infinita. Solo 4,000 bottiglie prodotte, mentre quella di MV è di 30.000 bottiglie.
FÛT DE CHÊNE MV 13
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Pinot Noir (80%) e Chardonnay (20%) con un 30% di vini della réserve perpétuelle, 4 anni sui lieviti e un dégorgement il 20 marzo 2018. Champagne che mette in evidenza l’espressione del terroir di Aÿ, di ottima densità e materia. L’aroma esprime note agrumate di arancia bionda, pesca bianca, fragola, erbe aromatiche, bouquet floreale, frutta secca tostata e note vanigliate. Al palato bell’equilibrio tra l’acidità e la maturità del frutto, la nota marina presente e persistente lascia la bocca di un salato piacevole, che richiama la beva.
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Pinot Noir (80%) and Chardonnay (20%) with 30% wines from réserve perpétuelle, four years on yeasts and dégorgement on 20 March 2018. Champagne which highlights the expression of the terroir of Aÿ, excellent density and matter. The aroma expresses citrus fruit notes of blonde orange, white peach, strawberry, aromatic herbs, floral bouquet, roasted dried fruit and vanilla notes. A good balance to the palate between the acidity and maturity of the fruit, the present and persistent sea note leaves a pleasant salty taste in the mouth, which lets the wine taste linger.
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Pinot Noir (90%) and Chardonnay (10%). A vintage year which many do not carry in champagne; however, in Aÿ with property vineyards looking south and well ventilated, the Chef de Cave Sébastien Le Golvet has managed to produce great Champagne. An intense and complex aroma, seductive perfumes of ripe fruit, apricot, citrus fruit notes of grapefruit, scents of coquillage, then moving on to menthol and balsamic scents and changing to ground coffee and boisé notes. Cool, dynamic, lively to the palate, a good dense matter, with returning iodine notes, a deep saline close, at the same time with a touch of honey and infinite persistence. Only 4,000 bottles are produced, while for MV the amount is 30,000 bottles.
FÛT DE CHÊNE MV 07
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Pinot Noir (70%) e Chardonnay (30%) con un 40% di réserve pérpetuelle, una permanenza sui lieviti di ben 8 anni e un dégorgement 8 luglio 2015 con un dosaggio di 7 g/l. Una materia ricca e vinosa al naso, potenza aromatica, esplosione di note di coquillage in contrapposizione alle note boisé, note di pasticceria, leggera ossidazione, frutta secca, nocciola, una nota di miele e l’albicocca disidratata. Bocca ampia, dinamica con note di sottobosco, bella mineralità che apporta complessità e nel finale una freschezza balsamica deliziosa. Equilibrio superbo, uno champagne d’eccezione. Pinot Noir (70%) and Chardonnay (30%) with 40% réserve pérpetuelle, ageing on yeasts for as many as eight years, and dégorgement on 8 July 2015 with a 7 g/l dosage. A rich and winey matter to the nose, aromatic power, an explosion of coquillage notes as opposed to boisé notes, notes of confectionery, light oxidising, dried fruits, hazelnut, a touch of honey and dehydrated apricot. Wide and dynamic mouth, with notes from the underbrush, good mineral elements which bring complexity and a close with delicious balsamic coolness. Superb balance, exceptional champagne.
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FÛT DE CHÊNE MV 10
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Pinot Noir (70%) e Chardonnay (30% ) con un 30% di réserve pérpetuelle, 6 anni di permanenza sui lieviti con un dégorgement l‘8 giugno 2016 e un dosaggio di 7,5 g/l. Espressione aromatica fresca, legno ben armonizzato, mela cotogna, torrefazione, caffè e spezie dolci. Note di menta, anice e ciliegia, tostatura cioccolato amaro, struttura tannica, mineralità salina. Vino complesso anche al palato, ancora austero, bilanciato da una profonda mineralità e una bella freschezza.
Pinot Noir (70%) e Chardonnay (30%) con un 30% di réserve pérpetuelle, una permanenza sui lieviti di 6 anni, dégorgement del 6 dicembre 2017 e un dosaggio di 8 g/l. Si percepisce il legno, la foresta, ma anche il mare. Bella maturità all’aroma, note di coquillage e boisé, a seguire le note mentolate e di anice, ma non mancano gli aromi fruttati, la mela rossa, il cassis e la ciliegia, la frutta secca, sensuali tocchi di caffé torrefatto. Al palato un “legno” inimitabile, spezie e vaniglia. Deliziosa nota amara e lunga salinità con note iodate.
Pinot Noir (70%) and Chardonnay (30% ) with 30% réserve pérpetuelle, six years ageing on yeasts with dégorgement on 8 June 2016 and 7.5 g/l dosage. Cool aromatic expression, well harmonized wood, quinces, roasting, coffee and sweet spices. Notes of mint, aniseed and cherry, bitter chocolate roasting, tannic structure, saline mineral element. This wine is complex also to the palate, still austere, balance by deep mineral elements and pleasant coolness.
Pinot Noir (70%) and Chardonnay (30%) with 30% réserve pérpetuelle, ageing on yeasts for six years, dégorgement on 6 December 2017 and 8 g/l dosage. You can taste the wood, the forest, but also the sea. Good maturity in terms of aroma, coquillage and boisé notes, followed by notes of menthol and aniseed, but there are also fruity aromas, red apple, cassis and cherry, dried fruit, sensuous touches of ground coffee. To the palate, an inimitable “wood”, spices and vanilla flavour. Delicious bitter note and long salinity, with iodine notes.
FÛT DE CHÊNE MV 12
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FÛT DE CHÊNE 1998 Collection
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Pinot Nero (80%) e Chardonnay (20%) con il 30% di vini della réserve pérpetuelle, un dégorgement del 20 febbraio 2018 e un dosaggio 7 g/l. Champagne complesso, materia ricca e vinosa, si denota una bella balsamicità, frutta secca, mandorla e nocciola, l’albicocca matura, la mineralità iodata firma dello chardonnay, a seguire note di frutta rossa di cassis rivelano una bella maturità con delle sensuali nuances di caffè in torrefazione e di cioccolato, ottenuto dai 5 anni di invecchiamento sui lieviti. Leggermente boisé, perfettamente integrato, con note speziate di pepe bianco e vaniglia, risultato della vinificazione e dell’élevage in barrique. Al palato voluminoso, potente, bella struttura, si ritrova la complessità del boisé evocato al naso, con un finale minerale, particolarmente fresco, un delizioso finale amaro e una salinità infinita.
Pinot Noir (70%) e Chardonnay (30%), permanenza sui lieviti di 8 anni e degorgement a luglio 2007, con un dosaggio sui 7 g/l. Champagne di carattere voluminoso e voluttuoso, nuances di albicocche in confettura, la nota agrumata e quella balsamica ben presenti, che rinfrescano l’olfatto, le erbe aromatiche come la genziana, la frutta secca, le nocciole tostate, gli aromi di pasticceria di caffè e cioccolato, i sentori di fichi e la nota di ginger. Al palato complesso, fresco, preciso, teso, una texture setosa, impressionante, portata da una vinosità e una nota boisé presenti ma non preponderanti, mancano davvero le parole per descrivere questo Champagne, con un finale salino e ammandorlato di bella persistenza che lascia spazio ad aromi di liquirizia e canella. Da godersi con Cohiba siglo III.
Pinot Noir (80%) and Chardonnay (20%) with 30% wines from the réserve pérpetuelle, dégorgement on 20 February 2018 and 7 g/l dosage. It is a complex champagne, characterised by rich and winey matter, good balsamic aspect, tasting of dried fruits, almond and hazelnut, ripe apricot, the iodine mineral element typical of Chardonnay, followed by notes of cassis red fruit reveal good maturity with sensuous ground coffee and chocolate nuances, obtained from five years ageing on yeasts. Slightly boisé, perfectly integrated, with spice notes of white pepper and vanilla, a result of wine making and of élevage in a barrique. Voluminous, powerful to the palate with a good structure, it suggests the complexity of boisé evoked to the nose, closing with a mineral note, particularly cool, a delicious bitter finale and infinite salinity.
Pinot Noir (70%) and Chardonnay (30%), ageing on yeasts for eight years and dégorgement in 2007, with a dosage of around 7 g/l. Champagne with a voluminous and voluptuous character, nuances of apricot jam, a clear citrus fruit and balsamic note, which give a cool olfactory sensation, the aromatic herbs, including gentian, dried fruit, roasted hazelnuts, aromas of coffee and chocolate confectionery, the scents of figs and the note of ginger. To the palate it is complex, cool, precise, tense, with a silky, impressive texture brought on by a winey and boisé note which are present although not prevailing; words are really not enough to describe this champagne, with a salty and almond ending and good persistence which leaves space to aromas of liquorice and cinnamon. Ideally tasted with Cohiba siglo III. JAMESMAGAZINE.IT
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FÛT DE CHÊNE MV 09
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Bollinger è una Maison di fascino assoluto, icona di stile e di raffinatezza, un modello di qualità impareggiabile per qualunque produttore in Champagne. Fu fondata ad Aÿ il 6 febbraio 1829 dall’ammiraglio Athanase Louis Emmanuel Hennequin de Villermont (discendente della famiglia Hennequin che si stabilì inizialmente nei pressi di Troyes nel XIV secolo per poi spostarsi successivamente vicino a Chalône sur Marne dove diventarono Conti di Villermont), da Joseph Jacob Placide
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Bollinger (nato nel 1803 da una famiglia tedesca originaria del Württemberg che aveva lavorato per una Maison oggi non più esistente, la Muller Ruinart) e da Paul Renaudin (collega di Jacques Bollinger alla Muller Ruinart, che uscì dalla società qualche anno dopo, ma malgrado ciò il suo nome rimase sul marchio fino al 1960). Per motivi aristocratici Louis Emmanuel Hennequin Count Villermont non volle mettere il suo nome sulle bottiglie contrassegnate al tempo come “Bollinger-Renaudin”. Nel 1837 Jacques Joseph Bollinger sposa Louise-Charlotte Villermont, figlia di Athanase, ed ebbero quattro figli: uomo di grande imprenditorialità, nel 1865 fu uno dei primi commercianti a spedire Champagne in Inghilterra e nel 1884 ricevette dalla Regina Vittoria il Royal Warrant, riconoscimento di fornitore ufficiale della Casa Reale inglese. Era uno champagne dal basso dosaggio e divenne il preferito del Principe di Galles, il futuro Edoardo VII. Nel 1918 il nipote Jacques, figlio di George, prese in mano le redini dell’azienda e, nel 1923, sposò Elizabeth Law de Lauriston Boubers, la sua Lily. Divenne anche sindaco di Aÿ, ma morì a 47 anni durante l’occupazione tedesca nel 1941 e la conduzione della Maison passò alla vedova, che fece fronte a tre anni di occupazione tedesca: mancando la benzina andava per i vigneti con la sua leggendaria bicicletta blu, che non smise mai di usare, concedendosi solo il lusso della sella confezionata da Hermès. Lily Bollinger ha condotto la Maison con sapienza e lungimiranza e ha saputo definire il corretto equilibrio tra innovazione e tradizione, acquistando ancora dei vigneti, trasformando la Bollinger nel marchio di qualità e riconoscibilità dei nostri giorni. In oltre 40 anni di condizione raddoppiò le vendite portandole a 1 milione di bottiglie l’anno. Tra le sue lungimiranti scelte nel 1969 la creazione del celeberrimo “Vieilles Vignes francaises”, da uve che nascono da vigne a piede franco di Pinot Nero; nel 1976 cambiò il nome al vintage che divenne “La Grande Année”; proprio dalla “La Grande Année” concepì il concetto di RD, “Récemment Dégorgé”. In sostanza segnò la storia dello Champagne Bollinger fino al 1971, anno in cui lascerà la presidenza al nipote Claude d’Hautefeuille, al quale succederà nel 1978 Christian Bizot, che si spegnerà 6 anni più tardi. Oggi a dirigere la Maison troviamo dal 2017 Charles Armand de Belenet (che ha sostituito Jérôme Philipon) e Gilles Descôtes, Chef de Cave dal 2013 e affiancato da qualche anno da Denis Bunner, Chef de Cave adjoint. La storia di questa leggendaria Maison passa da una rigorosa e ossessiva attenzione al dettaglio e lavorando in maniera artigianale, la rende guardiana della tradizione Champenois ma al stesso tempo proiettata al futuro.
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Bollinger: time and legend Bollinger is a Maison of absolute charm, an icon of style and refinement, a model of incomparable quality for any champagne producer. It was established in Aÿ on 6 February 1829 by admiral Athanase Louis Emmanuel Hennequin de Villermont (from the Hennequin family which initially settled near Troyes in the 14th century, then moved to the vicinity of Chalône sur Marne where they became the Earls of Villermont), by Joseph Jacob Placide Bollinger (born in 1803 from a German family originally from Württemberg who had worked for a Maison which no longer exists today, called Muller Ruinart), and by Paul Renaudin (he was a colleague of Jacques Bollinger’s at Muller Ruinart, who left the company a few years later but nevertheless his name remained on the label until 1960). For aristocratic reasons, Louis Emmanuel Hennequin Count Villermont did not wish to have his name on the bottles which at the time were labelled as “Bollinger-Renaudin”. In 1837 Jacques Joseph Bollinger married Louise-Charlotte Villermont, daughter of Athanase, and they had four children; he was a very enterprising businessman: in 1865 he was one of the first traders to ship champagne to Britain, and in
1884 Queen Victoria awarded him a Royal Warrant, the acknowledgement as official supplier to the Royal Household. It was a low-dosage champagne and it became a favourite of the Prince of Wales, the future Edward VII. In 1918 his grandson Jacques, son of George, took over the company, and in 1923 married Elizabeth Law de Lauriston Boubers, his Lily. He also became mayor of Aÿ, but he died aged 47 during the German occupation of 1941, so the management of the Maison was transferred to his widow, who had to face three years of German occupation: since there was no petrol, she visited the vineyards on her legendary blue bicycle, which she never gave up, just allowing herself the luxury of a saddle made by Hermès. Lily Bollinger succeeded in running the Maison in a skilful and far-sighted way, as well as managing to find a correct balance between innovation and tradition, by buying several more vineyards, thus turning Bollinger into the high-quality and recognisable brand we know today. During her more than 40 year in management she doubled the sales, bringing them to one million bottles per year. One of her most far-sighted choices, in 1969, was to create the legendary “Vieilles Vignes francaises”, from ungrafted Pinot Noir grapevines; in 1976 she changed the name of the vintage which became “La Grande Année”; it was exactly from “La Grande Année” that she came up with the concept of RD, “Récemment Dégorgé”. This essentially characterised the history of Bollinger Champagne until 1971, the year in which she left the presidency to her nephew Claude d’Hautefeuille, succeeded in 1978 by Christian Bizot, who died six years later. Today the Maison has been run since 2017 by Charles Armand de Belenet (who replaced Jérôme Philipon) and Gilles Descôtes, Chef de Cave since 2013, and supported for a few years now by Denis Bunner, Chef de Cave Adjoint. The history of this legendary Maison is founded on stringent and obsessive care for details, and on artisan work; as a consequence it is at the same time a keeper of the Champenois tradition and a company looking to the future.
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an incomparable level of quality for any champagne producer Madame Lily Bollinger sulla sua mitica bicicletta
un modello di qualità impareggiabile per qualunque produttore in Champagne
I punti fondamentali del mito Bollinger sono prima di tutto i 174 ettari di vigneti di proprietà in circa 20 cru, che forniscono più del 60 per cento del fabbisogno di uve, con l’85 % delle vigne classificate Premier e Grands Cru, con 102 ettari di Pinot Nero, per la maggior parte ad Aÿ, Bouzy, Verzy e Verzenay; 44 ettari di Chardonnay soprattutto a Cuis e Cramant; 28 ettari di Meunier nella Valle della Marne: la produzione di 2.800.000 bottiglie consente di assicurare una continuità di stile e qualità. Il secondo importante fattore è la scelta del Pinot Nero come firma di tutte le cuvée, colonna vertebrale dello stile della Maison: il Pinot Nero costituisce più del 60 % delle vigne Bollinger e per certi versi è un paradosso per una Maison che ha le vigne più antiche a Cuis, nella Côte des Blancs, eredità di Athanase de Villermont, piantate oggi a Chardonnay. L’ultimo “segreto” di Bollinger è il tempo: bisogna dare tempo al vino affinché possa esprimersi al meglio. La Special Cuvée vede la luce dopo almeno 3 anni di riposo nelle cantine, il doppio rispetto al disciplinare e La Grande Année, La Grande Année Rosé, Bollinger R.D. e Vieilles Vignes Françaises attendono silenziose nei 6 chilometri di gallerie il momento adatto per il remuage e il dégorgement à la volée.
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The main elements in the Bollinger legend are first of all the 174 hectares of vineyard owned in about 20 crus, which provide more than 60 percent of the grapes required, with 85% of the vineyards classified as Premier and Grand Cru, with 102 hectares of Pinot Noir, mostly in Aÿ, Bouzy, Verzy and Verzenay; 44 hectares of Chardonnay mainly in Cuis and Cramant; 28 hectares of Meunier in the Marne Valley: the production of 2,800,000 bottles guarantees continuity in terms of style and quality. The second major factor is the choice of Pinot Noir as signature for all the cuvées, the backbone of the Maison’s style: Pinot Noir accounts for more than 60 % of Bollinger vineyards and – in certain respects - it is a paradox for a Maison which owns the most ancient vineyards in Cuis, in the Côte des Blancs, a legacy of Athanase de Villermont, which today are planted with Chardonnay. The last “secret” of Bollinger is time: you should give wine enough time to find its best expression. The Special Cuvée sees the light after at least three years’ resting in the cellars; the dual compliance with the standard and La Grande Année, La Grande Année Rosé, Bollinger R.D. and Vieilles Vignes Françaises involves waiting silently in the six kilometres of tunnels until the right time comes for remuage and dégorgement à la volée.
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Gilles Descôtes / Chef de Cave
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Bollinger dispone di 3.500 fûts, ha una tonnellerie propria e vinifica tutti i suoi millesimati interamente in legno (fermentazione alcolica seguita dalla fermentazione malolattica). Un’altra caratteristica unica della Maison sono i 750.000 magnum dove vengono conservati, dopo una leggera “prise de mousse”, alcuni vins de réserve, cru per cru, annata dopo annata, chiusi con il bouchon de liège. Qui affinano tra 5 e 15 anni e lo chef de cave potrà disporre di una incredibile paletta aromatica da aggiungere all’assemblaggio della Special Cuvée in una proporzione tra il 5% e 10%, che aggiungono complessità e regolarità nel tempo. Nel 2012 è la prima grande Maison alla quale è stata attribuita la certification HVE (Haute Valeur Environnementale) per avere praticato una viticultura durable (riduzione dei prodotti di sintesi fitosanitari, lotta biologica contro gli insetti, etc.) e nel 2014 ha ottenuto una nuova certificazione, Viticulture Durable en Champagne, adattata alla specificità del terroir champenois (condotta della vigna, protezione fitosanitaria, preservazione del paesaggio e della biodiversità). Gilles Descôtes, Chef de Cave de la Maison precisa che il 75% dei vigneti Bollinger sono inerbati, non vengono quasi più utilizzati pesticidi e la quantità d’insetticidi è diminuita in 10 anni del 20%. Tanti numeri, tanti dettagli, una sola conclusione: il mito Bollinger. E per certificare il mito Madame “Lily” Bollinger il 17 ottobre 1961 così rispondeva a un giornalista del London Daily Mail circa il Bollinger 1955: “Lo Champagne lo bevo quando sono contenta e quando sono triste. Talvolta lo bevo quando sono sola. Quando ho compagnia lo considero obbligatorio. Lo sorseggio quando non ho fame e lo bevo quando ne ho. Altrimenti non lo tocco, a meno che non abbia sete”.
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It opens with wonderful aromatic depth, citrus fruits notes of orange, a floral bouquet, fleur d’orange, spiced notes of vanilla and cinnamon, ginger and ground coffee, an expression of Bollinger style. It has optimal balance to the palate between structure and great coolness. It is an elegant champagne, with a slight oxidation note, the style signature of this Maison, complex, dense and harmonious, with notes of noisette and a long persistence close with a salinity element which reminds me of the sea in my Sicily. JAMESMAGAZINE.IT
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Si apre con una meravigliosa profondità aromatica, note agrumate di arancia, un bouquet floreale, fleur d’orange, note speziate di vaniglia e cannella, ginger e torrefazione, espressione dello stile Bollinger. Al palato ottimo equilibrio tra la struttura e la grande freschezza. Champagne elegante, con leggera nota ossidativa, firma stilistica della Maison, complesso, denso e armonioso, note di noisette e un finale di lunga persistenza con una salinità che mi ricorda il mare della mia Sicilia.
Bollinger has 3,500 fûts, it has its own tonnellerie and produces all of its own vintage wines entirely in wood (alcoholic fermentation followed by malolactic fermentation). Another unique feature of this Maison are the 750,000 Magnums where, after a light “prise de mousse”, some vins de réserve are stored, cru by cru, year by year, sealed with a bouchon de liège. Here they mature for five to fifteen years, and the Chef de Cave will thus have an amazing aromatic palette available to be added to the assembling of the Special Cuvée with a ratio between 5% and 10%, in order to add complexity and regularity over time. in 2012 it beame the first great Maison to receive the HVE (High Environmental Value) certification for having introduced durable wine production practices (i.e. reduction of synthetic plant protection products, organic protection against insects, etc.), then in 2014 it was awarded a new certification, called Viticulture Durable en Champagne, adjusted to the specificity of the Champenois territory (running of the vineyard, plant protection, preservation of landscape and biodiversity). Gilles Descôtes, Chef de Cave at the Maison, is keen to point out that 75% of Bollinger vineyards are grassed, hardly any pesticides are now used, and the amount of insecticides has gone down in 10 years by 20%. Many figures, many details, just one conclusion: the Bollinger legend. And to certify this legend, this was the answer given by Madame “Lily” Bollinger on 17 October 1961 to a journalist from the London Daily Mail regarding Bollinger 1955: “I drink champagne when I am happy and when I am sad. Sometimes I drink it when I am alone. When I have company I consider it mandatory. I take a sip when I am not hungry and I drink it when I am. Otherwise, I do not touch it, unless I am thirsty”.
champagne
ARMAND DE BRIGNAC
the Champagne of luxury di Eleonora Galimberti
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Armand de Brignac, probabilmente più di ogni altro champagne, è inequivocabilmente legato al mondo del lusso: è uno status-symbol, frutto di una storia sorprendentemente complessa. Siamo a Chigny-les-Roses, un piccolo villaggio situato tra Reims ed Epernay, in una Maison a conduzione familiare sin dal 1763 e da sempre simbolo di altissima qualità, Cattier. Il dehors è quello di una raffinata villa di campagna e Pierre-Alexandre Dhainaut ci apre le porte della cantina introducendoci al fascino del suo passato. Jean-Jacques Cattier e suo figlio Alexandre, rispettivamente l’undicesima e dodicesima generazione di viticoltori, sognavano di creare uno champagne di assoluto livello qualitativo che diventasse leader della regione in cui la loro famiglia coltiva i propri vigneti, tutti classificati Premier Cru, da oltre 250 anni. Dal loro ingegno nacque il prestigioso Armand de Brignac, che ha conosciuto una notorietà mondiale, anche oltre i confini del vino, quando il rapper e producer Shawn “JAY-Z” Carter ha acquistato il suo brand di culto nel novembre del 2014. Scesi 119 gradini, a oltre 30 metri di profondità, si raggiungono le suggestive cantine della Maison Cattier, e come in uno scrigno di tesori preziosi una luce dorata si manifesta: attorniati da bellissime e preziose bottiglie, Gérald Loparco, Vice President International Sales, ci rivela molto di più di una semplice cantina, bensì un vero e proprio laboratorio artigianale, custode di perlage e savoir-faire incredibile orientato alla “eccellenza senza compromessi”. Dalla vendemmia realizzata a mano al momento in cui le bottiglie lasciano la cantina, ciascuna fase della lavorazione viene personalmente gestita da una squadra di non più di 18 persone altamente qualificate. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
scrupulous attention to detail is the trademark of Armand de Brignac
L’attenzione scrupolosa al dettaglio è la firma Armand De Brignac
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Armand de Brignac, probably more than any other champagne, is unquestionably associated with the world of luxury: it is a status symbol, a result of a surprisingly complex history. We are in Chigny-les-Roses, a small village between Reims and Epernay, in a family-run Maison established in 1763, which has always stood for top quality, Cattier. Its dehors is that of a stylish country villa, and Pierre-Alexandre Dhainaut opens the doors to the cellar for us, introducing us to the charm of his past. JeanJacques Cattier and his son Alexandre, respectively the eleventh and twelfth generation in a family of wine producers, dreamed of creating a champagne of absolute quality level to become a leader in the region where their family had been growing its vines, all classified as Premier Cru, for over 250 years. Their ingeniousness has produced the prestigious Armand de Brignac, now famous worldwide, even beyond the wine sector borders, since the rapper and producer Shawn “JAY-Z” Carter bought his cult brand in November 2014. After walking down 119 steps to a depth of over 30 metres, you reach the fascinating cellars of Maison Cattier, and a golden light reveals a true treasure trove: surrounded by beautiful and valuable bottles, Gérald Loparco, Vice President of International Sales, shows us much more than just a cellar: it is actually a real artisan workshop, custodian of incredible perlage and savoir-faire, aimed at “excellence without compromises”. Starting with the hand-picking of grapes, to the moment when the bottles leave the cellar, each phase in the processing is personally followed by a team consisting of no more than 18 highly qualified staff members.
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Il piccolo gruppo di collaboratori che ne segue tutta l’evoluzione è così sollevato dalla pressione di dover raggiungere elevati volumi di produzione e può concentrarsi a fondo sulla finezza in ogni fase di creazione per garantire una qualità eccezionale. Ingrediente imprescindibile per l’ottima realizzazione di questi champagne è la selezione delle migliori uve offerte dalla natura in quell’annata, coltivate secondo metodi sostenibili e certificati, grazie all’esperienza e alla competenza innate della famiglia Cattier, per cui i vitigni della Champagne non hanno più segreti. L’attenzione scrupolosa al dettaglio è la firma Armand de Brignac, segno distintivo della sua cifra stilistica, qualità e unicità che si riflettono anche sul packaging della bottiglia, decorata e rivestita da una sottile patina ottenuta con un bagno nell’oro, completata dall’etichetta stampata in lamina di peltro francese e applicata a mano in cantina: ciascuno champagne Armand de Brignac diviene un pezzo unico e nessuna bottiglia potrà mai essere identica all’altra. Immersa in questa magia, in religioso silenzio, rimaniamo con il fiato sospeso mentre aspettiamo di degustare il nostro calice di oro liquido. Lo champagne Gold Brut è stato il primo a essere realizzato dalla maison, rimanendo tutt’ora il cuore pulsante dell’intera gamma, in una confezione che possiamo, senza alcun dubbio, definire leggendaria. E’ la cuvée più iconica e rappresentativa, racchiude tutto lo stile e la tradizione della produzione di champagne, che comprende tre annate provenienti dai terroir più pregiati, rivelandosi morbida e di un’acidità ottimamente bilanciata. Eccellenza, creatività, spirito d’impresa e rispetto: questi i quattro capisaldi della maison Cattier che è arrivata a concepire ed elaborare uno champagne ineguagliabile come Armand de Brignac, conosciuto anche come “Ace of Spades”, ovvero asso di picche, nel segno di quella che è la massima eccellenza delle più celebri bollicine francesi.
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The small group that follows its whole development is thus relieved from the pressure of having to reach high production volumes and left free to focus on fineness in each creation phase to ensure outstanding quality. An essential ingredient for optimal production of these champagne varieties is selecting the best grapes available in nature that year, cultivated using sustainable and certified methods, thanks to the innate experience and competence of the Cattier family, for whom champagne vine varieties no longer hold any secrets. Careful attention to detail is the signature trait of Armand de Brignac, a distinctive sign of his style; this high-quality and uniqueness features are also reflected in the packaging of the bottle, decorated and coated with a thin patina obtained by bathing it in gold, then completed with a label printed on a French pelt lamina and applied by hand in the cellar: each Armand de Brignac champagne becomes a unique piece, and no bottle can ever be the same as another. Steeped in this magic, in religious silence, we remain breathless which we wait to taste our cup of liquid gold. Gold Brut Champagne was the first to be produced by this Maison, and it is still the beating heart of its whole range, in a package which we can refer to as legendary, without any doubt. It is the most iconic and representative cuvée, encompassing all the style and tradition of champagne production, which includes three years from the most valuable territories, proving soft and with excellently balanced acidity. Excellence, creativity, enterprising spirit and respect: these are the four mainstays of the Maison Cattier which has succeeded in elaborating and producing an unparalleled champagne such as Armand de Brignac, also known as “Ace of Spades”, under the sign of maximum excellence in the most celebrated French “bubbly”. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
ARMAND DE BRIGNAC BRUT GOLD
ARMAND DE BRIGNAC BRUT ROSÉ
40% Pinot Noir, 40% Chardonnay, 20% Meunier. Esprime vibranti note di frutta fresca con sentori di pesca, albicocca, mirtillo rosso a cui fanno seguito note di agrumi canditi, fiori d’arancia e un delicato finale di brioche. Al palato sprigiona note di frutta esotica, ciliegia e limone, vaniglia e miele.
50% Pinot Noir, 40% Meunier, 10% Chardonnay. Si presenta ricco e di carattere, con fresche note di frutti rossi esaltate da sensazioni di pasticceria da forno. Fragola, frutti di bosco e ciliegia al naso, completate da sentori floreali e una nota di mandorla dolce. La prevalenza di uve rosse lo rende strutturato al palato, dove dominano frutti neri e ciliegie con un tocco di pasticceria da forno. 50% Pinot Noir, 40% Meunier, 10% Chardonnay. It has a rich and distinctive character, with fresh notes of red fruits enhanced by feelings of bakery products. Strawberry, wild fruits and charry to the note, complemented by floral scents and by a note of sweet almond. The prevalence of red grapes makes it structured to the palate, where cherries dominate with a touch of bakery products.
ARMAND DE BRIGNAC BRUT BLANC DE BLANCS
ARMAND DE BRIGNAC BRUT BLANC DE NOIRS
ARMAND DE BRIGNAC DEMI SEC
100% Chardonnay. Mineralità, flessibilità, rotondità e tutta la leggerezza del terroir della Montagne de Reims, che gli conferisce un notevole potenziale di affinamento. Pasticceria inglese, pompelmo, composta di frutta, caramello, mela cotogna e brioche. Ricco al palato, con note di agrumi canditi, miele e mora.
100% Pinot Noir. È realizzato con uve eccezionali provenienti da alcune delle zone di produzione di Pinot Noir più vocate della regione. Abbondanti sentori varietali, di caprifoglio e menta piperita che celano note più delicate di pesca e albicocca. Intensa mineralità con note fruttate, di menta e sentori di cannella.
40% Pinot Noir, 40% Chardonnay, 20% Meunier. L’unica cuvée Demi Sec prestige al mondo, viene prodotta con un dosaggio di zucchero tra i più bassi, che gli consente di sprigionare potenti note aromatiche fruttate di notevole complessità. Pompelmo, composta di frutta, caramello, mela cotogna e brioche.
100% Chardonnay. Minerality, flexility, roundness and all the lightness of the Montagne de Reims terroir, which gives it high potential for refinement. British confectionery, grapefruit, fruit compote, caramel, quince and brioche. Rich to the palate, with notes of candied citrus fruit, honey and blackberry.
100% Pinot Noir. It is made with exceptional grapes, from some of the areas most dedicated to Pinot Noir production in the region. Abundant varietal scents of honeysuckle and peppermint, which hide more delicate notes of peach and apricot. Intense mineral element with fruity notes, of mint and scents of cinnamon.
40% Pinot Noir, 40% Chardonnay, 20% Meunier. This is the only Demi Sec prestige cuvée in the world; it is produced with one of the lowest sugar dosage levels possible, which allows it to release powerful fruity aromatic notes of high complexity. Grapefruit, fruit compote, caramel, quince and brioche flavour.
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40% Pinot Noir, 40% Chardonnay, 20% Meunier. It expresses vibrant fresh fruit notes with scents of peach, apricot, redcurrant, followed by notes of candied citrus fruit, orange blossom and a delicate brioche-flavoured ending. To the palate it releases notes of exotic fruit, cherry and lemon, vanilla and honey.
travel
the Lima revolution
di Gualtiero Spotti
Negli ultimi decenni la cucina è passata attraverso la rivoluzione di Ferran Adrià e, più recentemente, l’approccio nordico del movimento creato da René Redzepi al Noma di Copenhagen. Da qualche stagione a questa parte, però, si è vista una crescita molto importante del continente latinoamericano, grazie alla curiosità di un mondo, gastronomicamente parlando, ancora inesplorato, con una varietà di materia prima stupefacente e una biodiversità che ha pochi eguali sul pianeta. In particolar modo il Perù ha visto la crescita di un gruppo ormai piuttosto nutrito di cuochi che, partito con Gaston Acurio (in patria la sua popolarità è tale che potrebbe candidarsi seriamente al ruolo di Presidente della Repubblica), arriva fino ai più recenti esponenti del fine dining ormai sulla bocca di tutti. In cima alla 50 Best del continente da qualche tempo figurano due ristoranti diversi ma perfettamente in linea con quanto di meglio offre il Perù in questi giorni: Maido e Central. Rispettivamente primo e secondo della classifica dei migliori indirizzi sudamericani dove mangiare.
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Over the last few decades, cuisine has undergone the revolution of Ferran Adrià and, more recently, the Nordic approach of the movement created by René Redzepi at Noma in Copenhagen. During the last few seasons, however, there has been significant progress on the part of the Latin-American continent, thanks to the curiosity about a world which, gastronomically speaking, is still largely unexplored, with an amazing variety of raw materials and a biodiversity almost unparalleled on the planet. Most notably, in Peru, a now rather substantial group of chefs has developed, starting with Gaston Acurio ( he is so popular in his country that he might well decide to run for President of the Republic), to the most recent representatives of fine dining, who are now on everybody’s tongue. On top of the 50 Best in the continent, for some time now, there have been two restaurants which are different although perfectly in line with the best that Peru has to offer at the moment: Maido and Central. They rank respectively first and second among the best restaurants in South America.
travel
The Central in Lima is the restaurant owned by Virgilio Martinez, and last year it moved from the wealthy neighbourhood of Miraflores to nearby Barranco, a more dynamic area, especially at night. Its approach to gastronomy is almost didactic, if you think for example of the Alturas Mater menu which leads to the discovery, along a route with sixteen courses, of the different Peruvian ecosystems, from the coast and the sea, to the jungle and the most remote corners of the Amazon forest. It is a true revelation which goes through the novelty of products such as oca (which in this case is a tuber), kiwicha seeds, loche (a pumpkin), coca leaves, olluco (a potato variety), and the various types of corn. But also piranhas, Amazon crabs, cactus and yuyo, a plantain type. It is of course their interpretation which reveals the potential of a very plentiful food world and which, even more surprisingly, presents a credible approach to haute cuisine, forgetting all those products which have now become standard in restaurants worldwide. The new Central, on the contrary, offers a modern and definitely charming environments, which should of course include a stop at the Mayo before you sit at table, to have fun discovering the interpretations of many typical products also in the field of modern mixology. For those who, instead, wish to explore the complex world of Central, on the second floor of the building there is also the Kjolle restaurant managed by Virgilio’s partner, Pia Leon, an emerging 50 Best cook.
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Central Av. Pedro de Osma, 301 Lima (Perù) Tel. +51.1.2428515 www.centralrestaurante.com JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Colores de Amazonía
Virgilio Martínez / Central
Il Central a Lima è il ristorante di Virgilio Martinez e lo scorso anno si è spostato dal ricco quartiere di Miraflores al vicino Barranco, in un’area più dinamica soprattutto nelle ore notturne. L’approccio gastronomico qui è quasi didattico se si pensa al menù Alturas Mater che va alla scoperta, in un percorso di sedici portate, dei diversi ecosistemi peruviani, dalla costa e dal mare fino alla giungla e agli angoli più nascosti della foresta amazzonica. Una vera e propria rivelazione che passa attraverso la novità di prodotti come l’oca (che in questo caso è un tubero), i semi di kiwicha, il loche (una zucca), le foglie di coca, l’olluco (una patata) e le diverse tipologie di mais. Ma anche i piranha, i gamberi amazzonici, i cactus e lo yuyo, una varietà di platano. E ovviamente la loro interpretazione, che rivela le potenzialità di un mondo alimentare ricchissimo e che, in maniera ancor più incredibile, propone una versione di alta cucina credibile dimenticandosi tutti quei prodotti ormai standardizzati che si trovano nella maggior parte dei ristoranti in giro per il mondo. Il nuovo Central, di contro, presenta un ambiente moderno e decisamente accattivante, dove non si può mancare una sosta al bar Mayo prima di sedersi a tavola per divertirsi nello scoprire le interpretazioni di molti prodotti tropicali anche nel campo della mixologia moderna. Per chi poi volesse approfondire il mondo complesso di Central, al secondo piano dell’edificio c’è anche il ristorante Kjolle gestito dalla compagna di Virgilio, Pia Leon, cuoca emergente del 50 Best.
Macambo
The approach by Maido, the restaurant by the imaginative Mitsuharu Tsumura, is different because it reveals the true Nikkei soul of a cuisine which skilfully mixes Japan and Peru, South America and orientalism at table. When you arrive, you are welcomed by the whole staff of waiters and cooks (it is an open kitchen), who all together shout “Maido”, which is the traditional Japanese expression for “welcome” to the restaurant. After the impact of a room which is almost always crowded and which also includes, in a corner, where you can take a break, from there you enter a whirlwind of taste feelings, which it would be too easy to refer to as “fusion”, and which – more realistically – survive on excellent raw materials, often prepared with unique creativity, where good measure and haphazardness always go hand in hand. A merry-go-round and whirlwind of flavours which often takes you across the Pacific Ocean, then almost immediately back between marinated cod in miso with honey gel and pore mushroom powder, and rice from Chiclayo, on the Peruvian coast, with sea urchins from Atico, a cream of avocado and baby corn. It is also worth mentioning the fine Peruvian Cuy (guinea pig) meat, which is served here with cauliflower cream and torikara sauce. In both cases, the experience is worth the journey, although Lima is not exactly round the corner. Because the cuisine at Central and Maido tell of a large territory, and in certain respects still to be explored once you have sat at table.
un turbinio di sensazioni gustative che sarebbe fin troppo facile definire fusion
a whirlwind of sensations which it would be simplistic to refer to as fusion
Maido Calle San Martin, 399 Lima (Perù) Tel. +51.1.3135100 www.maido.pe JAMESMAGAZINE.IT
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Mitsuharu Tsumura / Maido
Diverso è invece l’approccio di Maido, il ristorante del vulcanico Mitsuharu Tsumura, dove si rivela l’anima nikkei di una cucina che mescola sapientemente Giappone e Perù, Sudamerica e orientalismi a tavola. Al vostro arrivo verrete accolti dall’intero staff di sala e di cucina (questa è a vista), che urlerà in coro “Maido”, che in lingua giapponese è il classico “welcome”, ovvero il benvenuto nel ristorante. Superato l’impatto di una sala quasi sempre affollata e anche questa con, in un angolo, un bar dove concedersi una sosta, da lì in poi si entrerà in un turbinio di sensazioni gustative che sarebbe fin troppo facile definire fusion e che, più realisticamente, vivono di una materia prima eccellente spesso lavorata con una creatività unica dove la misura e l’azzardo vanno sempre di pari passo. Un giro di giostra e un turbine di sapori che permette di attraversare spesso l’Oceano Pacifico per poi tornare quasi subito indietro, tra un baccalà marinato nel miso con gel di mele e polvere di funghi porcini e il riso proveniente da Chiclayo, sulla costa peruviana, con ricci di mare di Atico, una crema di avocado e baby corn. Per non parlare del Cuy (il porcellino d’India), una carne pregiata in Perù e qui presentata con una crema di cavolfiore e una salsa torikara. In entrambi i casi, l’esperienza vale il viaggio, anche se Lima non è proprio dietro l’angolo. Perché la cucina di Central e Maido raccontano di un territorio vasto e per certi versi ancora da esplorare una volta messe le gambe sotto il tavolo.
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di Bruno Petronilli
Terra: art, poetry and matter
Ho sempre considerato Heinrich Schneider prima di tutto uno straordinario artista, poi un grande chef. Ne ha tutte le caratteristiche: introverso, geniale, minimalista, profondo, sensibile. Se ad un artista è destinato il ruolo di scavare nel proprio animo e nella realtà che lo circonda, per rendere un quadro personale dei suoi tormenti spirituali, dei propri conflitti interiori, risolvibili unicamente smontando la realtà, ricostruendola, esaltandola e sublimandola grazie alle proprie interpretazioni creative, ecco che Heinrich è l’archetipo dell’artista che si fa chef, o viceversa, dipende dai punti di vista. Il mio si è concretizzato dopo gli innumerevoli viaggi in questo ristorante simbolo della Val Sarentino. Tanti anni fa lo percepii, immediatamente. Le stelle Michelin erano solo un vago presagio, ma la cucina di Heinrich era già un fermento di stimoli e suggestioni che parlavano di arte. L’arte poi affina le tecniche, l’arte si evolve, si perfeziona. Ma l’arte deve soprattutto lanciare un messaggio, deve comunicare. Così Heinrich in tutti questi anni ha proseguito, ha innovato, ha indagato. Ma cosa? La sua vita, la sua Terra, la sua identità. L’aspetto più interessante di questo lungo percorso è che Heinrich non è mai sceso a compromessi.
I have always considered Heinrich Schneider first and foremost an extraordinary artist, then a great chef. He has all it takes: introverted, ingenious, minimalist, deep, sensitive. An artist’s destiny is to dig into his soul and into the reality around him, to paint a personal picture of his tormented spirit, of his inner conflicts, which can only be resolved by disassembling reality, reconstructing it, enhancing and sublimating it thanks to creative interpretations; on the other hand, Heinrich is the archetypal artist who becomes chef, or vice-versa, depending on how your perspective. Mine has become concrete after innumerable trips to this restaurant, a symbol of Val Sarentino. Many years ago I felt it immediately. The Michelin stars were just a vague premonition, but Heinrich’s cuisine was already full of inputs and suggestions reminding me of art. Art then refines its techniques, art evolves, becomes perfect. But art should first of all send a message, communicate. So Heinrich, for all these years, has continues, innovated, investigated. What exactly? His life, his Terra, his identity. The most interesting aspect in this long route is that Heinrich has never made compromises.
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Gisela Schneider / Terra
Trota e scaglia di ardesia
Pralina con ibisco e menta piperita
Capriolo con mille fiori
Heinrich Schneider / Terra
crema di edera terrestre
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Ecco un altro tassello della sua definizione artistica: colui che fa arte non può scendere a compromessi, negherebbe l’essenza stessa dell’arte. Perché il viaggio di Heinrich, per assurdo, è un percorso non verso l’alto, guardando dalla cima della montagna dove c’è il suo Terra il cielo limpido e terso. Ma verso il basso, dentro le viscere di quel luogo in cui è nato. E addentrarsi verso il buio e non ascendere verso la luce è più difficile, più rischioso. Si arriva ad un punto in cui bisogna fare i conti con il dubbio, con il mistero. Il mistero di Heinrich è quella benedetta terra che lo circonda, un intrigo di frutti, di erbe, di messaggi apparentemente naturali, ma che in realtà sono i fili di un ordito complesso, segreto, oscuro. La sua sfida sciogliere quell’intreccio, filo dopo filo, e ricucire sapientemente la realtà attraverso i suoi piatti, dipinti ed espressioni di purezza, di verità, di assoluto. Un grande artista ha bisogno della sua musa. Pollock aveva Peggy Guggenheim, Heinrich Schneider ha sua sorella Gisela. Era inevitabile che fosse così, perché Gisela è cresciuta insieme al fratello in quei boschi, in quella terra. Hanno la stessa emotività e capacità di percezione. Difficile pensare all’Auener Hof senza uno dei due. Gisela e Heinrich sono le parti inscindibili della stessa anima. E’ lei che ha il compito di svelare in sala la magia di ciò che nasce in cucina. Ci sono luoghi unici nel mondo, non replicabili e inimitabili. Il Terra è così, una gemma preziosa, incomparabile, al centro di un’architettura complessa e poetica, che vive in ogni particolare, in ogni più recondito anfratto di questo meraviglioso luogo. E come la grande arte non finisce mai di saturarti di bellezza, ne diventi dipendete, ne hai sempre di più bisogno, un bisogno quasi primordiale. Qui all’Auener Hof ogni secondo trascorso è un istante d’infinta armonia, che dura per sempre. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Here is another piece of his artistic definition: if you produce art you cannot make compromises, this would deny the very existence of art. Indeed the journey followed by Heinrich, paradoxically, is not a route upwards, looking from the top of the mountain where there is his Terra, to the clear and cloudless sky. But rather downwards, in the recesses of the place where he was born. And moving towards darkness and not rising towards the light is more difficult and risky. You reach a point where you need to confront doubt, mystery. For Heinrich, mystery is the blessed land that surrounds him, a mixture of fruits, herbs, apparently natural messages, which in actual fact are threads in a complex, dark, obscure pattern. The challenge is to unravel that pattern, thread after thread, and skilfully sew reality again - through his dishes, paintings and expressions of purity, truth, absolute. A great artist needs a muse. Pollock had Peggy Guggenheim, Heinrich Schneider has his sister Gisela. This was inevitable, because Gisela has grown up with her brother in those forests, on that land. They share the same emotional traits and perception ability. It is difficult to think about Auener Hof without one of them. Gisela and Heinrich are inseparable parts of the same soul. She has the task of revealing in the dining room the magic of what is produced in the kitchen. There are unique places in the world, which cannot be reproduced or imitated. This is what Terra’s like: a precious, incomparable gem, in the middle of a complex and poetic architecture, which lives in every detail, in the most hidden corners of this wonderful place. It is like great art, that never ceases to fill you with beauty, you become addicted to it, you need it more and more, it is almost a primal need. Each moment you spend here at Auener Hof is an instant of infinite harmony, which lasts forever.
Terra Restaurant Prati 21 I-39058 - Sarentino, Italy Tel. +39 0471 62 30 55 www.terra.place.it
Heinrich è l’archetipo dell’artista che si fa chef
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Heinrich is the archetype of the artist who becomes a chef
di Luca Bonacini / photo di Roberto Carnevali
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Una tranquilla zona residenziale di Milano, tra vie signorili ordinate e pulite e condomini eleganti: è qui che da quasi un anno ha aperto [bu.r], il nuovo laboratorio delle idee di Eugenio Boer. E’ un luogo dove ti sembra di essere già stato, che riporta alle atmosfere della New York anni ’50 di certe indelebili pellicole americane. “Dove siamo ora” ci racconta Boer “tanti anni fa c’era Yar il primo ristorante russo di Milano, molto amato dai milanesi, ed è quasi come cogliere un testimone per noi, proseguendo nel segno del viaggio e della contaminazione”. Tutto ha un senso e si colloca in una dinamica coerente con il marchio [bu.r] che richiama la fonetica del cognome dello chef, ideato insieme al giovane designer Gianluca Carone. Gli ambienti sono intimi, accoglienti e parlano di memoria e ricerca, attingendo a piene mani alle esperienze e all’originale personalità dello chef: “Mario Abruzzese dello studio kick.office, che è anche un amico, ha saputo leggermi dentro ed è stato un dialogo, non un lavoro, dove ci siamo capiti. Ne è nato il luogo che volevo, con mille influenze, da quando si arriva, a quando si entra, fino al termine dell’esperienza, la moquette ad esempio, l’ho voluta perché mi ricorda i grandi ristoranti mitteleuropei di quando ero piccolo...”. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Gli ambienti sono intimi, accoglienti e parlano di memoria e ricerca the rooms are cosy, welcoming and speak of memory and research
FONETICA, IDEE E GENIO phonetics, ideas and geniality
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A quiet residential area in Milan, between elegant, tidy and clean streets and smart blocks of flats: this is where, nearly one year ago, Eugenio Boer opened [bu.r], his new laboratory of ideas, a place where you feel you have already been, which brings back the atmospheres of New York in the 1950s, of certain unforgettable American movies. “Where we are now”, Boer tells us “many years ago there was Yar, the first Russian restaurant in Milan, much loved by the Milanese, and for us it is almost like picking up the baton, continuing under the sign of travel and contamination”. All of this makes sense and can be seen as part of a trend consistent with the brand name [bu.r] phonetically similar to the chef’s surname, invented together with the young designer Gianluca Carone. The rooms are cosy, welcoming and speak of memory and research, drawing fully on experiences and the chef’s unique personality: “Mario Abruzzese from the kick.office studio, who is also a friend, has managed to see through me, therefore it has been a dialogue rather than an effort: we understood each other. The result is the place I wanted, with a thousand influences, from the moment you arrive, then walk in, to the end of the experience; for example, I chose wall-to-wall carpet because it reminds me of the great restaurants I saw when I was a boy...”.
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Simone Dimitri / Maitre [bu:r]
Gli spazi ospitano inconsueti componenti d’arredo, pareti dorate e blu, specchi, stampe orientali e materiali pregiati come il marmo, il legno di noce, l’ottone, una mis en place elegante e ricercata a partire da piccole campane di cristallo portaburro che ospitano minuscole mucche pezzate, chiari rimandi alla cultura italiana e a quella olandese. E’ un percorso non convenzionale quello che avvicina Boer alla cucina. Classe 1978, olandese per metà, quando è ancora bambino entra in contatto con i sapori e gli odori della cucina nordica e mediterranea grazie alla nonna materna che è cuoca e instilla in lui la volontà di seguirne le orme. Si diplomerà in Ragioneria mentre apprende i fondamentali lavorando nei locali di Sestri, dove risiede con la famiglia, poi Liguria, Sicilia, Toscana, Germania, con il Pescador e il S.Anna di Sestri, l’Osteria dei Vespri di Palermo, il Bacco e il Vau di Berlino, dove studia, vede i grandi all’opera e acquisisce tecniche, spunti e un rigore professionale che sarà la cifra stilistica negli anni a venire. Il ritorno in Italia lo porta di nuovo a Palermo, all’Osteria dei Vespri, dove rimane 5 anni come sous-chef di Alberto Rizzo, poi l’incontro con Gaetano Trovato all’Arnolfo di Colle Val d’Elsa e un periodo a La Leggenda dei Frati di Monteriggioni, rimanendo nel senese per 4 anni. Nel 2011 è in Alto Adige, al St. Hubertus, da Norbert Niederkofler e poi a Milano dove si dedica a un innovativo progetto sul vino naturale: Enocratia. Apre con Stefano Saturnino il Fishbar de Milan e nel dicembre 2014 Essenza, che nel 2017 gli darà la Stella Michelin, fino al giugno 2018 quando inaugura a Milano [bu:r], a cui seguirà in dicembre Altriménti in via Monterosa, per ora, ma solo per ora ultima sua creatura. “Ho iniziato a fare il cuoco a 12 anni e l’anno prossimo sono già trenta, una formazione ampia, densa di esperienze formative e opportunità a cui ancora oggi non rinuncio, come l’anno scorso quando sono stato per un po’ di tempo al Plaza Athénée con Roman Meder e monsieur Ducasse. L’essere mezzo italiano e mezzo olandese è una risorsa per me, perché ho il cuore italiano e la mente olandese. Ho imparato a riconoscere
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The spaces include unusual furniture, golden and blue walls, mirrors, oriental prints and valuable materials such as marble, walnut wood, brass, an elegant and stylish mise-en-place, starting with small crystal bells on butter plates with tiny dappled cows, a clear reference to Italian and Dutch culture. The path bringing together Boer and cuisine is unconventional. Born in 1978, half-Dutch, as a child he discovered flavours and perfumes of Nordic and Mediterranean cuisine thanks to his maternal grandmother, who is a cook and instilled in him the wish to follow in her footsteps. He graduated from high school as an accountant, learned the basics by working for restaurants in Sestri, where he lived with his family, then in Liguria, Sicily, Tuscany, Germany, with Pescador and S.Anna in Sestri, the Osteria dei Vespri in Palermo, the Bacco and the Vau in Berlin, where he studied, saw masters at work and acquired techniques, inputs and a professional which characterized his style in later years. When he returned to Italy he went back to Palermo, to Osteria dei Vespri, where he worked for five years as sous-chef for Alberto Rizzo; later he met Gaetano Trovato at Arnolfo in Colle Val d’Elsa and for a time at La Leggenda dei Frati in Monteriggioni, in the Siena area where he stayed four years. In 2011 he went to Alto Adige, to St. Hubertus, with Norbert Niederkofler, then to Milan where he focused on an innovative project on natural wine: Enocratia. With Stefano Saturnino he opened Fishbar de Milan, and in December 2014 the restaurant called Essenza, for which in 2017 he was awarded a Michelin Star, then in June 2018 he inaugurated [bu:r] in Milan, followed in December by Altriménti in Via Monterosa, his most recent creature, but just for now. “I started to work as a cook when I was 12, and next year it will be thirty years already; I have a wide-ranging education, rich in training experiences and opportunities which he still pursues, for example last year when I spent some time at Plaza Athénée with Roman Meder and Monsieur Ducasse. Being half Italian and half Dutch is a resource for me: I have an Italian heart and a Dutch mind. I have learned to recognize the flavours, to give value first and foremost to taste, to transmit pleasantness to the table, which for me should never be in the background”. All dishes from the workshop in Via Mercalli are very elegant: “aesthetics is something you create, you feel, when you know that a dish is good,
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and wish to convey an emotion to people at your table. This is the greatest form of respect which we cooks have for our guests. [bu.r] was inaugurated in June last year, after three years of Essenza and the Michelin Star, exactly in Milan, the town which welcomed me as a chef and where i had not worked yet. First Enocratia, then the Fish Bar de Milan, Essenza and now – at last – back home. After [bu.r] I opened “Altrimenti”, a restaurant under my home with two partners, Leonardo and Lorenzo who were customers of mine and Damian Piotr Janczara’s at Essenza. Damian and I have split, but we remain together all the same, he is over there and I am over here. At [bu.r] I am surrounded by great professionals who have been with me for years and accompany me in this new adventure”. There are new projects becoming concrete and always giving new emotions, made by persons carefully selected by Boer: “the maitre Simone Dimitri has an amazing curriculum: he comes from Trussardi at La Scala and Mandarin Oriental; Joel the sommelier has worked at Le Gavroche London, at Maison Bras in Laguiole: they are not just strong shoulders to rely on, but much more”. What is the philosophy of Eugenio Boer at [bu.r] ? “It is a concentrate of positive memories, based on my past, my experiences and draws inspiration from what I see and feel while I am travelling. I cannot stay still for too long, so I receive thousands of influences, which I pour into an eclectic cuisine with solid Italian, but also French roots, a country I admire: for me they are not “naughty cousins”, but rather a source of continuous inspiration. I also look to Asia, another great cuisine, with a millenary history, which then branched out in a thousand directions; if you keep an open mind, without boundaries, you get unexpected inputs and incredible references, which I guess shows my Dutch side, a characteristic of mine: making the most out of every situation”.
Eugenio Boer / Chef [bu:r]
i sapori, a dare importanza prima di ogni altra cosa al gusto per trasmettere piacevolezza alla tavola che per me non può mai essere messa in secondo piano”. Sono piatti di grande eleganza quelli che escono dal laboratorio di via Mercalli, “l’estetica la fai, la crei, la senti, quando sei certo che il piatto è buono, e vuoi dare un’emozione a chi si siede alla tua tavola, ed è la più grande forma di rispetto che noi cuochi abbiamo verso gli ospiti. [bu.r] nasce nel giugno dell’anno scorso dopo i tre anni di Essenza e la Stella Michelin, proprio a Milano la città che mi ha accolto da chef e dove non avevo ancora lavorato. Prima Enocratia, poi Fish Bar de Milan, Essenza e adesso finalmente casa mia. Dopo [bu.r] ho aperto “Altrimenti”, un ristorante sotto casa con altri due soci, Leonardo e Lorenzo che erano clienti miei e di Damian Piotr Janczara a Essenza. Io e Damian ci siamo separati per essere comunque sempre uniti, lui è di là e io sono di qua. Al [bu.r] sono circondato da grandi professionisti che erano con me da anni e mi accompagnano in questa nuova avventura”. Nuovi progetti che si concretizzano e danno sempre emozioni nuove, fatti da persone che Boer sceglie con cura: “il maitre Simone Dimitri ha un curriculum incredibile viene da Trussardi alla Scala e dal Mandarin Oriental, Joel il sommelier è stato a Le Gavroche London, a le Maison Bras a Laguiole, non sono solo robuste spalle su cui contare ma molto di più”. E qual è la filosofia di Eugenio Boer al [bu.r] ? “E’ un concentrato di ricordi positivi, che si rifà al mio passato, al mio vissuto e trae ispirazione da ciò che vedo e sento quando sono in viaggio. Non riesco a stare fermo troppo a lungo e questo mi porta mille influenze che riverso in una cucina eclettica dalle solide radici italiane, ma anche francesi, una nazione di cui riconosco la grandezza, per me non sono i cugini cattivi ma fonte di ispirazione continua. E guardo all’Asia, un’altra grande cucina con una storia millenaria che poi si è diffusa in mille direzioni, se riesci ad avere una mente aperta, senza paletti, arrivano spunti inattesi e rimandi incredibili, che è un po’ il mio lato olandese, una mia caratteristica, ottenere tutto il meglio da ogni situazione che incontro”.
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EUGENIO BOER di Bruno Petronilli
Eugenio Boer è uno chef atipico, molti lo definirebbero “fusion”. Forse sarebbe più corretto dire “esperienziale”, perché la sua cucina è un continuo andirivieni di incontri e di citazioni. Un cammino non lineare, fatto di suggestioni diverse, d’ispirazioni e sentimenti. Osserva tutto Eugenio, a un metro da sé o lontano migliaia di chilometri. Analizza ogni dettaglio della sua vita, ci riflette, parla prima di tutto con sé stesso. Poi ricompone pazientemente materie e idee, trasmettendo il suo messaggio attraverso un linguaggio nuovo, ma sempre assolutamente personale. I rimandi della sua cucina sono solo apparenti, perché in realtà ogni omaggio è solo un’interpretazione fonetica, come il nome del suo ristorante. La cucina di Eugenio è arcaica e moderna nello stesso istante, è un libro di racconti in cui ogni capitolo è scritto con un vocabolario diverso, ma quando arrivi all’ultimo paragrafo ti rendi conto che ha scritto nella tua lingua, quella che usi tutti i giorni. Il nodo gordiano di Eugenio Boer è tutto qui: un narratore di stilemi, di idee, di concetti, dotato di una sensibilità e di una personalità uniche. I suoi piatti sono quadri lucenti, cinquecenteschi e avanguardisti. Una cucina estrema nel pensiero, non nella sua architettura. Ogni piatto di Eugenio viaggia tra passato, presente e, paradossalmente, futuro. Nella sua complessità, dove si mescolano tecnica e materia, è la riflessione che emerge, piena e pura, di una semplicità assoluta ed essenziale.
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Eugenio Boer is an atypical chef, many would call his style “fusion”. It would probably be more appropriate to say “experiential”, because his cuisine is a continuous to-and-fro between meetings and quotations. It is not a linear path because it includes several suggestions, inspirations and feelings. Eugenio observes everything, at a distance of one meter or from thousands of kilometres away. He analyses every detail of his life, reflects on it, starts by talking about everything to himself. Then he patiently recomposes materials and ideas, passing on his message through a new language, but always absolutely personal. The references in his cuisine are only apparent because in reality each tribute is just a phonetic interpretation, like the name of his restaurant. Eugenio’s cuisine is archaic and modern at the same time, it is a book of stories where each chapter is written with a different vocabulary, but when you get to the final paragraph you realise that it has been written in your language, the one you use every day. The Gordian knot for Eugenio Boer is all here: he is a narrator of stylemes, di ideas, concepts, with unique sensitivity and personality. His dishes are bright paintings, sixteenth-century and avant-garde in style; it is an extreme cuisine in terms of style, not of architecture. Each of Eugenio’s dishes travels between past, present and, paradoxically, future. In its complexity, where technique and matter merge, it is the reflection which is brought out, full and pure, with an absolute and essential simplicity. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
l’alfabeto di Eugenio in 6 piatti
L’ALFABETO DI EUGENIO IN 6 PIATTI E come
U come
CONSISTENZA
EQUILIBRIO
UMAMI
Spagna, omaggio a Marcos Moran La morbidezza della crocchetta accoglie un’altra morbidezza, quella più tenace, del gambero. La fusione di consistenze avviene all’apertura dell’involucro croccante, elevando il sapore del piatto con sferzate acide e vegetali. Il gusto è unico, tra verticalità e orizzontalità.
Mare e monti Una terrina di maiale, un’ostrica poché, poi l’estratto di mela verde e la schiuma alla birra. Apparentemente un gioco di disequilibri gustativi con la grassezza della carne che insegue la sapidità dell’ostrica e viceversa. Ma è nella salsa che si raggiunge la stabilità e l’armonia. Geniale.
C as in Consistency
E as in Equilibrium
Viaggio in oriente Gyoza al nero di seppia, ripieno di anatra all’arancia, la crema con il suo fondo, il cipollotto cinese e la pelle croccante dell’anatra: in questo viaggio in Oriente Eugenio Boer mette in atto un volo vertiginoso, dove declinazioni di umami vengono intrecciate con un ritmo serrato, in maniera quasi musicale, con i toni sapidi che disegnano uno spartito di tonalità infinite.
Spain, tribute to Marcos Moran The softness of the croquette welcomes another more resistant one: that of the crab. This fusion of consistencies takes place when you open the crunchy envelope, raising the flavour of the dish with sour and vegetable strikes. The taste is unique, between vertical and horizontal.
Sea and mountains A pork terrine, a poché oyster, then the green apple extract and the beer foam. It is apparently a game of unbalanced flavours, with the fatness of the meat following the sapid taste of the oyster and vice-versa. But it is in the sauce that stability and harmony are reached. Ingenious.
U as in Umami
Journey to the Orient Gyoza with squid ink, duck orange filling, the sauce with its gravy, the Chinese spring onion and the crunchy skin of the duck: on this journey to the Orient, Eugenio Boer undertakes a vertiginous flight, where Umani declinations are intertwined with a fast rhythm, almost in a musical way, with the sapid tones that draw up a score including endless tonalities.
T come
I come
TRASCENDENTE INFINITO
DOLCEZZA
Suggestioni e cromie Tutta l’estetica di Boer che ci racconta un intenso viaggio tra mare e terra. Domina la rapa rossa, la terra quindi, in cui s’insinua un trancetto di rombo, morbido e rotondo con la sua cottura alla mugnaia. Ma la sua confortevole essenza è immersa nella realtà della rapa, che parla di acidità, di ferrosità, di ematicità. Quasi a ridare vitalità e dignità alla carne. Epico, altro che fusion.
Riso allo zafferano, omaggio a Gualtiero Marchesi È possibile migliorare la perfezione? No, però è possibile esaltarla. L’omaggio al Maestro è un atto di stile molto personale di Boer, che lo celebra con una incredibile cottura del Riso e con un condimento straordinario: il fondo di vitello, il caffè e lo zafferano, sono un diamante gustativo, di sapidità e intensità, che ti porta in alto, sempre di più ad ogni assaggio. Sicuramente siamo arrivati fino al cielo, quasi a salutare il Maestro che da lassù ci guarda sorridendo e, sicuramente, ci critica.
Bavarese all’arancia È possibile creare un dolce. Ed è possibile creare un non-dolce. Poi c’è la terza via, quella del mondo di Boer, dove un dessert classico, dalla dolcezza estrema, viene bilanciato da sé stesso, senza quasi che te ne accorgi. La dolcezza che riequilibria la dolcezza. Incredibile.
T as in Transcendental
Suggestions and colours The whole of Boer’s aesthetics which tells us of an intense trip between sea and land. The beetroot dominates, therefore the earth, then a small slice of soft and round turbot meunière. Its comfortable essence, however, is steeped in the reality of the beetroot, which talks about acidity, iron, blood… almost a way of giving vitality and dignity to meat: epic, rather than fusion.
I as in Infinity
Rice with saffron, a tribute to Gualtiero Marchesi Can you improve perfection? No, but you can strive to enhance it. This tribute to the Maestro is a very personal act of style by Boer, who celebrates it with an incredible way of cooking Rice and with an extraordinary sauce: veal gravy, coffee and saffron are a taste diamond, in terms of sapidity and intensity, which leads you higher up, after each mouthful. We have definitely reached heaven, almost to say hi to the Maestro who will be watching us from up there and, certainly, criticizing us.
D come
D as in Dessert
Orange Bavarois It is possible to create a dessert. And it is possible to create a non-dessert. Then you have option three, the one in Boer’s world, where a traditional dessert, with its extreme sweetness, is balanced by itself, and you hardly even notice. A dessert which rebalances a dessert. Unbelievable.
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C come
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di Giovanni Angelucci
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Quando nel 1965 uscì il singolo California Dreamin’ dei The Mamas & The Papas, nel sud dello stato americano i movimenti socio-culturali impazzavano. Jim Morrison con la sua celebre LA Woman infuocava le masse e cantava il fuoco di questi luoghi “sei una signorina fortunata nella città della luce oppure solo un altro angelo perduto?”. Parlando di California, però, il pensiero non può che andare a San Francisco, una città in grado di conservare un animo d’altri tempi, sfuggito, in parte, al modello americano del progresso senza limiti. Gli hippies da una parte e la rivoluzione informatica della Silicon Valley dall’altra, San Francisco nei decenni ha mantenuto un’identità del tutto propria con uno spirito unico e innovativo che è cresciuto e ha preso forma anche a tavola. Insieme a New York è la città con la più spiccata e valida offerta in fatto di cucina. I sali e scendi, lo street food, l’energia californiana, il vento che soffia dalla baia, la scena gastronomica locale di grande evoluzione. Ad oggi sono parecchi i ristoranti degni di visita e lo dimostra la nascita della prima edizione nazionale della Guida Michelin dedicata a questo territorio, presentata a Sacramento, in aggiunta alle edizioni già pubblicate sulla San Francisco Bay Area e sulla regione del vino, che includerà i ristoranti dell’area di Los Angeles, Monterey, Orange County, Sacramento, San Diego e Santa Barbara. Una novità molto importante che conferma quanto detto. L’elenco delle stelle 2019 inserite all’interno della Guida California verrà ufficializzato durante un evento speciale, ma nel frattempo San Francisco continua a richiamare a sé i foodies di tutto il mondo: sono ben otto i ristoranti tristellati, un totale di 80 stelle tra le 58 segnalazioni, più di ogni altra città americana (compresa New York) così da confermarsi la capitale gastronomica a stelle e strisce. Tra i tristellati le novità sono rappresentate da Atelier Crenn e Single Thread (Healdsburg), che si uniscono a The French Laundry (Yountville), Manresa (Los Gatos), The Restaurant a Meadowood (St. Helena) nelle località limitrofe alla città, oltre a Benu, Saison e Quince in downtown. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
When, in 1965, the single California Dreamin’ by The Mamas & The Papas came out, in the south of the US State, social-cultural movements were rampant. Jim Morrison with his famous LA Woman excited the audiences and sang the fire of those places “are you a lucky little lady from the city of lights or just another lost angel?”. Talking about California, though, one cannot help thinking about San Francisco, a city able to preserve a soul of past times, which partly escaped the American model of limitless progress. With the Hippies on the one hand, and the IT revolution from Silicon Valley on the other side, San Francisco over the decades has kept its own identity with a unique and innovative spirit which has grown and taken shape also at table. Alongside New York, this is the city with the most distinctive and valid offer in terms of cuisine, with the ups and downs, the street food, Californian energy, the wind blowing from the bay, the local highly developed gastronomic scene. Today there are many noteworthy restaurants, and this is shown by the publication of the first national edition of the Michelin Guide dedicated to this region, presented in Sacramento, in addition to those already published on the San Francisco Bay Area and on the wine region, which will include restaurants in the area of Los Angeles, Monterey, Orange County, Sacramento, San Diego and Santa Barbara. A very important innovation which confirms what we just said. The list of stars for 2019 in the California Guide will be made official in the course of a special event, but in the meantime San Francisco keeps attracting foodies from all over the world: there are as many as eight three-star restaurants, a total of 80 among the 58 reviews, more than any other American city (New York included), confirming it as the stars-and-stripes gastronomic capital. Among restaurants with three stars, the new ones are Atelier Crenn and Single Thread (Healdsburg), which go and join The French Laundry (Yountville), Manresa (Los Gatos), The Restaurant in Meadowood (St. Helena) in nearby neighbourhoods of the city, as well as Benu, Saison and Quince downtown.
una città in grado di conservare un animo d’altri tempi, sfuggito, in parte, al modello americano
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a city able to preserve an ancient soul, which has, in part, escaped the American model
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Ma come è riuscita a diventare così appetibile? Non sbaglieremmo dicendo che la cucina californiana non esiste, ma esiste un flusso qualitativo generato dall’unione di buone materie prime e alte tecniche in mano ai cuochi che nel tempo hanno portato comunque a grandiosi risultati, tenendo però ben presente che, ciò nonostante, uno stile di cucina proprio la California non lo ha e probabilmente mai lo avrà. Era il 1971 quando una lungimirante donna aprì il suo ristorante Chez Panisse: Alice Waters “la cuoca che ha cambiato il modo di cucinare degli chef”, titolavano i giornali. Un locale rivoluzionario per certi versi, di certo il primo oltre oceano a proporre un concetto così diverso (a quei tempi) nel mondo della cucina tanto da fare tendenza. La chef visionaria ha spinto la cucina californiana in una direzione totalmente nuova, introducendo i concetti di stagionalità e prodotti a chilometro zero. Prima donna a vincere il James Beard Award nel 1992, Alice ha formato varie generazioni di studenti della zona (e non solo) con il suo progetto “Edible Schoolyard” (Cortili Commestibili). Partito in una scuola media di Berkeley ormai più di vent’anni fa, è riuscito a trasmettere ai bambini l’importanza del mangiar sano e di usare ingredienti coltivati in loco, diventando un vero e proprio modello per avviare programmi simili in tutto il paese. Eugenio Roncoroni, giovane chef del ristorante milanese Al Mercato di Milano, ha un forte legame familiare con gli USA e la California e proprio a San Francisco si è formato all’inizio del nuovo millennio: “in città ho lavorato per gli stellati Steffan Terje di Perbacco e Michael Tusk del Quince (allora 2 stelle), ma la vera svolta è stata il mio incontro con Angelo Garro, un cacciatore e cuoco molto amico di Alice Waters che mi ha fatto cambiare la visione della cucina. Li ho imparato da dove arrivano davvero le materie prime. San Francisco viveva il suo momento gastronomico migliore, figure come Mario Batali, Anthony Bourdain, Bobby Flay, Morimoto, Danny Bowien stavano diventando delle superstar, non si faceva altro che parlare di cibo e la città era un fermento di nuovi ristoranti che nascevano con l’idea dell’autosostenibilità, del biologioco, dell’homemade ma senza essere snob come purtroppo si è diventati oggi, in una concezione quasi esagerata e nauseante. Nei farmers market i prodotti avevano ancora un prezzo umano e l’approccio era genuino. Oggi purtroppo quello che era un bel messaggio e un motivo di miglioramento per i nuovi e vecchi chef, è diventata quasi una ossessione, motivo per cui se non hai il “feeling” che tutto arrivi dal giardino dietro casa sei out, e tante volte i ristoratori sono costretti a mentire a causa di questa psicosi. In ogni caso San Francisco continua a rimanere la capitale gastronomica indiscussa degli States”.
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Kin Khao / Restaurant
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Mister Jiu’s / Restaurant
How did the city become so appetizing? It would not be wrong to say that there is no such thing as Californian cuisine, but there is a quality flow generated by the combination of good raw materials and advanced techniques in the hand of chefs who, over time, have led to outstanding results, bearing in mind, though, that California does not have its own cuisine style, and probably never will. It was 1971 when a far-sighted woman opened her restaurant, called Chez Panisse: Alice Waters, “the female cook who changed the way chefs cook”, made the headlines. It was a revolutionary restaurant in some respects, definitely the first in America to have such an unusual concept (at the time) in the world of cuisine, to the extent that it became trendy. This visionary woman chef shifted Californian cuisine in a totally new direction, introducing the concepts of seasonality and farm-to-table products. She was the first woman to receive the James Beard Award in 1992; Alice trained several generations of students in the area (but not only) with her project “Edible Schoolyards”. Starting from a junior high school in Berkeley, more than twenty years ago now, she successfully conveyed to children the importance of eating healthy food and of using ingredients grown locally, becoming a true role model to start similar programmes throughout the country. Eugenio Roncoroni, a young chef from the Milan restaurant Al Mercato di Milano, has strong family ties with the US, specifically California, and San Francisco is exactly where he trained at the start of the new millennium: “in this city I worked for star chefs Steffan Terje from Perbacco and Michael Tusk from Quince (two stars at the time); the real turning point, though, was my meeting with Angelo Garro, a hunter and cook who was a great friend of Alice Waters and changed my perspective on cooking. That is where I learnt where raw materials really come from. San Francisco was experiencing its gastronomic heyday, personalities such as Mario Batali, Anthony Bourdain, Bobby Flay, Morimoto, Danny Bowien were becoming superstars, all talk was about food, and the new restaurants in the city were thriving, based on concepts of self-sustainability, organic, homemade, but without being snobbish which unfortunately seems to be the case today, with an almost exaggerated and nauseating result. On farmers’ markets, products still had affordable prices and the approach was genuine. Unfortunately, what used to be a positive message and a reason for improvement for old and new chefs, today has become almost an obsession; as a consequence if you do not have a “feeling” that everything comes from your backyard, you are out, and often restaurant owners are forced to lie because of this paranoia. In any case San Francisco is still the undisputed gastronomy capital of the States”.
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Michael Tusk / chef Quince Restaurant
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Convivono ristoranti di svariate etnie, in particolare asiatiche, proprio qui nasce la più antica Chinatown degli USA e la cucina cinese è particolarmente forte e apprezzata. Ma quali sono i ristoranti migliori? Dove bisogna andare? Locali stellati (ma del tutto informali e lontani da ogni superflua facciata) come Mister Jiu’s e Kin Khao rappresentano delle validissime proposte in fatto di cucina identitaria e di valore a San Francisco. Nel primo vi accoglierà il giovane Brandon Jew, proprietario ed executive chef di un antico stabile in China Town risalente al 1880. Dopo un decennio nelle cucine in giro per il mondo, da Bologna a Shanghai e nei numerosi ristoranti della baia californiana, Brandon ha trovato la sua più grande ispirazione nella città natale, San Francisco. Aperto solo di sera, offre sprizzante atmosfera in un’unica grande sala, a cui si arriva percorrendo il lungo banco bar (disponibile anche solo per bere e fare uno spuntino) e la cucina aperta dove la dozzina di giovani cuochi da tutto il mondo lavorano per offrire un divertimento assicurato. Design nelle stoviglie e nei piatti con un tocco hipster di livello che regala un tono di leggerezza mantenendo però un rango d’esecuzione ben alto. Le origini cantonesi del cuoco sono ben chiare, non solo dalle bacchette con cui si mangia, ma dall’approccio verso una cucina di evidenti influssi asiatici con numerose presenze moderne e internazionali. Kin Khao è perfetto per un pranzo informale da leccarsi i baffi: anche in questo caso siamo in Asia ma la mira è centrata verso la cucina thai dalla cuoca e proprietaria Pim Techamuanvivit che, al piano terra del Parc 55 Hotel, serve i piatti thailandesi fatti a regola d’arte con l’aiuto delle materie prime dei fornitori locali. Zuppe di noodle speziate, spaghetti saltati in padella con maiale, brodi di pollo al curry con pasta all’uovo e senape in salamoia, sandwich e altre leccornie thai da gustare in condivisione. Se invece volete conoscere una delle colonne portanti dell’alta cucina cittadina è nel tristellato Quince che bisogna prenotare un tavolo. Lo chef Michael Tusk dà lustro al suo ristorante da ormai sedici anni, sempre ai massimi livelli: “ho lavorato per Alice Waters e Paul Bertolli che definirei il mio mentore, è stato il primo chef a portarmi all’estero tra Italia e Francia e mi ha fornito la tecnica adeguata (essendo un valoroso macellaio) su più fronti compreso il mondo della pasta. Dalla famiglia di Chez Panisse ho appreso la stagionalità e il valore della materia prima, non sarei mai cresciuto se non avessi lavorato per entrambi”. Un grande cuoco lontano da vezzi e autoreferenzialità che pone sul banco d’assaggio i suoi ottimi prodotti provenienti dalla Fresh Run Farm (azienda agricola con cui collabora poco fuori città), purezza e potenza dei sapori con grande equilibrio nelle composizioni. “Senza Neil Stetz (chef di cucina), Keegan Tokamura (executive sous chef) e mia moglie Lindsay (che definisco la vera star grazie alla quale riesco a concentrarmi in cucina), il Quince non sarebbe ciò che è oggi”. Tra i tortelli di sedano rapa, carciofo, tartufo nero, serviti direttamente in un mattarello in legno tipico italiano e un agnello con broccoli, puntarelle e acciughe, il grande potenziale è servito così come tutta la visione gastronomica del cuoco che ama l’Italia. Non finisce qui, in fatto di miscelazione San Francisco ha tanto da dire, due delle mecche che un appassionato non può in alcun modo non visitare sono i cocktails bar Trick Dog e Tommy’s Mexican Restaurant (quest’ultimo mecca mondiale della Tequila), entrambi presenti nella World’s 50 Best Bars, offrono cultura da bere.
Emilie Winfield / Quince Restaurant
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Restaurants from different ethnic groups live together, more specifically Asian – this is where the most ancient Chinatown in the US was established, and Chinese cuisine is especially strong and appreciated. What are the best restaurants, though? Where should you go? Starred restaurants (although totally informal and distant from any superfluous facade) such as Mister Jiu’s and Kin Khao are excellent proposals in terms of identity and valuable cuisine in San Francisco. In the former you will be welcomed by young Brandon Jew, owner and executive chef of an old building in Chinatown dating to 1880. After a decade working as a chef all over the world, from Bologna to Shanghai, and in the numerous restaurants in the California Bay area, Brandon has found his greatest inspiration in his hometown, San Francisco. Open only in the evening, it has a lively atmosphere, with a single large room, which you reach after a long bar counter (where you can also just have a drink and eat a snack), and the open kitchen where a dozen young cooks from all over the world work to provide guaranteed entertainment. The designer cutlery and plates have a high-end hipster touch which keeps a light tone, while preserving a very high execution level. It is very clear that the chef originally comes Canton, not just because you use chopsticks to eat, but also because of the approach to cooking with clear Asian influences as well as numerous modern and international elements. Kin Khao is ideal for an informal mouth-watering lunch: also in this case we are in Asia, but the focus is totally on Thai cuisine. The female chef and owner Pim Techamuanvivit, on the ground floor of Parc 55 Hotel, serves Thai dishes cooked to perfection, with the help of raw materials from local suppliers. Spiced noodle soups, sauted spaghetti with pork, chicken curry broth curry with egg pasta and mustard dip, sandwiches and other scrumptious food to be shared. On the other hand, if you wish to discover one of the mainstays of haute cuisine in town, you should book a table at the three-start Quince. Its chef Michael Tusk has been contributing to the fame of this restaurant for sixteen years now, always at top level: “I have worked for Alice Waters and Paul Bertolli, my mentor; he was the first chef to take me abroad – between Italy and France – and to teach me the right technique (being an outstanding butcher), on several fronts, including the world of pasta. From the Chez Panisse family I learnt about seasonality and the value of raw materials; I would never have progressed if I had not worked for both”. He is a great cook, without being frilly or self-referential, who places on the tasting desk his excellent products from Fresh Run Farm (the company with which he has been collaborating, not far from town), purity and power of the flavours with great balance in compositions. “Without Neil Stetz (chef de cuisine), Keegan Tokamura (executive sous chef) and my wife Lindsay (whom I consider the real star, because she allows me to focus in the kitchen), Quince would not be what it is today”. Between tortelli with celery root, artichoke, black truffle, served directly from a typical Italian rolling pin, and lamb with broccoli, chicory and anchovies, the great potential is served, as is the whole gastronomic vision of this chef who loves Italy. That’s not all: San Francisco has much to say in terms of mixing, two of the meccas which all enthusiasts should visit are the cocktail bars Trick Dog and Tommy’s Mexican Restaurant (the latter being the world capital of Tequila), both featured in the World’s 50 Best Bars, with their drinks culture.
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di Giovanni Angelucci
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IL PARADISO (NON) PUÃ’ ATTENDERE JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
"Si ha l'impressione che sia stata creata prima Mauritius e poi il paradiso, e che il paradiso sia stato copiato da Mauritius", scriveva Mark Twain nel suo diario di viaggio “Seguendo l'Equatore”. Ok, il paradiso può avere diverse forme e sfaccettature per chi lo immagina, ma provate a contraddire Twain, l’isola di allora (fine ‘800) non aveva certamente l’accoglienza di primo ordine che ha oggi, però di certo la sua essenza era la stessa: pennellate color turchese tra cielo e mare, spiagge meravigliose, romantiche coltivazioni di tè, vaniglia e canna da zucchero. L’isola delle spezie. Se fino ad ora l’avete scelta per trascorrere la vostra luna di miele, per giocare a golf sui campi verdi più esclusivi del mondo o per staccare la spina diventando tutt’uno con le bianche distese di sabbia, prendete in considerazione la possibilità di conoscerla attraverso la sua gastronomia e la cucina tipica che è in grado di offrire. Un’oasi nell’Oceano Indiano, a 800 km dal Madagascar, perfetta per intraprendere un viaggio tra sapori insoliti e autoctoni, itinerari del gusto tra piatti locali, prodotti della tradizione e simboli dell’isola. Posizionata a sud-est dell’Africa, ha alle spalle cinquecento anni di colonialismo olandese, inglese e francese, e questo le dona un mix di culture e sapori ricco di contaminazioni e miscele variopinte. Iniziamo col dire che si tratta di un’isola, una e una sola, e non di un arcipelago come comunemente si pensa, quindi non chiamatela “le Mauritius” ed eliminate l’articolo. Con un volo diretto Alitalia in meno di dieci ore atterrerete sull’isola vulcanica nota per il calore umano delle sue genti, i resort di lusso e il clima tropicale che anche durante le stagioni più fresche (da maggio a settembre) mantiene le temperature mai al di sotto dei 22°C, così da essere meta perfetta in qualunque periodo dell’anno.
Mauritius, heaven can(not) wait
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“You get a feeling that Mauritius was made first, then heaven, and heaven was copied after Mauritius”, wrote Mark Twain in his travel diary “Following the Equator”. True: paradise can take several forms and facets for those who imagine it, however, try and contradict Mark Twain: the island at the time (end of the nineteenth century) could definitely not boast the top-notch accommodation it can offer today, but its essence was definitely the same: brushstrokes of turquois between sky and sea, wonderful beaches, romantic crops of tea, vanilla and sugarcane. The island of spices. If, before now, you might have chosen it for your honeymoon, to play golf on the most exclusive green courses in the world, or to take a break and become one with the white expanses of sand, then consider the possibility of getting to know it through the gastronomy and typical cuisine which it can offer. An oasis in the Indian Ocean, 800 km from Madagascar, perfect to start a journey among unusual and native flavours, taste routes between local dishes, traditional products and symbols of the island. Located in the south-east of Africa, its history consists of five hundred years of colonisation by the Dutch, British and French; as a result it includes a variety of cultures and flavours, rich in contaminations and multi-coloured mixtures. Let’s start by saying that it is one island, one and one alone, and not an archipelago, as we tend to think; therefore please do not talk of “Mauritius islands”, and forget the plural. With a direct Alitalia flight, in less than ten hours you can reach a volcanic island, well known for the human warmth of its inhabitants, luxury resorts and tropical climate, which also includes the cooler seasons (from May to September); this means that temperature never fall below 22°C, and it is a perfect destination regardless of the time of year.
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Ciò che la rende speciale è la doppia scelta che offre a chi decide di visitarla. Da un lato la sua autenticità rapisce chi s’immerge nei mercati, chi entra in contatto con la terra da cui crescono fiorenti tè e canna zucchero (proprio da qui arrivano alcuni dei migliori zuccheri grezzi del mondo, non raffinati, come il démérara, golden semolato, muscovado); chi opta di condividere un pasto nelle table d’hôtes presenti su tutta l’isola: ci sono le case delle famiglie mauriziane ricche di autenticità e allegria che mettono a disposizione le proprie dimore e ricette per un pranzo da condividere insieme (la table d’hôtes Kot Marie Michelle, formata da una splendida famiglia di cinque donne e ottime cuoche, è certamente un valido indirizzo dove essere accolti nel migliore dei modi); chi decide di assaggiare la carne di coccodrillo nel ristorante Crocodile Affamè, nel Vanille Nature Park, dove il menù offre bistecche, hamburgers, spiedini e kebab a base di carne di rettile; chi, infine, vuole conoscerne l’anima storica del rum entrando nel cuore della valle di Chamarel dove si trova l’antica e prestigiosa Rhumerie de Chamarel. Dall’altro c’è la Mauritius del fasto e dell’eleganza a cinque stelle, dimore mozzafiato, Spa tra le più apprezzate al mondo e servizio da re in un lusso distinto. Per andare sul sicuro, la compagnia Beachcomber conta ben nove resort prevalentemente sulla costa ovest (la migliore per il meteo che bizzarro varia su Mauritius) dove, oltre ad ogni comfort, la proposta gastronomica è davvero di livello. Ogni dimora ha almeno cinque tipologie di ristoranti tra cui scegliere per cui non avrete difficoltà nell’appagare i vostri sensi. Nel Trou Aux Biches, per esempio, tra i cento ettari di giardini, le spiagge da cartolina (e il nuovo campo da golf 18 buche), compaiono sei insegne in cui godere della migliore cucina mondiale: thai, indiano, francese, italiano, mediterraneo ed internazionale. Brigate da tutto il mondo che apportano saperi e sapori per combinazioni azzeccate e squisite. A tenere le fila nelle diverse brigate ci pensano italiani e francesi tra cui lo chef Lorenzo Buti che ormai è da dieci anni sull’isola, cuoco romagnolo e grande conoscitore delle materie prime locali: “tra i vari ristoranti arriviamo ad avere in totale quasi mille clienti per cui tutto deve funzionare alla perfezione, inoltre chi siede alle nostre tavole è spesso molto esigente e riuscire a proporre diverse cucine in maniera impeccabile non è affatto facile ma con i produttori locali, l’utilizzo di materie prime dell’isola e la consolidata rete di importazione riusciamo a soddisfare tutti i palati”. Non finisce qui, percorrendo il perimetro dell’isola c’è l’imbarazzo della scelta tra le valide tavole in cui sostare per un pranzo o una cena vista mare: l’ultima novità dell’isola è il Victoria for 2, un piccolo resort paradisiaco in formula adult-only con 40 camere ocean view impreziosite da tessuti in lino e oggetti di design in rattan. Le swim up, 17 in tutto, sono le camere che si affacciano e si aprono a semicerchio attorno ad un’immensa piscina di 800 mq che segue le linee della laguna. Qui il ristorante ad accogliervi sarà il Morris Beef in cui mangiare succulenti e pregiati tagli di carne. Di più, tra i luoghi da visitare non possono mancare all’appello lo splendido Royal Palm dove lavora lo chef francese (di origini pugliesi) Michel de Matteis con la sua cucina internazionale dalle influenze locali e dall’inconfondibile tocco d’oltralpe e l’Hotel Le Canonnier in cui lo chef mauritiano Mooroogun Coopen, presidente della Mauritius Chefs Association, è l’unico nel paese in grado di deliziare proponendo la cucina molecolare che ha scelto come tratto distintivo per la sua dimora. Un altro valente connazionale è lo chef Fabio De Poli nel suo Table du Château, accanto alla storica Château de Labourdonnais, che si rifornisce quotidianamente nel vicino mercato di Goodlands (il più verace di Mauritius) e prepara squisiti piatti di impronta europea con contaminazioni creole. Promemoria prima della partenza: anche quest’anno, a novembre, prenderà vita l’International Kreol Festival giunto alla XXIV edizione, una settimana in cui celebrare la cultura dell’isola attraverso musica, danza, arte e ovviamente la cangiante cucina di Mauritius.
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Rhumerie de Chamarel
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What makes it special is the dual choice which it offers to those who decide to visit it. On the one side, its authenticity captures those who delve into its markets, get in touch with a land that produces plentiful tea and sugarcane crops (it is the place where some of the best raw, unrefined, sugars come from, including Demerara, golden, castor, Muscovado); for those who decide to have a meal in the table d’hôtes found all over the island, there are the houses of Mauritian families rich in authenticity and good cheer which share their homes and recipes (the table d’hôtes Kot Marie Michelle, established by a wonder family of five women and wonderful cooks, is definitely a valid address to be welcomed in the best possible fashion); for those who decide to taste crocodile meat in the Crocodile Affamè restaurant, in the Vanille Nature Park, where the menu offers steak, hamburgers, skewers and kebab with reptile meat; last but not least, if you wish to get to know the historic soul of rum by walking into the heart of the Chamarel valley with the ancient and prestigious Rhumerie de Chamarel. On the other side, you have the Mauritius of luxury and five-star elegance, breath-taking homes, the best spas in the world and kingly service with distinguished style. If you wish to play it safe, the company called Beachcomber has as many as nine resorts, mainly on the west coast (the best in terms of the otherwise variable Mauritius weather). It provides all mod cons, as well as high-end cuisine. Each resort has at least five types of restaurant, therefore i twill not be difficult to please your senses. At Trou Aux Biches, for example, on one hundred hectares of gardens, picture-postcard beaches (plus the new 18-hole golf course), there are six signs offering the best in world cuisine: Thai, Indian, French, Italian, Mediterranean and international. Staff from all over the world bring in knowledge and flavours for successful and delicious combinations. The mainstays in this regard are the Italian and the French, including chef Lorenzo Buti, who has been on the island for as many as ten years now, a cook from Romagna and great expert on local raw materials: “between the various restaurants we have about one thousand customers in total; everything must therefore work to perfection; moreover those who sit at our tables are often highly discerning, and being able to present various types of cuisine in an impeccable manner is by no means easy; however – thanks to the help of local producers, using raw materials from the island and a consolidated import network – we are able to satisfy all palates”. That’s not all, though: walking the perimeter of the island you are really spoilt for choice between the outstanding restaurants where you can have lunch or dinner with a sea view: the latest novelty on the island is Victoria for 2, a small heavenly resort, offering an adult-only formula with 40 Ocean view rooms embellished by linen fabrics and rattan designer items. The swim-ups, 17 in total, are rooms which open up as a semicircle around a huge 800 m2 pool which follows the lines of the lagoon. Here you will be welcomed by the Morris Beef restaurant, where you can taste the most mouth-watering meat cuts. It is also worth mentioning, among the places to visit, the splendid Royal Palm where the French chef (originally from the Puglia region) Michel de Matteis offers an international cuisine with local influences and the unmistakable French touch, and the Hotel Le Canonnier where the Mauritian chef Mooroogun Coopen, president of the Mauritius Chefs Association, is the only one in the country to offer delightful molecular cuisine, which he has chosen as distinctive trait for his home. Another outstanding fellow countryman of his is the chef Fabio De Poli with his Table du Château, near the historic Château de Labourdonnais, which stocks up every day from the nearby market of Goodlands (the most authentic in Mauritius) and prepares exquisite dishes with a European touch and creole contaminations. Remember before you leave: also this year, starting in November the International Kreol Festival will take place, which has reached its XXIV edition; it is a week-long event to celebrate the island’s culture through music, dance, art and – of course - the multifaceted Mauritian cuisine.
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di Bruno Petronilli
Ci sono mete turistiche ideali, quelle che non ti richiedono di “pensare”. Sono luoghi particolari, dove sulla struttura naturale è stata costruita una sovrastruttura d’accoglienza perfetta. Non sono poi molti quei luoghi, nei quali devi solo arrivare, al resto ci pensano loro. La valle dello Zillertal è sicuramente tra questi. Una meta ideale dicevamo, in cui, soprattutto se ci si reca con la famiglia, l’imprescindibile esigenza di ognuno, trova la sua soddisfazione. Diciamolo, in vacanza ognuno di noi sogna di fare quello che desidera di più: c’è chi ama l’ozio, chi l’iperattività. Normalmente trovare un equilibrio è essenziale, ancorché difficile. Vuoi “sprofondare” in una Spa? Oppure sudare macinando chilometri a piedi o in bicicletta? O magari giocare a golf? Andare a cavallo? O semplicemente non fare nulla, possibilmente senza che i tanto amati pargoli ti ronzino attorno trasformando la tua meritata vacanza in un supplemento del tuo lavoro. A soli 40 chilometri da Innsbruck tutto ciò è possibile.
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There are ideal tourist destinations, the ones with which you don’t need to “think”. These are special places, where a perfect accommodation facility has been created on a natural one. There are actually not so many places, that you simply have to reach, and they think about all the rest. The Zillertal valley is definitely one of them. An ideal destination, as we said, where the inescapable needs of everyone are met, especially if you travel with your family. Let’s say it clear, each and everyone of us dreams to do exactly what we wish the most when we are on vacation: some are more for idleness, others prefer hyperactivity. Striking a balance is normally essential, even though difficult. Would you like to “sink” in a spa? Or sweat eating up miles walking or cycling? Or maybe play golf? Or go horseback riding? Or, simply, would you simply like doing nothing, possibly without having your beloved children buzzing around and turning your long deserved holiday into a continuation of your work. All of this is possible just 40 kilometres away from Innsbruck. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Sustainability as a lifestyle
The Zillertal is beautifully sunny valley, attracting sport lovers, families and anyone who loves the most authentic mountain experience, and not only that. Here you can travel and stay with a low environmental impact: sustainability as a lifestyle, respect for the environment, responsibility towards discerning tourism and green policy (with the entire valley covered by remote heating power stations) all make the Zillertal a rare jewel, suffice it to think that over 35% of the Zillertal is a High Alps protected natural parks. The Zillertal is still little know to our tourism and, therefore, still pristine for certain aspects: in more than a week of our stay we did not meet any Italians, although we visited several facilities. The whole Zillertal has a bucolic landscape and features the majestic scenery of the Zillertal Alps and the Tux Prealps: it is surrounded by mountains and grasslands and, from a naturalistic perspective, it has remained “as it once was”, i.e. dominated by a solemn and imposing Alpine landscape. Thick woods extending as far as the eye can see, the profile of well 55 peaks higher than 3,000 metres, high-mountain grasslands, accommodation facilities that can meet any needs and the excellent gastronomy all contribute to an experience where time stands still. Perfect for pleasant walks, as well as ambitious excursions, the Zillertal has a network of trails of over 1,750 kilometres. But it also offers spa tourism thanks to its “Erlebnis-Terme Zillertal” in Fügen, with the longest water slide in Austria, first-class golf experience at the “Golf Club Zillertal” in Uderns (18 holes, Par 71, 6,026 m), dedicated accommodation facilities for families, mountaineers, wellness hedonists, obviously the thrill of summer skiing on the Hintertuxer Gletscher glacier and countless other activities - listing or trying them all is virtually impossible. JAMESMAGAZINE.IT
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La sostenibilità come filosofia di vita
Zillertal è una vallata straordinariamente soleggiata che attira sportivi, famiglie e chiunque ami la montagna più autentica e non solo. Qui si viaggia e si soggiorna a basso impatto: la sostenibilità come filosofia di vita, il rispetto per l’ambiente, la responsabilità verso un turismo consapevole e la green policy (tutta la valle è teleriscaldata) rendono la Zillertal una vera perla rara, basti pensare che oltre il 35% della Zillertal è protetto come parco naturale di alta montagna. Ancora poco conosciuta al nostro turismo e quindi ancora vergine per certi aspetti: in oltre una settimana di soggiorno non abbiamo incontrato visitando molte strutture neppure un italiano. L’intera Zillertal è caratterizzata da un panorama bucolico e si proietta sullo scenario maestoso dalle Alpi della Zillertal e le Prealpi del Tux: è circondata da montagne e pascoli, rimasta, da un punto di vista naturalistico, “come una volta” e dominata da un paesaggio alpino solenne e imponente. I fitti boschi a perdita d’occhio, il profilo di ben 55 vette che superano i 3000 metri, i pascoli in alta quota, le strutture ricettive adatte a ogni esigenza e una gastronomia eccellente regalano un’esperienza, che sembra sospesa nel tempo. Perfetta per piacevoli passeggiate ma anche per escursioni ambiziose, La Zillertal ha una rete di sentieri di oltre 1.750 chilometri. Ma offre anche divertimento termale grazie alle “Erlebnis-Terme Zillertal” a Fügen, con lo scivolo ad acqua più lungo dell’Austria, il Golf d’eccellenza sul “Golf Club Zillertal” a Uderns (18 buche, Par 71, 6026 m), strutture ricettive specializzate per famiglie, alpinisti, edonisti del benessere, ovviamente l’ebrezza dello sci estivo sul ghiacciaio Hintertuxer Gletscher e non so quante altre attività, elencarle o provarle tutte è impossibile.
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Rimane l’idea che se ti va di fare qualcosa, qui è possibile. E nonostante lo straordinario livello delle sue strutture ricettive, che indulgerebbe a non mettere piedi fuori dall’hotel che avete scelto, è impensabile non organizzarsi e lanciarsi in qualche escursione. Consigliamo la visita alla cascata Schleier, la più alta della Zillertal e al fiume Haselbach, dal quale sgorga la cascata stessa: 91 metri di salto d’acqua dal fascino davvero suggestivo e impressionante. Per arrivarci si parte da Fügen, il primo paesino della Zillertal, direzione Hart, costeggiando lo Ziller, il fiume che percorre la valle. Nei pressi del Gasthof Almdiele inizia il breve sentiero che conduce alla cascata. Circa 2 ore e trenta per tutta la camminata, perfetta da fare anche con i bambini. Chi ama la Mountain Bike ne avrà per tutti i gusti e tutte le età, sia che si tratti di un tour per le vette come la “Kellerjochrunde”: un anello di 56,4 chilometri e ben 2.010 m di dislivello intorno alla sella Keller, che parte da Fügen e che rappresenta un’impresa straordinaria per ogni mountain-biker molto ben allenato. L’alternativa è un giro sulla ciclabile della Zillertal (circa 31 km), un percorso facile con svariate possibilità di svago e ristoro come parchi avventura, piscine all’aperto e parchi giochi. Per i nostalgici consigliamo un viaggio con la storica Zillertalbahn, il trenino a vapore che, con una velocità massima di 35 km/h, percorre in tutta tranquillità i 32 km tra Jenbach e Mayrhofen, attraversando la Zillertal e offrendo ai viaggiatori un panorama incomparabile. Particolarmente curioso è il “Vagone dei Cristalli” (Kristallwagon) reso sfarzoso da 62.000 cristalli Swarovski lavorati, che ornano finestrini, pannelli a soffitto, il banco del bar e le lampade. A proposito, in questa valle magnifica c’è proprio la casa madre, la Swarovski e anche una delle distillerie più famose del mondo, la Rochelt: una visita ad entrambi mette d’accordo mamma e papà. Noi abbiamo giocato a golf presso il Golfclub Zillertal di Uderns. Al 27° posto tra i 152 campi da Golf in Austria, il Golf Club Zillertal - Uderns è annoverato tra i campi più belli dell’Austria. Aperto nel 2014, dispone di 18 buche (Par 71, 6026 m), una scuola di golf PGA, una driving range e un Boutique Hotel a 4 stelle superior, la Sportresidenz Zillertal****, dove abbiamo soggiornato, apprezzando una qualità del servizio magnifica e un’accoglienza speciale.
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Fact is: whatever you are up for, here it is possible. And despite its top-level accommodation facilities, which would induce you to barely set foot outside the hotel you have chosen, it is unthinkable not to get organized and embark on a new adventure. Worth visiting is the Schleier waterfall, which is the highest in the Zillertal, and the Haselbach river, from which the same waterfall flows: a 91 metre high waterfall for a really suggestive and impressive fascination. To reach it, you depart from Fügen, the first village in the Zillertal, and head towards Hart, skirting the river Ziller that flows along the valley. Near the Gasthof Almdiele the short trail leading to the waterfall begins. It takes about 2 and half hours for the entire trail - a walk that you can easily cover also with children. Mountain Bike lovers of all ages and tastes can enjoy a tour along the peaks, like the “Kellerjochrunde”, i.e. a ring that is 56.4 kilometre long and has well 2,010 m difference in altitude, which starts in Fügen and is an amazing feat for any well-trained mountain-biker. The alternative is a tour on the Zillertal cycling track (about 31 km long), which is an easy path with various leisure and refreshment facilities, like adventure parks, openair swimming pools and playgrounds. For the most nostalgic ones, worth taking is a ride with the historical Zillertalbahn, i.e. the steam railway quietly travelling at a maximum speed of 35 km/h and covering the 32 kilometres connecting Jenbach and Mayrhofen all through the Zillertar, offering travellers the possibility to enjoy an unparalleled view. The so-called “Crystal carriage” (Kristallwagon) is most curious, with the train made luxurious thanks to over 62,000 Swarovski worked crystals, embellishing windows, ceiling panels, the bar counter and lamps. By the way, the Swarovski headquarters are located exactly in this magnificent valley, alongside with Rochelt, i.e. one of the most famous distilleries worldwide: a visit to both reconciles mum and dad. We played golf at the Golfclub Zillertal in Uderns. Ranking 127th in the list of the 152 golf courses in Austria, the Golf Club Zillertal in Uderns is considered to be one of the most beautiful courses in Austria. Officially opened in 2014, it features18 holes (Par 71, 6,026 m), a PGA golf school, a driving range and a 4 Star Superior Boutique Hotel****, where we stayed and had the chance to appreciate the superior quality of service and a special welcome.
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Anche l’aspetto gastronomico è stato decisamente sorprendente. Dal momento che viaggiavamo in “modalità famiglia” abbiamo soggiornato anche all’Alpina Zillertal family lifestyle kinderhotel****, il sogno di tutti i genitori e ovviamente di ogni bambino. Qui tutto è pensato e realizzato per loro, ma anche per i genitori che possono per ampi tratti della giornata “liberarsi” per qualche ora dell’assillo di controllare le attività dei propri figli. Ci penseranno quelli dell’Alpina, con un programma di attività infinito che durante la stagione estiva permette di partecipare a escursioni e gite in mountain bike sui sentieri nelle immediate vicinanze. Ovviamente dispone di due SPA, una per soli adulti e una pensata per l’intera famiglia dove i bimbi possono divertirsi senza limitazioni. Il momento più conviviale rischia di essere la ricca colazione a buffet comprensiva di prodotti biologici e con la possibilità di scegliere la formula “all-inclusive” che comprende i soft-drink. Ma confessiamo che un esercito di cuochi lavora tutto il giorno e i momenti gastronomici si susseguono senza sosta. E tra l’uno e l’altro magari i genitori possono “evadere” per qualche ora, rifugiandosi alle “Zillertal Terme”, lì a due passi. Forse per apprezzare veramente la bellezza di questa valle è necessario prendere la funivia dello Spieljoch, con stazione di partenza a Fügen: arrivati a 1.860 metri vi attende una vista mozzafiato sul massiccio del Karwendel, il lago Achensee, il Wilder Kaiser e Kufstein, le Alpi di Kitzbühel della Zillertal e di Tux. Qui le alternative sono molte: dormire una notte in un rifugio incredibile, tutelato come monumento storico, come l’impressionante “Berliner Hütte”, arroccato a 2.042 metri, costruito nel 1878 e da sempre la base per le più importanti ascese sulle vette e i ghiacciai vicini; visitare la Grotta di Spannagel nel ghiacciaio di Hintertux, dove c’è la grotta visitabile più elevata d’Europa a 3.250 metri, ma anche la garanzia di neve al 100%, tale da rendere il ghiacciaio l’unico comprensorio sciistico dell’Austria aperto tutto l’anno; se è proprio necessario non concedersi all’ozio c’è anche una palestra di roccia d’arrampicata. Ma si può anche non fare semplicemente nulla, ammirando la bellezza e il panorama, mentre si gusta una buona pizza o una fetta di strudel alla Spieljoch-Hütte. Al resto, d’altronde, ci pensano quelli della Zillertal...
si può anche non fare semplicemente nulla, ammirando la bellezza e il panorama
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You can just do nothing and admire the beauty and the view JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
essary to take the Spieljoch cableway, departing from Fügen: after reaching the 1,860 metre altitude you can enjoy the stunning view over the Karwendel massif, the Achensee lake, the Wilder Kaiser and Kufstein, the Kitzbühel Alps of the Zillertal and Tux. There’s plenty of alternatives here: spending a night at an amazing mountain refuge that protected as a historical monument, like the impressive “Berliner Hütte”, perched at 2,042 metres altitude, which was built in 1878 and has since then been the base for the most important mountaineering to reach nearby peaks and glaciers; or you can visit the Spannagel Cave in the Hintertux glacier, where you can find the highest cave open to visitors in Europe at 3,250 metres, as well as 100% guaranteed snow, so that the glacier is the only ski resort in Austria that is open all year round; and if it is really necessary not to opt for idleness, you can even take advantage of a rock climbing training ground. But you can also decide that you simply do nothing and enjoy the beauty and the views, while tasting a delicious pizza or a slice of strudel at the Spieljoch-Hütte. The people at the Zillertal will, after all, think about all the rest...
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The cuisine is definitely amazing, too. As we were travelling as a family, we also stayed at the Alpina Zillertal Family Lifestyle Kinderhotel****, which is the dream of any parent and, of course, of any child. Everything here has been conceived and built for them, but also for their parents, who, for some hours, can free themselves from the need to check the activities of their children. The Alpina staff will take care of this, with an endless programme of activities that include participating in excursion and mountain bike trips on nearby paths during the summer season. It obviously has two spas, one for adults alone and the other one for the whole family, where children can have fun without any limitation. The friendliest moment risks to be the rich buffet breakfast, with organic products and the possibility to choose the “all-inclusive” formula including soft-drinks. We must confess, however, that there’s an army of cooks who work all day and culinary moments follow each other without pause. And between each of these culinary moments, parents might have the chance to escape for a couple of hours and find shelter at the nearby “Zillertal Terme” baths. In order to truly enjoy the beauty of this valley it is perhaps nec-
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Fondamentalmente ho sempre distinto gli esseri umani in due grandi categorie: coloro che sprecano il loro tempo e coloro che invece non hanno tempo per fare tutto ciò che desidererebbero fare. Ovviamente il sottoscritto appartiene alla seconda categoria, benché recentemente mi sia accorto che ne esiste una terza: appartiene a quella di coloro che celebrano il loro tempo, qualunque quantità il destino gli conceda, in luoghi come lo Stanglwirt. Ed è in questa meravigliosa categoria che vorrei collocarmi da qui in futuro. Non è facile creare luoghi come lo Stanglwirt, dove il tempo viaggia su armonie inusuali, lente o veloci, intense o rilassanti. Dipende dallo stato d’animo di chi varca la soglia di questo luogo che esiste da oltre 400 anni. Sarà lo Stanglwirt ad indagare il tuo spirito e a mettersi a tua disposizione, soddisfacendo le tue legittime aspettative con il rispetto di un vecchio nobile, raffinato e attraente. Ti rispetta fino in fondo, senza essere mai prevaricatore. Ti strizza l’occhiolino, ti dice “io sono qui”, vieni. La gentilezza di un esercito di persone che lavora allo Stanglwirt è vera, sincera, pura, come l’acqua della fonte che scorre nelle vene della terra e JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
sgorga in ogni anfratto della struttura. Ci sono due tipi di lusso: quello che si compra e quello che si offre e non si nota. Quello dello Stanglwirt si respira e entra nel cuore, perché non calcolabile sul prezzo e non programmato in base ad un investimento economico. Qui il lusso nasce dalla cultura, quella storica e quella dell’accoglienza, che si traduce in un’atmosfera fiabesca. Un luogo antico, incontaminato fin dall’origine, con un’architettura perfettamente integrata nel territorio. Una lunga serie di edifici, collegati l’uno all’altro, che sembrano nati dalla terra, come isole oceaniche in un mare cristallino. È la natura che è di casa allo Stanglwirt. Una sfida vinta dalla famiglia Hauser, quella di lasciare intatta l’anima agreste di questo luogo. E questa intensa connessione con la genesi è vivibile in tutta la struttura. In particolare in uno dei ristoranti del resort, dove le finestre si affacciano direttamente in una stalla: si cena osservando le mucche da latte, cogliendo il profondo legame con le radici dello Stanglwirt. E’ stata una scelta coraggiosa, era difficile prevedere come un pubblico esigente abituato al lusso avrebbe reagito. Ma lo potete immaginare da soli.
a dream that has been going on for 400 years
UN SOGNO LUNGO 400 ANNI There are two types of luxury: the luxury you buy and the luxury you offer and do not notice. At Stanglwirt, luxury is something you can breathe, it enters your heart, as it cannot be measured only based on the price or planned on the basis of an economic investment. Luxury here stems from culture, both historical culture and the culture of hospitality, which in turn translates into a airy-tale atmosphere. This is an ancient uncontaminated place, whose architecture is perfectly integrated in the territory. It shows a long series of buildings, all connected one with the other, which seem to have emerged from the earth like ocean islands in a crystal-clear sea. Nature is at home at Stanglwirt. The Hauser family won their challenge when they decided to leave the rural soul of this place intact. And this deep link with its origin is clearly visible throughout the facility. It is particularly visible in one of the restaurants of the resort, where the windows directly face the stable: you dine and can watch dairy cows, thereby grasping the deep link with the roots of Stanglwirt. This was a very brave choice, as it was difficult to foresee the reaction of customers used to luxury. But you can easily imagine this by yourself. JAMESMAGAZINE.IT
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I have basically always divided human beings in two big categories: those who waste their time and those who, instead, do not have enough time to do all the things they would like to do. I obviously belong to the second category, although I have recently noticed that there is a third one, i.e. the category of those who celebrate their time, whatever time the fates allow them, in places like Stanglwirt. And it is exactly in this wonderful category that I would like to see myself from now on. It is not easy to create places like Stanglwirt, where time travels along unusual harmonies, which are slow or fast, intense or relaxing. All depends on the mood of those who enter this place, that has existed for over 400 years. Then it is Stanglwirt that will look into your spirit and be at your disposal, meet your legitimate expectations with the respect paid by an old, refined and attractive aristocratic. Stanglwirt will respect you in full without prevaricating you. It will wink you and tell you “I’m here”, come. The kindness of an army of people working at the Stanglwirt is authentic, sincere, pure like the spring water flowing in the veins of the earth and pouring out at any corner of the facility.
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Lo Stanglwirt ha 400 anni di storia. Fondato nel 1609, da oltre quattro secoli è in perenne trasformazione per garantire sempre nuove esperienze ai suoi ospiti. Date le premesse, ovvio che qui bio-architettura e bio-edilizia certificata siano nel Dna. L’hotel è formato da un complesso di edifici costruiti interamente in legno e malte naturali, riscaldato con biomassa dal 1980 e utilizza al 100% energia green prodotta da piccole centrali idroelettriche, oltre ad avere un sistema di pompe di calore a energia geotermica che permette un risparmio di migliaia di litri di gasolio all’anno. Allo Stanglwirt, da oltre 250 anni, non si registra un solo giorno di chiusura: una certezza assoluta quindi, un rifugio dorato sempre pronto ad accoglierti in ogni momento. Poi arrivi e scopri che il “mondo Stanglwirt” è straordinariamente complesso e articolato, a cominciare dalla prestigiosa Peter Burwash Academy di tennis, che conta ben sei campi interni e otto esterni. C’è anche un maneggio coperto, ispirato alla scuola d’equitazione viennese, dove si esibiscono 25 purosangue lipizzani che possono essere ammirati grazie alla grande vetrata stando comodamente seduti nei divani della hall e ai tavolini del bar. Poi c’è l’aera wellness, un discorso a parte. E’ talmente unica nel suo genere che non è difficile entrarci la mattina e scordare completamente il ritmo del tempo. L’intera area si affaccia su un laghetto naturale balneabile nel periodo estivo di oltre 500 metri quadrati, a cui è collegato un centro estetico esclusivo, per soli adulti, con i trattamenti di Barbara Sturm, beauty-guru, scienziata molecolare e chirurga estetica, molto amata dalle donne più affascinanti del pianeta tra cui Kim Kardashian, Emma Roberts, Irina Shayk, Ellen Pompeo e Chiara Ferragni, che, a intervalli regolari, arrivano qui. Molto immodestamente abbiamo semplicemente abusato dei 12.000 mq. di area wellness, un qualcosa molto simile al Paradiso: il mondo delle piscine, quelle al coperto, fra i massi calcarei del massiccio del Wilder Kaiser e l’acqua di sorgente certificata, la grotta salina, la piscina salina coperta di 50 mq, una piscina all’aperto di 210 mq con acqua salina a 37°C, una piscina sportiva all’aperto con corsie da 25 mt. per i nuotatori, con acqua a 28°C e cronometro Omega. I bambini e le famiglie hanno a disposizione un nuovo grande spazio con oltre 1000 mq di specchi d’acqua e grandi scivoli (compreso uno scivolo di 180 metri e un gigantesco schermo per guardare film d’animazione giocando tra spruzzi e tuffi o nuotando).
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A golden refuge, which is always ready to welcome you in any moment JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Un’ampia area relax offre alla famiglia la possibilità di rilassarsi tutti insieme, con i bimbi che si divertono nelle piscine calde con idromassaggio insieme ai genitori o mentre papà e mamma si godono i benefici delle vicine sauna e bagno turco. E al contrario delle normali saune austriache, qui è d’obbligo indossare il costume, cosa che ci ha fatto sentire a nostro agio, sensazione non sempre riscontrata altrove. Sono proprio le attenzioni per i piccoli ospiti che ci hanno colpito di più, perché il loro benessere è garantito non solo nelle camere, tutte spaziose e family, ma da un lavoro continuo dello staff di animazione che li accompagna in giornate a stretto contatto con i ritmi di queste montagne e con un programma fitto di attività, laboratori, atelier e passeggiate. Il tutto in un luogo di calma assoluta, dove gli spazi sono tali che non avvertirai mai una sensazione di affollamento anche quando lo Stanglwirt è al competo. Inutile raccontarvi le mille esperienze gourmet che un posto del genere può offrire, anzi no, forse è utile per certificare la qualità a tutto tondo dello Stanglwirt: fin dalla prima colazione è un film emozionante con proposte dalle mille varianti, con il grande buffet che offre prodotti del territorio, formaggi e yogurt bio realizzati con il latte delle mucche di proprietà, marmellate, miele, dolci tipici e tradizionali, frutta fresca e una ricca area salata. A pranzo si mangia “à la carte” presso la “Kaminstube”, mentre per la sera si può scegliere tra diverse soluzioni come la “Stangl-Alm”, la baita tutta in legno dove si cena a lume di candela, o il “Kuhstall” con vista sulla stalla. I sapori sono quelli tradizionali, rivisitati con leggerezza e con una cura maniacale nella scelta delle materie prime, tutte tracciabili e di provenienza indicata nei menù. Spesso si dice di luoghi magici come lo Stanglwirt “se non ci fosse bisognerebbe inventarlo”. Ma qui ci hanno già pensato, circa 400 anni fa.
A large relax area offers the whole family the possibility to relax all together, with children having fun in heated pools with jacuzzi together with their parents or alone, while mum and dad are enjoying the benefits of the sauna and Turkish bath nearby. And, contrary to the normal habit in Austrian saunas, people have to wear a bathing suit here, and this has always helped us feel at ease, while this is not always the case elsewhere. Attention to little guests is indeed what has struck us the most of Stanglwirt, as their well-being is guaranteed not only by the spacious and family-sized rooms, but also by the constant work of the animation staff taking care of them during days, in which they are in closely experiencing the pace of these mountains and a schedule rich in activities, labs, workshops and walks. And everything takes place in a place of complete calmness, where spaces are such that you will never have the feeling of being in an overcrowded space even the Stanglwirt is fully booked. Needless to say, such a place has an endless gourmet experience to offer. However, it might be useful to highlight it in order acknowledge the all-round quality of Stanglwirt: starting from breakfast you can enjoy an exciting experience with a wide selection on offer, with the rich buffet offering local products, organic cheeses and yoghurt made from the milk of cows owned by Stanglwirt, marmalades, honeys, typical and traditional cakes, fresh fruit and a rich variety of savoury items. Lunch is “à la carte” at the “Kaminstube”, while various options stand out for dinner, which can be at wooden chalet “Stangl-Alm” by candlelight or at the “Kuhstall” overlooking the stable. Guests can enjoy traditional tastes, revised in lightness and with an obsessive attention to the choice of raw materials, which are all traceable and whose origin is clearly indicated in the menus. When talking about magical places like Stanglwirt, it is often said that “if it did not exist, it would have to be invented”. Well, this was already done 400 years ago.
Stanglwirt Kaiserweg 1, 6353 Going am Wilden Kaiser Austria Tel. +43 53.58.20.00 www.stanglwirt.com JAMESMAGAZINE.IT
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The Stanglwirt has a story that is 400 years old. Founded in 1609, it has undergone a constant transformation for over four centuries in order to have its guests make increasingly new experiences. Therefore, it goes without saying that, given the premises, I was going to talk about bio-architecture and certified green building, which are part of the local DNA. The hotel consists of a complex of buildings entirely built in wood and natural mortars. It has been heated with biomass since 1980 and uses 100% green energy produced by small hydroelectric power plants, besides having a system of heat pumps powered with geothermal energy, which provides for a saving of thousands of litres diesel every year. For over 250 years the Stanglwirt has never registered a closing day: this is, thus, an absolute certainty, a golden refuge that is always ready to welcome you in any moment. Then you arrive and discover that the “Stanglwirt world” is extraordinarily complex and articulated, starting from the prestigious Peter Burwash Tennis Academy, which boasts well six indoor and eight outdoor tennis courts. There is also a covered riding school, which has drawn inspiration from the Vienna riding school, with 25 Lipizzan pure-bred horses that can admired through the large window while remaining comfortably seated in the sofas of the hall and at the bar tables. And then there is the wellness area, which is a separate story. It is so unique that it is not difficult getting in the morning and completely forgetting the pace of time. The entire area views a natural lake of over 500 square metres, where you can swim in the summer, which is connected to an exclusive beauty centre for adults only, offering the treatments of the beauty-guru Barbara Sturm, beauty-guru. This molecular scientist and aesthetic surgeon is very popular among the most beautiful women in the world, including Kim Kardashian, Emma Roberts, Irina Shayk, Ellen Pompeo and Chiara Ferragni, who regularly come to this place. We very immodestly used the 12,000 square metre wide wellness area, which is very similar to Heaven: the world of covered swimming pools, between the calcareous rocks of the Wilder Kaiser and the certified spring water, the salt water grotto, the 50 square metre wide covered salt pool, a 210 square metre wide open-air pool with salty water at 37°C, an open-air sports pool with 25 metre long aisles for swimmers, with water at 28°C and Omega chronograph. Children and families can use a new large space with over 1,000 square meters of water mirrors and long slides (including a 180 metre long slide and a giant screen to watch animation movies playing between sprays and dives or swimming).
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di Bruno Petronilli
TRA MITO E LEGGENDA
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Hotel Metropol Moscow, between myth and legend
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Hotel Metropol, 1905
Mosca è piena di luoghi leggendari, ma uno più di altri sa cogliere le infinite sfumature, tra storia e cultura, della capitale russa. E’ lo storico Metropol Hotel, in cui ho avuto la fortuna di soggiornare molte volte nel corso degli ultimi 15 anni. E ogni volta è come se fosse la prima: quanta classe, quanto stile, quanta incomparabile bellezza alberga qui al Metropol. Non a caso in questo Hotel è possibile vivere una vera e propria esperienza “letteraria”, ispirandosi alle vicende del bestseller “Un gentiluomo a Mosca” scritto da Amor Towles. E’ un viaggio emozionante sulle orme del Conte Rostov, il personaggio principale del romanzo, che ho personalmente vissuto, rimanendone affascinato, ammirando le decorazioni originali degli inizi del XX secolo. Ogni angolo del Metropol trasmette lo spirito dell’Età dell’Oro in Russia: mobili antichi, opere d’arte, cerimonie tradizionali del tè, le uniformi storiche dello staff, ricreate dal designer russo Alexander Terekhov. Passeggiando nell’ala storica dell’hotel, è possibile osservare i luoghi preferiti del Conte Rostov: la Boyarsky Hall con dipinti dorati dei primi del Novecento, la maestosa scalinata in marmo, l’antico ascensore con decorazioni in vetro colorato di pietre semipreziose, conservato e operativo sin dall’apertura dell’hotel, la grande Metropol Sal con la fontana e l’enorme cupola di vetro smerigliato con motivi biblici, gli infiniti corridoi dell’hotel, e lo storico Chaliapin Bar, dove i cocktail d’autore sono stati ideati ad hoc per il personaggio principale del libro. D’altronde il “leggendario Metropol” di storie da raccontare ne ha una serie infinita. Da quì, accanto al Cremlino, è passata la Storia, quella con la S maiuscola fin dalla sua apertura nel 1905. Il Metropol ha fatto da teatro ai principali eventi storici che sono accaduti in Russia: eventi politici, incontri tra uomini d’affari, celebri storie d’amore.
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Moscow is full of legendary places, yet there is one place which, more than any other, can grasp and show the countless nuances that exist between history and culture of the Russian capital. It’s the historical Metropol Hotel, where I have had the chance to stay several times over the last 15 years. And any time I feel as if it were the first, given the outstanding class, style and unparalleled beauty that are at home here at the Metropol. It is not by chance that this hotel offers a real “literary” experience, as it draws inspiration from the events narrated in the best-selling novel by Amor Towles “A Gentleman in Moscow”. This is a thrilling trip following the footsteps of the novel’s main character Count Rostov. I have personally had the chance to make this trip and have been fascinated of it, admiring the original decorations of the beginning of the 20th century. Any corner of the Metropol Hotel conveys the spirit of Russia’s Golden Age: antique furniture, works of art, traditional tea ceremonies, and the historical uniforms of the staff, which have been recreated by the Russian designer Alexander Terekhov. A walk in the historical wing of the hotel will reveal the Count Rostov’s preferred places: the Boyarsky Hall with early 20th century golden paintings, the majestic marble staircase, the old elevator with decorations in coloured glass embellished by semi-precious stones, which is still very well preserved and has been functioning since the opening of the hotel, the large Metropol Sal with the fountain and the huge dome in frosted glass with biblical scenes, the endless corridors of the hotel, and the historical Chaliapin Bar, where auteur cocktails have been conceived ad hoc for the book’s main character. Moreover, the “legendary Metropol” has countless stories to tell. Besides the Kreml, history with a capital H has passed through here since the very opening of the hotel in 1905. The Metropol has set the stage for the main historical events occurred in Russia: political events, business meetings, love affairs.
Qui non è stato difficile incontrare Aleksandr Ivanovic Kuprin, l’eccezionale scrittore di novelle russe, ascoltare i vivaci discorsi di Lenin, parlare con Bernard Shaw, intravedere John F. Kennedy, o guardare A. Pavlova, la ballerina russa, muoversi nella hall. Il famoso cantante d’opera russo, Fëdor Ivanovic Šaljapin, ha avuto un posto speciale nel cuore del Metropol: intratteneva, infatti, i suoi ospiti cantando La Marsigliese. La cultura russa ha attraversato il Metropol: Mandelstam, il celebre poeta russo, Sergei Prokofiev, uno dei più grandi compositori del XX secolo, Alexander Vertinsky, musicista e artista sovietico, venivano qui per trovare ispirazione. Nel 1918 l’Hotel Metropol divenne il principale luogo di residenza del governo sovietico: Trotsky e Stalin, qui hanno preso importanti decisioni politiche. La prima costituzione sovietica è stata firmata nell’Hotel Metropol, al secondo piano nella stanza 2217, dove alloggiava Yakov Sverdlov, il padre della costituzione. La Red Hall dell’Hotel Metropol, in onore di Mao Zedong, il leader del partito comunista cinese, fu inaugurata con un sontuoso banchetto. E Sophia Loren amava visitare i dintorni dell’hotel durante le riprese di “Sunflower”, il primo film italiano girato principalmente nell’ex Unione Sovietica.
da qui, accanto al Cremlino, è passata la Storia That is why, besides the Kreml, history has passed through
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Tra le leggende che si narrano al Metropol quella di Sergéj Aleksándrovic Esénin, grande poeta russo, che qui dichiarò il suo amore alla ballerina Isadora Duncan. Il fascino pervasivo dell’Hotel Metropol ha ispirato il produttore cinematografico americano del film Il Dottor Zivago, basato sul romanzo di B.L. Pasternak. Decenni più tardi, Valentin Yudashkin, il geniale designer russo, presentò la sua prima collezione in questo splendido hotel. Potremmo continuare all’infinito, citando le celebri personalità che hanno soggiornato al Metropol come Jacques Chirac, il principe Filippo del Belgio, Montserrat Caballé, Michael Jackson, Elton John, Marcello Mastroianni, Mstislav Rostropovich... ma ci fermiamo qui, perché rischieremmo di dimenticarci di ricordare che al Metropol, oltre alla storia, al lusso e al fascino, c’è anche un grande Chef e un grande ristorante: Il Savva di Andrey Shmakov è una delle migliori esperienze gourmet di Mosca. E già da solo varrebbe il viaggio. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Here it was difficult to meet the amazing Russian novelist Aleksandr Ivanovic Kuprin, listen to Lenin’s lively talks, talk to Bernard Shaw, get a glimpse of John F. Kennedy, or watch the Russian dancer A. Pavlova as she moves in the hall. The renowned Russian opera singer Fëdor Ivanovic Šaljapin took a very special place in the heart of the Metropol Hotel, as he would entertain his guests singing La Marseillaise. The whole of Russian culture crossed the Metropol Hotel: the renowned Russian poet Mandelstam, Sergei Prokofiev, i.e. one of the greatest 20th century composers, and the Soviet musician and artist Alexander Vertinsky would come here to find their inspiration. In 1918 the Hotel Metropol become the main residence of the Soviet Government: Trotsky and Stalin made very important political decisions here. The first Soviet constitution was signed at the Metropol Hotel, in room 2217 on the second floor, where Yakov Sverdlov, i.e. the father of the Russian constitution, used was staying. The Metropol Hotel Red Hall, which was built in honour of the Head of the Chinese communist party Mao Zedong, was officially opened with a sumptuous banquet. And Sophia Loren used to visit the surroundings of the hotel during the
Andrey Shmakov / chef Savva Restaurant
Hotel Metropol Teatral’nyy Proyezd, 2 109012 Mosca - Russia www.metropol-moscow.ru JAMESMAGAZINE.IT
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shootings of “Sunflower”, which was the first Italian movie mainly shot in the former Soviet Union. There are great stories and legends told about the Metropol Hotel, including the one that saw the great Russian poet Sergéj Aleksándrovic Esénin declaring his love to the dancer Isadora Duncan here. The pervasive fascination of the Metropol Hotel inspired the American movie producer of the film Doctor Zhivago, based on the novel by B.L. Pasternak. Decades later, the brilliant Russian designer Valentin Yudashkin presented his first collection in this splendid hotel. We could just carry on indefinitely, mentioning the renowned personalities who stayed at the Metropol Hotel, like Jacques Chirac, Prince Philip from Belgium, Montserrat Caballé, Michael Jackson, Elton John, Marcello Mastroianni, Mstislav Rostropovich... However, we prefer to stop here, as we would run the risk of forgetting to highlight that the Metropol Hotel is not only synonymous with history, luxury and fascination, but it also boasts a great Chef and an equally great restaurant: Andrey Shmakov’s Savva is one of the best gourmet experiences that you could ever make in Moscow. And that on its own would be worth the trip.
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di Bruno Petronilli
HOTEL FANES
IL LUSSO DEL VER BENESSE 68
Reinhold Crazzolara è un uomo istrionico. Di una simpatia devastante e di una semplicità esemplare. Ritengo che rappresenti alla perfezione l’esempio più fulgido di quella evoluzione verso l’eccellenza che ha caratterizzato tutto l’Alto Adige negli ultimi 25 anni. Una trasformazione lenta e inesorabile elevando il livello della qualità sia dell’hotellerie che della ristorazione. Il miracolo Sud Tirol è rimasto inimitabile. Qualche secolo fa, qui a San Cassiano, al cospetto delle Dolomiti, tutto era diverso. Questo meraviglioso Hotel a 5 stelle nel 1560 era un maso, come quelle migliaia di semplici JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
costruzoni che in Alto Adige puntellano colline, pendii e vallate. Oggi risplende della propria bellezza e di una spiccata e lussuosa raffinatezza, in un continuo percorso evolutivo che non sembra finire mai. Ecco un’altra straordinaria caratteristica dell’hotellerie sudtirolese: non si fermano mai, ogni anno un investimento per migliorare il servizio, in un processo che ostenta lungimiranza e felici intuizioni. E ogni cambiamento risponde ad una legge ferrea: linearità, bioetica, design, purezza. Come le nuove meravigliose suite in cui ho avuto la fortuna di soggiornare, di una eleganza così fine, di una ariosità incredibile, di una grazia incomparabile.
the luxury of real well-being Reinhold Crazzolara is a histrionic man. He is overwhelmingly nice and a rare example of simplicity. I believe he perfectly epitomizes the evolution towards excellence that has characterized the whole South Tyrol in the last 25 years. A slow and inexorable transformation that has helped raise the quality both in the hotellerie, and in the catering sector. The South Tyrol miracle is still unparalleled. Some centuries ago, the situation here in San Cassiano in front of the Dolomites was completely different. In 1560, this wonderful 5-star hotel was a maso, i.e. a farm, like the thousands of simple buildings that South Tyrolean hills, slopes and valleys are dotted with. Today it shines with all its beauty and a marked and refined luxury in a constant and apparently never-ending evolution. This is yet another amazing feature of South Tyrolean hotels: they never stop investing in the improvement of the services they offer, every year there is a new investment, and this takes place within the framework of a far-sighted process, which is the bearer of positive intuitions. And any change is in line with some strict principles: linearity, bioethics, design and purity. Exactly like the amazing suites where I had the chance to stay, which are so refined and elegant, incredibly airy and with matchlessly graceful. JAMESMAGAZINE.IT
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O RO ERE
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Oggi il lussuoso rifugio Dolomiti Wellness Hotel Fanes è una realtà d’eccellenza. Ma per arrivare fino a qui bisogna aver dimostrato di conoscere bene due strade: quella che porta alle origini e, quella immaginaria, che porta al futuro. Tradizione e lusso sono le parole chiave che hanno guidato la famiglia Crazzolara e l’apparente contrasto si rivela la vera anima dell’hotel adagiato sulla terrazza più soleggiata di San Cassiano, con un panorama unico sulle Dolomiti dell’Alta Badia. Tutti gli ambienti, eleganti e curati nei minimi dettagli, offrono confort per l’ospite, in un arredamento moderno e lineare, che richiama la tradizione grazie all’utilizzo di materiali naturali quali legno, marmo e pietra, e alla collezione di arredi e oggetti antichi della tradizione ladina. Il lusso inteso come benessere a 360° si può vivere sia nei 3.000 mq di area wellness con diversi tipi di saune, piscine e infinity pool di 25 metri, un’ampia offerta di massaggi e trattamenti, sia assaporando la cucina genuina e ricercata del ristorante gourmet del Fanes. E non solo; anche grazie ai servizi speciali come l’eliporto privato riservato agli ospiti e la convenzione con il Golf Club Alta Badia. Il tutto nella cornice incantevole delle Dolomiti Patrimonio Naturale Unesco, meta di escursioni, sport e gite tutto l’anno.
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Today the luxury Dolomiti Wellness Hotel Fanes is a facility of excellence. Yet, if you want to come here you will have to prove that you know well at least two ways: the one that leads to its origins, and the imaginary one that leads to the future. Tradition and luxury are the buzzwords, which have always led the work of the Crazzolara family, and the apparent contrast reveals the real soul of the hotel, which stands on the sunniest terrace of San Cassiano, with a unique view on the Dolomites of Alta Badia. All the rooms are elegant and refined, featuring a great attention to details, and provide guests with the utmost comfort, in a modern and linear furnishing environment that reminds tradition thanks to the use of natural materials, like wood, marble and stone, and the collection of antique furnishing items and objects of the Ladin tradition. Luxury, which is to be intended as all-round well-being can be experienced both in the 3,000 square metre wide wellness area with various types of saunas, pools and a 25 metre wide infinity pools, a broad selection of massage styles and treatments, as well by enjoying the genuine and refined cuisine of the Fanes gourmet restaurant. And it’s not only through that: all-round well-being is guaranteed also by special services, like the private helipad especially reserved to guests and the special agreement with the Alta Badia Golf Club. All of the above is set in the natural frame of the Dolomites, which are Unesco Natural Heritage and a popular destination for excursions, sports and trips all year round.
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Il Fanes è tra gli alberghi storici dell’Alto Adige, un hotel da qualche mese passato al livello 5 stelle. Il riconoscimento corona a tutti gli effetti una storia di grande successo, che ha portato un antico maso ad essere luogo esclusivo di benessere. Ma Reinhold si affretta a chiarire il vero concetto della sua impresa: “siamo molto fieri di essere ora un 5 stelle ma non dimentichiamo le nostre origini: la nostra famiglia possiede da secoli questa struttura e l’ha trasformata da fattoria a resort di lusso. Quello che vogliamo fare all’Hotel Fanes è proprio esprimere la nostra tradizione in un luogo dove poter trovare il benessere perfetto, fisico e mentale”. Fanes, passato, presente e futuro.
Hotel Fanes Str. Pecëi, 19 39036 San Cassiano (BZ) Tel. +39 0471 84.94.70 www.hotelfanes.it JAMESMAGAZINE.IT
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Tradition and luxury are the buzzwords of the Crazzolara family
Tradizione e lusso sono le parole chiave che hanno guidato la famiglia Crazzolara
The Fanes belongs to the group of South Tyrol historical hotels and has only recently acquired the status of a 5-star hotel. This is the perfect recognition for a successful story, which led an old maso become an exclusive well-being place. And, yet, Reinhold hastens to make the real concept of his business clear: “We are very proud that we are now a 5-star hotel, however we do not forget our origins: our family has owned this facility for centuries and turned it from a farm into a luxury resort. At the Fanes Hotel, what we want is precisely to express our tradition in a place, where people can find the perfect physical and mental well-being”. Fanes: past, present and future.
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STORIA, CUORE ROMA HOTEL VILÒN
history, heart, Rome
di Bruno Petronilli
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L’Hotel Vilòn è quasi nascosto dietro una piccola porta su una via defilata nel cuore di Roma. Dietro quella porta, però, si apre uno spazio di lusso e raffinatezza assoluti. L’ingresso dell’Hotel Vilòn è riservato, quasi segreto, nella defilata via dell’Arancio, anticamente vicolo del Melangolo, a due passi dal Tevere. “Roma è una città nella quale bisogna perdersi per meglio ritrovarsi”, suggeriva Chateaubriand. Una gioia concedersi beati smarrimenti in quei labirinti di strade, magari al mattino, quando il quartiere dorme ancora e aprono le prime botteghe degli artigiani e i banchi del piccolo mercato di frutta e verdura. Il Rione è quello di Campo Marzio che ha conservato per gran parte l’aspetto topografico ed urbanistico antico e l’impianto viario dei secoli XVII-XVIII, con strade strette, riservate in parte. E’ il rione che racchiude alcuni dei siti non solo più iconici ma anche sintesi mirabile di bellezza senza tempo e bel vivere, come piazza di Spagna o Trinità dei Monti, o via Condotti, meta dello shopping del lusso. L’Hotel Vilòn è un raffinato luxury hotel di 18 camere e suites in cui il fascino e l’emozione di una Roma principesca si fanno elegante quotidianità. Siamo in un’ala dell’imponente Palazzo Borghese, considerato per la sua architettura una delle “quattro meraviglie di Roma”, il cosiddetto cembalo per via della sua forma. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
The Hotel Vilòn is barely visible behind a small door on a side street in the heart of Rome. That door, however, opens into absolute luxury and refinement. The entrance to the Hotel Vilòn is intimate, almost secret, on the Via dell’Arancio, in ancient times just an alley called Vicolo del Melangolo, within walking distance of the river Tiber. “Rome is a city where one needs to lose oneself in order to find oneself”, as Chateaubriand said. It is a joy to treat oneself to the blissful feeling of being lost in the labyrinth of streets, possibly early in the morning when the neighbourhood is still fast asleep and the small craftsmen’s shops and fruit and vegetable market stands are just beginning to open. This is the Campo Marzio District that has mostly maintained its ancient topographic and urban appearance and the road network of the 17th and 18th centuries, with its narrow, partly hidden streets. Some of Rome’s most iconic sites are in this district, an admirable blend of timeless beauty and the art of living, sites like the Spanish Steps or Trinità dei Monti, or the Via Condotti, the luxury shopping street. The Hotel Vilòn is a sophisticated luxury hotel with 18 rooms and suites where the appeal and emotions of a princely Rome provide an everyday elegance. We are in a wing of the impressive Palazzo Borghese, because of its architecture considered to be one of the “four marvels of Rome”. It is referred to as the harpsichord because of its shape.
Known as the “annex to Palazzo Borghese”, at the behest of Princess Adelaide Borghese de la Roche Foucauld, wife of Prince Scipione Borghese, a cultivated and generous woman, this wing became in 1841 a Primary School for Poor Girls and was entrusted to French nuns, the Daughters of the Cross, so that they might realise her dream “to educate less fortunate children in honesty of conduct, deeds and thoughts that would set them apart for their elegance”. The name of the Hotel Vilòn restaurant, Adelaide, has been chosen to pay tribute to her. A tribute to grace and hospitality under the sign of timeless elegance. Vilòn is a Hebrew word meaning veil, drape. Reference is made in the Kabala to a Vilòn to indicate an unavoidable stage in each person’s life, the stage that aims to improve the state of the soul. Before every “door”, understood as a “passage”, there is always a Vilòn. By opening it one can go further, cross it, so as to encounter something new and improve. Possibly also an invitation to cross the threshold of the Vilòn. Careful restoration work over a period of three years has given back to the Hotel Vilòn that ancient 17th century aura through an eclectic and subtly cultivated style. The antique and the contemporary cohabit every space. The view from the second-floor rooms and private balconies overlooking the beautiful courtyard of Palazzo Borghese surrounded by one hundred columns, statues, masks and fountains is emblematic. Secluded and relaxed one can rest one’s eyes on magniloquence. And it turns into a secret garden for each and every guest. The mood of an aristocratic, vaguely cinematographic Rome envelops the Vilòn, the eternal heartbeat of a noble mansion that has stratified different elements generating an interior design concept made up of sophisticated and eclectic details to which three people contributed: a set designer, first and foremost, a photographer and an interior designer. JAMESMAGAZINE.IT
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Questa ala, conosciuta come la “casa annessa al Palazzo Borghese”, diviene nel 1841 per volere della Principessa Adelaide Borghese de la Roche Foucauld, moglie del Principe Scipione Borghese, donna d’indole colta e generosa, Prima Scuola per Fanciulle Povere e affidata alle monache francesi Figlie della Croce perché realizzassero il suo sogno “educare quelle bambine meno fortunate a quell’onestà di modi, atti e pensieri che le avrebbe distinte per la loro eleganza”. E’ un omaggio a lei il nome scelto per il ristorante dell’Hotel Vilòn, Adelaide. Un tributo alla grazia e all’accoglienza nel segno di un’eleganza senza tempo. Vilòn è una parola ebraica, significa velo, tenda. Nella Kabala si trovano alcuni riferimenti al Vilòn per indicare quei passaggi obbligati nella vita di ognuno, passaggi che puntano a migliore la condizione dell’anima. Di fronte ad ogni “porta” intesa come “passaggio” c’è sempre un Vilòn. Spostandolo è possibile andare oltre, attraversare, per incontrare il nuovo e migliorare. Forse anche un invito a varcare la soglia del Vilòn. Un attento lavoro di restauro durato tre anni ha restituito all’Hotel Vilòn quell’aura antica delle memorie seicentesche declinate secondo una cifra stilistica eclettica e sottilmente colta. Antico e contemporaneo convivono in ogni spazio. Emblematica la vista che si apre dalle finestre delle camere e dalle terrazze private del secondo piano sullo splendido cortile di Palazzo Borghese circondato da cento colonne, da statue, mascheroni e fontane. Appartati e rilassati l’occhio si posa sulla magniloquenza. E per ogni ospite quello diviene il suo giardino segreto. Al Vilòn si respira il mood di una Roma aristocratica, dal sapore vagamente cinematografico, il battito eterno di una dimora nobiliare che ha stratificato le suggestioni creando un concetto d’interior fatto di dettagli sofisticati ed eclettici al quale hanno contribuito in tre, uno scenografo prima di tutti, un fotografo e un interior designer.
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Gabriele Muro / chef Adelaide Restaurant
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Photo credits Stefano Scatà
Vilòn Luxury Hotel Via dell’Arancio 69 Roma www.hotelvilon.com JAMESMAGAZINE.IT
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Giorgia Tozzi / Director Hotel Vilòn
L’estro creativo di Paolo Bonfini, scenografo cinematografico e designer romano che ha talento nel creare spazi densi di suggestioni e che firma gli interior del Vilòn, si orienta verso una raffinata scelta di combinazioni armoniose fra oggetti, materiali e colori entro un segno Deco. Una sovrapposizione di stili diversi. Palette vivaci, marmi pregiati, legni dalle venature calde, mobilia disegnata su misura, tutto crea un ambiente molto stylish e caldo. Tanti gli artigiani che hanno lavorato al Vilòn, falegnami, ebanisti, tappezzieri. Splendide le illustrazioni di Robert John Thornton, artista botanico inglese i cui paesaggi e fiori notturni, misteriosi ed evocativi, decorano sia le pareti delle camere, sia sono riuniti in una piccola preziosa quadreria. Ma è con le opere, i manufatti d’arte che qui c’è una familiarità naturale ed è al fotografo fiorentino Massimo Listri che si deve la scelta dei quadri sparsi per l’hotel o raccolti nel piccolo spazio della quadreria, quasi una galleria d’arte, che dà sul patio. Lo sguardo è catturato subito dalle sue fotografie alle pareti degli spazi comuni. Spazi ai quali è Giampiero Panepinto a infondere un tocco di estrosa creatività fatta soprattutto di colore, fantasie dei tessuti a contrasto cromatico come nel Lounge Bar familiarmente detto In Salotto e nel Ristorante Adelaide. Qui c’è un’atmosfera coloniale quasi esotica, tra citazioni di viaggio e lontane geografie, e un effetto jungle, un po’ bohemien nel patio esterno dove cenare nelle sere d’estate o prendere un aperitivo tra le felci e i filodendri lontani da ogni frastuono. Quasi essere in un piccolo Riad di Marrakech. L’Hotel Vilòn che appartiene ad una Holding, la Wellinghton Polo Fashion già attiva da anni nella hôtellerie di lusso nazionale in continua espansione, è uno spazio tutto da vivere, fatto di bellezza e stile, grazia e intimità. Diciotto camere e suite, ognuna diversa dall’altra, di raffinata ospitalità, decorate in stile retrò-chic esaltato da una luminosità naturale magica che amplifica quel fascino misterioso e una certa familiarità piena di eleganti dettagli. Molte delle camere offrono l’esclusiva vista sul giardino privato di Palazzo Borghese. All’interno filtra quella luce speciale di Roma che muta a seconda delle ore e delle stagioni e mantiene intatta la sua bellezza. La colazione è il primo momento di felicità dell’ospitalità gourmet di Adelaide aperto fin dal primo mattino anche agli ospiti esterni all’hotel con una prima colazione a buffet e alla carta. Un buffet pieno di colore, fragranza e sapori. Croissant, brioche, lievitati, tanti tipi di pane e dolci da credenza appena sfornati, marmellate, confetture e composte di frutta, taglieri di formaggi. Succhi e centrifughe. Frutta fresca e una selezione di frutta secca. Dalla cucina uova cucinate in tanti modi diversi, salumi. Lo Chef Gabriele Muro, nato sull’isola di Procida 35 anni fa, ha cuore e origini partenopee, romano di adozione per lavoro: ha verso il cibo e la cultura della tavola quell’amore e quella passione che poteva avere il cuoco di una famiglia aristocratica d’altri tempi. Nel menù di Adelaide piatti dal gusto contemporaneo, originali e gustosi, in perfetta armonia con la bellezza senza tempo di questo luogo.
The creativity of Paolo Bonfini, a Roman film scenographer and designer with a talent for creating spaces filled with emotions and who is responsible for the Vilòn interior, was focused on a refined selection of harmonious combinations of objects, materials and colours in a Deco style, with a blend of different styles. Lively palettes, fine marble, warm wood grain and custom-made furnishings together create a very stylish and warm atmosphere. A large number of craftsmen were involved in the work at the Vilòn, carpenters, cabinet-makers, upholsterers. Beautiful prints by Robert John Thornton, a British botanical artist, with their mysterious and evocative landscapes and nighttime flowers decorate the walls of the rooms and form a small and valuable collection. But there is a natural familiarity here with works of art and Florentine photographer Massimo Listri was responsible for the selection of paintings disseminated throughout the hotel or collected in what is almost an art gallery looking onto the patio. His photographs on the walls of the common areas are immediately eye-catching. These are the areas where Giampiero Panepinto has applied his touch of whimsical creativity based above all on colours, patterned fabrics in contrasting colours as in the Lounge Bar, informally called In Salotto, and the Adelaide Restaurant. There is an almost exotic colonial atmosphere here, what with travel quotations and distant geographies, and a jungle-like, somewhat bohemian effect in the outdoor patio where guests can dine on summer evenings or enjoy a drink amongst the ferns and the philodendrons far away from any noisy sounds. It is almost like being in a small Marrakech Riad. The Hotel Vilòn, owned by the Wellington Polo Fashion Holding Company that has been active for some years in the growing national luxury hotels sector, is a space to be experienced in full, made of beauty and style, charm and intimacy. Eighteen rooms and suites, each of them different, offering sophisticated hospitality, decorated in a retro-chic style enhanced by magical natural light that amplifies their enigmatic appeal and a certain familiarity filled with elegant details. Many of the rooms provide an exclusive view of the Palazzo Borghese’s private garden. And Rome’s special light filters through as it changes with the hours and the seasons and maintains its beauty intact. Breakfast is a first occasion for happiness thanks to gourmet hospitality of the Adelaide, which is open early in the morning also to guests from outside the hotel with a buffet or à la carte meal. The buffet is full of colour, fragrance and taste. Croissants, brioches, different types of bread and home made cakes straight from the oven, jams and fruit compotes, cheese platters. Fruit and pressed fruit juices. Fresh fruit and a selection of dried fruit. From the kitchen, eggs cooked in many different ways and cold cuts. The Chef, Gabriele Muro, born on the island of Procida 35 years ago, has a Neapolitan heart and origin, but he moved to Rome for work-related reasons: he has the kind of love and passion for food and culinary culture that a chef working for an aristocratic family might have had in the past. The Adelaide menu includes original and tasty dishes with a contemporary flavour, in perfect harmony with the surrounding timeless beauty.
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Crafted to perfection. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
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The absolute sophistication of the Franciacorta Satèn wine
SATÈN LA FINEZZA ASSOLUTA DELLA FRANCIACORTA
Esiste un volto della Franciacorta che si dipinge in un profilo di eleganza delicato e discreto, come quella timidezza che esalta il proprio fascino quasi senza volerlo. È la versione di bolla franciacortina chiamata Franciacorta Satèn DOCG, nata alla fine degli anni ’80. Si caratterizza per un timbro setoso, di assoluto charme, dato da una minore aggiunta di zucchero nel vino base per la rifermentazione in bottiglia, ottenendo di conseguenza una pressione di 5 atm anziché le 6 usualmente presenti all’interno di una bottiglia di Franciacorta DOCG nella sua versione “normale”. There does exist a Franciacorta face that is depicted on a profile of delicate and discreet elegance, like a shyness that exalts its own appeal almost unintentionally. It is the version of the Franciacorta wine called Franciacorta Satèn DOCG, born in the late ’80s. It is characterised by a silky feel, of utter charm, given by the lower amount of sugar added to the basic wine for bottle refermentation, with the result of a pressure of 5 atm instead of the usual 6 to be found in a bottle of Franciacorta DOCG in its “normal” version.
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di Sofia Landoni
wine
La bollicina più aggraziata e delicata basterebbe di per sé a conferire al sorso un tratto carezzevole e sinuoso, ma non è, in effetti, l’unico elemento che rende il Satèn un vino “di seta”
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The softer and smoother bubbles themselves give a sip a sleeker and more supple character but they are not, in fact, the only factor that makes Satèn a “silky” wine JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
The softer and smoother bubbles themselves give a sip a sleeker and more supple character but they are not, in fact, the only factor that makes Satèn a “silky” wine. Its blanc de blancs soul refines its expression, through the appealing character of the white Franciacorta berries. The Chardonnay provides the foundation onto which a part of Pinot Bianco can be added up to a percentage of 50%. Satèn thus asserts itself as a triumph of elegance and refinement, exalted in both aromatic and tactile terms. The Brut dosage only is admitted, so that the softness of the slight sugar residue can amplify its creaminess. The sophisticated personality of Franciacorta Satèn DOCG develops through the eclecticism of a non-vintage refined on the lees for 24 months, but also through the footprint of a specific year told in the Millesimato version that is refined on the lees for 30 months, up to the peak of complexity of a Franciacorta Satèn Riserva DOCG that patiently waits for as many as 60 months before disgorgement. You can recognize Satèn with closed eyes thanks to the caress given by its taste made up of a fresh-savoury fineness combined in harmony with the softness of the bubbles that makes it gentle in the sip. As the silk unrolls on the tongue, an image also reaches the sense of smell, where the elegance of the bouquet expands, generally, with delicate notes of flowers and fruit on the unfailing creamy feel of dried fruit. The sight of it will win you over with its subtle and very long perlage reflecting the light as if it were mother-of-pearl. Indeed, the name “Satèn” has within it the word “satin”, to indicate the brilliance that is typical of precious fabrics like satin and silk. It was born possibly from an experiment, the Franciacorta Satèn DOCG, and gain the approval and appreciation of the most diverse tasters attracted by its elegance. It was then developed and it grew exponentially, both in terms of the decision to produce it in different Franciacorta contexts, and in fame. The “Satèn” trademark was registered in 1995 and for a few years remained reserved exclusively to members of the Franciacorta Consortium. In 2008 a decision was made to transfer the trademark so as to expand its use and definition through, over the years, a number of reviews of the specifications. It is still today a wine that people with try when they wish to be surprised by delicacy and to look more and more into the distance of a horizon depicted on the quality of a territory. It supports the Franciacorta emblems abroad and in Italy itself, describing to the world the soft and delicate trait that brings to mind the winding profiles of the gentle Franciacorta hills. JAMESMAGAZINE.IT
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La bollicina più aggraziata e delicata basterebbe di per sé a conferire al sorso un tratto carezzevole e sinuoso, ma non è, in effetti, l’unico elemento che rende il Satèn un vino “di seta”. La sua anima da blanc de blancs ne raffina l’espressione, attraverso il carattere suadente delle bacche bianche di Franciacorta. Lo Chardonnay tesse la trama portante, su cui può inserirsi una quota di Pinot Bianco nella massima percentuale del 50%. Il Satèn si afferma quindi come il tripudio dell’eleganza e della finezza, esaltata sia a livello aromatico che tattile. È ammesso solamente il dosaggio Brut, così che la morbidezza del leggero residuo zuccherino possa amplificare la cremosità. La personalità signorile del Franciacorta Satèn DOCG passa dall’ecletticità di un non millesimato che affina sui propri lieviti per 24 mesi, ma anche dall’impronta identitaria di un’annata specifica raccontata nella versione Millesimata che vede affinamenti sui lieviti di 30 mesi, fino a spingersi ai vertici di complessità di un Franciacorta Satèn Riserva DOCG che attende paziente per ben 60 mesi prima della sboccatura. Il Satèn si riconosce a occhi chiusi, per quella carezza gustativa che si compone nella finezza fresco-sapida armonizzata con la gentilezza della bolla e con la morbidezza del sorso. La seta srotolata al palato regala qualche diapositiva di sé anche al naso, ove l’eleganza del bouquet si espande, generalmente, su delicate note di fiore e di frutto e sull’immancabile accezione cremosa della frutta secca. Conquista alla vista con quel perlage sottile e lunghissimo, che riflette la luce come fosse madreperla. “Satèn” porta, infatti, nel nome anche la parola “satinato”, ad indicare quella lucentezza tipica dei tessuti preziosi come il raso o la seta. Nacque forse da un esperimento, il Franciacorta Satèn DOCG, e ricevette approvazioni e apprezzamenti dai palati più disparati, accomunati dall’attrazione per l’eleganza. Nacque allora e crebbe esponenzialmente, sia nella scelta produttiva a lui dedicata in diverse realtà franciacortine, sia nella sua notorietà. Nel 1995 venne registrato il marchio “Satèn”, che rimase riservato esclusivamente ai soci del Consorzio di Franciacorta per qualche anno. Si attese il 2008 perché avvenisse la cessione del marchio alla Denominazione, ampliando così il suo utilizzo e la sua definizione tramite le numerose revisioni del Disciplinare negli anni. Oggi rimane ancora uno di quei vini a cui ci si approccia quando si vuole essere sorpresi dalla delicatezza e guarda sempre più lontano a un orizzonte che si dipinge sulla qualità di un territorio. Tiene alto il vessillo di Franciacorta all’estero e nell’Italia stessa, narrando al mondo quel tratto morbido e delicato che, in un certo modo, riporta ai profili sinuosi delle dolci colline di Franciacorta.
wine
di Alessandra Piubello foto di Anna Koj
BARONE PIZZINI LE “RADICI” SONO IMPORTANTI 80
Barone Pizzini, “roots” are important
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Radici. Ogni volta che mi dirigo a Provaglio d’Iseo in Franciacorta da Barone Pizzini, inevitabilmente mi appare quest’immagine. Nulla a che vedere con lo stemma aquilino, dovuto alle origini asburgiche dei Pizzini quando approdarono da Rovereto (chissà se Mozart, spesso da loro ospitato, sia mai stato colto da ispirazione nella dimora della nobile famiglia) alla Franciacorta, nel 1870. Nel 1998, quando iniziano ad avviare la viticoltura in biologico, per poi certificarsi nel 2001 (dal 2008 le analisi dei loro vini sono a disposizione di tutti on line), primi visionari in tutta la denominazione, dimostrano di avere a cuore le radici delle loro vigne ma anche quelle del nostro piccolo mondo. Il primo Franciacorta biologico porta il loro nome. Al tempo della nuova cantina, inaugurata nel 2007, vogliono le radici interrate per due terzi (e tutta una serie di soluzioni bioclimatiche). Non basta. Radicano ancor più, con Biodiversity Friend, poi con Ita.ca per ridurre l’impronta carbonica e persino con Biopass, un progetto nato per misurare scientificamente la vita nei suoli (Barone Pizzini aderisce immediatamente non appena si delinea l’indagine, condotta da SATA in collaborazione con la Fondazione Mach e l’Università di Milano). Studi che poi, per serendipità, portano alla scoperta della correlazione tra vitalità del suolo e qualità del vino. Nei cru, nelle vigne particolarmente vocate, il brulichio sotterraneo degli individui più sensibili è decisamente più alto. Bagnadore docet.
Roots. Every time I head for Provaglio d’Iseo in Franciacorta to visit Baroni Pizzini, one image inevitably comes to mind. It has nothing to do with the eagle of the coat of arms due to the Pizzini’s Hapsburg origins, when they arrived from Rovereto (one wonders whether the aristocratic family’s residence was ever a source of inspiration for Mozart, often a guest there) in Franciacorta in 1870. In 1998, when they began their organic vine-growing activities that obtained certification in 2001 (since 2008 their wine test’ results are available on line), they were the first visionaries of the entire label, proving that they care about the roots of their vineyards but also about those of our small world. The first organic Franciacorta bears their name. When their new cellar was inaugurated in 2007, they wanted a two-thirds portion of their roots planted underground (as well as a whole series of bio-climatic solutions). But this was not enough. They rooted even better with Biodiversity Friend, then with Ita.ca, to reduce the carbon footprint and even with Bio–pass, a project developed to measure life in the soil scientifically (Barone Pizzini joined as soon as the survey, carried out by SATA in conjunction with the Mach Foundation and the Milan University, was launched). These studies then, by serendipity, led to the discovery of the correlation between soil vitality and the quality of the wine. In ‘cru’ wines, in especially dedicated vineyards, the underground swarming of the more sensitive individuals is definitely higher. Bagnadore docet. JAMESMAGAZINE.IT
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they care about the roots of their vineyards but also about those of our small world
dimostrano di avere a cuore le radici delle loro vigne ma anche quelle del nostro piccolo mondo
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E poi ci sono le radici di Silvano Brescianini, fuoriclasse testarossa, vicepresidente esecutivo della Barone Pizzini, nonché presidente del Consorzio Franciacorta. Il gigante gentile nato ad Erbusco, formatosi nella ristorazione e volato pure oltreoceano (parliamo del San Domenico di New York), destinato invece, per l’inanellarsi di consecutivi segni del destino, al vino. Uomo ben piantato nella sua terra, saldamente ancorato, di quelli che se arriva una tempesta non si sposta di un millimetro, ma la affronta coraggiosamente a viso aperto. L’anima dell’azienda è lui. Anche se insieme all’amministratore delegato Piermatteo Ghitti e al presidente Ugo Colombo, alla compagine di soci che rilevarono la Barone Pizzini nel ’93, unitamente all’enologo prof.
“Il biologico è il mezzo” parla a nome di tutti Brescianini “il fine è la qualità”
Alessandra Piubello
Silvano Brescianini / Barone Pizzini
And then there are the roots of Silvano Brescianini, the testarossa champion, the Barone Pizzini executive Deputy Chairman and President of the Franciacorta Consortium. This gentle giant was born in Erbusco, trained in catering and also travelled across the ocean (we are talking about the San Domenico in New York) but, through a series of consecutive signs of fate, he was instead destined to work with wine. A man with strong roots, firmly anchored in his own territory, one of those men who will not move an inch in a storm but will face it bravely, head on. He is the soul of the company. Although with the Managing Director Piermatteo Ghitti and the Chairman Ugo Colombo, the members who took over Barone Pizzini in ’93,
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“Organic is the means”, he speaks for all of the Brescianini, “quality is the end” JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
the oenologist Professor Leonardo Valenti, the agronomist Pierluigi Donna and the team of collaborators, they all work for a common goal: “Organic is the means”, he speaks for all of the Brescianini, “quality is the end”. Considering how they monitor every single detail, in line with their choice in favour of sustainability but always guided by their traditional methods, clearly they get results. For a moment, just look at the landscape: Barone Pizzini, surrounded by hills covered with vineyards and neighbouring with the Torbiere del Sebino natural reserve, overlooked by the buildings of the Clunisian Monastery of San Pietro in Lamosa, with the striking and calm presence of Mount Guglielmo completing the backdrop. Immersed in what were once the “curtae” (courts) “francae” (frankish), i.e. settlements governed by religious orders exempt from tax payments (indeed there are still a number of monasteries in Franciacorta and the fact that they are located in the best vine-growing areas should give us food for thought). A few data for anyone who might be curious: 54 hectares (35 on owned and 18 on rented land) covering four municipalities, Provaglio d’Iseo, Corte Franca, Passirano and Capriolo. The vineyards, at an altitude of between 200 and 350 metres, are on average fifteen years old on soils of complex origin, morainic but with fluvioglacial deposits. And here’s the best part: a Franciacorta DOCG Riserva Bagnadore vertical, (first production year 1993), that is sold since 2004 after at least 60 months on the lees. The tasting procedure involves tasting reserves still sur lattes, dégorgement for the occasion, and this is why not the trademark but a provisional label is shown in photographs, even though most of the vintages are on the market. The name comes from a stream originating from Mount Guglielmo that flows into Lake Iseo: on its shores, in the municipality of Morone, stands the 15th century stately home that was originally the residence of the Ghitti family (the founding members of Barone Pizzini in ’93, together with other entrepreneurs from Brescia), which was in fact given the name “Bagnadore”. Pierjacomo Ghitti linked the family nickname to the wine, also prescribing its three main characteristics: in addition to using Chardonnay, it was to be made with a fairly significant selection of Pinot Noir, aged in barrels and without dosage. This latter request, however, was made a few years later, in 2004. The Bagnadore grapes come exclusively from the Roccolo vineyard, which is in a special position: the sun provides its warmth early in the morning but sets early too (so there is a healthy difference in temperature). The Chardonnay vines here, on a slight slope, are looked upon by the Pinot Noir vines that are positioned higher up, bordering with thick woods. This 27-year-old cru vineyard is rooted in morainic soil, with a light sandy topsoil and texture and light clay deeper down, and is always the last to be harvested to allow the grapes to ripen more fully. JAMESMAGAZINE.IT
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Leonardo Valenti, all’agronomo Pierluigi Donna e alla squadra di collaboratori si lavora con intenti comuni: “Il biologico è il mezzo” parla a nome di tutti Brescianini “il fine è la qualità”. A giudicare da come controllano ogni singolo minimo dettaglio, coerenti con la scelta della sostenibilità, ma con la barra alla bontà dei loro metodo classico, pare evidente che i risultati arrivino. Per un momento, guardate all’istantanea paesaggistica: Barone Pizzini, circondata dalle colline vitate e contigua alla riserva naturale delle Torbiere del Sebino, su cui si affaccia il complesso del Monastero cluniacense di San Pietro in Lamosa, con la maestosa e tranquilla presenza del Monte Guglielmo a completare lo sfondo. Immersa in quelle che furono le “curtae” (corti) “francae” (franche), ovvero insediamenti governati da ordini religiosi esentati dal pagamento dei tributi (in effetti i monasteri in Franciacorta sono ancora diffusi, come lo sono nelle zone più vocate del vino e questo dovrebbe far pensare). Qualche dato, per i più curiosi: 54 ettari (35 in proprietà e 18 in affitto) su quattro comuni, Provaglio d’Iseo, Corte Franca, Passirano e Capriolo. Le vigne, con un’altitudine compresa fra i 200 e i 350 metri, hanno un’età media di quindici anni su suoli di origine complessa, morenici ma con deposizioni fluvioglaciali. E ora veniamo al bello: una verticale di Franciacorta DOCG Riserva Bagnadore, (prima annata prodotta 1993), che dal 2004 viene messa in commercio dopo almeno 60 mesi sui lieviti. La degustazione si svolge assaggiando le riserve ancora sur lattes, dégorgement per l’occasione, per questo nelle fotografie non vedrete il marchio, anche se la maggior parte dei millesimati è in commercio, ma un’etichetta provvisoria. Il nome deriva da un torrente che nasce nel Monte Guglielmo e finisce la sua corsa nel Lago d’Iseo: sulle sue sponde, nel comune di Morone, sorge la dimora quattrocentesca che fu l’abitazione originaria della famiglia Ghitti (soci fondatori della Barone Pizzini nel ‘93 insieme ad altri imprenditori bresciani), alla quale era stato dato per l’appunto l’appellativo di “Bagnadore”. Pierjacomo Ghitti legò il soprannome della casata alla riserva, dettandone anche le tre caratteristiche principali: doveva essere realizzata, oltre che con Chardonnay, con una selezione di Pinot Nero abbastanza importante, con elevazione in barrique e senza nessun dosaggio. A quest’ultima richiesta si arrivò però dopo qualche anno, nel 2004. Le uve del Bagnadore provengono esclusivamente dal vigneto Roccolo, che gode di una posizione particolare: il sole scalda di buonora al mattino, ma alla sera se ne va presto (quindi c’è una salutare escursione termica). Qui le viti di Chardonnay in leggera pendenza vengono tenute sott’occhio da quelle di Pinot Nero, posizionate più in alto e al confine con un fitto bosco. Questa vigna-cru di 27 anni, affonda le sue radici in un terreno morenico, con scheletro e tessitura franco-sabbiosa in superficie, franco-argillosa in profondità ed è sempre l’ultima ad essere vendemmiata, per consentire alle uve una maggiore maturità.
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BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2004-2012
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Bagnadore Pas Dosé Riserva Franciacorta sur lattes 2004-2012
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2004 Bagnadore viene prodotto solo nelle migliori annate. Le uve sono 50% Chardonnay, 50% Pinot Nero, percentuale che resta invariata fino al 2011. Per tutti i millesimati assaggiati i mesi sui lieviti sono sessanta, l’affinamento avviene per sei mesi in barrique e per sei mesi in vasche inox. La resa per ettaro della vigna varia tra gli 80 e gli 85 quintali a seconda delle annate. Intrigante con quel tocco di miele, uva passa, fiori bianchi, zenzero. Vitale, mostra ancora una precipua progressione che coniuga leggera tensione e maturità, senza però estendersi troppo in lunghezza. Bagnadore is only produced in the best years. The grapes are 50% Chardonnay, 50% Pinot Noir, a percentage that remained unchanged up till 2011. All the vintages tasted had 60 months on the lees and were aged for six months in barrels and six months in stainless steel vats. The vineyard yield per hectare varies between 80 and 85 quintals depending on the year. It is intriguing with a touch of honey, raisin, white flowers and ginger. A lively wine that still shows a basic progression that combines light tension and maturity, without however having excessive length.
BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2006
BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2008
Il disegno olfattivo si svolge con pennellate di lieviti, pesca, agrumi, miele, rhum in uno sviluppo gustativo dinamico, con una freschezza ancora ben marcata. Palato scandito con ritmo e coerenza e un connaturato senso di naturalezza nell’evoluzione. Bocca essenziale nella progressione aromatica, veemente, sontuosamente ornata dal perlage finissimo e cremoso. La trama gustativa è serratissima, fatta di particolari estremamente fini, a tratti delicati, una sequenza di infiniti punti convergenti in un quadro ancora futuribile.
Ricca cornucopia con profumi di spezie, fiori gialli, gelsomino giallo, girasole, miele. Ben profilato, con aromi di vaniglia e un palato che trova slancio a fronte di un volume avvolgente. Trama fitta e densa, colpisce per complessità, materia e ampiezza. Generoso, ancora ben sostenuto dal rovere di affinamento che ne accompagna lo sviluppo senza sovraccaricarlo. Assaggio rotondo e morbido che svela facilmente una bilanciata struttura e una cremosa sapidità che si allunga in un finale largo, appagante e lungo.
Un soffio di viva bellezza al palato, dinamico, slanciato e fresco. Un denso volteggiare di agrumi, tiglio, spezie che all’assaggio conducono ad una trascinante energia, ad una freschezza ravvivante, organica e fondamentale. “Istrionico” nel suo gioco di travestimenti, cambia di continuo, non soltanto durante la sua vita nel bicchiere ma anche in bocca, dove spinge con una scia sapida come a vivere fino all’ultima goccia quel tempo di passaggio, allungandolo, allungandosi in un flusso continuo e lineare.
The olfactory design is achieved with brushstrokes of lees, peach, citrus fruit, honey and rum in a dynamic development of taste, still with a marked freshness. A taste punctuated by rhythm and consistency and an inherent sense of its natural way of evolving. Primary taste in the aromatic progression, vehement, sumptuously ornate with a very fine and creamy perlage. The gustatory structure is very tight, made up of extremely fine details, at times delicate, a sequence of countless converging points in a picture still to be imagined.
A rich cornucopia with the scent of spices, yellow flowers, yellow jasmine, sunflower and honey. Clearly profiled, with vanilla aromas and a taste that gains momentum in the face of an enveloping volume. Its thick and tight texture is striking in its complexity, matter and width. Generous, still supported by the oak wood in which it aged and that supports its development without overloading it. A round and soft taste that reveals a balanced structure and a creamy flavour that stretches out in a broad, satisfying and long finale.
A breath of vivacious beauty for the palate, dynamic, sleek and fresh. An intense swirling of citrus, lime blossom, spices, that on tasting provide a driving energy, an enlivening, organic and fundamental freshness. “Histrionic” in its many disguises, it changes constantly, not only during its time in the glass but also in the mouth, where is drives with a savoury wake as if to live up to the last drop that moment of passage, lengthening it, lengthening itself in a continuing and linear flow.
BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2009
BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2011
BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2012
Struttura e tensione coessenziali, infuse come la freschezza di frutta bianca e agrumi (cedro, pompelmo), la speziatura soffusa di zenzero candito e cardamomo. L’assaggio è un abbraccio di grande presa, vigoroso e ritmato, sensazioni tattili avvolgenti, sferza acida e grande stoffa su cui si intrecciano di nuovo il frutto e le spezie avvinti in lunghezza e in freschezza. Affresco seducente, quintessenza di uno stile, con un’espressività peculiare che regalerà ancora sorprendenti sfumature.
Primo anno in cui si passa a un 60% di Pinot Nero e un 40% di Chardonnay. Naso molto sottile, affilato, con prevalenza del carattere floreale su quello fruttato con una leggera vena agrumata, coerente nelle note saline. Qui le trasparenze contano più della concentrazione, la grazia più della potenza, la delicatezza più dell’avvolgenza. Dettaglio, intensità, definizione. Una gemma di sapiente sfaccettatura, un equilibrio fatto di purezza, di integrità, di sapiente finezza. Non ha bisogno di esibirsi, di sedurre: è pura luce in sé e per sé.
Bouquet che sfoggia frutta esotica, lieviti, pepe bianco, cardamomo, una delicata pasticceria da tè, miele. Bocca ricca, piena, cremosa di buona ampiezza e impegno, gusto largo e pieno, piuttosto persistente, un’acidità ben calibrata ma non infiltrante. Ampio e stratificato, ma senza sacrificare slancio, né unità gustativa: a estratti e morbidezze fanno da vettori freschezza e sapidità veramente organiche. Nello sviluppo la densità della materia si dipana in ricchezza aromatica, lunghezza saporita, solarità nel lungo sorso.
Co-essential structure and tension, infused like the freshness of white and citrus fruit (cider, grapefruit), the suffused spices of candied ginger and cardamom. Its taste is a strong, vigorous and rhythmic embrace, enveloping tactile feelings, a acid lash and a great fabric on which again fruit and spices are intertwined, wrapped in length and freshness. An alluring fresco, the quintessence of a style that has a special expressiveness that will offer still more surprising nuances.
The first year in which a change was made to the 60% Pinot Noir and 40% Chardonnay percentages. A very sharp and thin scent, with a flowery character that prevails over the fruity one with a slight citrusy vein, consistent in its saline note. Transparencies here are more important than concentration, grace more than power, delicacy more than enveloping strength. Detail, intensity, definition. A knowingly faceted jewel, a balance made of purity, integrity and wise fineness. It has no need to show off, to seduce: it is pure light in itself and for itself.
A bouquet that presents exotic fruit, yeasts, white pepper, cardamom, delicate tea-party pastry and honey. A rich, creamy taste of good breadth and commitment, a broad and full taste, rather persistent, well calibrated but not infiltrating acidity. Wide and stratified, but without sacrificing momentum or gustatory unity: extracts and softness carry organic freshness and flavour. In its development the density of the matter unravels in aromatic richness, tasty length and sunniness in a long sip.
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BAGNADORE PAS DOSÉ RISERVA FRANCIACORTA SUR LATTES 2005
wine resort
di Emanuele Alessandro Gobbi
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The “admirable vision” of Castiglion del Bosco JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
For many years the Val d’Orcia represented the unassuming relative of a more substantial and admired Tuscany, and this had struck many 18th and 19th century European travellers who described it as a plain landscape made up of stone graveyards and covered with residue from the limestone hills, lacking even a blade of grass. At a certain point, however, the unspoilt nature of the place began to communicate a certain allure, ridding itself of the halo of desolation typical of a pale and inhuman lunar landscape. Indeed, the sensitivity of an Anglo-American writer, Iris Origo, must be acknowledged. She was an attentive witness of her times, who in 1923 decided to invest, together with her husband, the Marquis Antonio, the work and commitment of a lifetime, choosing a property precisely in that area. Determined to support the valley’s rural economy, she launched an ambitious project that involved building schools, farms, roads and supporting efficient agricultural management of the area. As always happens, indeed, history is made by pioneers, precursors, successors and heirs and, as if often the case, history repeats itself. As does human behaviour. In 2003, again within the Val d’Orcia Natural Park, which is also part of the Unesco heritage, on a cool and sunny spring morning, a group of friends was visiting the are for no specific reason but, struck by its beauty, Chiara and Massimo Ferragamo stopped to contemplate the limitless space that goes from the Uccellina mountains in the Maremma to the Giglio and Montecristo islands. They immediately understood that a great dream was within their reach: the safeguarding of an extremely rare heritage, made up of the ruins of a castle dating back to the year 1100, a 1345 fresco by Lorenzetti in the small San Michele church and, above all, the Capanna vineyard, a single body of 42 hectares that flows along a ridge like a huge green river, which admittedly sparked strong emotions.
Massimo, Chiara Ferragamo e i figli
JAMESMAGAZINE.IT
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Per lunghi anni la Val d’Orcia ha rappresentato la parente modesta dell’ingente e ammirata Toscana, il cui ritardo ha colpito molti viaggiatori europei del Sette e dell’Ottocento che la definirono un semplice paesaggio costituito da cimiteri di sassi e coperto di residui di colline calcaree, senza un filo di verde. Ad un certo punto, però, la natura incontaminata del luogo ha cominciato a diffondere una certa seduzione, togliendosi di dosso quell’alone di desolazione da paesaggio lunare, pallido e inumano. Occorre, infatti, dare atto e sensibilità a una scrittrice anglo-americana, Iris Origo, un’attenta testimone del suo tempo, la quale decise nel 1923 di investire, insieme al marito, il Marchese Antonio, il lavoro e l’impegno di una vita, optando per una proprietà in quella specifica zona. Determinata a generare l'economia agreste della valle, si lanciò in un ambizioso progetto che includeva la costruzione di scuole, fattorie, strade e di un’efficiente gestione agricola dell’areale. Già, come sempre accade, la storia è fatta da pionieri, precursori, successori ed eredi e, come spesso accade, è la stessa storia a ripetersi. Così fanno i comportamenti umani. Siamo nel 2003, sempre all’interno del Parco Naturale della Val d’Orcia, nonché Patrimonio dell’Umanità Unesco, in una fresca e soleggiata mattina primaverile. Un gruppo di amici è intento a visitare questi luoghi senza un preciso interesse, ma al cospetto di tale bellezza, Chiara e Massimo Ferragamo si fermano a contemplare uno spazio senza limiti che va dalle montagne dell’Uccellina in Maremma sino alle isole del Giglio e Montecristo. Comprendono immediatamente di avere a portata di mano un gran sogno: la salvaguardia di un patrimonio rarissimo, costituito da rovine di un castello risalenti al 1100, un affresco del Lorenzetti del 1345 sito nella chiesetta di San Michele e soprattutto il vigneto Capanna, un corpo unico di 42 ettari che fluisce sul crinale del poggio come un enorme fiume verde, reo confesso di aver fatto scattare la scintilla emozionale.
Decidono allora, non soltanto di dedicare passione e responsabilità nell’ombra di quella montagna misteriosa (l’Amiata), ma anzitutto di trasformare la nuda argilla in prosperità e rinvigorire le strutture presenti, nel pieno e rigorosissimo rispetto delle tradizioni locali. Certo, è la dolcezza del paesaggio, straordinariamente sinuoso e ondeggiante, a trafiggere il cuore di Massimo, interrotto qua e là dai grigi calanchi e da intramontabili cipressi solitari. Un paesaggio da cartolina, che effettivamente unisce e non divide. Questa volta, la stessa mole del Monte Amiata diviene quasi per magia confortante e il medesimo Orcia, con le sue spiccate peculiarità torrentizie, non costituisce più una barriera naturale tra le ultime propaggini della terra senese e l’alta Maremma, sede di antiche feudalità laiche e religiose. E così che, sul percorso della via francigena, si estende Castiglion del Bosco, per 2000 ettari, sul versante nord occidentale di Montalcino tra lecci, querce e faggi a fare da cornice a 62 ettari esclusivamente di Sangiovese. Non basta, poiché dal 2015 i coniugi affidano la gestione della vasta area di soggiorno alla prestigiosa collezione Rosewood, formando una sinergia, a dir poco, sensazionale: un resort 5 stelle L con 23 Suite che ha il suo centro nel Borgo, un villaggio storico di enorme fascino, nel quale si trovano le rovine dell’antico castello; una chiesa medievale; 3 delle 11 Ville tutte con piscina privata; The Spa at Rosewood Castiglion del Bosco; il Ristorante Campo del Drago e l’Osteria La Canonica (aperti al pubblico) con piatti della tradizione toscana e italiana, sotto la guida dell’Executive Chef Matteo Temperini; un orto biologico, la scuola di cucina e, infine, il Kids Club con le attività del Rosewood Explorers Children’s Program.
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So they decided not only to apply their passion and responsibility in the shadow of that mysterious mountain (Mount Amiata), but first of all to transform the naked clay into prosperity and to revitalize the existing structures, with a full and rigorous respect for local traditions. It was undoubtedly the gentleness of the extraordinarily sinuous and undulating landscape that pierced Massimo’s heart, interrupted as it is here and there by grey gullies and the ever-present cypress trees. A picturesque landscape that in fact unites rather than divides. On this occasion, almost by magic, even the bulk of Mount Amiata becomes comforting and the Orcia itself, a torrential river, no longer acts as a natural barrier between the last foothills of the Siena area and the upper Maremma, the land of ancient JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Massimo Ferragamo
wine resort
Matteo Temperini / Executive Chef
lay and religious feudalism. And thus, along the route of the Via Francigena, lies Castiglion del Bosco, with 2,000 hectares, to the North-West of Montalcino among evergreen oaks, oaks and beech trees that frame the 62 hectares that are exclusively Sangiovese. But more was to come when, in 2015, the couple entrusted the management of their large reception rooms to the prestigious Rosewood collection, establishing a synergy that is to say the least sensational: a five-start L resort with 23 Suites centered around the Borgo, an enormously fascinating historical hamlet where the ruins of the ancient castle lie; a medieval church; 3 of the 11 Villas each with a private pool; the Spa at Rosewood Castiglion del Bosco; the Restaurant Campo del Drago and the Osteria La Canonica (open to the public) offering Tuscan and Italian traditional dishes, under the leadership of Executive Chef Matteo Temperini; an organic kitchen garden, a cooking school and, lastly, the Kids Club with activities run by the Rosewood Explorers Children’s Programme.
Villa Sant’Anna
Il tutto con la volontà di portare e far vivere agli ospiti la genuinità della vera Toscana e, il tutto, declinato in ogni dovizia di particolare. Davvero, una meticolosa attenzione che riflette il continuo divenire del territorio circostante, con il preciso intento di realizzare Rosewood Castiglion del Bosco come una casa più che un albergo. Chiara Ferragamo insieme all’ausilio dell’interior designer Cristina Bürgisser Sancristoforo supera se stessa nel tracciare gli interni della proprietà, utilizzando un tocco sublime, gentile e delicato. Ogni singola villa, suite o spazio comune attinge proprio alla forte tradizione creativa toscana in termini di mobili antichi e manufatti, talvolta eccelsi nell’antiquariato, garantendo il massimo confort attraverso tessuti ricercati, marmi e ceramiche. Insieme a Rosewood, Massimo Ferragamo consolida dunque il fattore turistico, senza distorcere il suo progetto di partenza. Castiglion del Bosco è, infatti, molto altro: l’unico Golf Club Privato in Italia tra 210 ettari di morbide colline, disegnato dal campione del British Open Tom Weiskopf e una moderna cantina, guidata dalla valente enologa Cecilia Leoneschi, le cui mura possono vantare di essere tra i pochi soci fondatori del Consorzio del Brunello di Montalcino nel 1967.
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All this is based on the wish to offer guests and enable them to experience the authenticity of real Tuscany and, all of it organised with a great attention to detail. Indeed, the meticulous care reflects the constantly changing surrounding territory, with a precise will to develop Rosewood Castiglion del Bosco as a home more than a hotel. With the help of interior designer Cristina Bürgisser Sancristoforo, Chiara Ferragamo has outdone herself in outlining the property’s interiors, with a inspiring, gentle and delicate touch. Every single villa, suite or common space draws on the strong Tuscan creative tradition in terms of antique furniture and objects, at times superb antiques, guaranteeing utmost comfort through fine fabrics, marbles and pottery. Together with Rosewood, Massimo Ferragamo has thus consolidated the tourist factor, without distorting his initial project. Castiglion del Bosco is, indeed, a great deal more: it has the only private Golf Club in Italy on 210 hectares of gentle hills, designed by British Open winner Tom Weiskopf, and a modern cellar, supervised by the excellent oenologist Cecilia Leoneschi, which can boast of being one of the few founding members of the Consorzio del Brunello of Montalcino in 1967.
wine resort
Oltre alle canoniche 18 buche compare una 19esima, soprannominata la “Brunello Hole” che conclude un percorso al tempo stesso impegnativo e divertente, a breve distanza dalla Club House (una pittoresca ex casa colonica), dove di frequente e volentieri i soci amano giocarsi un simbolico bicchiere dell’omonimo nettare. L’elegante cantina accoglie invece al suo interno un ennesimo gioiellino, Millecento Wine Club, un salotto tra i più elitari del mondo del vino, accessibile esclusivamente su invito, che trasuda cultura e collezionismo materiale in tutti i suoi anfratti. Sommato a questo, la proposta enogastronomica si arricchisce, ora per tutti i visitatori, attraverso differenti tipologie di tour, quali vertical tasting, cheese pairing, coravin experience e into the future (assaggio dalle botti). La limpida e previdente visione agro-ricettiva di Chiara e Massimo Ferragamo si è materializzata, o meglio, sta attraversando un periodo di splendido fervore con il compito di conservare e nobilitare un prototipo di benessere a livello mondiale, dove agricoltura e ospitalità rasentano la perfezione.
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Cecilia Leoneschi / Winemaker
In addition to the traditional 18 there is also a 19th hole, called the “Brunello Hole”, that completes a course that is both demanding and fun, just a short distance from the Club House (a picturesque former farm house), and which club members often enjoy playing for a symbolic glass of the wine that goes by the same name. The elegant cellar instead has inside yet another jewel, the Millecento Wine Club, one of the most élite ‘salons’ in the world of wine, accessible by invitation only and that exudes culture, and collectors’ items visible in every corner. Added to this, the food and wine offering has now been with enriched different types of tours open all visitors, and they include vertical tasting, cheese pairing, the coravin experience and into the future (tasting from the barrels). Chiara and Massimo Ferragamo’s clear and forward-looking agri-hospitality vision is being realized, or rather is in a stage of great enthusiasm focused on preserving and ennobling a global well-being prototype, where agriculture and hospitality come close to perfection.
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Millecento è la data ufficiale di nascita di Castiglion del Bosco, mentre il Castiglione era originariamente una fortezza costruita per difendere Montalcino dagli attacchi di Siena e Firenze. Un appezzamento dei migliori otto ettari del vigneto Capanna, a 400 m slm circa, su suoli con una cospicua presenza di galestro: ogni parcella viene vendemmiata separatamente per far raggiungere il massimo potenziale delle diverse esposizioni. Il versante sud-est regala finezza e tenuta acida, le parcelle a sud ovest portano invece complessità e longevità. Profumi intensi di fragola, marasca e cannella, ravvivati da richiami balsamici. Palato di eccellente freschezza e dinamicità, contraddistinto da stimolanti risvolti sapido-minerali.
Nasce da una maniacale selezione di uve situate nell’area nord est dei vigneti aziendali, situati tra i 250 e 350 m slm, prendendo il nome dalla villa storica che si affaccia su quelle piante. Il terreno è fresco, non eccessivamente argilloso e l’esposizione mitiga le manifestazioni di potenza e calore. Presenta al naso sentori di viola e frutta matura; in bocca la succosità acquisisce ulteriore intensità, con tannino pronto e ottima persistenza. Un vino territoriale e di gran beva.
Millecento - 1100 - is the official date of birth of Castiglion del Bosco, while Castiglione had originally been a fortress built to defend Montalcino from attacks by Siena and Florence. It is a plot of the eight best hectares of the Capanna vineyard, at an altitude of approximately 400 m, on soils with a strong presence of schist: each parcel is harvested separately so that the different exposures can achieve their top potential. On the south-eastern side fineness and acid resistance are ensures, while the south western parcels instead bring complexity and longevity. Intense fragrances of strawberries, cherry and cinnamon, enlivened by balsamic echoes. An exceedingly fresh and dynamic taste, marked by stimulating savoury mineral elements.
ROSSO DI MONTALCINO DOC GAUGGIOLE 2015
This wine was born from an obsessive selection of grapes from the north-eastern area of the company vineyards, located at an altitude of between 250 and 350 m, taking its name from the historic villa that overlooks these vines. The plot is fresh, not excessively clayey and its exposure mitigates manifestations of power and heat. Its aroma suggests pansies and ripe fruit; in the mouth its juiciness takes on additional intensity, with ready tannin and excellent persistence. A territorial and highly enjoyable wine.
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BRUNELLO DI MONTALCINO DOCG MILLECENTO RISERVA 2012
di Francesco Annibali
wine
Sherry, musical harmonies
ARMONIE MUSICALI
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Un tempo, quando l’aperitivo non era ancora diventato apericena, lo Sherry ebbe un certo successo anche da noi. Poi, tra l’esplosione delle bollicine da un lato, che hanno un’immagine ben più facile, e la crescita del mondo dei cocktail dall’altro, uno dei più grandi vini del mondo se n’è rimasto tappato sullo scaffale a prendere la polvere. Però basta fare un salto nelle regioni più evolute da un punto di vista gastronomico della Spagna come la Catalogna e i Paesi Baschi per vederlo al centro delle chiacchierate, splendido accompagnamento delle tapas e di un po’ tutti i piatti, dalla carne al pesce. Se, infatti, lo Sherry è un vino che fatica parecchio ad avvicinarsi a quasi tutti gli altri vini (nel senso che è difficile inserirlo in una bevuta che preveda altre tipologie) è anche vero che è un vino di facilissimo abbinamento (tranne magari i poderosi Pedro Ximenes, che però sono meravigliosi da soli, dopo il caffè). Né valga come alibi l’alcol, anche se non è mai inferiore ai 15% e in media gira attorno ai 17%, visto che l’Amarone va a gonfie vele. Né, infine, le note ossidate, tanto ricercate in altre tipologie. Lo Sherry è un vino dai mille volti, proveniente dalle campagne di Jerez de la Frontera, El Puerto de Santa María e Sanlúcar de Barrameda, in Andalucia, estremo sud della Spagna.
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Once upon a time, when aperitifs had not yet become aperitif-dinners, Sherry had met with some success in this country too. Then, caught up between on the one hand the boom of bubbles, that have a much easier image, and the growing cocktail sector on the other, one of the greatest wines in the world was left unopened to gather dust on the shelf. However, all it takes is a visit to more developed regions of Spain in terms of food and wine like Catalonia and the Basque countries to see it at the heart of conversations, wonderful when drunk with tapas and different meat or fish dishes. If, indeed, Sherry is a wine that is quite difficult to consider as being close to any other wine (in the sense that it is difficult to include it when drinking other types of wine), it is also true that this wine is very easy to pair (except for the powerful Pedro Ximenes that is however wonderful by itself, after coffee). Nor can the alcohol be an alibi, even through it is never below 15% and on average about 17%, if we consider that Amarone is doing very well. Nor, lastly, can the oxidised overtones sought after by other types of wine. Sherry is a multi-faceted wine that comes from the Jerez de la Frontera, El Puerto de Santa María and Sanlúcar de Barrameda territories in Andalucia, in the far south of Spain.
UN PAESAGGIO UNICO
Un vino proveniente da una zona che sente l’influenza sia del clima atlantico che di quello mediterraneo, con estati roventi (le massime si aggirano sui 40°), 300 giorni di sole all’anno e le piogge concentrate in 30 giorni. E se il meteo non scherza, un altro fattore chiave per la comprensione di questo vino super è il terreno calcareo e chiarissimo chiamato albariza, costituito da una roccia di marna bianca e organica, ricca di carbonato di calcio, argilla e silice formata nell’Oligocene dalla sedimentazione delle acque di un mare interno. È la terra più appropriata per la produzione di uva da cui nasce lo Sherry, il Palomino, poiché ha un elevato potere di ritenzione idrica, rimanendo durante l’estate secca sulla superficie ma umida a diversi metri di profondità. Sempre fortificato in tutte le tipologie, lo Sherry è fatto maturare sotto un velo di lieviti chiamato flor. Le tipologie che si ottengono, molto diverse tra loro, sono Fino, Manzanilla, Amontillado, Oloroso, Palo Cortado, Pedro Jiménez, Moscatel.
Sherry is a multi-faceted wine
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Lo Sherry è un vino dai mille volti
A unique landscape A wine that comes from an area influenced by both the Atlantic and the Mediterranean climate, with fiery summers (temperatures of up to 40°), 300 days of sunshine a year and rain concentrated in just 30 days. And if the weather is no joke, another key factor in understanding this super wine is the limestone and very light soil, made up of white marlstone and organic rock, rich in calcium carbonate, clay and silica formed in the Oligocene by the sedimentation of waters from an inland sea. It is the best kind of soil for the production of the grapes used to make Sherry, the Palomino grapes, because it has a high moisture retaining power and remains dry on the surface during the summer but moist several metres underground. All types of Sherry are always fortified and aged under a film of yeast called flor. The very different types that are obtained are the Fino, Manzanilla, Amontillado, Oloroso, Palo Cortado, Pedro Jiménez, Moscatel.
wine
IN CANTINA
Dopo una normale vinificazione in bianco, il mosto viene introdotto in vasche di acciaio inox per innescare la fermentazione, che avverrà a temperatura controllata tra 22 e 24 gradi. Questo processo è diviso in due fasi: fermentazione tumultuosa e fermentazione lenta. Il primo avviene durante i primi giorni e in esso oltre il 90% dello zucchero viene convertito in alcol. La seconda fase, la fermentazione lenta, termina all’inizio di dicembre con l’ottenimento di un vino bianco totalmente secco tra 11 e 12º vol. Dopo la fermentazione, sulla superficie del vino, che è diventata pulita e trasparente, si sviluppa uno strato di lieviti del genere Saccharomyces chiamato, come dicevamo, flor.
In Cellar After normal vinification in white, the must is placed in stainless steel vats to trigger fermentation that will take place at a controlled temperature of between 22 and 24 degrees. This process is broken down into two stages: tumultuous fermentation and slow fermentation. The former takes place during the first few days and in this stage over 90% of the sugar is converted into alcohol. The second stage, slow fermentation, ends in early December when a totally dry white wine is obtained of between 11 and 12º v/v. After fermentation, on the surface of the wine that has become clean and transparent, a stratum of yeasts of the Saccharomyces type called, as mentioned, flor develops.
CLASSIFICAZIONE E FORTIFICAZIONE DELLO SHERRY
Classifying and fortifying Sherry The wines obtained from fermentation are tasted and classified: tasters decide on the direction they are to take in the ageing phase, depending on the characteristics they present. Pale wines are classified as fino, while the ones with more body and better-structured are classified as oloroso. Fino wines at this point are fortified with up to 15% aguardiente, a wine distillate neutral in taste, while oloroso wines are fortified up to 17%, depending on the style of the cellar. After fortification, the wine is usually placed in 500 litre American oak barrels that be will filled with wine up to five sixths, so as to aid oxidation, unlike almost all white wines in the world. At this point, the style of the desired Sherry will be determined by the film of flor’s resistance capability: the more the flor is resistant, the more the Sherry will be pale and light, and will become Fino or Manzanilla (the latter is a Fino from the city of Sanlúcar de Barrameda, slightly more tasty than the Fino). If instead the flor melts quickly in the wine, the wine will be darkened by the oxygen and will become oloroso. But there is more, considering that there are also sweet Sherries: the Pedro Ximenez, a highly concentrated wine, and Moscatel. In these cases, clearly, the wine is fortified when the alcoholic fermentation has not yet been completed and the sweetness that will be perceived is that of the starting grapes.
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I vini ottenuti dalla fermentazione sono degustati e classificati: gli assaggiatori decidono la direzione che seguiranno nella fase d’invecchiamento, a seconda delle caratteristiche che presentano. I vini chiari sono classificati come fini, mentre quelli che hanno più corpo e sono ben strutturati, sono classificati come fragranti. I vini fini vengono a questo punto fortificati con aguardiente, un distillato di vino dal gusto neutro, fino a raggiungere 15%, mentre i fragranti vengono fortificati fino al 17%, a seconda dello stile della cantina. Dopo la fortificazione, il vino viene solitamente introdotto in botti di rovere americano da 500 litri che vengono riempite di vino per cinque sesti, in modo da favorire l’ossidazione, in controtendenza con la quasi totalità dei vini bianchi del mondo. A questo punto, lo stile di Sherry che si vorrà ottenere sarà determinato dalla capacità del velo di flor di resistere: più la flor sarà resistente, più lo Sherry che si otterrà sarà chiaro e leggero, e diventerà Fino o Manzanilla (quest’ultimo è un Fino proveniente dalla città di Sanlúcar de Barrameda, leggermente più sapido del Fino). Se invece la flor si scioglierà nel vino velocemente, il vino sarà imbrunito dall’ossigeno e diventerà Oloroso.
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Ma non è finita qui, visto che esistono anche tipologie di Sherry dolci: il Pedro Ximenez, un vino di concentrazione portentosa, e il Moscatel. In questi casi, come è ovvio, la fortificazione avviene quando la fermentazione alcolica non è ancora terminata e la dolcezza che si percepirà sarà quella dell’uva di partenza.
A TAVOLA
At the table It is at the table that Sherry enchants, proving to be extremely agile in adjusting to the more disparate combinations. The Fino and the Manzanilla are straw-yellow, light, very dry and they alternate overtones of salt, gypsum, bread, bitter herbs, and a dry and peppery taste. These wines are fantastic with anchovies, cold cuts, seafood hors d’oeuvres, fried fish or even pickles, given they are wines with a very low level of acidity. The Oloroso is mahogany, it smells of wood, tobacco, resin, and on the palate is dry but full-bodied and powerful. It is fantastic with tuna fish, cheese, sweet and sour pork, paté. The Pedro Ximenez has very strong overtones of dried figs and impressive power, to be dampened by strong blue cheese like the Spanish Cabrales or our Gorgonzola, even though, as mentioned, it is at its best by itself, after coffee. Lastly Moscatel that, like all Moscati wines, is perfect with patisserie. But while it is easy to pair, in one respect Sherry is somewhat demanding: the temperature at which it is served. Given that this is a generously alcoholic wine, it must always be drunk cold (Fino and Manzanilla) or cool (Oloroso and sweet versions), preferably in small glasses that will dampen the alcoholic overtones. And let us not forget that Sherry is like Jazz. It is not easy to appreciate it at first, but when one starts to perceive its greatness, one cannot do without it...
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Ed è a tavola che lo Sherry fa faville, dimostrandosi agilissimo nel piegarsi agli abbinamenti più disparati. Il Fino e il Manzanilla sono paglierini, leggeri, secchissimi e alternano note di sale, gesso, pane, erbe amare, e un gusto secco e piccante. Sono vini fantastici con acciughe, salumi, antipasti di mare, fritture di pesce, o anche sottaceti, visto che si tratta di vini bassissimi di acidità. L’Oloroso è mogano, profuma di legno, tabacco, resina, e al palato è secco, ma corposo e potente. Fantastico con tonno, formaggi, carni di maiale in agrodolce, paté. Il Pedro Ximenez ha note intensissime di fichi secchi e una potenza impressionante, da smorzare con formaggi erborinati molti intensi come il Cabrales spagnolo o il nostro Gorgonzola, anche se come accennavamo dà il meglio da solo, dopo il caffè. Infine il Moscatel, che come tutti i Moscati è perfetto per la pasticceria. Ma se gli abbinamenti sono molto facili, su una cosa lo Sherry è un po’ esigente: la temperatura di servizio. Trattandosi di un vino sempre generosamente alcolico, va sempre bevuto freddo (Fino e Manzanilla) o fresco (Oloroso e versioni dolci), preferibilmente in bicchieri di piccole dimensioni che smorzino le note alcoliche. E non scordiamoci che lo Sherry è come il Jazz. All’inizio non è facile apprezzarlo, ma quando arriva il momento in cui si percepisce la sua grandezza, non se ne può fare a meno...
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lifestyle
between art and technology
A. LANGE & SÖHNE, TRA ARTE E TECNOLOGIA di Bruno Petronilli
Con la fondazione della sua Manifattura di orologi nel 1845, l’orologiaio di Dresda Ferdinand Adolph Lange creò le premesse dell’alta orologeria sassone. I suoi pregiati orologi da tasca sono tuttora molto ambiti dai collezionisti del mondo intero. Dopo la seconda guerra mondiale l’azienda fu espropriata e il nome Lange & Söhne rischiò di cadere in oblio. Nel 1990 Walter Lange, pronipote di Ferdinand Adolph Lange, ebbe il coraggio di rifondare l’azienda. Oggi in Lange vengono prodotti ogni anno solo poche migliaia di orologi da polso in oro o in platino. In essi sono contenuti esclusivamente movimenti sviluppati in Manifattura, montati e decorati a mano con grande impegno. Con 63 calibri di Manifattura, dal 1994 A. Lange & Söhne ha conquistato una posizione preminente tra le maggiori marche di orologi del mondo. Tra i grandi successi vanno annoverate le icone della marca quali il Lange 1 con la prima Grande Data in un orologio da polso di serie e lo Zeitwerk con le sue cifre «saltanti esattamente». Le straordinarie complicazioni come lo Zeitwerk Ripetizione Minuti, il Tourbograph Perpetual «Pour le Mérite» o il Triple Split riflettono la volontà della Manifattura di perfezionare la propria tradizionale arte verso nuovi importanti traguardi. Quest’anno si festeggia il 25esimo anniversario della rifondazione del Brand. Era il il 24 ottobre 1994 quando, nel Castello di Dresda, Walter Lange e il suo partner Günter Blümlein presentarono i primi quattro orologi da polso tra i quali l’iconico Lange 1 con l’innovativo quadrante decentrato, Grande Data e doppio bariletto. Brigida Ceresola, Brand Manager Sud Europa A. Lange & Söhne dichiara che “per commemorare questo importante momento, ogni 24 del mese sarà presentato un nuovo Lange 1 serie «25th Anniversary» che renderà omaggio alle principali pietre miliari dell’orologio icona del Brand Sassone”.
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By establishing his watch Factory in 1845, Dresden watchmaker Ferdinand Adolph Lange prepared the ground for fine Saxon watchmaking. His precious pocket-watches are still sought after by collectors worldwide. After World War II the business was expropriated and the name Lange & Söhne was in danger of vanishing forever. In 1990 Walter Lange, a great-grandson of Ferdinand Adolph Lange, was brave enough to re-establish the firm. Lange only makes a few thousand gold or platinum wristwatches a year. They contain exclusively mechanisms developed by the Firm, carefully hand-assembled and decorated. With 63 manufacturing calibres, since 1994 A. Lange & Söhne has achieved a leading position amongst the world’s top watchmakers. Its major successes include the brand’s icons likes the Lange 1 with the first Outsize Date in a series-produced wrist watch, and the Zeitwerk with its «unambiguous jumping» numerals. The extraordinary complications like the Zeitwerk Minute Repeater, the Tourbograph Perpetual «Pour le Mérite» or the Triple Split reflect the Firm’s desire to perfect its traditional art to achieve new and important goals. This year it celebrates the 25th anniversary of the re-establishment of the Brand. On October 24th 1994, in the Dresden Castle, Walter Lange and his partner Gtünter Blümlein presented the first four wristwatches that included the iconic Lange 1 with its innovative off-centre dial layout, the Outsize Date and the double barrel. Brigida Ceresola, the A. Lange & Söhne Brand Manager for Southern Europe said that “to commemorate this important moment, on the 24th of each month a new Lange 1 «25th Anniversary» series will be presented and will pay tribute to the main milestones of the Saxon Brand’s iconic watch”.
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lifestyle
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Grande Lange 1 Fase Lunare «25th Anniversary»
A. LANGE & SÖHNE FLAGSHIPSTORE MILANO A. Lange & Söhne ha inaugurato lo scorso anno, all’interno del Flagship Store di Pisa Orologeria in via Verri, 7 a Milano, la sua prima boutique monomarca italiana. Questa novità rappresenta, come ha sottolineato Wilhelm Schmid, CEO del marchio, “un’importante pietra miliare nella strategia di comunicazione del Brand”. Raffinato ed elegante, questo spazio milanese, nel quale è possibile ammirare un’affascinante alternanza tra pietra naturale nei toni del grigio, legno dalle calde sfumature e particolari moderni in metallo, rispecchia appieno il DNA del marchio fondato nel 1845 a Glashütte, Germania. L’attenzione ai più piccoli dettagli si riscontra anche nei profili dei mobili che, lucidati e smussati con un angolo di 45 gradi, riprendono le peculiarità tipiche dei componenti dei segnatempo A. Lange & Söhne. Alle pareti, immagini e dettagli di modelli e calibri ricordano la storia pluricentenaria del marchio mentre una teca in cristallo custodisce, al pari di uno scrigno, i preziosi segnatempo di uno dei brand più amati dai cultori dell’Alta Orologeria. Chiara Pisa, Amministratore Delegato di Pisa Orologeria, ha dichiarato: “Frutto di un sodalizio iniziato nel 1994, siamo stati i primi in Italia a credere nelle potenzialità del marchio iniziando questa proficua collaborazione. Dopo mesi dall’apertura possiamo ritenerci più che soddisfatti: A. Lange & Söhne ha ancora più visibilità ed importanza all’interno del Flagship Store. Siamo in grado di offrire alla clientela un’esperienza a 360 gradi nella scoperta del marchio sassone: sia in termini d’acquisto sia di conoscenza di un brand che ha un’importante storia da raccontare. L’iniziativa si è rivelata vincente sia per i clienti stranieri che apprezzano gli spazi monomarca sia per gli italiani che hanno accolto questa nuova realtà con entusiasmo e curiosità. Brigida Ceresola, Brand Manager Sud Europa, ha aggiunto: “L’importanza della boutique si afferma con la disponibilità di esclusive edizioni limitate; gli orologi «25th Anniversary» ad esempio, sono disponibili solo nelle boutique Lange.”
A. Lange & Söhne inaugurated last year, inside the Flagship Store of Pisa Orologeria in via Verri, 7, Milan, its first Italian single-brand boutique. This new initiative, as underlined by Wilhelm Schmid, the brand’s CEO, is “an important milestone in the Brand’s communication strategy”. Refined and elegant, this space in Milan, where a fascinating alternation of natural stone in shades of grey, warm tones of wood and modern details in metal can be admired, fully reflects the DNA of the brand established 1845 at Glashütte, Germany. Care for the smallest detail shows also in the profiles of the furniture that, polished and bevelled at a 45 degree angle, reflects the typical specificity of the components of the A. Lange & Söhne timepieces. On the walls, pictures and details of models and calibres bring to mind the multi-century history of the Brand, while a crystal showcase contains, like a jewel-case, the precious timepieces of one of the brands best loved by Haute Horologerie lovers.
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Chiara Pisa, Managing Director of Pisa Orologeria, has said: “As a result of a partnership established in 1994, we were the first in Italy to believe in the Brand’s potential and launched this fruitful cooperation. Some months after inauguration we can feel more than satisfied: A. Lange & Söhne have acquired even more visibility and importance within the Flagship Store. We can offer customers and 360° experience in discovering the Saxon brand: in terms of both purchases and knowledge about a brand that has an important story to tell”. The initiative has been a success with foreign clients who appreciate single-brand spaces as well as Italian customers who have welcomed this new centre with enthusiasm and curiosity. Brigida Ceresola, Brand Manager for Southern Europe, had added: “The importance of the boutique is underlined by the availability of exclusive limited editions; the «25th Anniversary» watches, for instance, are available exclusively at Lange boutiques.”
lifestyle
CRN Latona, bespoke nautical art
CRN LATONA, ARTE NAUTICA SU MISURA di Bruno Petronilli
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L’arte nautica di CRN trova la sua massima espressione nel superyacht Latona 50 metri, costruito su misura per realizzare i desideri di un Armatore selettivo e determinato. Ispirata allo storico ‘Superconero’ degli anni Sessanta, Latona segna il successo di una nuova collaborazione tra CRN e Zuccon International Project. Gli aspetti tecnici del progetto e le linee filanti dello scafo sono stati sviluppati dall’Ufficio Tecnico di CRN, mentre le linee esterne dello yacht sono state progettate dallo studio Zuccon International Project, che insieme all’Ufficio Interiors&Design del cantiere ha curato anche gli interiors e gli exteriors. Con i suoi 50 metri, quattro ampi ponti più un sottoponte, Latona è uno yacht dalle linee classiche e senza tempo, che valorizza lo stile e l’eleganza degli ambienti outdoor. Il fil rouge degli interiors è rappresentato dal mood Liberty, costante stilistica delle aree ospiti. La prua slanciata e gli ampi volumi interni ed esterni, impreziositi da spettacolari aree a picco sul mare, esaltano la bellezza senza fine di Latona. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
CRN’s nautical art has reached its highest expression with the 50-metre super-yacht Latona 50, built to measure to satisfy the wishes of a selective and determined Owner. Inspired by the historic ‘Superconero’ of the 1960s, Latona marks the success of a new collaboration between CRN and Zuccon International Project. The technical aspects of the design and the flowing lines were developed by the CRN Technical Office, while the yacht’s external lines were designed by the firm Zuccon International Project, that together with the shipyard’s Interiors&Design Office was also responsible for the interior and the exterior. With its 50 metres, four large decks plus an underdeck, the Latona yacht presents classical and timeless lines that enhance the style and elegance of the external areas. The fil rouge of the interior lies in the Liberty mood, a constant in the style of the guest areas. The soaring bow and the ample internal and external volumes, enhanced by spectacular terraces overlooking the sea, exalt the Latona’s timeless beauty.
Designed in concert with the Owner, the mega-yacht has been built and shaped to meet the request for utmost customisation made by the owner, who did not wish to relinquish a most authentic uniqueness. A uniqueness that is reflected also in the choice of colour for the hull: a precious turquoise nuance, whose intensity varies depending on the seabed and the waters being navigated. The Latona offers a number of outdoor areas: from the vast sundeck to the Mediterranean style of the chill-out area in the bow section of the yacht, from outdoor living and al fresco dining areas on the stern to the extraordinary terraces overlooking the sea and the exclusive tender bay on the lower deck. The latter provides a large open air lounge integrated with a beach club of over 80 sq. m., ideal for relaxing in the Turkish bath, decorated with custom-made mosaic, train in the fitness area, spend some time in the solarium and store the many toys, ideal for the whole family. Also, children can have fun in the indoor salty-water pool, beautified by a mosaic in blue and turquoise, where the tender can be moored during navigation. The Latona is a yacht with a strong personality that successfully combines the stylistic elements of the external lines with the functionality of outdoor and indoor areas, and the distinctive interior design. The shipyard’s knowledgeable and fine craftsmanship and that of its suppliers is expressed above all in the internal areas, designed on the basis of a careful study of the Mitteleuropean style of the 1920s. This style, indeed, lives on in the atmosphere in the entire interior, starting from the flooring with decorations chosen by the Owner, like the sophisticated dark brown embroidery that is the recurrent leit-motif on all the decks. Depending on the areas, this sinuous pattern is designed on the floors, on both marble and carpeting, and is also present on the internal spiral staircase’s curving bannister in dark American oak, creating an elegant contrast with the pale coloured wood panelling on the walls. The supple lines are a constant in the style that leads guests through the areas of the yacht, where furnishings too are characterised by curved and soft shapes and harmoniously merge with all the elegant and hand-made decorative items: from the lacquered doors with bas reliefs, that also present the a wavy motif, to the custom-made lamps in Murano glass and metal with patterns inspired by nature, from flowers to leaves, in perfect Liberty style. The great elegance of the interior is further enhanced by the American oak wood panelling with silver pickle finish. Each panel is unique, the result of masterful craftsmanship and decorated with fabrics chosen one by one by the Owner and wooden floral motifs, repeated also in the decorations of the ceiling-mounted spotlights in the master stateroom. The yacht can comfortably accommodate up to 10 guests in five cabins characterised by elegant details, in addition to quarters for 9 crew members, including the Captain. The exclusive master stateroom that takes up the entire width of the beam is a private oasis reserved exclusively to the owners and it is striking with its hand-made details, like the bed headboard in dark walnut and light blue velvet, the soft wavy lines of the furnishings and the bespoke white wool and silk carpeting embroidered in dark brown. There are four guest cabins on the lower deck: there are two VIP double cabins aft, decorated with fabric-lined wall panels, lacquered panels, mirrors giving depth to the interior and carpeting decorated with a motif resembling the waves of the sea, and two Twin cabins at the bow, one of which is furnished for young children with a bunk bed. The Latona is the highest expression of the technical and stylistic skills of a team that is both passionate and demanding, driven by the vision and passion of a selective and determined owner family. JAMESMAGAZINE.IT
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Progettato a quattro mani con il cliente, il megayacht è stato costruito e forgiato per soddisfare le richieste di massima personalizzazione del suo Armatore che non voleva rinunciare all’unicità più autentica. Unicità che si rispecchia anche nella scelta del colore dello scafo: una preziosa sfumatura turquoise, che varia di intensità a seconda del fondale e delle acque che si stanno navigando. Latona offre numerose aree outdoor: dal vasto sundeck dallo stile mediterraneo alla zona relax a prora nave, dalle aree living esterne e dall’alfresco dining a poppa alle straordinarie terrazze a picco sul mare fino all’esclusiva tender bay nel ponte inferiore. Quest’ultima crea un’ampia zona lounge open air integrata al beach club di oltre 80mq, ideale per rilassarsi nel bagno turco, decorato con un mosaico personalizzato, allenarsi nello spazio fitness, trascorrere il tempo nella zona solarium e stivare i numerosi toys, ideali per tutta la famiglia. Inoltre, i bambini possono divertirsi nella piscina indoor con acqua di mare, impreziosita da un mosaico dalle tonalità del blu e del turchese, dove è possibile ormeggiare il tender quando lo yacht è in navigazione. Latona è uno yacht dalla forte personalità, che combina felicemente gli stilemi delle linee esterne con la funzionalità degli spazi, esterni e interni, e il design distintivo degli interiors. La sapiente e raffinata artigianalità del cantiere e dei suoi fornitori trova la sua massima espressione nelle aree interne, la cui progettazione nasce da un attento studio dello stile mitteleuropeo degli anni ’20. Questo stile rivive infatti nel mood di tutti gli interiors, a partire dalle pavimentazioni con decorazioni scelte dall’Armatore, come il sofisticato ricamo dark brown, diventato il leit-motiv ricorrente su tutti i ponti. A seconda degli ambienti, questo motivo sinuoso viene declinato a terra, sia sui marmi sia sulle moquette, e ripreso anche nel corrimano curvilineo in rovere scuro della scala a chiocciola interna, creando un elegante contrasto con le boiserie chiare delle pareti. Le linee flessuose sono una costante stilistica che accompagna gli ospiti in tutte le aree dello yacht, dove anche gli arredi si distinguono per le forme curve e morbide e si fondono armoniosamente con tutti gli elementi di decoro ricercati e realizzati a mano: dalle porte laccate con bassorilievi, che ripropongono un motivo mosso, alle lampade custom in vetro di Murano e metallo con motivi ispirati alla natura, dai fiori alle foglie, in perfetto stile Liberty. La grande eleganza degli interni è ulteriormente impreziosita dalle boiserie in rovere con decappatura d’argento. Ogni boiserie è un pezzo unico, frutto della maestria artigianale e decorato con tessuti scelti uno ad uno dall’Armatore e motivi floreali lignei, ripetuti anche nella decorazione dei faretti nel cielino della suite armatoriale. Latona può ospitare comodamente fino a 10 ospiti in cinque cabine dai dettagli ricercati, oltre agli alloggi per 9 membri dell’equipaggio, incluso il comandante. L’esclusiva suite dell’Armatore, sviluppata su tutta l’ampiezza del baglio, è un’oasi privata ad uso esclusivo della coppia armatoriale e colpisce per i dettagli fatti a mano, come la testata del letto in noce scuro e velluto azzurro, le linee morbidamente ondulate degli arredi e la moquette bianca in lana e seta personalizzata con il ricamo dark brown. Sul ponte inferiore si trovano le quattro cabine ospiti: a poppa due cabine VIP matrimoniali, decorate con boiserie in tessuto, pannelli laccati, specchi che donano profondità all’ambiente e moquette con un motivo che ricorda le onde del mare, e a prua due cabine Twin, di cui una destinata ai bambini più piccoli con letto a castello. Latona rappresenta la massima espressione delle competenze tecniche e stilistiche di un team appassionato ed esigente, spinto dalla visione e dalla passione di una famiglia armatrice selettiva e determinata.
lifestyle
RANGE ROVER SPORT PHEV
Range Rover Sport PHEV, luxury is green
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di Carlo Mandelli
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
Imponente con stile, veloce e preciso, ibrido ma anche supercar. Se dovessimo riassumere in una sola frase le potenzialità della Range Rover Sport P400e HSE, probabilmente sarebbe la frase qui sopra, perché nessuno ha mai detto che un’autovettura ibrida non può essere pensata, progettata e costruita per raggiungere un punto così alto di potenza ed eleganza, con un occhio di riguardo all’ambiente e alla tecnologia che avanza. Se prima ancora di salire a bordo andiamo a guardare sotto al cofano dell’ibrida della casa inglese, la prima parola che viene in mente, è quella di ‘supercar’, nonostante il motore ibrido e il peso elevato, come non potrebbe essere diversamente per una Range Rover. La versione PHEV (sigla che sta per plug-in hybrid electric vehicle) del fuoristrada di Sua Maestà la Regina d’Inghilterra, rappresenta il primo veicolo ibrido plug-in in casa Land Rover, monta sotto al cofano il nuovo motore, denominato P400e, che abbina un 4 cilindri 2.0 litri a benzina Ingenium da 300 CV ad un motore elettrico da 116 (85 kW) per una potenza complessiva di 404 CV.
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Stylishly imposing, fast and accurate, a hybrid car but also a supercar. If we were to summarise in a single sentence the potential of the Range Rover Sport P400e HSE, we would probably use the sentence above, because no one has ever said that a hybrid vehicle cannot be imagined, designed and built to reach such a high peak of power and elegance, with an eye to the environment and advancing technology. If before getting into the car we take a look under the bonnet of the hybrid built by the British carmaker, the first word that comes to mind is ‘supercar’, in spite of the hybrid engine and the car’s considerable weight, as is inevitable for a Range Rover. The PHEV version (the acronym stands for plug-in hybrid electric vehicle) of the off-road vehicle of Her Majesty the Queen of England is Land Rover’s first plug-in hybrid vehicle, with a new engine under its hood called the P400e, that combines a 4-cylinder 2.0-litre Ingenium petrol engine for 300 hp with an electric engine for 116 (85 kW) for an overall power of 404 hp.
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Il risultato che gli ingegneri hanno ottenuto mischiando gli ingredienti, è quello del perfetto mix tra performance dinamiche e sostenibilità, con l’aggiunta del comfort di guida tipico di qualunque modello Range Rover. Per il versante green scelto da Land Rover, la lussuosa ibrida plug-in (ovvero ibrida e con la possibilità di essere ricaricata da una presa e non solamente con le fasi di decelerazione del motore convenzionale) ha una cinquantina di chilometri di autonomia massima in modalità 100% elettrica, anche se solamente con tutte le condizioni di strada e percorso favorevoli. La presa per la ricarica è invece posizionata nel frontale del SUV e la P400e può essere ricaricata in 2 ore e 45 minuti con la wallbox da 32 A, mentre sono necessarie sette ore e mezza se invece si utilizza il cavo fornito di serie da una comune presa casalinga. Diverse sono poi le modalità di guida che vanno dalla Eco alla Dynamic, passando da Confort e da tutte le altre varianti che fanno dell’ibrido inglese un vero e proprio fuoristrada capace di affrontare praticamente qualunque tipo di fondo stradale (o non fondo stradale). Il sistema Terrain Response 2 di Land Rover è calibrato per distribuire a tutte le quattro ruote - con precisione ed intelligenza - la coppia del motore elettrico, con quella massima disponibile già a zero giri/minuto. Questo assicura il miglior controllo durante le manovre in off-road a bassa velocità. Vista da fuori la Sport (PHEV) è un’auto che non passa inosservata per via delle dimensioni notevoli: 4,88 i metri in lunghezza, quasi 2 metri in larghezza e 1,80 metri in altezza. Il passo è lo stesso della Range Rover, ma la silhouette risulta decisamente più filante. Nonostante sia sulla breccia da qualche anno non appare invecchiata, nemmeno al cospetto della Velar che della Sport è considerata la sorella glamour. I montanti e il tetto verniciati in nero contribuiscono a rendere più leggero ed elegante l’insieme, mentre bisogna aprire il piccolo sportellino nascosto nella calandra per trovare le prese che svelano la sua natura ibrida plug-in. Una volta dentro la macchina, non manca niente di quello che ci si potrebbe aspettare da un veicolo di questa portata, a partire dal nuovo sistema di infotainment Touch Pro Duo, denominato ‘Blade’ dai suoi progettisti e abbinato a due touchscreen HD da 10”. Per il comfort, oltre all’Activity Key, sono previsti praticamente tutti i dispositivi che si possano volere su una macchina di questo tipo, comprese le tendine parasole a comando gestuale e l’Advanced Tow Assist che facilita il controsterzo richiesto per dirigere con precisione un rimorchio durante la retromarcia. Per essere poi proprio comodi nei grandi spostamenti non potevano mancare un sistema di ionizzazione dell’aria interna, luce ambientale in diverse tonalità, prese di corrente ovunque e la connessione Wi-Fi 4G per 8 dispositivi. L’abitacolo della Sport PHEV guadagna l’infotainment già visto sulla Velar, quindi la strumentazione digitale fa il pari con gli schermi che spiccano al centro della plancia. Il primo, quello in alto, è destinato all’infotainment, mentre quello in basso consente di gestire le varie modalità di guida, i sedili ed il climatizzatore. Adatta a qualunque tipo di esigenza in fatto di trasporto, la Soprt PHEV ha anche un bagagliaio di proporzioni decisamente elevate, con i suoi 780 litri utili. JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
La prima parola che viene in mente, è quella di “supercar” nonostante il motore ibrido e il peso elevato first word that comes to mind is ‘supercar’, in spite of the hybrid engine and the car’s considerable weight
The result the engineers have obtained by mixing ingredients is a perfect blend of dynamic performance and sustainability, with the comfortable driving that is typical of all Range Rover models. On the green side chosen by Land Rover, the luxurious plug-in hybrid (i.e. hybrid and with the option of plug-in charging and not only with conventional engine deceleration phases) has maximum autonomy of about 50 kilometres in the 100% electric mode, even if only with favourable road and route conditions. The location of the charge port is at the front of the SUV and the P400e takes 2 hours and 45 minutes to recharge with the 32 A wallbox, while it takes seven and a half hours when using the cable supplied as standard plugged into a normal domestic socket. There are then different ways of driving this car that go from Eco to Dynamic, passing through Comfort and all the other variations that make this English hybrid a real off-road vehicle capable of handling practically any kind of road surface (or non-road surface).
the new Touch Pro Duo infotainment system called ‘Blade’ by its designers and linked to two 10” HD touchscreens. As to comfort, in addition to the Activity Key, the car provides practically all the devices one might wish for in this kind of vehicle, including the gesture-controlled sunshades and the Advanced Tow Assist that makes it easier to counter-steer accurately when reversing with a trailer. For comfort, during longer journeys, there had to be an air ionization system, ambient lighting in different tones, electric sockets everywhere and Wi-Fi 4G connection for 8 devices. The cabin of the Sport PHEV has the infotainment systems already seen on the Velar, hence the digital instruments match the screens at the centre of the dashboard. The first one, the one at the top, is used for infotainment, while the lower one makes it possible to set the different driving modes, the seats and the air conditioning. Well-suited to all requirements in terms of transportation, the Sport PHEV also has a very large 780-litre boot. JAMESMAGAZINE.IT
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Land Rover’s Terrain Response 2 system is calibrated to distribute to all four wheels – accurately and smartly – the electric engine’s torque, with maximum power available already at zero revs/minute. This ensures excellent control during off-road low-speed manoeuvres. From the outside, the Sport (PHEV) model is a car that does not go unnoticed in view of its considerable size: 4.88 metres long, almost 2 metres wide and 1.80 metres high. It wheelbase is the same as the Range Rover’s, but its silhouette is definitely more streamlined. Although it has been at the forefront for some years it does not appear to have aged, not even compared to the Velar that, among the Sport versions, is viewed as a glamorous sister. The pillars and roof are painted in black and help make the car as a whole look lighter and more elegant, while the small flap hidden in the front grille needs to opened to find the port that reveals its plug-in hybrid nature. Once inside, there is all that can be expected from a car of this type, starting from
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Avete mai sentito parlare del genere di moto ‘Classic Enduro’? Se la categoria vi suona nuova è perché l’hanno inventata solo da poco, sulla linea di produzione della Moto Guzzi a Mandello del Lario, dove viene allestita pezzo per pezzo anche la nuova V85 TT. Non è una moto specialistica pensata esclusivamente per le strade bianche, ma non è nemmeno una moto solamente turistica, pensata per i lunghi trasferimenti sul tranquillo asfalto. La Moto Guzzi V85TT può essere tranquillamente collocata esattamente nel mezzo tra le due categorie: viaggi avventurosi sì, non per niente è ispirata ai primi rally corsi nei deserti africani, ma anche comodità e certezze del motore due cilindri a V trasversale. Dal passato delle spedizioni più avventurose, la nuova Moto Guzzi conserva il pedigree, ad esempio attraverso una delle colorazioni disponibili che è una citazione esplicita alla
MOTO GUZZI V85TT
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di Carlo Mandelli
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livrea delle moto di Mandello che corsero la Dakar del 1985. Dalle esperienze dei rally di allora, Moto Guzzi ha preso ispirazione cercando l’essenzialità, la facilità e la praticità, tutte caratteristiche iconiche delle moto da enduro degli anni Ottanta. Si sbaglierebbe, però, chi pensasse che la V85TT è una moto per nostalgici, anzi, non lo è per niente. Osservandola, al primo sguardo attrae il parafango alto che fa anche da ‘becco’, dettaglio diventato praticamente d’obbligo in questa categoria di moto. Il posteriore snello e valorizzato dal traliccio del portapacchi e, osservandola più da vicino, si notano tanti particolari degni di nota e che creano l’unicità della nuova arrivata nella casa lariana, come le prese d’aria sul serbatoio, il gruppo ottico anteriore con la luce di posizione ad aquila (simbolo della Moto Guzzi) o quella posteriore a effetto 3D.
Have you ever heard about a kind of motorcycle called a ‘Classic Enduro’? If the category sounds new to you this is because it was only recently invented, in connection with the Moto Guzzi production line at Mandello del Lario, where the new V85 TT too is assembled part by part. It is not a specialist motorcycle designed exclusively for dirt tracks, nor is it strictly a motorcycle for tourism, designed for long journeys along smooth tarmac. The Moto Guzzi V85TT can in fact be placed exactly halfway between the two categories: adventurous travel, yes, indeed it has been inspired by the early rallies across African deserts, but also comfort and the reliability of the V two-cylinder transverse engine. From a
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the eagle flies high
past full of adventurous expeditions, the new Moto Guzzi has maintained its pedigree, for instance in the colour schemes that explicitly refer to the livery of the Mandello bikes that competed in the 1985 Dakar race. From the rally racing experiences of those days, Moto Guzzi has drawn inspiration in seeking a simple style, ease and practicality, all iconic features of the enduro bikes of the 1980s. It would be wrong, however, to think that the V85TT is a bike for the nostalgic because, on the contrary, it simply is not. At first sight, one is attracted by the mudguard that also acts as a “beak”, a detail that has practically become a must in this motorcycle category. The slim design of the rear is enhanced by the structure supporting the top box and, taking a closer look, one will notice a number of details worthy of note that create the uniqueness of this latest product of the Lario maker, like the air intakes on the petrol tank, the front headlight assembly with the position light in the shape of eagle (the Moto Guzzi symbol) or the rear one with a 3D effect.
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Diversa dal mucchio e bella, nella sua particolarità, questa V85TT cha ha tutto quello che serve per piacere anche ai motociclisti più esigenti in termini di tecnologia alla guida. Il centro nevralgico della V85TT non poteva che essere il bicilindrico a V, trasversale di novanta gradi. Il raffreddamento è ad aria, e la distribuzione ad aste e bilancieri. Le valvole sono sempre due per cilindro come tradizione per i motori Guzzi, ma sono in titanio, materiale solitamente destinato alle moto da competizione. Con diversi accorgimenti, a Mandello del Lario sono riusciti ad ottenere un motore più leggero e capace di raggiungere regimi di rotazione più alti. Il nuovo motore 850 è in grado di erogare 80 cavalli di potenza massima, contro i 55 del suo predecessore. Quando si gira la manopola dell’acceleratore, il motore sale rapidamente di giri, più di qualsiasi motore uscito dalla fabbrica Moto Guzzi fino ad oggi. La V85TT è anche una moto ‘facile’ perché mette a proprio agio fin dai primi metri, complice la ciclistica agile delle ruote da 19 pollici all’anteriore e da 17 al posteriore, come giusto compromesso tra la guidabilità sull’asfalto e il controllo sullo sterrato. Un aiuto arriva anche dall’elettronica di bordo, che prevede tre differenti modalità di guida: strada, pioggia e off-road. A ognuna di queste opzioni corrisponde una diversa mappa del motore e una taratura del controllo di trazione e dell’ABS, oltre ad una diversa risposta del comando dell’acceleratore. Non manca nemmeno il cruise control, in grado di mantenere la velocità impostata senza agire sull’acceleratore. Tutti i parametri di viaggio possono essere tenuti sotto controllo attraverso la strumentazione digitale dotata di display TFT, con sfondo e colore dei caratteri che si adattano alle differenti condizioni di luce, tramite un sensore integrato. Accanto al display si trova una porta Usb mentre la predisposizione per una seconda porta è prevista sotto la sella. Non da ultimo, sulla V85TT debutta anche la piattaforma Moto Guzzi Mia, che permette di collegare alla moto il proprio smartphone per estendere le funzioni della strumentazione, permettendo di riprodurre musica, telefonare tramite l’interfono nel casco e soprattutto attivare il navigatore satellitare: una volta impostata sullo smartphone la destinazione del proprio viaggio, le indicazioni verranno mostrate direttamente sul pannello della strumentazione. Moto Guzzi V85 TT viene proposta in diverse varianti grafiche: tre colorazioni da città Grigio Atacama, Blu Atlante e Rosso Vulcano, oltre a due colorazioni più evocative del passato fuoristradistico del marchio come il Giallo Sahara e Rosso Kalahari, abbinate alla verniciatura rossa del telaio e a parasteli della forcella in tinta col serbatoio.
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Different from most and beautiful in its specificity, this V85TT that has all it takes to please the most demanding bikers in terms of riding technology. The nerve centre of the V85TT could only be a transverse 90° V twin. It is air cooled with shaft drive transmission. There are always two valves per cylinder as is the tradition for Guzzi engines, but they are made of titanium, a material generally used for racing bikes. By different techniques, at Mandello del Lario they have succeeded in making a lighter engine capable of reaching higher rotation speeds. The new 850 cc engine can generate a maximum power of 80 hp, against the 55 of its predecessor. Rotating the accelerator handgrip, the engine revs increase very rapidly, more than any other engine made so far by Moto Guzzi. The V85TT is also an “easy” motorcycle because it gives you a sense of ease as soon as you start off, thanks to the agile travel structure of the 19” wheels in front and 17” at the rear, as a good compromise between driveability on tarmac and control on dirt tracks. The on-board electronics are also helpful and envisage three different riding modes: road, rain and off-road. For each of these options there is a different engine mapping and calibration of traction control and ABS, in addition to a different response from the throttle. It even has cruise control that keeps the bike at a set speed without any action on the throttle. All the riding parameters can be monitored through the digital instrumentation that has a TFT display, with background and character colours that adjust to different light conditions through an integrated sensor. Next to the display there is a Usb port and there is the option of a second port under the saddle. Last but not least, the V85TT also presents the new Moto Guzzi Mia platform that allows riders to connect their motorcycle to their smartphone to expand the instruments’ functions, making it possible to listen to music, make phone calls through the intercom system in their helmet and, above all, activate a GPS navigator: once the rider’s destination has been set up on his smartphone, directions will appear on the instrumentation display. Moto Guzzi V85 TT is offered with different graphic elements: three urban colours, Grigio Atacama, Blu Atlante and Rosso Vulcano, in addition to two colours that are more evocative of the brand’s off-road past like Sahara Yellow and Kalahari Red, combined with the red painted chassis and the fork protectors painted the same colour as the petrol tank.
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Painting the Stage, tre edizioni di pregio, incastonate in una scultura firmata da Mario Botta e impreziosite da acquatinte e litografie numerate e autenticate da tre incredibili artisti: William Kentridge, Ilya e Emilia Kabakov e Jan Fabre.
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L’opera Con una storia dell’opera lirica del Novecento - da un punto di vista completamente originale e interdisciplinare - Denise Poray-Wendel ci descrive il complesso e ricchissimo mondo dell’arte contemporanea legato alle installazioni operistiche. Più di 250 immagini, interviste con i nomi più importanti della storia dello stage design, e un’accurata ricostruzione storica compongono l’opera più completa mai realizzata sull’argomento. In questa versione Limited Skira, l’opera è di per sé stessa un’opera d’arte contemporanea: racchiusa in una scultura lignea progettata e firmata dall’architetto Mario Botta, rivestito con uno speciale tessuto purpureo, il libro è affiancato da una litografia numerata e firmata tirata in un numero limitatissimo di copie. Le quattro versioni si distinguono per il legno della scultura e, soprattutto, per la litografia che accompagna il libro: le due acquatinte di William Kentridge sono contenute in una scultura in legno di frassino, la litografia di Ilya ed Emilia Kabakov da un legno di noce americano, e quella di Jan Fabre da una in rovere. Mario Botta ha progettato e firmato la scultura che è stata prodotta da Riva1920. Ogni litografia, legata a un’opera trattata in Painting the Stage, è stata numerata e firmata di pugno dagli artisti stessi. Abbiamo incontrato a Milano i protagonisti di questa Limited Edition, a cominciare da Massimiliano Pagani, project manager Skira.
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Com’è nata l’idea di una Limited edition così complessa e ricca? Il progetto libro era in casa editrice da almeno cinque anni. Si trattava di un libro che ha richiesto un’enorme lavoro di ricerca e riedizione, con contenuti che crescevano progressivamente a creare un’opera unica sul mercato editoriale, un resoconto dell’intreccio creativo tra arte musica e teatro contemporaneo. Parlando con l’autrice, Denise Wendel-Poray, William Kentridge sottolineò che un’opera così importante doveva poter essere arricchita da vere e proprie opere d’arte e contribuì creando due set di aquatinte ideate esclusivamente per il progetto. Quando pensammo a valutare al meglio questo contributo artistico preziosissimo, venne naturale pensare a una rappresentazione a tutto tondo del contenuto del libro. Cercammo di ricreare l’entusiasmo e la sorpresa dello spettatore che assisteva per la prima volta alla rappresentazione di Lulu, opera di Berg a cui Kentridge ha dato un contributo artistico immenso. Ricreare un piccolo palcoscenico, utilizzare il libro come contenuto musicale/visivo sostenuto dalle opere d’arte è stato il risultato di questa idea. Fabre e Kabakovs sono entrati nel progetto gradualmente, sempre grazie a Denise, Mario Botta è stata una scelta obbligata essendo un architetto con il raro dono di sapersi esprimere al meglio sia nella progettazione di un teatro d’opera che nell’ideazione di oggetti di design di altissima qualità.
Painting the Stage, three prestigious editions set in a sculpture by Mario Botta and embellished by aquatints and lithographs numbered and authenticated by three incredible artists: William Kentridge, Ilya and Emilia Kabakov and Jan Fabre.
by SKIRA Mario Botta designed and signed the sculpture produced by Riva1920. Each lithograph linked to a work considered in Painting the Stage has been numbered and signed by the artists themselves. We met the protagonists of Limited Edition in Milan, starting with Massimiliano Pagani, the Skira project manager. How was the idea of this complex and rich Limited edition born? The book project had been with the publisher for at least five years. It was a book that had required a huge amount of research and new editions, with its content growing progressively and creating a work that is unique on the publishing market, an account of the creative interconnections between art, music and contemporary theatre. Talking to the author, Denise Wendel-Poray, William Kentridge pointed out that it should have been possible to enrich such an important work with actual works of art and he offered his contribution by creating two sets of aquatints specifically for this project. When we considered how best to assess this extremely valuable artistic contribution, it was natural for us to think of a comprehensive presentation of the book’s content. We tried to re-create the enthusiasm and surprise felt by spectators who see for the first time a performance of Lulu, Berg’s opera to which Kentridge made a huge artistic contribution. Re-creating a small stage, using the book as musical/visual content supported by works of art was the outcome of this idea. Fabre and the Kabakovs joined the project gradually, again thanks to Denise, and Mario Botta was the inevitable choice given that he is an architect with the rare gift of knowing how to best express himself both in theatre design and in the creation of very high quality designer items. JAMESMAGAZINE.IT
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di Bruno Petronilli
The opera With her history of 20th century opera – from a completely original and interdisciplinary viewpoint - Denise Poray-Wendel describes for us the complex and incredibly rich world of contemporary art linked to opera installations. Over 250 images, interviews with the leading names in the history of stage design, and an accurate historical reconstruction
make up the most comprehensive ever work on this subject. In this Limited Skira version, opera is in itself a contemporary work of art: enclosed in a wooden sculpture designed and signed by the architect Mario Botta, covered in a special purple fabric, the book is accompanied by a numbered and signed lithograph published in a very limited number of copies. The four versions differ in the wood used for the sculpture and, above all, the lithograph sold with the book: William Kentridge’s two aquatints are set in a sculpture made of ash wood, Ilya and Emilia Kabakov’s lithographs in American walnut wood, and Jan Fabre’s in American oak wood.
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La Limited edition Painting the stage è composta da una scultura lignea firmata dall’architetto Mario Botta in tre varianti di legno. Ciascuna edizione contiene l’opera grafica di un artista contemporaneo: Fabre, Kentidge, Kabakovs. Cosa ha influenzato la scelta dei tre artisti selezionati per le opere grafiche? Come detto Botta è stata quasi una scelta obbligata. Serviva avere un contributo che fosse non solo competente dal punto di vista teatrale/operistico, ma soprattutto impareggiabile dal punto di vista dell’oggettistica di qualità, di arredo. Botta è perfetto per questo. Kentridge è colui che ha dato vita al progetto limited, come sottolineato. Anche altri artisti avrebbero potuto essere coinvolti, ma Fabre e Kabakov sono stati i primi a rispondere entusiasticamente alla nostra proposta. Inutile sottolineare come tutti i nomi presenti nel libro sono di caratura internazionale e di livello artistico eccellente. La scelta poteva cadere su chiunque senza impoverire il progetto finale.
The Painting the stage Limited edition is made up of a wooden sculpture signed by the architect Mario Botta in three different types of wood. Each edition contains a graphic work by a contemporary artist: Fabre, Kentidge, the Kabakovs. What influenced the choice of these three artists chosen for their works? As pointed out, Botta was an almost inevitable choice. It was essential to have a contribution that was not only knowledgeable from a theatrical/operatic point of view but, above all, unparalleled in terms of quality objects and furnishings. Botta is perfect for this. Kentridge is the one who gave life to the ‘limited’ project, as mentioned. Other artists could also have been involved, but Fabre and Kabakov were the first to respond enthusiastically to our proposal. Needless to say, all the names in the book are of international standing and of an excellent artistic level. Others might have been chosen without impoverishing the final project.
La scultura lignea ideata da Mario Botta può essere considerata una “quinta” per l’opera grafica, ma è essa stessa un’opera d’arte. Com’è nata l’idea e la collaborazione tra l’architetto Botta e Skira? Abbiamo tentato. Il rapporto tra Skira e Botta è di lunga data e caratterizzato da importanti pubblicazioni. Una volta giunti al punto di approvare il progetto “teatrale” della limited, rivolgerci allo studio Botta è stata una scelta naturale e quasi obbligata.
The wooden sculpture created by Mario Botta can be considered a “backdrop” for the graphic works, but is in itself a work of art. What led to the idea and the cooperation between Architect Botta and Skira? We made the attempt. The relationship between Skira and Botta dates back a long time and has been characterised by important publications. Once we had reached the point of approving the ‘Limited’ theatre project, it came naturally and was almost inevitable for us to contact Botta’s firm.
JAMES MAGAZINE 03 | MAG 2019
We now turn to Mario Botta and ask him to illustrate his work for us. I was asked to give my support to the book, an element, as sort of lectern capable of highlighting the pages, with one specific constraint: to provide both the presentation of the book cover and the presentation of a graphic work, whether an etching or a lithograph. So I worked on this double presentation, in both regards, a frame that could support the book itself and the images that were to be presented.
Una scultura che gioca con i piani, le superfici e anche con la finitura del legno: qual è il percorso, personale e professionale, che l’ha portata a realizzare quest’opera? Ho curato numerosi allestimenti di opere grafiche, di quadri, di pitture. Di volta in volta si pone il problema della cornice o del supporti. In questo caso ci è sembrato interessante sia il doppio uso dell’oggetto, sia il fatto che potesse essere visto da entrambi i lati e mostrare, contemporaneamente, due cose diverse. Quindi volevamo che le cornici dei due lati non fossero uguali ma risultassero simili, dello stesso genere. Questo percorso ci ha fatto pensare che fosse una buona occasione usare legni pregiati e mostrare la grande diversità dello stesso oggetto, della stessa forma, della stessa plastica cambiando materiale e giocando con tre essenze diverse.
A sculpture that plays with planes, surfaces and also the finishing of the wood: what has been the personal and professional route that led you to creating this work? I have designed the layout for a number of exhibitions of graphic arts, pictures and paintings. Frames or supports are always a problem. In this case what seemed interesting to us was the double use made of the object as well as the fact that it was to be seen from both sides showing, at the same time, two different things. So we wanted the frames not to be identical on the two sides but similar, of the same type. This led us to think that it would be a good opportunity to use fine wood and show the great diversity of the same object, the same shape, the same plasticity by changing the material and playing with three different kinds of wood.
Perché il legno? Il legno perché è più famigliare all’opera grafica. Il legno ha sempre accompagnato nella storia le opere bidimensionali, e sceglierlo mi è sembrato importante per legarmi a una lunga storia, quella dell’uomo e dell’arte, in cui le opere d’arte assumono un carattere, una loro valorizzazione proprio attraverso quel “limite” che serve a far sì che l’occhio del fruitore sia canalizzato sull’opera stessa.
Why wood? Wood because it is most familiar in graphic works. Wood has always in history been combined with bi-dimensional works and it seemed important to choose it in order to establish a connection with the long history of men and art, in which works of art take on a personality, are enhanced through the “limit” that ensures that the eye of the viewer is channelled onto the work itself.
Lei lavora e si rapporta con le grandi dimensioni di un edificio in un contesto cittadino: com’è stato, invece, pensare a progetto piccolo e immaginarselo in una casa? Mi è piaciuto moltissimo perché, al di là del lavoro di progettazione urbanistico e architettonico, io mi sono sempre confrontato con l’oggetto d’uso domestico, quell’oggetto in molti casi anonimo che però fa da compagnia, da arredo, fa da complemento all’arredo stesso. Portafotografie, sgabelli, sedie, lampade hanno sempre accompagnato la storia dell’uomo. In questo caso è stato ancora più interessante, perché questi oggetti devono parlare della sensibilità, anche artistica e del gusto propri della cultura del nostro tempo.
You work and deal with large-sized buildings in a city environment: what was like, instead, to think about a small project and imagine it in your house? I really enjoyed it because, aside from my urban design and architectural work, I have always been interested in household objects, objects that are often anonymous but keep us company, furnish the house, are accessories to the furnishings themselves. Photograph frames, stools, chairs, lamps have always been part of the history of man. In this case, it was even more interesting because these objects are to express the sensitivity, also artistic, and the taste that is typical or our times.
E’ interessante che sia il lavoro di un architetto a valorizzare quello di un artista: qual è, secondo lei, il rapporto tra arte e architettura nel 2019? Il ‘900 è stato il secolo che ha meglio precisato il rapporto tra il fruitore, l’utilizzatore e l’opera d’arte. Se pensiamo al Bauhaus e alla sua scuola, ha generato e gemellato una serie di elementi, anche scultorei e scenografici, che sono sempre andati a impreziosire le opere di Klee, per esempio, e dei maestri del movimento moderno. Hanno creato delle nuove e inedite cornici (chiamiamole così, per approssimazione) che hanno, di volta in volta, interpretato anche la maniera astratta dei i loro colleghi pittori, compagni di strada per la ricerca di una nuova bellezza.
It is interesting that it is the work of an architect that enhances that of an artist: what is, in your view, the relationship between art and architecture in 2019? The 20th century was the century that best specified the relationship between the viewer, the user and the work of art. If we think about Bauhaus and his school, it generated and twinned a series of elements, even sculptures and set designs that always embellished the works of Klee, per example, and of the masters of the modern movement. They created new and innovative frames (let us use this word, by approximation) that, on different occasions, interpreted even the abstract style of their fellow painters, travel companions in the search of a new beauty
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Ci rivolgiamo ora a Mario Botta a cui chiediamo di introdurci il suo lavoro. Mi hanno chiesto di fornire un appoggio del libro, un elemento, una sorta di leggio capace di evidenziarne le pagine, con un limite preciso: quello di fornire sia la presentazione della copertina del libro sia la presentazione di un’opera grafica, incisione o litografia che fosse. Quindi ho lavorato su questa doppia esposizione, da un lato e dall’altro, una cornice che facesse da supporto al libro stesso e alle due immagini che si vogliono presentare.
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PAINTING THE STAGE BY SKIRA 4 BOX
Painting the Stage Kabakovs 60 Sculture in noce contenenti le litografie numerate da 1 a 60 dei Kabakovs The Flies. A Musical Phantasmagoria Scultura Botta Noce 40 x 40 x 15 cm Litografia 34 x 29 cm
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60 walnut sculptures containing the lithographs numbered from 1 to 60 by the Kabakovs The Flies. A Musical Phantasmagoria Sculpture Botta Walnut 40 x 40 x 15 cm Lithograph 34 x 29 cm
Painting the Stage Fabre 60 Sculture in rovere contenenti le litografie numerate da 1 a 60 di Fabre 3 Helm van Tannhäuser Scultura Botta rovere 40 x 40 x 15 cm Litografia 29 x 34 cm 60 Sculptures in American oak containing the lithographs numbered from 1 to 60 by Fabre 3 Helm van Tannhäuser Sculpture Botta American oak 40 x 40 x 15 cm Lithograph 29 x 34 cm
Painting the Stage Kentridge / Alban 30 Sculture in frassino contenenti le acquatinte numerate da 1 a 30 di Kentridge versione Alban Scultura Botta frassino 40 x 40 x 15 cm Acquatinta 29 x 34 cma
Painting the Stage Kentridge / Lulu 30 Sculture in frassino contenenti le acquatinte numerate da 1 a 30 di Kentridge versione Lulu Scultura Botta frassino 40 x 40 x 15 cm Acquatinta 29 x 34 cm
30 Sculptures in ash wood containing the aquatints numbered from 1 to 30 by Kentridge version Alban Sculpture Botta ash wood 40 x 40 x 15 cm Aquatint 29 x 34 cm
30 Sculptures in ash wood c ontaining the aquatints numbered from 1 to 30 by Kentridge version Lulu Sculptura Botta ash wood 40 x 40 x 15 cm Aquatint 29 x 34 cm
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