James Magazine - Issue n.4 - 2019

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N. 04 . A. II . 09.2019 COPIA OMAGGIO I

1729

champagne Bruno Petronilli

RUINART, LA “STORIA” DELLO CHAMPAGNE

Ruinart, the “history” of champagne

food Andrea Grignaffini

PASTA, IL TRIONFO DELLA FORMA Pasta, the triumph of shape

wine Giulia Nekorkina

ROMA, LE TERRAZZE PIÙ BELLE DEL MONDO

Rome, the most beautiful terraces in the world

travel Giovanni Angelucci

FELICI IN LITUANIA Happy in Lituania


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di Bruno Petronilli

DELLE BUONE DIPENDENZE Addicted to something good

Ho smesso di fumare. “Informazione preziosa ma del tutto personale” direte voi. E invece questo semplice e banalissimo, ancorché salutare atto di una persona, può riguardare un po’ tutti. Il vizio del fumo (ovviamente quello delle “ignobili sigarette”, non quello del “nobile sigaro”, che invece continuerà a vedermi convinto proselite per molti anni) è una delle dipendenze più difficili da sconfiggere. Superiore a qualunque altra dipendenza, sostengono alcuni. Confermo che sia difficilissimo, quasi impossibile. Almeno per me. Ma cos’è una dipendenza in sostanza? Un tiranno, un padrone assoluto, che ti tiene sulla sua mano come un giocattolo, che può farti fare quello che vuole. Per decenni la sigaretta è stata la mia compagna di vita, sempre al mio fianco, pronta a calmarmi i nervi, a darmi manforte, a supportarmi nei momenti difficili. Il problema è che lo faceva divorandomi dall’interno, inquinando i miei organi, la mia mente, la mia capacità di arbitrio e autocontrollo. Quando un fumatore è consapevole di questo lugubre aspetto, quando riesce finalmente a vedere la sigaretta come un verme viscido che si nutre del nostro cervello e del nostro cuore, è a buon punto per smettere, ma ancora non è certamente fuori. Ogni fumatore è convinto, in fondo, che fumare faccia malissimo. Ma chiude gli occhi e fa una tirata, quel fumo denso e catramoso placherà la sua ansia. Per raggiungere questa consapevolezza ho deciso di chiedere aiuto, c’è un limite che anche un fumatore incallito ad un certo punto raggiunge. Ma non basta per smettere. Ora vi apparirà chiaro perché ho dedicato questo editoriale ad un aspetto così apparentemente personale della mia vita. Sto elaborando il lutto, semplice. Non sono certo di esserne uscito, e forse il futuro mi farà ripiombare nell’abisso di un vizio stupido, inutile, economicamente folle, che ti imbratta la vita e la mente di una puzza indescrivibile. Ma forse, se mi guardo dentro, ne sono proprio fuori. Forse ho capito che ad una dipendenza ridicola ne ho sostituita un’altra, sublime e meravigliosa. E’ il pensiero di star bene, di sentirmi meglio, di volermi bene. La consapevolezza di una scelta difficile ma giusta, per me e per chi mi ama. Amare e amarsi è la dipendenza più bella che ci sia. E non riguarda solo me, riguarda tutti noi. Se facessimo dipendere le nostre scelte quotidiane dalla perseveranza per il benessere generale e non dall’egoismo personale, dal culto del bello e non dalla facile ferocia della mediocrità, dalla legge di una coscienza comune e non individuale, forse questo mondo sarebbe migliore. E sicuramente meno maleodorante di quello che vivo ogni giorno. Voglio essere ottimista, almeno sugli odori che sentirò in futuro. Il pessimismo, infatti, è una dipendenza forse peggiore di una ripugnante sigaretta.

I have quit smoking. “This is valuable information, but totally personal”, you might say. As a matter of fact, such an individual action - as common and trivial as it is healthy - might be of some interest to each of us. The addiction to smoking (of course I am speaking here of “ignoble cigarettes”, not of the “noble cigar”, which I intend to enthusiastically pursue for many years) is allegedly one of the most difficult to drop. More than any other addiction, somebody has said. I can confirm that it is difficult, almost impossible…at least for me. What is an addiction, though? It’s like having a tyrant, an absolute ruler, holding you as if you were a toy, and able to make you do anything. For decades the cigarette has been my life companion, always by my side, ready to soothe my nerves, to support me, to help me out at difficult times. The problem is that it was also eating me up from inside, polluting my body, my mind, my ability to decide and control my actions. Once a smoker has become aware of this repellent fact, once one is finally able to see the cigarette as a slimy worm feeding on our brain and our heart, it means that you have gone a long way towards quitting, but you are definitely not out of the woods. When all is said and done, every smoker is aware that smoking is bad. Nevertheless they turn a blind eye, waiting for that dense and tarry smoke to quell their anxiety. To achieve such awareness, I have decided to ask for help: there is a limit which even the most strongly addicted smoker will reach. It’s not enough to quit, though. It should now be clear to you why I have dedicated this editorial to such an apparently personal aspect in my life: I am grieving, it’s that simple. I’m not sure if I’m home and dry yet; maybe in the future I will plunge once again into the abyss of a silly, pointless, economically insane addiction, which fills your life and mind with an indescribably bad smell. In actual fact, if I look at myself, maybe I am home and dry after all. I have possibly understood that I have replaced a ridiculous addiction with another one, sublime and wonderful. I mean the thought of feeling well, of caring about myself. I am aware that the choice I have made is hard, but it is the right one for me and those who love me. To love others and oneself is the best addiction there is. And it is not just true for me: it applies to everyone. If all the choices we make every day were based on the pursuit of the common good rather than on individual selfishness, on worshipping beauty rather than the easy ferocity of mediocrity, on the law of a shared and not individual conscience, then maybe the world would be a better place. It would certainly be less malodorous than the one I live in every day. I intend to be optimistic, at least regarding what I will smell in the future. Indeed, pessimism is possibly an even worse addiction than a repugnant cigarette.



N. 04 . A. II . 09.2019

dorina palombi sofia landoni

andrea grignaffini alberto del giudice

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hanno collaborato contributors

Hanno collaborato Contributors Giovanni Angelucci Luca Bonacini Alberto Del Giudice Eleonora Galimberti Manlio Giustiniani Andrea Grignaffini Sofia Landoni Valentina Macciotta

Carlo Mandelli Alessandra Meldolesi Giulia Nekorkina Dorina Palombi Bruno Petronilli Alex Pietrogiacomi Gualtiero Spotti Stefano Tesi Silvia Ugolotti


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Grenada, i Caraibi che non ti aspetti

“Vivere” la Franciacorta

Giovanni Angelucci

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Giovanni Angelucci

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Felici in Lituania

Rare le secret, l’intuizione di Camus

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Mandarin Oriental Hyde Park, splendore ritrovato tra lusso e mindfullness

Bruno Petronilli

Bruno Petronilli

Ruinart, la “storia” dello champagne

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Manlio Giustiniani

Collard-Picard, matrimonio Champenoise

24

Andrea Grignaffini

Pasta, il trionfo della forma

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Alessandra Meldolesi

Non minus ultra: la regola di Niko

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Gualtiero Spotti

Ana Roš: tra tradizione e ribellione

Eleonora Galimberti

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Bruno Petronilli

Monte Mulini, fascino e bellezza in Croazia

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Bruno Petronilli

Gradonna, mountain resort da sogno

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Dorina Palombi

Tullum: archeologia d’Abruzzo al calice

70

Alberto Del Giudice

I “Capolavori” delle Langhe

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Seychelles, “isole” e paradiso

Wine tour in Moldova

Valentina Macciotta

Silvia Ugolotti

Sofia Landoni

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Giulia Nekorkina

Roma, le terrazze più belle del mondo

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Alex Pietrogiacomi

Fiume, 500 giorni di rivoluzione

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Stefano Tesi

L’Aja e il Panorama Mesdag

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Dorina Palombi

Emanuel Gargano: luce, ombra, Umbria

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Luca Bonacini

Il fascino senza tempo della macchina da scrivere

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Carlo Mandelli

Viaggio al Camp Jeep, tra nuovi Gladiatori, natura e 4x4

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Carlo Mandelli

BMW R2015R: divertimento “assicurato”


champagne

Régis Camus, Chef de Cave di Rare Champagne, oltre ad essere uno straordinario wine maker, è anche un uomo d’incredibile intuito. E la sua deliziosa perspicacia l’ha portato a creare lo Champagne più prezioso al mondo. Rare Le Secret Fine Jewellery Edition è, infatti, lo Champagne più costoso dell’universo, con un prezzo che supera i 140.000 euro a bottiglia. Un’edizione limitatissima, impreziosita dalla creazione di Madame Laure-Isabelle Mellerio, destinata a pochi fortunati. Ma per quanto sia un sogno “impossibile”, Le Secret è anche offerto in una versione priva del gioiello della Maison Mellerio, e confessiamo subito di aver degustato uno champagne di assoluto fascino e suggestione. La storia di Rare Champagne inizia negli anni ’70 e ad oggi è stato prodotto solo in pochissime annate. Régis Camus decise un giorno di “dimenticarsi” in cantina circa mille Magnum di Champagne annata 1997 e sono le uniche che non avranno mai un dosaggio. Quando anni dopo Règis ne assaggiò una si convinse di avere tra le mani qualcosa di incomparabile. Era troppo tardi per commercializzarla come le altre annate ed ecco l’idea di creare un prodotto eccezionale assieme a Madame Mellerio, ultima generazione della storica e più antica gioielleria del mondo. Entrambi gli antenati delle due aziende crearono “gioielli” per la Regina di Francia Maria Antonietta: l’affinità elettiva c’era, bisognava solo celebrarla insieme.

RARE LE SECRET

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Rare Le Secret Fine Jewellery Edition è una magnum di Champagne vergata da un gioiello unico, cesellato in oro, diamanti, zaffiri, rubini e smeraldi. L’emozione che abbiamo provato sfiorando la bottiglia è pari a quella che abbiamo vissuto degustando il contenuto. Ogni Champagne Rare vive delle luminosità dello Chardonnay, al cui fascino, in percentuale minore, contribuisce il Pinot Nero. E durante la nostra indimenticabile serata il 1997 non è stato l’unico memorabile ricordo. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

di Bruno Petronilli


Régis Camus, Chef de Cave at Rare Champagne, as well as being an extraordinary Chef de Cave, is also a man with extraordinary intuition, and his wonderful perceptiveness has led him to creating the most valuable Champagne in the world. Rare Le Secret Fine Jewellery Edition is, indeed, the most expensive Champagne in the universe, costing more than 140,000 euro per bottle. A very limited edition, embellished by the creativity of Madame Laure-Isabelle Mellerio, destined to a lucky few. However, although it is an “impossible” dream, Le Secret is also available in a version without the jewel by the Maison Mellerio, and we admit from the outset that we have tasted a champagne of total fascination and charm. The history of Rare Champagne started in the 1970s, and to date it has been produced only in a very few vintage years. Régis Camus, one day, decides to “forget” in the cellar about one thousand Magnum bottles of 1997 Champagne, and these are the only ones which will ever have a dosage. Years later Regis tasted one and realised that he was holding something incomparable in his hands. It was too late to sell it the same as other vintages, so the idea was to create an exceptional product in partnership with Madame Mellerio, the last generation of the historic and most ancient jewellers’ family in the world. Both ancestors of the two companies creates “jewels” for the Queen of France Marie Antoinette: the elective affinity was there, all you needed to do was celebrate it together. Rare Le Secret Fine Jewellery Edition is a Champagne magnum with a unique jewel, chiselled in gold, diamonds, sapphires, rubies and emeralds. The excitement we felt as we stroked the bottle equals what we experienced as we tasted its content. Each Champagne Rare shares the light of Chardonnay, to whose fascination – to a smaller extent - Pinot Noir contributes. And during our unforgettable evening, 1997 was not the only memorable experience. JAMESMAGAZINE.IT

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Régis Camus / Laure-Isabelle Mellerio

Rare Le Secret, the Camus intuition


Prodotto solo in magnum sfodera una straordinaria mineralità, aromi di frutta bianca, fiori gialli, note di miele d’acacia e frutta secca. Una notevole complessità che ritroviamo al palato, in cui il sorso è corposo e morbido, moderatamente acido, molto fine e raffinato, a tratti di profonda opulenza. Il dosaggio a 9 g/l rende l’assaggio più vellutato rispetto alle altre annate.

RARE CHAMPAGNE 2006

Produced only in magnum bottles, it has extraordinary minerality, aromas of white fruits, yellow flowers, notes of acacia honey and dried fruits. A remarkable complexity which we find in the palate, whose full-bodied and soft sip is moderately sour, very fine and refined, profoundly opulent at times. The 9 g/l dosage makes its tasting much more velvety compared to other years.

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Anche qui una fusione incredibile di sensazioni, dalla frutta tropicale al floreale, cesellati in quadro di finezza assoluta, praticamente ideale. La mineralità e la freschezza si impongono in un sorso di purezza assoluta: freschissimo eppure così raffinato, al palato sembra non finire mai. Il prototipo dello Champagne dei tuoi sogni: elegante, lieve, affascinante, infinito.

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Also here there is an incredible fusion of feelings, from tropical fruit to the floral, chiselled in a picture of absolute fineness, practically ideal. Minerality and freshness impose themselves in a sip of absolute purity: it is extremely cool, yet so refined, to the palate it feels never-ending. The prototype of the Champagne of your dreams: elegant, light, fascinating, endless. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Un aroma piccante e freschissimo, costruito sulla sensazione di piccoli frutti rossi e neri, molto incisivo, ma anche delicato ed equilibrato. In evoluzione troviamo erbe officinali e riflessi balsamici. L’attacco al palato è deciso, vibrante, teso, perfettamente equilibrato tra freschezza e struttura. Its spicy and very fresh aroma is constructed on the feeling of small red and black fruits, extremely incisive, but also delicate and balanced. In evolution we find officinal herbs and balsamic reflections. The effect on the palate is decisive, vibrant, tense, perfectly balanced between freshness and structure.

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RARE CHAMPAGNE 1988

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L’evoluzione ha reso l’aroma di questo Champagne molto legato a sensazioni animali, con il cuoio e il tabacco in evidenza, ma anche nuance affumicate e di sottobosco. In realtà si rivela anche fresco, con soffi agrumati, brillanti e scintillanti. Nonostante l’età al palato è ancora assolutamente dinamico e vigoroso, speziato, con piacevolissime note di incenso e legno di saldalo. Evolution has made the aroma of this Champagne very closely connected to animal feelings, with leather and tobacco in evidence, but also smoked and undergrowth nuances. In actual fact it is also cool, with citrus fruit breaths, bright and shining. Despite the age, it is still totally dynamic to the palate, spicy, with very pleasant notes of incense and sandalwood.

RARE CHAMPAGNE 1997 MAGNUM LE SECRET

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RARE CHAMPAGNE ROSÉ 2008

RARE CHAMPAGNE MAGNUM 1998

champagne

Un sorso freschissimo, con l’evoluzione appena accennata, un mélange di frutta matura, tropicale, mango, passion fuit, frutta secca, albicocca disidratata, miele, agrumi, erbe officinali, ma anche soffi iodati e marini, solarità, luminosità, note balsamiche. Un aroma di rara complessità, con un finale sorprendente, di piccoli frutti rossi come la fragolina di bosco. Al palato è sapido, tagliente, netto, inappuntabile, lunghissimo, dotato di una straordinaria acidità. A very fresh sip, with just a touch of evolution, a mix of ripe fruit, tropical fruit, mango, passion fruit, dried fruit, dehydrated apricot, honey, citrus fruit, officinal herbs, but also breaths of iodine and sea, sun, light, balsamic notes. An aroma of rare complexity, with a surprising finish, of small red fruits such as wild strawberry. To the palate it is sapid, cutting, clear, impeccable, very long and with extraordinary bitterness.


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champagne

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di Bruno Petronilli

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RUINART, LA “STORIA” DELLO CHAMPAGNE Parlare della Maison Ruinart significa semplicemente parlare della storia della Champagne. E’ la casa più antica, la prima, quella che ha firmato per sempre un territorio così straordinario. Ho avuto la fortuna di visitare la Maison in numerose occasioni nella mia vita e ogni volta la stessa identica emozione: un sentimento di reverenza, ammirazione, gratificazione. Già l’appagamento assoluto è forse la suggestione più forte che mi porto nel cuore e nell’anima dopo tante visite. Qui tutto è pulito, lineare, raffinato, di un’estetica senza tempo. La storia della Maison Ruinart affonda quindi le sue radici nel mito stesso della Champagne. Un mito nato per caso, alla fine del XV secolo, quando un brusco calo delle temperature in tutta Europa creò inimmaginabili gelate ovunque. Nella regione di Champagne questo improvviso cambiamento climatico comportò una metamorfosi che allora sembrò disastrosa per la vinificazione: con il freddo il mosto non riusciva a completare il suo processo di fermentazione, che riprendeva a primavera all’interno delle botti. Questa seconda e inaspettata fermentazione causava un eccesso di diossido di carbonio, tale da regalare al vino una leggera effervescenza. Lo Champagne era nato, quindi, per un caso fortuito. All’inizio questo “nuovo tipo di vino” non riscosse grande successo e la Champagne fu costretta a subire la concorrenza agguerrita della Borgogna. Furono due secoli di sudditanza totale, fino a quando la Chiesa Cattolica, che aveva grandi interessi nella regione, non decise di affrontare il problema da un punto di vista scientifico.


Ruinart, the “history” of champagne

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Nel 1668 la Chiesa affidò tale compito a un giovane monaco neppure trentenne, Dom Pierre Pérignon, che s’impegnò in qualità di capo cantiniere dell’Abbazia di Hautvillers, ad “eliminare le bollicine”. In realtà il gusto stava cambiando, soprattutto presso le corti nobiliari europee, e il lungo lavoro di Dom Pérignon fu proprio quello di comprendere e cristallizzare per sempre la metodologia di produzione e quindi l’identità dello Champagne come lo conosciamo oggi. Le straordinarie intuizioni di Dom Pérignon furono alla base del concetto moderno di Champagne: il blending dei vini, lo studio delle diverse caratteristiche dei vigneti, la creazione di un qualcosa di unico. Pochi anni dopo la morte di Dom Pérignon, avvenuta nel 1715, il Re di Francia Luigi XV emise un decreto di fondamentale importanza: riconoscendo l’eccezionalità della produzione vinicola della regione concesse a Reims il permesso esclusivo di commercializzare lo Champagne. Siamo nell’anno 1728. Un anno dopo, nel 1729, Nicolas Ruinart fondò la prima casa di Champagne mai registrata.

Talking about Maison Ruinart simply means talking about the history of Champagne. It is the most ancient house, the first one, the one which characterised forever such an extraordinary territory. I have been fortunate enough to visit the Maison on numerous occasions in my life, and every time I had the same identical feeling; reverence, admiration, gratification. Indeed, total appeasement is maybe the strongest suggestion I carry in my heart and soul after so many visits. Everything here is clean, streamlined, refined, an expression of timeless aesthetics. As a matter of fact, the history of Maison Ruinart has its roots in the legend of Champagne itself. A legend born by chance, at the end of the 15th century, when a sudden drop in temperatures all over Europe resulted in unimaginable frosts everywhere. In the region called Champagne this sudden climate change caused a metamorphosis which at the same time seemed disastrous for wine-making: with the cold the must was unable to complete its fermentation process, which started again in the spring inside the barrels. This second and unexpected fermentation caused excess carbon dioxide, which made the wine slightly effervescent. So Champagne is the result of a fortuitous situation. At the beginning this “new type of wine” was not particularly successful, and Champagne was subject to cut-throat competition from Burgundy. Two centuries of total submission followed, until the Catholic Church, which had no specific interests in the region, decided to tackle the matter scientifically. In 1668 the Church entrusted the task to a young monk, he was not yet thirty, called Dom Pierre Pérignon, who – as chef de cave at the Abbey of Hautvillers – had the task of “getting rid of the bubbles”. In actual fact, taste was changing, especially in European aristocratic courts, and the long effort by Dom Pérignon became to understand and crystallise forever the production method, and thus the identity of Champagne as we know it today. The extraordinary intuitions by Dom Pérignon were the foundation for the modern concept of Champagne: blending wines, studying the different vineyard characteristics, creating something unique. A few years after Dom Pérignon died in 1715, the King of France Louis XV issued a decree of fundamental importance, acknowledging the exceptional value of wine produced in this region; he thus authorised Reims to start selling Champagne. It was 1728. One year later, in 1729, Nicolas Ruinart established the first Champagne house on record.


champagne

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La grande illuminazione di Nicolas trae origini dal fervore culturale che si respirava all’interno della famiglia Ruinart. Lo zio di Nicolas, il monaco benedettino Dom Thierry Ruinart (1657-1709), gli lasciò un’eredità preziosa, una visione su cui si fonda tutta la storia della Maison. Dom Thierry fu un brillante storico e teologo, chiamato a 23 anni presso l’abbazia di Saint-Germain-des-Prés, uno dei maggiori centri di studio del mondo cristiano a pochi passi da Parigi. Fu proprio qui, in questo luogo spirituale, che a Dom Thierry giunsero le voci sul nuovo stile di vita mondano della città e delle corti. Nuove passioni, che avrebbero segnato la storia, e in cui il “nuovo vino” era già ambito tra i giovani aristocratici. La sensibilità di Dom Ruinart, autore di opere dotte, gli consentì di leggere il suo tempo prima degli altri. Il suo gusto per la contemporaneità e per gli affari lo convinse che quel “vin de bulles”, nato dalle vigne della sua terra, avrebbe avuto un grande futuro. Trasmise questa convinzione a suo fratello e a suo nipote. Ed ebbe ragione. Tutto ebbe inizio, quindi, nel 1729 a Reims. Nicolas Ruinart era, come suo padre, un importante commerciante di tessuti. Ma quella visione avrebbe cambiato per sempre la storia della famiglia Ruinart. Il successo fu tale che sei anni dopo, nel 1735, il commercio dello Champagne diventò l’unica attività della Maison Ruinart, che abbandonò completamente il mercato tessile. La famiglia Ruinart ha trasmesso, generazione dopo generazione, lo spirito innovativo che è alla base della fondazione stessa della Maison. Sarà Claude Ruinart (1731-1798), per esempio, a decidere di acquistare le crayères, le cave di gesso anticamente utilizzate per la costruzione di Reims e delle

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sue fortificazioni. Conservare il vino in quel labirinto sotterraneo a temperatura costante, senza alcuna vibrazione, fu un’idea grandiosa. A 38 metri di profondità queste bianche cattedrali a tre piani, illuminate da alveoli di luce, si snodano lungo 8 chilometri offrendo le condizioni ideali per la fermentazione e la maturazione dello Champagne. Una scommessa vincente per un luogo unico, classificato monumento storico nel 1931. Audacia, spirito d’iniziativa, lungimiranza: ecco i tratti distintivi che hanno da sempre ispirato i componenti della famiglia Ruinart. Compresero subito che lo Champagne sarebbe stato un successo all’estero e fin dall’inizio la Maison Ruinart è tra le prime aziende che esporta e commercializza le proprie bottiglie al di fuori dei confini nazionali, pur rimanendo fortemente radicata in Francia. Per i Ruinart, l’esigenza della qualità è una seconda natura, il coraggio è una virtù cardinale. Alla ricerca incessante della verità, Dom Ruinart, avvezzo all’ascetismo e all’austerità, aveva dettato la regola: nessun compromesso sulla qualità. Per perseguire questo obiettivo la famiglia ha scelto deliberatamente la via più difficile, quella dello Chardonnay, vitigno bianco raffinato, mirabile materia solo nelle mani di chi ha talento. E la Maison Ruinart ha coraggiosamente affrontato i capricci del destino per mantenere sempre alta la reputazione della Maison. Durante la Prima Guerra Mondiale la sede della società venne distrutta sotto i bombardamenti e trasferita sotto terra, in fondo alle cantine, che si allagarono improvvisamente. L’allora direttore André Ruinart (1861-1919) non si scompose e improvvisò un ufficio su una sorta di zattera. Alla sua morte prematura con un figlio troppo giovane per prendere le redini dell’azienda, fu la moglie Charlotte a diventare reggente. Nonostante le difficoltà di un ambiente vinicolo maschilista e conformista, è lei a ricostruire magistralmente tutta l’attività, salvando quasi due secoli di lavoro. Quando nel 1929 la Maison Ruinart festeggia il suo bicentenario scoppia la Grande Depressione. Nuovo contraccolpo per le vendite di Champagne, una nuova sfida da vincere. Dopo quasi tre secoli la Maison Ruinart continua a ricoprire il suo ruolo di punto di riferimento per l’eccellenza e l’eleganza nel mondo dello Champagne. Un compito, una responsabilità storica, un’eredità preziosa oggi custodita quale fiore all’occhiello del gruppo LVMH. Oggi tutta questa incredibile eredità di passione, storia e leggenda è nelle mani Frédéric Panaïotis, Chef de Cave di Ruinart. Conosco Frédéric da molti anni e ho apprezzato in tutto questo tempo la sua incredibile tenacia e bravura, tutta concentrata sulla definizione di quella sua “deliziosa ossessione” che è lo Chardonnay. Alla fine ho compreso come questo iconico vitigno sia simile al suo animo: puro, luminoso, complesso, di una naturalezza impareggiabile. Ogni anno Frédéric Panaïotis lavora con vini di riserva che saranno la base delle sue cuvée con l’obiettivo di ottenere freschezza soprattutto grazie ai vini di giovane età. Per Frédéric l’elemento centrale del suo lavoro sono proprio i vini di riserva, un patrimonio da conservare gelosamente perché rappresentano il futuro della cantina.


The great intuition of Nicolas derived from the cultural liveliness inside the Ruinart family. Nicolas had an uncle, the Benedictine monk Dom Thierry Ruinart (1657-1709), who left him a valuable legacy on which the whole history of the Maison is founded. Dom Thierry was a brilliant historian and theologian; aged 23 he was summoned to the abbey of Saint-Germain-des-Prés, one of the greatest study centres in the Christian world, not far from Paris. It was here, in this spiritual location, that Dom Thierry first heard about a new worldly lifestyle in the city and in the courts. These new passions were bound to make history, and the “new wine” was already sought after by young aristocrats. The sensitivity of Dom Ruinart, author of learned works, allowed him to read the signs of the times before anyone else. His taste for contemporaneity and business convinced him that the “vin de bulles”, produced in the vineyards in his region, would had a great future. He passed on this conviction to his brother and nephew: he was right. This is how it all started, in 1729 in Reims. Nicolas Ruinart, like his father, was an important fabric merchant. However, that vision changed the history of the Ruinart family forever. Champagne was so successful that, six years later, in 1735, its trade became the core business for Maison Ruinart, which completely left the textile market. The Ruinart family, one generation after the other, passed on the innovative spirit which underlies the foundation of the Maison itself. It was Claude Ruinart (1731-1798), for example, who decided to buy the crayères, the chalk quarries which in the old days provided construction materials for Reims and its fortresses. Storing the wine in that underground maze, at constant temperature without any vibration, proved a great idea. At a depth of 38 metres, these white three-storied cathedrals, brightened by alveoli of light, wind along eight kilometres, offering the ideal conditions for the fermentation and ripening of Champagne. This meant winning the challenge of finding a unique location, classified as historical monument in 1931. Boldness, enterprising spirit, far-sightedness: these are the distinctive traits which have always inspired the members of the Ruinart family. They immediately understood that Champagne would be successful abroad, and from the outset Maison Ruinart was one of the first companies to export and sell its bottles outside national borders, still remaining strongly rooted in France.

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Frédéric Panaïotis / Chef de Cave Ruinart

puro, luminoso, complesso, di una naturalezza impareggiabile pure, luminous, complex, incomparably natural


Le meravigliose Crayers della Maison Ruinart

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Nelle peggiori annate, quando è impossibile produrre uno Champagne millesimato come Dom Ruinart, sono i vini di riserva a rendere possibile il lavoro dello Chef de Cave e normalmente su 10 annate i millesimi appaiono nella gamma al massimo 4 o 5 volte. In teoria sarebbe sempre possibile produrre un millesimo, variando ovviamente le quantità, ma l’obiettivo dello Chef de Cave non è la produzione di quantità, ma la creazione di una qualità che ogni anno deve rispettare lo stile della Maison Ruinart. Il desiderio di Frédéric Panaïotis è modellare uno Champagne godibile a tutte le ore del giorno. Una lama di luce, chiara e brillante, ma lo Chardonnay, che per sue caratteristiche può essere austero e acido, può mettere in difficoltà lo Chef de Cave e costringerlo all’utilizzo di quantità eccessive di zucchero per ottenere morbidezza e piacevolezza. Alla Maison Ruinart Frédéric Panaïotis non ricorre a questi comodi stratagemmi, preferendo ricorrere alla selezione di diverse tipologie di Chardonnay, un lavoro molto più complesso che prevede una conoscenza assoluta dei terroir e una cultura dello Champagne di altissimo profilo. Il piacere della degustazione e l’intensità delle sensazioni che ne derivano sono i punti di riferimento a cui lo stile della Maison Ruinart tende da sempre. Ogni anno, dal 1729, le cuvée Ruinart vengono create nel pieno rispetto di una tradizione che ha segnato la storia della Champagne. Brut, Blanc de Blancs, Rosé e le cuvée de Prestige Dom Ruinart hanno nel loro Dna lo Chardonnay. L’arte dell’assemblaggio, la straordinaria capacità dello Chef de Cave di unire identità diverse di Chardonnay provenienti da differenti Cru, è alla base stessa del concetto di Champagne. Il risultato finale, anno dopo anno, è una personalità unica e inimitabile. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

In the worst years, when it was impossible to produce vintage Champagne such as Dom Ruinart, reserve wines made it possible to work for the Chef de Cave; normally out of ten 10 years, vintage years appear in the range of four to five times. In theory it would be possible to produce vintage champagne, of course varying the quantity; the aim of a Chef de Cave, though, is not quantity but rather a quality to match the Maison Ruinart style every year. The wish of Frédéric Panaiotis was to create a Champagne which could be enjoyed at all times of day. A blade of light, bright and shining, but Chardonnay – due to its characteristics – can be austere and bitter; this can make work difficult for a Chef de Cave, who is forced to use excessive amounts of sugar to make it soft and pleasant. At Maison Ruinart, Frédéric Panaiotis did not use such convenient shortcuts: he chose to select different types of Chardonnay, a much more complex endeavour which involves comprehensive knowledge of the terroir and a top-notch Champagne culture. The pleasure of tasting and the intensity of resulting feelings have always been points of reference for Maison Ruinart. Every year, since 1729, Ruinart cuvées have been created following a tradition which has characterised the history of Champagne. Brut, Blanc de Blancs, Rosé and the Dom Ruinart Cuvées de Prestige have Chardonnay as part of their essence. The art of assembling, the extraordinary ability of the Chef de Cave to combine different identities of Chardonnay from different Crus, is actually the foundation of the Champagne concept. The end result, year after year, is a unique and inimitable personality. For the Ruinart family, quality is second nature, courage is a primary virtue. In his incessant search for the truth, Dom Ruinart – used to an ascetic and simple life – had dictated the rule: never compromise on quality. For this reason, the family has deliberately chosen the most difficult path, Chardonnay, a refined white vine, wondrous material only in talented hands. The Maison Ruinart bravely faced the challenges of fate and managed to keep the Maison’s name high. During the First World War the company headquarters were destroyed by bombs and moved underground, at the bottom of the cellars, which suddenly flooded. The then manager André Ruinart (1861-1919) did not give up and set up a makeshift office on a sort of barge. After his premature demise, since his son was too young to take over the company, his wife Charlotte took the reins. Despite the difficulties in a male-dominated and conformist environment, she was the one who masterfully reconstructed the whole business, saving its almost two centuries of effort. In 1929, the year Maison Ruinart celebrated its two-hundredth anniversary, the Great Depression began. It was another hard blow for Champagne sales, a new challenge to overcome. Nearly three centuries later, Maison Ruinart is still a point of reference for excellence and style in the Champagne world. This task, historical responsibility, valuable legacy is preserved today as point of pride by the LVMH Group. Today this whole incredible legacy of passion, history and legend is in the hands of Frédéric Panaiotis, Chef de Cave at Ruinart. I have known Frédéric for years, and ways appreciated his incredible tenacity and skill, totally focused on the “delicious obsession”, which is how he refers to Chardonnay. In the end I have realized that this iconic vine variety is similar to his soul: pure, bright, complex, incomparably natural. Every year Frédéric Panaiotis works with reserve wines which will become the basis of his cuvées, with the goal of achieving freshness especially thanks to young wines. For Frédéric, efforts are focused on reserve wines, a legacy to be carefully preserved because they are the future of the cellar.


RUINART ROSÉ

It is the bright star of the Maison, a purity Chardonnay, bright and clear, a product of assembling of 20/25% reserve wines from the two years before its production. You will be immediately impressed by its refined structure, balanced and pleasant. Its aromas are extremely enjoyable; they vary from white fruit to the floral, with peaks of liveliness such as lemon and ginger, but also soft feelings resulting from the scents of honey and patisserie. The palate is characterized by a silky pattern, enwrapping, genuine, bitter and cool. This is the light of Chardonnay according to Ruinart.

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La Cuvée de Prestige della Maison Ruinart nella versione in purezza con gli Chardonnay di provenienza esclusivamente Grand Cru: Côte de Blancs (Chouilly, Le Mesnil e Avise) e Montaigne de Reims (Sillery e Puisielux). E’ la più alta espressione dello Chardonnay della Maison, quasi tridimensionale, strutturato, di una raffinatezza esclusiva. Rende l’eccezionalità di una qualità assoluta di uve Chardonnay in un’espressione univoca e incomparabile, costituita da un finissimo perlage, da un’acidità di rara eleganza, che fa presagire una longevità quasi illimitata. Aromi di nocciola e frutta bianca, palato setoso, denso, di una nobiltà aristocratica. Finale tra note di brioche, di pietra focaia e agrumi. The Cuvée de Prestige of Maison Ruinart in the purity version with Chardonnay exclusively of Grand Cru origin: Côte de Blancs (Chouilly, Le Mesnil and Avise), and Montaigne de Reims (Sillery and Puisielux). It is the highest expression of Chardonnay from the Maison, almost three-dimensional, structured, with exclusive fineness. Turning the exceptionality of an absolute quality of Chardonnay into a unified and incomparable experience, consisting of very fine perlage, of acidity with rare elegance, which leads to expect almost unlimited longevity. Aromas of hazelnut and white fruit, silky, dense palate of aristocratic nobility. Finish with notes of brioche, flintstone and citrus fruits.

Ruinart Rosé, intenso e profondo, l’altra faccia dello stile Ruinart. Aromi di amarena, fragola, agrumi, spezie orientali, zenzero, note fumé: una complessità piacevolissima che introduce un palato ricco e polposo, ma anche finemente acido e leggero. Elegante e raffinato, leggermente tannico, il Rosé di Ruinart ha un’espressione unica, splendente, con un finale di ciliegia che rimane in mente per molto tempo. Ruinart Rosé, intense and deep, the other face of the Ruinart style. Aromas of sour cherry, strawberry, citrus fruit, oriental spices, ginger, smoked notes: a very pleasant complexity which introduces a rich and polposo palate, but also finely bitter and light. Elegant and refined, slightly tannic, Ruinart Rosé has a unique, shining expression, with a cherry finish which you will remember for a long time.

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Domina lo Chardonnay dei migliori Grand Cru della Côte de Blancs e dalla Montaigne de Reims, a cui viene aggiunto un 20% di Pinot Noir vinificato in rosso. Il fascino del Blanc de Blancs unito al rigore estetico del Pinot Noir per un risultato d’incredibile raffinatezza. Un concerto di aromi fruttati, minerali, fumé. Cremoso e polposo, sfodera un’armonia assoluta tra aroma e sapore: frutta secca, pepe rosa, pesca e marzapane, poi fragola, sapidità e iodio. Nuance terrose e tostate chiudono un’esperienza sensoriale affascinante. Durerà in eterno. It is the Champagne with the highest proportion of Pinot Noir in the whole Ruinart range, together with Rosé. I have always been fascinated by Brut, its clearly defined, pulpy and rich quality, but also – thanks to the quality of Chardonnay – extremely fresh and pleasant. The undergrowth aromas, roasting, honey and floral nuances introduce a full flavour, soft and smooth, with notes of dried fruits, white pulp fruits and mountain pasture butter. Persistence in the palate is remarkable, giving balance, liveliness and acidity.

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DOM RUINART 2007

It is the Champagne with the highest proportion of Pinot Noir in the whole Ruinart range together with Rosé. I have always been fascinated by Brut, with its clearly defined, pulpy and rich character, also thanks to the quality of Chardonnay, extremely cool and pleasant. The aromas of undergrowth, roasting, honey and floral nuances introduce a full flavour, soft and smooth, with notes of dried fruit, white pulp fruits and mountain pasture butter. Persistence in the palate is remarkable, resulting in balance, liveliness and acidity.

E’ la stella brillante della Maison, uno Chardonnay in purezza luminoso e limpido, che si giova dell’assemblaggio del 20/25% di vini di riserva delle due annate precedenti a quella prodotta. Colpisce subito la sua raffinata struttura, equilibrata e piacevole. Gli aromi sono di estrema gradevolezza e variano dalla frutta bianca al floreale, con punte di vivacità come il limone e lo zenzero, ma anche sensazioni morbide date dai sentori di miele e pasticceria. Il palato è caratterizzato da una trama setosa, avvolgente, genuina, acida e fresca. E’ la luce dello Chardonnay secondo Ruinart.

DOM RUINART ROSÉ 2007

E’ lo Champagne con la maggior proporzione di Pinot Nero di tutta la gamma Ruinart assieme al Rosé. Mi ha sempre affascinato il Brut, dal carattere ben definito, polposo e ricco, ma anche, grazie alla qualità dello Chardonnay, estremamente fresco e piacevole. Gli aromi di sottobosco, tostatura, miele e nuance floreali introducono un sapore pieno, morbido e suadente, con note di frutta secca, frutti a polpa bianca e burro d’alpeggio. La persistenza al palato è notevole, regalando equilibrio, vivacità e acidità.

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RUINART BLANC DE BLANCS

RUINART BRUT

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COLLARDdi Manlio Giustiniani

MATRIMONIO CHAMPENOISE

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Grazie al matrimonio di Olivier Collard e Caroline Picard, entrambi provenienti da famiglie di viticoltori champenoise, nasce nel 1996 la Maison Collard-Picard a Villers-sous-Châtillon, villaggio della riva destra della Vallé de la Marne, dove la maggior parte delle vigne sono piantate a Meunier. Caroline porta in dote vigneti dei villaggi Grand cru della Côte des blancs, Le Mesnil sur Oger e Oger. Olivier, enologo, è il nipote del famoso René Collard, uomo di carattere, che si rifletteva nei suoi champagne a base Meunier. Il primo millesimato di René risale al 1943, un tempo in cui quando quasi tutti i vigneron vendevano il loro vino alle grandi maison e nelle sue vigne lasciava crescere l’erba, un viticoltore biologico ante litteram, benché non se ne rendesse conto. La Maison oggi possiede 16 ettari di vigneti di proprietà nella Vallée de la Marne e nella Côte des Blancs, ed in particolare il

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terroir nella Vallée de la Marne è composto da calcare e craie. Nei 4,5 della Côte des Blancs, in conduzione biologica, la craie è affiorante. Le vigne sono coltivate seguendo i principi della viticoltura ragionata. Olivier, persona di grande classe e grande eleganza, desidera solo il meglio, partendo dalla vigna per arrivare al suo vino e nella cantina tecnologica, cominciata a costruire nel 2006 a Villers-Sous-Châtillon su un solo piano a temperatura controllata, troviamo nella sala della pressatura, la moderna (e costosissima) pressa Coquard a piano inclinato, che riduce i tempi di pressatura con un ottimo risultato, permettendo un basso uso di solfiti. Dettagli, scelte, cura maniacale consentono, oggi, di ottenere una gamma di Champagne di eccezionale qualità. E la nostra degustazione rivela quanta bravura regna oggi alla Maison Collard-Picard.


Frédéric Panaïotis / Chef de Cave Ruinart

-PICARD Collard-Picard, a Champenoise marriage

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Thanks to the marriage between Olivier Collard and Caroline Picard, both from famlies of Champenoise wine growers, in 1996 the Maison Collard-Picard was established in Villers-sous-Châtillon, a village on the right bank of the Vallé de la Marne, where most of the vineyards are planted with Meunier. Caroline’s dowry includes vineyards from the Grand Cru villages in the Côte des Blancs, Le Mesnil sur Oger and Oger. Olivier, a wine expert, and grandson of the famous René Collard, an assertive man, which was reflected in his Meunier-based champagnes. The first vintage produced by René dates to 1943, a time when most growers sold their wine to great maisons, and let grass grow in his vineyards, an ante litteram organic wine producer, even though he did not know. Today the Maison owns 16 hectares of vineyards in the Vallée de la Marne and in the Côte des Blancs, and in particular the terroir of the Vallée de la Marne, consisting of limestone and chalk. In the 4.5 of the Côte des Blancs, managed organically, the craie is outcropping. The vineyards are cultivated following the principles of reasoned growing. Olivier, a very stylish and elegant person, wishes only the best, starting from the vineyard to his wine and in the technological cellar, which he started building in 2006 in Villers-Sous-Châtillon, on just one floor at controlled temperature, we find a room with the modern (and extremely expensive) inclined-level Coquard press, which reduces processing times and guarantees an excellent result, allowing for little use of sulphites. Details, choices, maniacal care, today allow for a range of Champagne of exceptional quality. And our tasting reveals who much skill there is at Maison Collard-Picard today.


champagne

CHAMPAGNE COLLARD-PICARD BRUT CUVÉE SÉLECTION

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Assemblaggio del 50% di Pinot Noir e 50% di Meunier, provenienti dalla Vallée della Marne. Al naso fresco e agrumato, un bel fruttato di mela verde. Al palato ben equilibrato tra morbidezze e durezze, una bella freschezza fruttata e un lungo finale mielato, ma con una bella sapidità e una piacevole mineralità.

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Assembling at 50% Pinot Noir and 50% Meunier, from the Vallée della Marne. Cool and citrus fruit to the nose, a pleasant green apple fuit aroma. Well balanced to the palate between soft and hard elements, a good fruity freshness and long honey finish, but with good sapidity and pleasant minerality.

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CHAMPAGNE COLLARD-PICARD BRUT CUVÉE PRESTIGE

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CHAMPAGNE COLLARD-PICARD BRUT CUVÉE DOM PICARD GC BLANC DE BLANCS

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Assemblaggio 50% Chardonnay della Côte des Blancs, 25% Pinot Noir e 25% Meunier, entrambi della Vallée de la Marne. Champagne fresco, bella struttura, all’aroma si esprime inizialmente con le note donate dallo Chardonnay, note floreali, aromi di frutta secca ed erbe aromatiche, su tutto. Equilibrato al palato tra la finezza e il gusto fruttato, di carattere, con una bella maturità e rotondità che sostengono la freschezza e l’acidità, e un bel finale con note tostate, speziate e una piacevole sapidità. Champagne complesso, elegante e raffinato.

100% Chardonnay di Le Mesnil-sur-Oger e di oger, villaggi Grand Cru nella Côte des Blancs della vendemmia 2014 (millesimato non dichiarato). Aroma fresco, agrumato di limone, frutta bianca, ananas, bouquet di fiori bianchi e poi evolve su note di brioche e sentori di speziature. Palato setoso e vellutato, con una bella freschezza, ritorno della frutta bianca e dell’ananas, freschezza, tensione, il goût del terroir dato dallo Chardonnay, aromi tostati, con un finale di bocca charmant con una mineralità agrumata. Eleganza, finezza, e salinità.

Assembling at 50% Chardonnay of Côte des Blancs, 25% Pinot Noir and 25% Meunier, both from the Vallée de la Marne. Cool Champagne, well structured, with an initial aroma including the notes from Chardonnay, floral notes, aromas of dried fruit and aromatic herbs, above everything. Balanced to the palate between fineness and fruity taste, characterful, with good maturity and ripeness which support its freshness and acidity; pleasant finish with roasted, spicy notes and pleasant sapidity. It is a complex, elegant and refined Champagne.

100% Chardonnay from Le Mesnil-sur-Oger and Oger, Grand Cru villages in the Côte des Blancs of the year 2014 (millesimato undeclared). Fresh aroma, of lemon citrus fruit, white fruits, pineapple, bouquet of white flowers, which then develops on brioche notes and scents of spices. Silky and velvety palate, with good freshness, return of the white fruit and pineapple, freshness, tension, the gout de terroir given by Chardonnay, roasted aromas with a charming mouth finish, citrus fruit minerality. It is elegant, fine and with good salinity.


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CHAMPAGNE COLLARD-PICARD BRUT CUVÉE DES ARCHIVES MILLÉSIME 2002

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Assemblaggio del 50% di Chardonnay della Côte des Blancs dei villaggi Grands Crus Le Mesnil-sur-Oger e Oger, 25% di Pinot Noir e 25% di Meunier. Il dosaggio zero permette di sprigionare gli aromi in tutta la loro unicità. Delicate note agrumate e di fiori bianchi, grazie allo Chardonnay, poi si trovano le note fruttate rosse, anche leggermente in confettura, e un tocco di spezie dovute ai vitigni a bacca rossa. Profondo ed equilibrato al palato, bollicina viva e cremosa, buona acidità, una tensione affascinante e un finale interminabile, minerale e agrumato di pompelmo. Complesso e poliedrico, prodotto in sole 8.000 bottiglie.

Bottiglia N. 6159. Assemblaggio 80% di Chardonnay di vecchie vigne, piantate nel 1923 a Les Mesnil sur oger e il 20% di vecchie vigne piantate nel 1952 a Binson et Orquigny di Pinot Noir nella Vallée de la Marne. Aromi di frutta matura al naso, ma di grande eleganza, frutta tropicale, ananas, note speziate, frutta secca, mandorla e un fine tocco boisé. Al palato, pieno, ricco, ampio ed equilibrato, di grande struttura e complessità, agrumi confits, nocciole tostate, note di torrefazione, ma ancora di gradevole freschezza e un finale minerale marino che lo rende di una beva eccezionale. Champagne per pochi intenditori, solo 8.000 bottiglie numerate, 400 magnum e 120 Jeroboam.

Assembling 50% Chardonnay from the Côte des Blancs in the Grands Crus villages Le Mesnil-sur-Oger and Oger, 25% Pinot Noir and 25% Meunier. Its zero dosage allows for releasing the aromas in all their uniqueness. Soft citrus fruit and white flower notes, thanks to the Chardonnay, then you find the red fruity notes, also slightly confettura, and a touch of spices due to the red berry vine varieties. Deep and balanced to the palate, lively and creamy bubble, good acidity, a fascinating tension and unending finish, with mineral and grapefruit citrus taste. It is complex and multi-faceted, produced in just 8,000 bottles.

Bottle N. 6159. Assembling 80% Chardonnay from old vineyards, planted in 1923 in Les Mesnil sur Oger and 20% old vineyards planted in 1952 in Binson et Orquigny of Pinot Noir in the Vallée de la Marne. Aromas of ripe fruit to the nose, very elegant though, with tropical fruit, pineapple, spicy notes, dried fruit, almond and a fine boisé touch. Full, rich, wide and balanced to the palate, with great structure and complexity, citrus fruit confits, roasted hazelnuts, roasting notes, but still with pleasant freshness and a marine mineral finish making it exceptionally drinkable. It is Champagne for few connoisseurs, just 8,000 numbered bottles, 400 Magnum and 120 Jeroboam. JAMESMAGAZINE.IT

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CHAMPAGNE COLLARD-PICARD ESSENTIEL 2010


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di Andrea Grignaffini

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the triumph of shape

La pasta è la forma: forma formata e, per giunta, anche commestibile. Come tale, la pasta ha rappresentato uno dei primi casi di design applicato al mondo del cibo. Un mondo, quello del cibo, che prima della prima rivoluzione industriale era ancora informe, o comunque casuale, perché proveniva da un ordine tendente all’entropia com’era e sarebbe stato, in natura, l’ordine appunto naturale.

IL TRIONFO DELLA FORMA

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Pasta and shape: a formed shape, and edible at that! As such, pasta has represented one of the first cases of design applied to the world of food. Before the industrial revolution, the food world was still shapeless, or at least random, because it came from an order geared towards entropy as the natural order was, and would have been, in nature itself.


food

Chaos reigns ammoniva la volpe di Lars Von Trier e, così, nel bel mezzo di una rivoluzione tecnologica di cui siamo sia agenti, ovvero soggetti attivi, che vittime, ovvero oggetti passivi, torniamo a manufatti edibili che si ricongiungono a una presunta Età dell’Oro, un’Arcadia che, anche nei nomi, oltre che nelle forme, dichiaratamente elleniche di Kalpis e Salix, rimandano appunto a quel momento ideale, e probabilmente anche utopico, in cui l’uomo con la natura ci viveva in armonia: uno stato di ordine che era, appunto, ordine naturale. Oltre ai nomi, si diceva, ci sono poi le forme: e a ben vederla questa nuova vulgata in fatto di arte pastaria, non contempla solo otri, brocche, ceste e cestini, ma anche fiocchi o, che dir si voglia, cristalli di neve che, dell’ordine fisico e geometrico della natura, rappresentano appunto uno dei più efficaci emblemi. Guardando queste forme, comunque, non sarà un caso che la loro esegesi rimandi alla gestazione dei manufatti 3D incoraggiati proprio da una delle tecnologie più rivoluzionarie di questa rivoluzione: la stampante 3D la cui invenzione ha spalancato, come accade a tutte le rivoluzioni degne di

dalla forma dipende la meccanica del morso e, da questa, la meccanica stessa dell’appetito

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shape affects the mechanics of biting, and from that the mechanism of appetite itself

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Chaos reigns, is what Lars Von Trier wisely used to say…and so - right in the middle of a technological revolution where we are all both players, that is to say active subjects, and victims, i.e. passive subjects, we return to edible artefacts which are combined in an alleged Golden Age, an Arcadia which - in the names as well as in the asserted Hellenic shapes of Kalpis and Salix, remind us of the ideal, and possibly even Utopian - time when humans lived in harmony with nature, an orderly state which was exactly the natural order. Apart from the names, as I said, you also have shapes; if you look closely, this new vulgate on the subject of pasta-making art, includes not just goatskins, jugs, hampers and baskets, but also snowflakes, or if your prefer crystals, which are one of the most effective emblems of the physical and geometrical order of nature. Looking at these shapes, it is in any case not by chance that their exegesis leads back to the creation of 3D artefacts, encouraged specifically by one of the most ground-breaking technologies within this revolution: the 3D printer whose invention – like all revolutions worthy


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questo nome, cambiamenti in sequenza, forse dalla portata più contenuta ma, certamente, repentini e radicali come la rivoluzione madre. Madre, nel senso di matrice: altra immagine che, da sola, ci può esser d'aiuto nella comprensione di questo fenomeno in cui, ancora una volta, s'imprime (to print è l'infinito di "stampare" in inglese) una forma a una sostanza altrimenti informe e, pertanto, non commestibile: la pasta che, per sua natura, rifugge dall'informe, e vi rifugge a maggior ragione anche questa versione 3D. Che poi, a voler essere precisi, la pasta di dimensioni non ne ha mai avute due, ma solo oggi il suo magistero pare sbizzarrirsi con le sue forme, di cui enfatizza la pinguetudine, la tornitura, tanto da coronarsi come il trionfo del tronfio o del pieno: non nel senso di ripieno, cioè non solo, ma anche nel senso dell'impasto impastato, inserito nello spazio concavo, vuoto di uno stampo oppure, dopo la gramolatura, trafilato e quindi formato: spazio occupato e pieno e, come tale, confortante tanto per lo stomaco quanto per lo spirito. La più intima natura della pasta risiede dunque nella figura piena e tanto più questa pasta 3D che, nella sua enciclopedia ellenica, s'offre generosamente nel turgore delle sue forme, nella robustezza della sua struttura, come un'architettura. A questo proposito, è bene sottolinearne anche un'altra caratteristica: similmente a quanto accade nell'arte povera, o primitiva, i suoi equilibri sono determinati da rapporti elementari e sottili, che sono rapporto di armonia e che rimandano al rispetto di un'aurea e spesso tacita (poiché inconsapevole) proporzione tra i suoi volumi e la sua geometria: da questo rapporto, da questa armonia, dipenderà la risposta della pasta agli stimoli esterni, alle trazioni o alle pressioni, agli shock termici della cottura o a quelli, più meccanici, della masticazione. Ed è proprio qui che s'insinua il segreto della pasta e, soprattutto, della pasta 3D: entrambe fanno, infatti, della resistenza l'elemento più importante e secondo solo, appunto, alla forma. In altre parole, si deve sottolineare su come la pasta trovi nella resistenza, ovvero nella capacità di mantenere inalterata la sua forma e, quindi, nella sua tenacia, la sua stessa ragion d'essere. È da questa resistenza, da questa tenuta, da questo attrito che si riconosce la qualità intrinseca della pasta e, soprattutto, della pasta 3D, che fa della forma il suo stesso contenuto: del suo significante il suo significato, a prescindere dal ripieno, più o meno lezioso, con cui vorremmo farcirla. Infine, non è un caso che l'estimatore edotto la preferisca "al dente": resistendo essa al morso, indirettamente dilaterà i tempi della masticazione, incoraggiando l'arrivo, più presto, del senso di sazietà. Come la combinazione tra tenuta e forma influenzi, poi, anche la percezione del sapore, non è dato sapere: di certo, sappiamo che dalla forma dipende la meccanica del morso e, da questa, la meccanica stessa dell'appetito.

of the name – paved the way for a set of changes, possibly smaller in scope, but definitely sudden and dramatic, like the mother revolution. Mother in the sense of matrix; this is another image which, in itself, can help us understand this phenomenon where, once again, the imprint (which includes the verb “to print”) includes a shape and a substance which would otherwise be formless, and therefore not edible: pasta, by its own nature abhors the shapeless, and so does - quite understandably - this 3D version. To be more precise, pasta has never been bi-dimensional, however it is only now that its lesson seems to run wild with its shapes, of which it emphasizes the chubbiness, the turning, to the extent that it can be crowned as the triumph of the bloated or of fullness: not in the sense of stuffed, or rather not only, but also in the sense of the, mixed dough, which becomes part of the concave, empty space of a mould, or – after kneading, it is drawn and then shaped: an occupied and full space as such, comforting for the stomach as well as for the spirit. The most intimate nature of pasta thus lies in its full figure, and this is all the more true for this 3D pasta which, in its Hellenic Encyclopedia, generously offers itself in the turgidity of its shapes, in the robustness of this structure, like an architecture. In this regard it is worth mentioning another of its characteristics: similarly to poor or primitive art, its balances are defined by basic and thin balances, which are in harmonious relation and remind us of respect for a golden and often tacit (because we are unaware of it) proportion between its volumes and its geometry: this relationship, this harmony, will result in the response by pasta to external inputs, to tractions or to pressures, to the thermal shocks of cooking or to the more mechanical ones caused by chewing. This is exactly where the secret of pasta comes in, and most notably of 3D pasta: in both cases resistance is the most important element, second only to shape, as already mentioned. In other words, it is worth underlining that past finds its shape in resistance, that is to say its ability to preserve its shape unaltered, which therefore becomes its reason for being. It is from this resistance, from this tenacity, from this attrition that you recognise the intrinsic quality of past, and especially of 3D pasta, which turns its shape into its own content: its signifier becomes its significance, regardless of the more or less affected type of stuffing, with which we decided to fill it. Finally, it is no surprise that the knowledgeable enthusiast should prefer it “al dente”: this means that it resists biting itself, indirectly extending the time of chewing, making you feel full as soon as possible. We do not know how the combination between resistance and shape influences the perception of flavour: what we can be sure of is that shape affects the mechanics of biting, and – as a consequence – the mechanism of appetite itself.


NON MIN ULT di Alessandra Meldolesi

Chef Niko Romito / photo_Alberto Zanetti

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“Dopo Van Gogh siamo tutti autodidatti”, a costo di dimenticare a memoria. Lo rivendicava Picasso e in un certo senso è avvenuto anche in cucina, dopo il putsch di Ferran Adrià. Nessuno chef italiano, tuttavia, incarna questo ricominciamento nevralgico meglio di Niko Romito, che autodidatta lo è sul serio. E from scratch ha suscitato lo stile forse più personale e riconoscibile della contemporaneità (non solo) italiana, imperniato com’è su tecniche e concetti di conio proprio, per quanto risolutamente “collettivi”. Sembrerebbe un miracolo, un po’ come la nascita della materia che arrovella i fisici. E ha del miracoloso anche la clonazione del successo cui abbiamo assistito negli ultimi anni, senza che il Reale ne scapitasse: oggi Romito è a capo di otto strutture, fra i diversi Spazio, Bulgari, Bomba e Alt, oltre alla scuola di cucina, al progetto di intelligenza nutrizionale con l’ospedale Cristo Re di Roma e alla produzione di Pecorino in alta quota. Del resto si era pensato imprenditore, quando frequentava Economia e Commercio. Ed è a quella vocazione che in parte è tornato dopo le erraticità della vita. Raramente si indugia a considerare la matrice psicologica dell’espressione gastronomica, come è consuetudine altrove. Eppure è insondabile la profondità di una cucina, la cui soglia Niko ha varcato dopo la scomparsa prematura del padre Antonio, che si era convertito alla pasticceria. Sembra un caso di scuola di “obbedienza differita”, secondo il lessico freudiano, dispositivo in base al quale il figlio rimasto orfano realizzerebbe coattivamente pulsioni e desideri del genitore. Un lavoro di lutto sfociato in capolavoro.

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N NUS TRA

LA REGOLA DI NIKO

The Bulgari project involves serving traditional Italian dishes flavoured with a modern concept

“After Van Gogh we are all self-taught”, at the risk of forgetting by memory. This is what Picasso claimed, and in a certain sense has happened in cuisine as well, after the putsch by Ferran Adria. No Italian chef, however, incarnates this neuralgic new start better than Niko Romito, who is really self-taught. And, from scratch, he has probably led to the most personal and distinctive style in gastronomy in Italy (but not only), being focused on his own techniques and concepts, even though they are resolutely “collective”. It sounds like a miracle, a bit like the origin of matter which physicists still wonder about. And also the successful cloning which has occurred over the past few years is somehow miraculous, not to the detriment to Reale: today Romito manages eight facilities, including Spazio, Bulgari, Bomba and Alt, as well as the cookery school, the smart nutrition project with the hospital Cristo Re in Rome, or the production of mountain Pecorino cheese. He has always seen himself as a businessperson, which is why he attended the faculty of Economics and Commerce. And he partly returned to that vocation, after the erratic events in life. He rarely stops to consider the psychological matrix of gastronomy expression, as is the case elsewhere instead. However, the depth of a cuisine which Niko entered after the premature death of his father Antonio, who had converted to patisserie, is inscrutable. It seems like a case of “deferred obedience”, according to the Freudian vocabulary, whereby the orphaned child feels compelled to fulfil impulses and wishes of the parent. A grieving process which resulted in a masterpiece. JAMESMAGAZINE.IT

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Il progetto Bulgari significa mettere in tavola i classici italiani con un concetto moderno

Non minus ultra: Niko’s rule


Gratinè couliflower

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Non stupisce, allora, quella che Romito indica come la lettura più felice della sua cucina, che pure nel tempo si è evoluta non poco. “Ricordo che un giorno Bob Noto mi chiese quale fosse la mia fonte di ispirazione. Ma io riuscivo a rispondere solo in negativo, elencando ciò che non mi aveva ispirato, né il fine dining né l’avanguardia. Allora ha detto la sua: che i miei piatti nascevano dalla cucina italiana di casa, di cui condividevano struttura, semplicità e narrazione. Cosa si mangia oggi? Riso e patate, spaghetto al pomodoro, cavolfiore”. L’understatement è infatti la regola di una cucina che radicalizza il verbo marchesiano, senza ridursi per questo al cliché della sottrazione. Ripeteva Marchesi che la chimera di ogni cuoco è il monoingrediente ed è proprio questo lo schema degli “assoluti” di Romito, che però centrano la materia attraverso una strategia di “sottrazione per stratificazione”, finalizzata alla sua emancipazione e all’esplosione della complessità. Il cavolfiore gratinato è in questo senso un piatto manifesto: si compone dell’ortaggio in purezza, con l’aggiunta di pochissimo sale e di nessuna materia grassa, come gran parte dei piatti in carta. Ed è già questa una rivoluzione gustativa. Unglamorous, per quanto coltivato in alta quota, l’ortaggio risulta particolarmente idoneo fuori stagione, in primavera e in estate, perché più sodo e compatto. Viene passato al vapore, poi lasciato maturare per 7-10 giorni in atmosfera modificata, senza ossigeno, in modo che una diversa fermentazione, senza il prefisso “latto”, sviluppi l’acidità e liberi la salivazione atte a bilanciare la dolcezza intrinseca; segue la gratinatura ad alta temperatura, per il croccante e la quadratura amara. Poi c’è la laccatura con un estratto di cavolfiore cotto e ridotto a vernice; e alla base una “pasta” di cavolfiore appena spadellato e battuto al coltello, per la sabbiosità del pangrattato. Preparazioni che risvegliano note inopinate di liquirizia e nocciole, l’acidità di una spruzzata di aceto e un umami che insinua sospetti di acciuga. Quasi che il cuoco, in sintonia con una natura naturante che tende spontaneamente alla metafora, avesse ripercorso la ricetta a ritroso, riportandola nel cuore dell’ingrediente: come una volta l’intuito collettivo aveva spinto determinate note mediante i loro esaltatori, questi sono ricondotti alla loro matrice, scovati nelle pieghe più riposte del sapore ed esplosi in bocca. Non è più vero, come paventava Heidegger, che la tradizione faccia scomparire la materia, costringendola a una volontà formale. La ricetta collettiva è latente nell’ingrediente, sebbene occorrano infinite prove per estrarla.

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“Parto sempre dall’ingrediente e da come si usa prepararlo nella cucina classica o regionale. Per poi tentare magari di compiere l’esatto contrario” “I always start from the ingredient and how it is used in traditional or regional cuisine. Then, possibly, I try to achieve the exact opposite”

It is no surprise, therefore, what Romito mentions as the happiest reading in his cuisine, which over time has progressed to a remarkable extent. “I remember that one day Bob Noto asked me about my source of inspiration. All I could do was answer in the negative, listing what had not inspired me, neither fine dining nor the avant-garde. He then gave his opinion: that my dishes are a result of Italian home cooking, with which they shared structure, simplicity and narration. What are we having today? Rice and potatoes, spaghetti with tomato sauce, cauliflower”. Understatement is actually the rule in a cuisine which radicalises Marchesi’s theories, without reducing itself to the cliché of subtraction. Marchesi was fond of saying that the dream of every chef is the single ingredient, and this is exactly the pattern of Romito’s “absolutes”, which are focused on matter through a strategy of “subtraction by stratification”, aimed at its emancipation and explosion of complexity. Cauliflower au gratin is a manifest example of this: it consists of the vegetable as it is, with the addition of very little salt and no fats, like most dishes on the menu here. And this is already a taste revolution. Unglamorous, though grown on the mountains, this vegetable is particularly well suited out of season, in spring and summer,


Caramello, limone salato e mela / Caramel, sated lemon and apple

Affettato di manzo / Beef slices JAMESMAGAZINE.IT

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Maiale fritto, salvia e rapa rossa / Fried pork, sage and beetroot

because it is harder and more compact. It is steamed, then left to ripen for 7-10 days in modified atmosphere, without oxygen, so that a different fermentation, without the prefix “lacto”, can help develop acidity and release salivation aimed at balancing its intrinsic sweetness; it is then cooked au gratin at high temperature, until it becomes crunchy and pleasantly bitter. Then there is coating with a cauliflower extract, cooked and reduced to a paint; and on the base a cauliflower “paste”, straight out of the pan and chopped with a knife, with the sandiness of breadcrumbs. Dishes which reveal unexpected notes of liquorice and hazelnuts, the acidity of a touch of vinegar and a umami with hints of anchovy. It is almost as if the chef, in harmony with the nurturing nature which spontaneously tends to the metaphor, had gone back to recipe, leading it back to the heart of the ingredient: in the same way as collective intuition had pushed specific notes through their supporters, they are brought back to their matrix, discovered in the most secluded folds of knowledge and exploding gin the mouth. It is no longer true, as Heidegger feared, that tradition makes matter disappear, forcing it to a formal will. The collective recipe is latent in the ingredient, although innumerable tests are required to extract it.


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E di fatto il vegetale è protagonista di questa straordinaria stagione creativa: la melanzana viola laccata con sciroppo di melanzana nera e caramello di pesca, che accelera la rotazione in bocca scongiurando il cliché, il carciofo e rosmarino, il pomodoro marinato che sfuma nel cocomero disidratato per pressione, la verza maturata in atmosfera modificata fino a 100 giorni, per massimizzare il gusto e compattare fra loro foglie, che finiscono per somigliare alle fibre di un arrosto di vitello. Con una costante, o meglio una “ricorrente”: la nota balsamica e resinosa dell’estratto di rosmarino, in veste di esaltatore vegetale alternativo al sale. “Parto sempre dall’ingrediente e da come si usa prepararlo nella cucina classica o regionale. Per poi tentare magari di compiere l’esatto contrario. Ciò che più mi interessa è nobilitare i prodotti comuni, che possono assurgere alla dignità e regalare la soddisfazione di una pietanza di carne o di pesce. Tanto che spesso risultano jolly, fungibili da antipasto come da secondo piatto e serviti con forchetta e coltello, per il morso importante. Senza salse o guarnizioni, perché ogni cosa è già nella materia: l’estetica, la struttura, la complessità gustativa. E le prove sono innumerevoli: i grammi di sale, il grado in più o in meno, il punto di ossidazione”. Lo stesso effetto viene raggiunto altrove attraverso “contaminazioni a freddo” nell’acqua: brodi ottenuti per macerazione che catturano l’integrità dell’ingrediente, si tratti di una carcassa di anatra arrosto, in un fondo mai visto, di cime di rapa dove tintinna il metallico o di un “limoncello” intensissimo, in sottrazione di zucchero e alcol. Difficile immaginare una cucina più radicale, eppure più gentile, contro il cliché dell’avanguardia avanguardista, eager to shock. Il focus al contrario è sulla magia del quotidiano: mangiare ciò che abbiamo sempre mangiato, come non lo abbiamo mai mangiato, per una sorta di epifania silenziosa. Materia di materia, cavolfiore di cavolfiore. Piroette immobili sull’ingrediente. A Romito riesce anche la sfida più difficile: una pasticceria di ricerca e d’autore, coerente col “salato”. Priva o addizionata di zucchero, in veste di marcatore come il sale, è sempre leggerissima, profumata, digestiva. Un capolavoro, in particolare, la granita di liquirizia con aceto di vino, cremoso di cioccolato bianco e Balsamico, apripista del filone dei dessert “agri”. “Aceto e liquirizia si esaltano a vicenda: il primo boccone sembra acido, poi la bocca parametra i contrasti e rimette tutto in equilibrio. Ed è l’aggiunta di poco amido di riso a regalare alla granita testura e persistenza, indispensabili al bilanciamento”. Sorge allora la domanda: cosa si profila dopo l’assoluto? “Il progetto Bulgari significa mettere in tavola i classici italiani con un concetto moderno, strutture e tecniche innovative, che aiutano a centrare la ricetta. Ed è qualcosa che si sta affacciando anche al Reale”. Vedi la cotoletta alla milanese, il cui clinamen è una cottura volta alla massima omogeneità, con passaggio al vapore, riposo di un giorno e crosta di briciole di pane, senza uovo, sopra una spennellata di amido di riso. Perché il Dio della cucina è nei dettagli.

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Cristiana Romito / photo_Alberto Zanetti

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Matter of matter, cauliflower of cauliflower. Immobile pirouettes on the ingredient. Romito succeeds even in the most difficult challenge: researched and designer patisserie, consistent with “savoury”. Without or with added sugar, as marker against salt, and always very light, perfumed, digestive. One masterpiece is the iced liquorice with wine, creamy white chocolate and Balsamic vinegar, which paved the way for the “sour” dessert. “Vinegar and liquorice enhance one another: the first bite tastes bitter, then the mouth creates contrast benchmarks and rebalances everything. And it is the addition of a little rice starch that gives it texture and persistence, indispensable for balancing”. This begs the question: what is there after the absolute? “The Bulgari project involves serving traditional Italian dishes with a modern concept, innovative structures and techniques, which help centre the recipe. And this is something that is occurring also at Reale”. For example the Milanese cutlet, whose inclination is cooking aimed at maximum homogeneity, with steaming, one day’s rest and breadcrumb crusts, with no eggs, coated with a brushing of rice starch. Because the god of cookery is in the details. JAMESMAGAZINE.IT

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Gianni Sinesi / Sommelier / photo_Alberto Zanetti

And the vegetable is indeed the protagonist of this extraordinary creative season: the purple aubergine coated with syrup of black aubergine and peach caramel, which accelerates rotation in the mouth, defying every cliché, artichoke and rosemary, marinated tomato which flows into water melon dehydrated by pressure, the savoy cabbage ripened in modified atmosphere up to 100 days, to maximise the flavour and produce compact leaves, which end up looking like the fibres in roasted veal. There is a constant, or better “recurring” element: the balsamic and resinous note in the rosemary extract, as plant extractor alternative to salt. “I always start from the ingredient and how it is use in traditional or regional cuisine. Then possibly try and achieve the exact opposite. What I am most interested in is enhancing ordinary products, which can rise to the dignity and give the satisfaction of a meat or fish dish. This means that they often are a trump card, ideal as starter, second course and served with knife and fork, for the important bite. Without sauces or garnishing, because everything is already in the material: aesthetics, structure, taste complexity. And the tests are innumerable: the grams of salt, the degree more or less, the oxidation point”. The same result is achieved elsewhere through “cold contaminations” in water: broth obtained by maceration which captures the integrity of the ingredient, be it the carcass of a roast duck, in a novel base, of cime di rapa where the metal jingles, or a very intense “limoncello”, with sugar and alcohol subtraction. It is difficult to imagine a more radical, though more gentle, cuisine, going against the cutting-edge avant-garde cliché, eager to shock. The focus, on the contrary, is everyday magic: eating what we have always eaten, like we have never eaten it before, for a sort of silent epiphany.


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TRA TRADIZIONE E RIBELLIONE di Gualtiero Spotti

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Caporetto si trova in Slovenia ed è una località ben nota per le vicende legate alla ritirata dell’Esercito Italiano durante la Prima Guerra Mondiale. Oggi, a distanza di più di un secolo, rischia di passare alla Storia, almeno quella recente, per un ristorante che negli ultimi anni si è guadagnato un posto di rilievo nell’Olimpo delle cucine più prestigiose a livello internazionale e che si trova nella frazione di Staro Selo, poco fuori il centro del paese. Stiamo parlando di Hiša Franko, ovvero Casa Franko, la dimora di famiglia di Valter Kramar e Ana Roš, finita sulle pagine dei giornali di mezzo mondo proprio per l’ottima cucina. Un’irresistibile ascesa che ha visto diventare Ana Roš, nel 2017, la miglior cuoca del mondo per la 50 Best e, da pochi mesi, il ristorante di Caporetto innalzarsi fino alla posizione 38 della classifica che raccoglie i migliori ristoranti a livello planetario. Riconoscimenti meritatissimi e che seguono quello che forse è stato il vero punto di svolta nella crescita del piccolo ristorante sloveno, ovvero la partecipazione nel 2016 a una delle puntate del celebre format Chef’s Table proposto da Netflix. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019


between tradition and rebellion made the front pages of newspapers worldwide exactly because of its outstanding dishes. An irresistible ascent which, in 2017, led Ana Roš, to being selected as the best chef in the world by 50 Best, and - a few months ago – to the restaurant in Caporetto rising to rank 38 in the list of the best restaurants worldwide. These are all well-deserved awards which follow up on the real turning point in the progress of the small restaurant in Slovenia, namely its participation in 2016 in one instalment of the famous format Chef’s Table on Netflix. JAMESMAGAZINE.IT

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Caporetto is in Slovenia and it is a well-known place because of events related to the Italian army retreating during World War One. Today, more than one century later, there is a chance that it might go down in History, at least the recent part, because of a restaurant which, over the past few years, has earned a prestigious position within the Olympus of the most prestigious cuisine at international level, located in the village of Staro Selo, not far from the centre of the town. We are talking about Hiša Franko, in English Franko’s House, the family home of Valter Kramar and Ana Roš, which


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Vitello delle malghe del Monte Nero Alici, finocchio (come una tisana), limone candito, latte affumicato

Ma a ben pensarci era solo questione di tempo, perché il talento cristallino di Ana Roš gli addetti ai lavori lo avevano già scoperto da diverse stagioni frequentando questo angolo di Slovenia immerso nella natura, nutrendosi dei formaggi dei vicini alpeggi, dell’ottima selvaggina di stagione, della verdura e la frutta che arriva dagli orti vicini o da quello di casa, che si trova alle spalle del ristorante. Oppure dei pesci che sguazzano nella vasca a fianco del ristorante, dove scorre fresca l’acqua di un ruscello che scende dalle montagne. Arrivando da Hisa Franko, l’atmosfera familiare e un po’ contadina che si respira da queste parti, pensando alla popolarità crescente dei cuochi e all’impatto mediatico che il cibo ha acquisito in questi anni, riconcilia con i valori più genuini della terra. Così si arriva all’ingresso e si vedono scorrazzare in giardino il cane e il gatto di casa; nel corso della mattinata c’è il via vai frenetico che segue l’ora della colazione per gli ospiti e dove ci si dedica alle faccende domestiche, con i ritmi del quotidiano dettati spesso dalla natura che decide quando raccogliere la frutta o la verdura destinate alla cucina. E’ un piccolo mondo rurale ben delimitato, visto che la famiglia di Ana abita al secondo piano della casa, a stretto contatto con l’universo di Hiša Franko e dove si assaporano le intuizioni e le calibrate e geniali preparazioni di una cuoca che ha saputo uscire dal suo piccolo mondo per curiosare nelle cucine mondiale (tra mille impegni, viaggi ed eventi ai quali ha partecipato) raccogliendo intuizioni prima di tornarsene a casa per presentare nei piatti un susseguirsi di armonie di sapori, di colori, di fermentazioni, di affumicature, tostature, marinature, in un mix di tradizione e ribellione. A dare manforte ci pensa anche Valter, l’altra metà di Hiša Franko, che si occupa della cantina tra etichette di Sutor, di Organic Anarchy, di Tilia, di Simcic o di Burja e una imponente selezione dei migliori vini sloveni, oltre che dei formaggi. Se poi si vuole estendere l’esperienza a qualcosa di più vicino alla tradizione slovena, ci si può spingere fino a Caporetto dove, nel centro del paese, Valter Kramar da poco ha aperto l’osteria tipica Hiša Polonka: due belle salette conviviali dove ci si immerge tra sapidità e sapori più locali, magari davanti a un buon bicchiere di birra ad accompagnare piatti sinceri e di una tradizione che abbraccia un’ampia area geografica, visto che si va dal frico alla polenta con ricotta e pancetta (Zabeljena p’lenta), dal cervo in salmì (Jelenov golaž) al Burger Polonka, con carne di manzo, cipolla, insalata di erbe e formaggio. Si beve la birra artigianale della casa, chiamata Feo in onore dell’artista Ivan Volarič Feo, nativo di un paesino vicino a Caporetto. Nella casa madre di Hiša Franko invece vale la pena degustare il Centocchio con piselli, fragola e acqua di mandorle, il Mazzo di piante selvatiche con emulsione di asparagi verdi, olio di semi di zucca (di quest’ultimo, il kurbiskernöl, in Slovenia e Austria ne fanno largo uso in cucina) e ciccioli di maiale caramellati, e il Cuore di cervo con riesling, ostrica e bergamotto. Oppure il Drežnica-Idrsko-Mexico City, in un viaggio gastronomico di grande fascino, capace di unire il Coniglio di montagna in viaggio verso il Messico con una bella scorta di salsa mole, fagioli, arachidi e aglio nero. Felice espressione della cucina intuitiva di Ana Roš e perfetto riassunto di come cucina globale e locale possono convivere.

Centocchio con piselli, fragola e acqua di mandorle

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Hiša Franko Staro Selo 1, Caporetto (Slovenia) Tel. +386.53894120 www.hisafranko.com


An irresistible ascent, which - in 2017 - has led Ana Roš, to being selected as the best chef in the world by 50 Best

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Un’irresistibile ascesa che ha visto diventare Ana Roš, nel 2017, la miglior cuoca del mondo per la 50 Best

If you think about it, it was only a matter of time before the crystal-clear talent of Ana Roš would be discovered by experts who, for several years already, had been visiting this corner of Slovenia steeped in nature, enjoying the cheeses from nearby mountain pastures, the excellent wild fowl in season, the fruit and vegetables from nearby gardens or from the home orchard, just behind the restaurant. Or the fish jumping in the tank beside the restaurant, with cool water from a stream which flows down from the mountains. When you arrive at Hisa Franko, the family and slightly rustic atmosphere which you breathe in these locations, thinking about the growing popularity of the cooks and about the media impact which food has acquired over the past few years, puts you in touch with the most genuine values of the land. You reach the threshold and see the family cat and dog running about in the garden; in the morning there is the busy to-andfro after breakfast for the guests, when you take care of household chores, with everyday rhythms often dictated by nature which decides when the fruit and vegetables for the kitchen should be harvested. It is a small, clearly-defined rural world, because Ana’s family lives in the second floor of the house, in close contact with the universe of Hiša Franko, and where you can taste the intuitions and carefully calibrated ingenious dishes of a chef who has been able to leave her own small world and explore world cuisine (among the thousand commitments, travels and events in which she has taken part), collecting ideas before returning home to present them in her dishes with a series of harmonies and flavours, colours, fermentations, smoking, roasting, marinades, in a mix of tradition and rebellion. She is supported in this endeavour by Valter, the “other half” of Hiša Franko, who takes care of the cellar with its Sutor, Organic Anarchy, Tilia, Simcic or Burja labels, and an imposing selection of the best wines in Slovenia, as well as of the cheeses. If you wish to extend the experience to something closer to Slovene tradition, you can travel to Caporetto where - in the centre of the village - Valter Kramar recently inaugurated the typical tavern called Hiša Polonka: two nice dining rooms, where you can enjoy tasty more local flavours, possibly accompanied by a good beer with genuine dishes and a tradition which encompasses a wide geographical area, ranging from Frico to polenta with cottage cheese and pancetta (Zabeljena p’lenta), deer cooked in wine (Jelenov golaž) and Burger Polonka, consisting of beef, onion, salad with herbs and cheese. You can drink the beer of the house, called Feo as a tribute to the artist Ivan Volaric Feo, who was born in a small village near Caporetto. In the “headquarters” at Hiša Franko, instead, we recommend trying the Centocchio with peas, strawberry and almond water, the wild plant Bunch with green asparagus, pumpkin seed emulsion (kurbiskernöl, featuring prominently, in Slovenian and Austrian cuisine) and caramelised pork morsels, then the Deer heart with Riesling, oyster and bergamot. It is also worth mentioning Drežnica-Idrsko-Mexico City, a highly fascinating culinary voyage, which combines mountain Rabbit on a journey to Mexico with a large amount of the sauce called mole, beans, peanuts and black garlic. It is a successful expression of the intuitive cooking style by Ana Roš, as well as a perfect summary of how global and local cuisine can live together.


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di Valentina Macciotta JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019


ISOLE E PARADISO Sulla mappa sono poco più che un puntino nel bel mezzo dell’Oceano Indiano. Eppure le isole Seychelles sono un angolo di Paradiso che vale davvero la pena di visitare. L’arcipelago è composto da 115 isole che si dividono in 72 “isole lontane” – perlopiù atolli corallini – e 43 “isole vicine” che sono quasi tutte granitiche, ricoperte da una vegetazione rigogliosa e con bellissime spiagge incontaminate. Tra queste ultime le principali sono Mahé, Praslin e La Digue, una diversa dall’altra ma tutte accomunate da una bellezza mozzafiato. Questo è un viaggio alla loro scoperta, ricco di sorprese ed emozioni inaspettate. Perché le Seychelles non sono solo una meta da viaggio di nozze e da vivere all’interno di resort di lusso, ma un vero paradiso per gli amanti della natura selvaggia e per chi desidera rilassarsi in un angolo di mondo ancora poco battuto dal turismo di massa.

On the map they are little more than a dot in the middle of the Indian Ocean. The Seychelles Islands, however, are a corner of Paradise which is really worth visiting. The archipelago consists of 115 islands, which are divided into 72 “faraway isles” – mainly coral atoll – and 43 “nearby islands”, which are almost all granitic, covered in lush vegetation and with beautiful uncontaminated beaches. Among the latter the most important are Mahé, Praslin and La Digue, all different one from the other although they share the same breath-taking beauty. This is a journey to discover them, full of surprises and unexpected emotions. Because the Seychelles islands are not merely a honeymoon destination and luxury resort experience: they are a real paradise for lovers of wild nature and for those looking for relaxation in a corner of the globe still untouched by mass tourism.

Mahé, la principale e la meno conosciuta Chiunque scelga di visitare una o più isole delle Seychelles, sa bene che la prima tappa obbligata sarà Mahé, l’isola più grande e popolata dell’arcipelago – lunga 27 chilometri e larga 8 e con una popolazione di 70.000 abitanti – dove peraltro atterrano tutti i voli internazionali. Ricca di spiagge incantevoli e con un entroterra dominato da una lussureggiante foresta pluviale, a Mahé si trova anche la capitale più piccola al mondo: Victoria, vero centro culturale ed economico delle Seychelles, famosa in tutto il mondo anche per il suo coloratissimo e chiassoso mercato cittadino dove acquistare verdura e frutta esotica, pesce freschissimo, ma anche i migliori souvenir artigianali di tutte le isole. L’influenza della dominazione inglese – le Seychelles sono state colonia britannica fino al 1976 – è ancora molto evidente nella capitale. Basta soffermarsi ad ammirare la Torre dell’orologio, che si trova nel bel mezzo di una trafficata rotonda della città, per essere catapultati in un attimo a Londra, davanti all’orologio del Vauxhall Bridge. A Victoria si trova anche la più grande chiesa cattolica delle Seychelles, costruita nel 1892 e ristrutturata a metà degli anni Novanta: si tratta della Cattedrale dedicata all’Immacolata Concezione, circondata da un bel giardino curato dove godersi un po’ di tranquillità lontano dal trambusto del centro. Ma se i seychellesi sono per la maggior parte cristiani, una piccola minoranza (circa il 2%) pratica l’induismo e ne è testimonianza il variopinto tempio indù che si trova nel cuore di Victoria.

Mahé, is the main and lesser known island. Anyone visiting one or more of the Seychelles islands is aware that the first stop is bound to be Mahé, the largest and most populated island in the archipelago – 27 km long and 8 km wide, with a population of 70,000 – where all international flights land. It is full of charming beaches and with a lush rain forest inland, in Mahé there is also the smallest capital in the world: Victoria, a true cultural and economic hub for the Seychelles, famous everywhere also because of its extremely colourful and noisy street market, where you can buy exotic fruit and vegetables, fresh fish, as well as handmade souvenirs from the various islands. The influence of British domination – the Seychelles were a colony until 1976 – is still clearly evident in the capital. You just need to stop and admire the clock Tower, right in the middle of a very busy roundabout in town, to imagine for a moment that you are in London, in front of the Vauxhall Bridge clock. In Victoria you also have the largest Catholic church in the Seychelles, built in 1892 and restructured in the mid-e 1990s: it is a Cathedral dedicated to the Immaculate Conception, surrounded by a carefully-tended garden where you can enjoy some peace and quiet far from the bustle of the centre. The population of the Seychelles islands is mainly Christian, but there is a small minority (about 2%) who are Hindus and worship in the colourful temple in the heart of Victoria. JAMESMAGAZINE.IT

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Islands and paradise


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un vero paradiso per gli amanti della natura selvaggia e per chi desidera rilassarsi. a true paradise for wild nature enthusiasts and anyone looking for relaxation.

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Per chi ama la natura e vuole farsi un’idea della flora e della fauna delle Seychelles, a pochi chilometri dal centro si trova il Giardino Botanico. Qui rimarrete incantati davanti alla bellezza delle circa 500 piante qui presenti come per esempio l’albero della papaya e della noce moscata, gli oltre 150 tipi di orchidee e la famosa palma Coco de Mer che cresce esclusivamente alle Seychelles, per la precisione sulle isole di Praslin (nella Vallèe de Mai) e Curieuse, ed è famosa per la sua noce di cocco che ricorda incredibilmente le forme femminili. In questo giardino di circa 10.000 metri quadri, fondato nel 1901 da un agronomo francese per conservare e promuovere la biodiversità, si possono osservare anche numerosi uccelli autoctoni, le volpi volanti (pipistrelli di grandi dimensioni con un muso che ricorda appunto quello di una volpe) e le tartarughe giganti di Aldabra, il secondo più grande atollo corallino al mondo che fa parte delle Seychelles. Le ragioni per fermarsi qualche giorno a Mahé prima di partire alla volta di altre isole da sogno non si esauriscono qui. Tra parchi nazionali, aree marine protette JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

e spiagge selvagge e incontaminate, avrete solo l’imbarazzo della scelta su come trascorrere il vostro tempo sull’isola. Fra le attività più amate citiamo le escursioni lungo i sentieri del Morne Seychellois National park e il trekking fino a Copolia (da cui si godono splendidi panorami) e lo snorkeling al Parco Marino di St.Anne per vedere da vicino le tartarughe marine e i pesci variopinti che popolano la barriera corallina. Tra le spiagge più belle e famose di Mahé troviamo Beau Vallon e Anse Royal, rispettivamente al nord e al sud dell’isola, entrambe molto ampie e dotate di ogni genere di servizio. Se invece amate i litorali più selvaggi, bisogna spingersi fino al profondo sud dove si incontra la meravigliosa Anse Intendance: un chilometro di spiaggia dalla sabbia bianca e fine circondata da una vegetazione lussureggiante e da imponenti rocce granitiche e lambita da un mare turchese, ahimè, spesso agitato. A detta di molti è una delle spiagge più belle al mondo, peccato che immergersi nelle sue acque sia molto pericoloso per via delle forti correnti e delle onde alte.


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If you love nature and you wish to get a taste of the flora and fauna in the Seychelles, a few kilometres from the centre you have the Botanic Garden. Here you will be enchanted by the beauty of the roughly 500 plants on display, including the papaya and nutmeg tree, the more than 150 varieties of orchids and the famous Coco de Mer palm tree, which grows only in the Seychelles, more specifically on the islands of Praslin (in Vallee de Mai) and Curieuse; it is famous because of its coconut whose shape is incredibly similar to female forms. In this garden of about 10,000 square metres, founded in 1901 by a French agronomist to preserve and promote biodiversity, you can also find numerous indigenous birds species, flying foxes (large bats, whose face has a shape similar to that of a fox) and giant Aldabra tortoises, the second largest coral atoll in the world which is part of the Seychelles. The reasons to stop for a couple of days in MahĂŠ before setting towards other dream islands, are not all here. Among national parks, protected marine areas, wild and uncontaminated beaches, you are spoilt for choice when it comes to what to do on the island. Among the most popular activities, it is worth mentioning excursions along the paths of Morne Seychellois National park and trekking to Copolia (with a splendid view), and snorkelling in the St.Anne Marine Park to see the turtles and multi-coloured fish in the coral reef from close up. The most beautiful and famous beaches in MahĂŠ include Beau Vallon and Anse Royal, respectively in the north and in the south of the island, both very large and equipped with all mod cons. If you are looking for wilder coastlines, you should travel further south, to the marvellous Anse Intendance: one kilometre of beach with fine white surrounded by lush vegetation and imposing granite rocks, touched by a turquoise sea, alas often rough. According to many, it is one of the most beautiful beaches in the world; regrettably it is very dangerous to swim in its waters because of strong currents and high waves.


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Praslin, tra foreste vergini e le spiagge più belle al mondo A circa un’ora di aliscafo da Mahé si trova l’isola di Praslin, la seconda isola delle Seychelles per dimensioni (misura 26 chilometri quadrati) e per numero di abitanti (circa 8.000). L’attrazione più famosa dell’isola, oltre ad alcune tra le spiagge più belle al mondo come esempio Anse Lazio e Anse Georgette, è la Vallée de Mai, parco naturale incluso tra i patrimoni mondiali dell’UNESCO nel 1983 come “eccellente esempio di una foresta di palme caratteristica delle Seychelles”. Qui si trovano oltre 1400 esemplari della leggendaria palma Coco de Mer oltre a numerose specie animali endemiche come per esempio il rarissimo pappagallo nero di Praslin e il geco verde delle Seychelles. Visitare la Vallée de Mai è un’esperienza incredibile: la luce che filtra tra la fitta vegetazione, il silenzio interrotto solo dal fruscio delle palme accarezzate dal vento e dal verso degli uccelli rendono l’esperienza davvero unica. Vi consigliamo la visita in compagnia di una guida che possa spiegarvi ogni segreto di questo meraviglioso giardino dell’Eden. Da Praslin, poi, una delle escursioni in barca da non perdere assolutamente è quella all’isola di Curieuse, habitat naturale delle tartarughe giganti, nonché luogo ideale per praticare snorkeling, rilassarsi in spiaggia o fare un bagno in uno dei mari più calmi, caldi e cristallini di tutte le Seychelles. In genere queste escursioni prevendono anche un pranzo abbondante a base di pesce alla griglia e altri piatti della cucina creola magari accompagnati dalla birra locale (la Sey-Brew) o da un cocktail a base di succo di frutta e rum Takamaka, prodotto in una nota distilleria di Mahé.

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La Digue, l’isola che si gira in bicicletta Per terminare il viaggio nell’arcipelago seychellese c’è un’isola che sa rapire il cuore: La Digue, la più piccola delle tre principali, dove ci si sposta principalmente in bicicletta o a piedi. Qui vivono poco più di 3.000 persone in appena 10 chilometri quadrati. Su questo fazzoletto di terra circondato dall’Oceano Indiano si trova una delle spiagge più belle e fotografate al mondo: Anse Sous d’Argent con le sue caratteristiche rocce granitiche, la spiaggia bianca di sabbia impalpabile come la farina, un mare turchese e cristallino calmo e poco profondo perché protetto dalla barriera corallina e la vegetazione lussureggiante di palme da cocco. Questa spiaggia da cartolina fa parte del parco di L’Union Estate, ex piantagione di cocco e vaniglia, testimonianza del passato coloniale di La Digue, e per accedervi è necessario pagare un biglietto di ingresso di 115 rupie a persona, ovvero circa 8 Euro, ma non si rimane delusi. Unico consiglio è quello di verificare gli orari delle maree in modo da godervi appieno questo splendore di spiaggia.

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Praslin, between virgin forests and the most beautiful beaches in the world About one hour’s hovercraft trip from Mahé you have the island of Praslin, the second island of the Seychelles in terms of size (it is 26 square kilometres) and of number of inhabitants (about 8,000). The most popular attraction on the island, apart from some of the most beautiful beaches in the world, including Anse Lazio, Anse Georgette, and Vallée de Mai, a natural park listed as part of UNESCO’s world heritage in 1983 as “outstanding example of typical palm forest in the Seychelles”. Here you will find over 1400 specimens of the legendary Coco de Mer palm. as well as numerous endemic animal species, for example the Praslin black parrot and the green Seychelles gecko. Visiting Vallée de Mai is an incredible experience, the light filtering through the thick vegetation, the silence broken only by the rustling of palm trees stroked by the wind and by birdsong, make it truly unique. We recommend visiting with a guide who can explain to you every secret of this wonderful Garden of Eden. From Praslin, then , one of the excursions you should definitely not miss is to the island of Curieuse, natural habitat of giant turtles, as well as ideal site for snorkelling, just relaxing on the beach, or going for a swim in the calmest, warmest and most crystalline seawaters of the whole Seychelles. Generally speaking these excursions also include a plentiful lunch with grilled fish and other dishes from creole cuisine, possibly acocmpanies by local beer (Sey-Brew), or by a fruit juice and Takamaka rum cocktail, produced at a famous distillery in Mahé. La Digue, the island you can cycle around To complete your trip to the Seychelles archipelago, there is an island which will capture your heart: La Digue, the smallest of the three main islands, where you move about mainly by bicycle or on foot. There are about 3,000 people living here, on just 10 square kilometres. On this earth pocket, surrounded by the Indian Ocean you have one of the most beautiful and photographed beaches in the world: Anse Sous d’Argent with its typical granite rocks, the white impalpable sandy beach similar to flour, a tourquois and crystalline calm sea, shallow because it is protected by the coral reef and lush vegetation with coconut palms. This picture postcard beach is part of the L’Union Estate park, a former coconut and vanilla plantation, bearing witness to the colonial past of La Digue. To enter it you have to pay an admission fee of 115 rupees each, about 8 Euro, but you will not be disappointed. The only piece of advice is to check the times of the tides to enjoy this wonderful beach to the full.


The new aesthetic of living Discover the residences for sale The icons of the future Milan are found in Porta Nuova, from Bosco Verticale to Solaria tower. Here the city’s urban planning and cultural transformation is tangible, showing how the area has given top priority to environmental sustainability, human wellness and territorial enhancement. Porta Nuova is renowned as one of the most innovative urban development models in Italy and in Europe.

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La passione per questi luoghi o ce l’hai o non ce l’hai. Gli amanti ossessivi dell’Asia di solito non approfondiscono il fascino nascosto dei Caraibi ma oggettivamente lo spettacolo che riservano alcuni paesi, soprattutto quelli meno frequentati, è unico e rende felici. Grenada fa parte di questi, meta meno battuta (e menomale) dal turismo e isoletta degna di nota. Siamo nelle Piccole Antille e insieme alle isole meridionali dell’arcipelago delle Grenadine costituisce uno stato insulare situato nel mare dei Caraibi. Cristoforo Colombo la scoprì nel 1498 e forse un’idea della sua fertilità e ricchezza la ebbe da subito: conosciuta come The Spice Isle, l’isola delle spezie, è dedita alla produzione di cannella, chiodi di garofano, zenzero e della noce moscata, famosa e diffusa quaggiù, coltura privilegiata tanto da apparire sulla bandiera nazionale. Dal 1783 al 17 settembre 1974 fu colonia inglese finché divenne Stato indipendente vivendo di turismo e attività agricola. Grenada, come tutte le vicine isole cugine, ha origine vulcanica e un suolo molto fertile che permette di avere una produzione varia e abbondante. È una piccola isola da girare facilmente in auto (non vedrete motorini o biciclette, i dislivelli sono notevoli), con i suoi 344 km2 è un concentrato di profumi, tradizioni, colori e sapori tipici. Solitamente chi sceglie di raggiungerla (volo American Airlines con stop over a Miami dove si arriva di sera ripartendo la mattina successiva con altra rotta di circa tre ore e mezza) opta per almeno una settimana e la maggior parte delle volte usufruisce dei suoi confort rigeneranti.

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Either you are passionate about these places or you are not. Those who are obsessively fond of Asia usually fail to explore in depth the hidden charm of the Caribbean. There is no denying, however, that the fascination held by some countries, especially those less visited by tourists, is unique and bound to make you feel happy. Grenada is one of them: slightly off the beaten track (luckily so) of tourism, it is a noteworthy island. We are in the Lesser Antilles which, together with the southern islands of the Grenadine archipelago, are an insular state in the Caribbean Sea. Christopher Columbus discovered it in 1498, and seemed to immediately realise its potential for fertility and wealth: also known as The Spice Island, it relies on the production of cinnamon, cloves, ginger and nutmeg, which is popular and widespread down here, a favourite crop to the extent that it appears on the national flag. From 1783 to 17 September 1974 it was a British colony, until it became an independent country with an economy based on tourism and farming. Grenada, like all nearby cousin islands, is of volcanic origin and has a very fertile soil, which allows for a varied and abundant production. It is a small island, ideal for driving around in a car (you won’t see any motorcycles or bicycles because of the slopes), with its 344 km2, and full of concentrated perfumes, traditions, colours and typical flavours. Those who decide to visit it (there are American Airlines flights with stopover in Miami, arriving in the evening and leaving the next morning for another three and a half hour stretch), choose to stay at least one week, and in most cases to enjoy its rejuvenating comforts. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019


di Giovanni Angelucci

the Caribbean you don’t expect

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I CARAIBI CHE NON TI ASPETTI


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La formula resort è la più consigliata a Grenada perché garantisce non solo un soggiorno “da pascià” ma anche di usufruire delle numerose attività che gli staff organizzano alla scoperta dell’isola. Il sottoscritto raramente fa vita da resort, piuttosto decide di accamparsi con una tenda in spiaggia, ma quando l’offerta è particolarmente stimolante allora fa un’eccezione. Qui, come in altre isole vicine (quattro brand e 23 strutture ad Antigua, Bahamas, Barbados, Giamaica, St. Lucia e Turks & Caicos), sorge il Resort Sandals LaSource Grenada, una della strutture più recenti e innovative della compagnia fondata da Gordon ‘Butch’ Stewart. Aperta nel 2013 nel cuore della vulcanica Pink Gin Beach, tra esclusive suite con piscine private a sfioro e i suoi salotti di fuoco ardente in acqua non è difficile farsi stupire. Un resort sofisticato e contemporaneo spesso scelto come luogo romantico dalle coppie alla ricerca di natura e cornici da film ma non solo. Votato resort Luxury All inclusive #1 ai Caraibi e miglior struttura in assoluto della destinazione ai World Travel Awards 2018, conta ben dieci ristoranti: la steakhouse Butch’s Chophouse, l’italiano Cucina Romana, il giapponese Kimonos, il francese Le Jardinier, l’insegna Soy specializzata in sushi e anche un pub in stile inglese, il The Tipsy Turtle, dove bere buone birre e godersi un hamburger. Se poi si aggiungono le varie postazioni di cocktail bar dove rinfrescarsi a suon di piña colada tra le tre aree che compongono la struttura (Pink Gin, South Seas e Italian Village), allora tutto appare perfetto. Di più, 69 delle 225 camere e suite offrono il servizio di maggiordomo da chiamare con un cellulare apposito che verrà fornito all’arrivo e che permetterà di avere qualcuno a completa disposizione per esaudire ogni desiderio (o quasi). Ma se di tanto in tanto la vita del lusso vi darà alla testa, allora uscite dai confini del resort fatti di palme e andate alla scoperta di Grenada. Usufruite dell’Island Routes Caribbean Adventures con cui vivere diverse esperienze o perdetevi in autonomia: partite dalla Riserva Naturale di Grand Etang, parco nazionale che ospita un lago di origine vulcanica e dirigetevi verso le spettacolari cascate a Grande Anse Beach, considerata una delle migliori dieci spiagge al mondo (ancora in parte incontaminata).

The resort formula is recommended in Grenada, not just because you will be guaranteed a pampered stay, but also due to the numerous activities organised by staff members to discover the island. Yours truly seldom chooses resort life – I’d rather camp with a tent on a beach – but it’s worth making an exception for a particularly enticing offer. Here, like on other nearby islands (four brands and 23 facilities in Antigua, Bahamas, Barbados, Jamaica, St. Lucia and Turks & Caicos), you have the Resort Sandals LaSource Grenada, one of the most recent and innovative structures of the company founded by Gordon ‘Butch’ Stewart. Inaugurated in 2013, in the heart of the volcanic Pink Gin Beach, among exclusive suites with infinity pools and sitting rooms of fire burning in the water, it’s not hard to be amazed. This stylish and cutting-edge resort is often chosen by couples in search of nature and movie-style settings, but not only. It was elected Luxury All-inclusive #1 resort in the Caribbean and best facility overall at the World Travel Awards in 2018; there are as many as ten restaurants: Butch’s Chophouse, the Italian Cucina Romana, the Japanese Kimonos, the French Le Jardinier, the Soy brand specialising in sushi, and even one British-style pub, The Tipsy Turtle, where you can feast on good beer and a hamburger. If you then add the many cocktail bars where you can enjoy a piňa colada in one of the three areas which make up the facility (Pink Gin, South Seas and Italian Village), then everything is perfect. There’s more: 69 of the 225 rooms and suites provide a butler service which can request with a dedicated mobile phone you will receive when you get there, so there is someone available to meet all your wishes (or almost). If, on the other hand, a life of luxury goes to your head every now and then, why not leave the resort boundaries with their palm trees, and discover Grenada? You can book a tour with Island Routes Caribbean Adventures for a variety of experiences, or make your way independently: start from the Grand Etang natural park, with its lake of volcanic origin, then head towards the spectacular waterfalls in Grande Anse Beach, considered one of the ten best beaches in the world (still partly uncontaminated).

il modo più autentico per conoscere la cultura di un paese? Il suo cibo tradizionale

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The most authentic way to discover a country’s culture? Its traditional dishes JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019


But what is the most authentic way to discover a country’s culture? Its traditional food, of course; so why not start with Oil Down, the traditional Grenada dishes, the iconic stew cooked in a large pan which has always been the most typical meal for the local population, featuring at all celebrations and gatherings of the community. It is a basic though highly nutritious dish, based on salted chicken or fish, cocoa milk, turmeric, vegetables and breadfruit. It might vaguely remind you of the Italian cassoeula in terms of composition and variety of ingredients; it is not especially recommended for the hottest hours of the day (it also has a high protein content), and best enjoyed when it’s cooler. Then you have the Grenada-style goat curry, where local herbs and spices are used, the goat’s meat seasoned and browned in sugar, cooked slowly with onions, garlic, chili and curry powder, then served with rice and traditional condiments, for example lime-based pickle. If, on the other hand, you should wish to try something even more exclusive, check out the restaurant called Andy’s (in the south of the island), and ask for a serving of iguana meat, which here they prepare stewed, in broth or roasted: you will be surprised by how good this Caribbean reptile meat tastes. Strange but true, on the island you even have a brew pub, called West Indies Beer Company (also in the south of the island), offering about fifteen beer varieties brewed locally, including those made with cocoa during the numerous festivals where “the food of the gods” plays a key role. According to the International Cocoa Organization, Grenada is among the 23 countries producing chocolate of the highest quality; it is thus definitely worthwhile visiting the Diamond Chocolate Factory, managed by a cooperative of local cocoa producers, or the Crayfish Bay Organic Chocolate factory, with an organic plantation where you can get to know, taste and buy good chocolate from Grenada. The fascination of this island consists in taking a walk to admire the see and the lush green vegetation, breathing in a clean air where the perfume of nutmeg is ever present, as is that of cinnamon, ginger, laurel, cloves, curcuma, thyme and citronella. Cocoanuts, mangoes and breadfruit will do the rest, inside and outside the kitchens.

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l’Oil Down, il piatto nazionale

Ma qual è il modo più autentico per conoscere la cultura di un paese? Il suo cibo tradizionale, ovviamente, quindi cominciate ad assaggiare l’Oil Down, il piatto nazionale di Grenada, l'iconico stufato preparato in una grande pentola che da sempre è il pasto più tipico della popolazione locale, onnipresente nelle feste e nei raduni all'interno della comunità. È un piatto semplice ma molto ricco a base di carne salata, pollo o pesce, latte di cocco, curcuma, verdure e frutti dell’albero del pane. Potrebbe ricordare vagamente la cassoeula per composizione e varietà di ingredienti, non è particolarmente consigliato durante le ore più calde della giornata (è alquanto proteico) ma da provare di sera durante le ore più fresche. C’è anche il curry goat in stile grenadino che vede l’utilizzo di erbe e spezie locali, la carne di capra viene condita e rosolata nello zucchero, cotta lentamente con cipolle, aglio, peperoncino e polvere di curry, servita con riso e condimenti tradizionali come il sottaceto a base di lime. Se però volete provare qualcosa di ancora più esclusivo, cercate il ristorante Andy’s (a sud dell’isola) e chiedete di provare la carne di iguana che qui preparano stufata, in zuppa o arrosto: sarà una sorpresa scoprire la bontà del rettile caraibico. Strano ma vero, sull’isola è presente anche un brew pub, il West Indies Beer Company (sempre a sud dell’isola) con una quindicina di birre prodotte in loco, tra cui quelle realizzate con il cacao durante le numerose ricorrenze in cui “il cibo degli dei” è protagonista. Secondo l’International Cocoa Organization Grenada è tra i 23 paesi produttori di cioccolato della migliore qualità, vale quindi assolutamente la pena fare un salto dalla Diamond Chocolate Factory gestita da una cooperativa di produttori locali di cacao o dalla Crayfish Bay Organic Chocolate, la fattoria con piantagione biologica dove conoscere, assaggiare ed acquistare il buon cioccolato di Grenada. Il fascino di quest’isola sta nel poter passeggiare guardando il mare e il verde della rigogliosa vegetazione, respirando un’aria candida in cui l'odore della noce moscata è sempre presente, così come quello di cannella, zenzero, alloro, chiodi di garofano, curcuma, timo e citronella. Noci di cocco, manghi e alberi del pane fanno il resto, dentro e fuori dalle cucine.


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di Giovanni Angelucci

happy in Lituania

Vilnius è stata recentemente nominata la Città più felice d’Europa secondo i dati di una recente ricerca effettuata dalla Commissione Europea, basata sul livello di soddisfazione degli abitanti. Dopo un accurato tour tra le sue vie ciottolose, i pub, le taverne e i ristoranti, possiamo dire che sì, Vilnius è una città frizzante e vivace che rende felice almeno chi la visita. È certamente la città ideale da cui partire per scoprire la Lituania, un paese “work in progress” potremmo definirlo, che ha fatto grandi passi avanti da quando, nel 1990 uscì dall’URSS (fu il primo paese) camminando sulle proprie gambe, ma che ha ancora tanto da dare. È ciò che si può dire avendo assaggiato la sua cucina, proposte qualitativamente altalenanti ma con picchi di valore che puntano a diventare sempre più alti e diffusi, ed è assolutamente possibile. Partiamo proprio dalla capitale, cuore lituano e base scelta dai cuochi più validi che dopo esperienze in giro hanno deciso di tornarvi spingendo la propria “baltic culture”. Due insegne che con certezza possiamo dire essere una spanna sopra le altre per concept, tecnica e proposta, sono Džiaugsmas e Sweet Root, entrambe poco distanti dal centro cittadino.

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Vilnius has recently been selected as the happiest City in Europe, according to data from research carried out by the European Commission, based on the level of satisfaction of its inhabitants. After a detailed tour of its cobbled streets, pubs, taverns and restaurants, we can confirm that, indeed, Vilnius is a sparkling and lively city which makes at least those who visit it feel happy. And it is definitely the ideal city to embark on the discovery of Lithuania, a country which we could define as “work in progress”, having made great steps forward since - in 1990 – it was the first country to leave the Soviet Union and started walking on its own feet, but which still has plenty to offer. And this is what we can say is definitely possible, having tasted its cuisine, with an offer varying JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

in quality but including peaks of outstanding value which can be expected to become increasingly widespread. Let us start from the capital itself, the heart of Lithuania and base chosen by the best chefs who – after professional experiences all over the world – have decided to return there in order to promote their very own “Baltic culture”. Two signs which we can say with certainty stand head and shoulders above the rest, in terms of concept, technique and menu on offer, are Džiaugsmas and Sweet Root, both of them not far from the old town.


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Džiaugsmas is a restaurant where you go to eat and not to play, to wonder at how much goodness there is in Lithuania, though. Martynas Praškevicius is the author and heart of this bistro-restaurant which only focuses on local products, often served for sharing, where you are more than welcome to eat with your hands. Informality and plenty of (outstanding) substance: the protagonists are ingredients from local suppliers, whom the chef knows in person; “my goal is simple: I wish to offer my customers the best Lithuanian products; this has always been my dream, and being able to do so in this location, makes me come to work with a smile on my face every day”, says this chef, who has no experience in bright star-studded restaurants, but has learnt everything by himself, starting directly with his first restaurant called Stebuklai. It is indeed an exception which confirms the rule, because the dishes are well prepared, highly enjoyable, and show not just plenty of passion, but also technique and research. The menu includes few proposals, which change every week: we recommend the whole set of starters and the quail as main course. Most of the wine selection is non-conventional, biodynamic and artisan, with a terrace where you can dine al fresco.

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Džiaugsmas Restaurant

Džiaugsmas è un ristorante in cui si va per mangiare e non per giocare, per stupirsi di quanta bontà ci sia in Lituania però sì. Martynas Praškevicius è autore e cuore di questo ristorante-bistrot che si concentra solo sui prodotti locali serviti spesso in condivisione, dove l’uso delle mani è più che permesso. Informalità e tanta (alta) sostanza: i protagonisti sono gli ingredienti provenienti dai fornitori della zona che lo chef conosce personalmente, “il mio obiettivo è semplice, voglio servire i miei clienti con i migliori prodotti lituani, è sempre stato il mio sogno e poterlo fare in questo luogo mi fa lavorare con il sorriso ogni giorno”, racconta il cuoco che non ha esperienze in luminose insegne stellate ma ha imparato tutto da sé, iniziando direttamente con il suo primo ristorante Stebuklai. Eccezione che effettivamente conferma la regola perché i piatti sono di buona esecuzione, di alta godibilità e dimostrano non solo tanta passione ma anche tecnica e studio. Il menù conta poche proposte che variano ogni settimana, da non perdere l’intera squadra di antipasti e la quaglia come portata principale. Selezione principalmente di vini non convenzionali tra biodinamici e artigianali, con una terrazza in cui poter cenare anche all’aperto.

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On the other side of the heart of the city there is Sweet Root, a lovely little place which – with its service and minimal concept – reminds us of some restaurants in Copenhagen and its New Nordic Cuisine. The young team, led by the head chef Justinas Misius truly follows seasonality, and every time you visit this restaurant you will find that just the bread (made on site) and the butter have not changed. With 65 Euro you can enjoy the tasting menu, consisting of seven dishes and seven illustrated tales on a presentation card which you will find on the table. Minimalism, care for details, cleanliness, just few mistakes for a cuisine which is local but not traditional. Chef Misius is currently the Lithuanian cook with the most experience in star-awarded restaurants worldwide, and this is clearly shown by the cosmopolitan outlook, with influences from all over the world: tastings where fermentations lead to acid flavours, and numerous ingredients manage to live together between a variety of consistencies and cooking, resulting in a really worthwhile sensorial experience.

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Justinas Misius / Sweet Root

Dall’altro lato del cuore della città c’è poi Sweet Root, gran bel localino che ricorda per servizio e concept minimal alcuni indirizzi di Copenaghen e la sua Nuova Cucina Nordica. La giovane squadra capitanata dall’head chef Justinas Misius segue davvero la stagionalità, e ogni volta che visiterete questo ristorante troverete solo il pane (fatto in loco) e il burro a non essere cambiati. Con 65 Euro potrete divertirvi percorrendo il menù degustazione composto da sette piatti e sette racconti illustrati su un biglietto di presentazione che troverete a tavola. Minimalismo, dettagli, pulizia, pochi errori per una cucina locale ma non tradizionale. Chef Misius è attualmente il cuoco lituano con più esperienze nei ristoranti stellati del mondo ed è evidente per la proposta dal respiro mondiale e contaminato: assaggi in cui le fermentazioni spingono sui sapori acidi e numerosi ingredienti riescono a convivere tra diverse consistenze e cotture, vale la pena compiere il percorso sensoriale.


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C’è poi Amandus, il ristorante del cuoco Deividas Praspaliauskas, particolarmente famoso in Lituania, che si diverte a stupire concentrandosi sulla spettacolarizzazione. La cena è pensata senza seguire ordini precisi da menù standard, Deividas vi darà modo di assaggiare alcune delle sue creazioni alternando sapori e portate senza gli schemi a cui si è normalmente abituati in un ristorante, insomma una sorta di improvvisazione di buon livello. Il menù cambia il primo martedì di ogni mese e l’orario prefissato in cui si comincia l’esperienza è alle 19: divertente e con diversi spunti interessanti su cui bisogna però ancora trovare la taratura giusta. Vilnius ha tanto da offrire oltre ai ristoranti, dunque passeggiate nel centro storico inscritto dal 1994 nei siti Patrimonio dell’Umanità dell’UNESCO, ed entrate nei numerosi locali: molte birrerie (Peronas, Alaus biblioteka, Snekutis, Bambalyne), cioccolaterie, food shop e fate una visita all’Hales Market, l’antico mercato in cui comprare salumi autentici, il tipico pane nero di segale, formaggi, mieli, carne in un’area apposita, ma anche mangiare in diversi localini gustosi e spartani. Quando il sole tramonta sono due le insegne dove ordinare un paio di cocktail ben fatti: Alchemikas e Nomads. Anche loro dislocati tra le principali arterie cittadine, il primo è un cocktail bar dall’atmosfera surreale e dall’estesa drink list in cui ai classici ben preparati vengono affiancati esperimenti apprezzabili e azzardati, il secondo più sobrio e a gestione tutta femminile, è spesso l’ultimo a chiudere ed è accanto all’hotel più prestigioso della città dove godersi il meritato riposo, il Pacai con una buona offerta ristorativa sia a pranzo che a cena. Ora siete pronti per nuovi lidi, a poca distanza JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

dalla capitale si raggiungono i principali luoghi di interesse del paese, come il nord ancora poco battuto e con una forte tradizione birraria o Kaunas, la seconda città della Lituania che può rappresentare una valida scelta. La Commissione Europea l’ha scelta come Capitale Europea della Cultura per il 2022 e nonostante abbia tutt’altra vibrazione rispetto a Vilnius, qualche meritevole indirizzo vale la sosta, se non il viaggio. Cercate sulla mappa l’Abbazia di Pažaislis e dirigetevi in questo luogo meraviglioso costruito per i monaci camaldolesi e progettato dall’architetto italiano Giovanni Battista Frediani. Sembra di tornare al XVII secolo nel complesso Monte Pacis, la struttura che riprende le tracce dell’antico santuario con le sue stanze, e che all’interno ospita un ristorante niente male affidato alle mani dello chef ventiquattrenne Rokas Vasiliauskas. Esperienze stellate tra Spagna e Gran Bretagna, gestisce ora una brigata di venti persone con ottimi risultati essendo riuscito a portare il ristorante Monte Pacis nella top 10 della White Guide, la pubblicazione gastronomica più prestigiosa dei paesi baltici. La cucina parla diverse lingue con ingredienti da tutto il mondo, tutto ciò che è vegetale proviene invece dal grande orto di proprietà e c’è molta attenzione alla proposta vino con centinaia di etichette. Buona tecnica, mente giovane e sognatrice, un po’ saccente, compongono il giusto mix di uno chef che porterà questo posto ancor più lontano. Per la vostra prossima visita in Lituania uno strumento di viaggio molto utile è il sito ufficiale dell’ente del turismo (www. lithuania.travel) in cui reperire numerose informazioni e utili dritte. Intanto i sveikata (salute)!


Chef Rokas Vasiliauskas / Monte Pacis

far from the capital you can reach the main sites of interest in the country, specifically the north – which is not visited by many tourists yet and with a strong brewery tradition, or Kaunas, the second city in Lithuania which can be a good choice. The European Commission selected it as European Capital of Culture for 2022, and even though its vibes are totally different than in Vilnius, there are a few sites worth a stop, if not the journey. Look up the Abbey of PaŞaislis on the map and head towards this wonderful place, built for the Camaldoli monks and designed by Italian architect Giovanni Battista Frediani. You will feel as if you have gone back to the 17th century, in the complex at Monte Pacis, the structure which reproduces the traces of the ancient sanctuary with its rooms, and has a good restaurant currently managed by the twenty-four year old chef Rokas Vasiliauskas. Having worked in Michelin-star restaurants between Spain and Great Britain, he now manages a staff of twenty with excellent results, making sure that the Monte Pacis restaurant remains in the top 10 ranking on the White Guide, the most prestigious publication in Baltic countries. Its cuisine speaks several languages, with ingredients from all over the world; on the other hand, all the vegetables are from its large garden, and much attention is paid to the wine list which includes hundreds of labels. Good technique, a young and enterprising mind, a bit of a know-it-all: this is just the right mix for a chef bound to carry this restaurant even further. For your next trip to Lithuania, a very useful travel tool is the official site of the tourism body (www.lithuania.travel) where you will find plenty of information and useful tips. In the meantime, i sveikata (cheers)! JAMESMAGAZINE.IT

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Then there is Amandus, the restaurant of Chef Deividas Praspaliauskas, especially well known in Lithuania, who likes to surprise by focusing on spectacular elements. Dinner is prepared without following any specific order from a standard menu, Deividas will give you a chance to taste some of his creations, alternating flavours and courses without following the patterns to which we are generally used in a restaurant; it is actually a sort of improvisation at high level. The menu changes on the first Tuesday of each month, and the standard time at which the experience begins is seven pm: it is entertaining and there are several interesting points, which possibly still might do with some calibration. Vilnius has a lot to offer apart from its restaurants, which includes leisurely walks in the old town, which in 1994 was listed by UNESCO as World Heritage site, with its numerous restaurants, bars (Peronas, Alaus biblioteka, Snekutis, Bambalyne), chocolate and food shops; it is worth taking in the Hales Market, the old street market where you can buy authentic cold cuts, the typical black rye bread, cheeses, honey, meat in a separate area, as well as stop for a meal in one of the many tasty and basic restaurants. After sunset there are two places where you can order a couple of skilfully prepared cocktails: Alchemikas and Nomads. They are located on the main streets in town; the former is a cocktail bar with a surreal atmosphere and extensive list of drinks, which includes traditional well prepared ones alongside remarkable and bold experiments. The second is more essential and entirely run by women. It is often the last to close and near the most prestigious hotel in town, where you can enjoy some well-earned rest, the Pacai with a good restaurant offer for both lunch and dinner. Now you are ready for new destinations: not


rooms

MANDARIN ORIENTAL HYDE PARK LO SPLENDORE RITROVATO TRA LUSSO E MINDFULLNESS

di Eleonora Galimberti

Newly-discovered splendour between luxury and mindfulness

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Fascino d’altri tempi dal tocco contemporaneo. Situato nel vivace quartiere di Knightsbridge, a pochi passi dal glorioso Hyde Park, il Mandarin Oriental Hyde Park è la destinazione perfetta per un’evasione nel superlusso più prestigioso di Londra. Camere sontuose, una Spa all’avanguardia, un bar alla moda e due ristoranti premiati tra cui Bar Boulud e il due stelle Michelin Dinner by Heston Blumenthal, il primo ristorante di Londra di uno dei più famosi chef del Regno Unito, che rende il Mandarin Oriental Hyde Park protagonista anche della scena culinaria della capitale. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Old-time charm with a contemporary touch: located in the lively borough of Knightsbridge, a short walk away from Hyde Park, the Mandarin Oriental Hyde Park is the ideal destination for an escape to the most prestigious super-luxury accommodation in London. Elegant rooms, a state-of-the-art spa, trendy bar and two starred restaurants, including Bar Boulud and the Michelin two-star Dinner by Heston Blumenthal, the first restaurant opened in London by one of the most famous chefs in the United Kingdom, which makes Mandarin Oriental Hyde Park a protagonist also on the culinary scene in the capital.


This legendary five-star hotel with an oriental style and set within the historic London scene, was reopened on 15 April 2019, after two years of multi-million restyling work. It has a long history: it was inaugurated in 1899, originally as residence for wealthy families, then – in 1902 – it became the exclusive Hyde Park Hotel (with a private Royal Entrance); the Mandarin Oriental Hyde Park - the only facility in Britain belonging to the Mandarin Oriental Hotel Group chain – was taken over in 1996 by the group from Hong Kong, which today numbers as many as 32 hotels and six residences in 23 countries worldwide.After crossing the threshold of its imposing early twentieth century Edwardian building, you are immediately captured by a fascinating combination of traditional style, contemporary design and oriental tradition which complements its welcoming charm, totally in keeping with its identity. The restyling project has been by the renowned interior designer Joyce Wang, who has been inspired by the Golden Age and by the beauty of Hyde Park: the leaves, the light of the Serpentine lake, the trees in the colour variations of the seasons, are all encompassed within the interiors of the hotel, embellished by artworks and Art Deco details. To celebrate the reopening of the hotel and its noteworthy 117 years of history, a set of special packages has been produced for guests. One of them is ‘Be the First to Stay’, which includes breakfast, a complimentary bottle of champagne and a daily credit for use in the new spa, at the Mandarin Bar, The Rosebery or at Bar Boulud. You also have the package called ‘Stay

al The Rosebery o al Bar Boulud. Oppure il pacchetto ‘Stay Like Sir Winston Churchill’, un tributo al leggendario primo ministro inglese e bon viveur, la mostra storica ‘If Walls Could Talk’ che racconta i momenti più significativi e gli aneddoti più curiosi sul passato dell’albergo, un Afternoon Tea in stile anni '20 e una serie di cocktail speciali al Mandarin Bar che rendono omaggio alla memoria di personaggi ed eventi storici che hanno animato l’iconico hotel, come ‘Hyde Park Special’, il mitico cocktail del 1935 del barista Billy dello storico Hyde Park Hotel. Non è tutto. Per rivivere l’atmosfera del passato, è possibile gustare squisite torte al The Rosebery, durante il rito pomeridiano del tè, come ‘French Religieuse’, ‘English Banoffee’ e ‘Russian Coconut Pavlova’. Il tutto, se si preferisce, sorseggiando Champagne e ascoltando dell’ottima musica jazz.

Like Sir Winston Churchill’, a tribute to the legendary British Prime Minister and bon viveur, the exhibition entitled ‘If Walls Could Talk’ which tells about the most significant moments and original anecdotes from the hotel’s history, a 1920s- style Afternoon Tea, and a series of special cocktails at the Mandarin Bar, where tribute is paid to the memory of personalities and historic events which have animated this iconic hotel, for example ‘Hyde Park Special’, the legendary cocktail designed in 1935 by the bartender Billy from the historic Hyde Park Hotel. There is more, through: in order to relive the atmosphere of the past, you can enjoy scrumptious cakes at The Rosebery, as part of the traditional afternoon tea; these include ‘French Religieuse’, ‘English Banoffee’ and ‘Russian Coconut Pavlova’. All this can be accompanied, by sipping champagne, if you wish, and listening to excellent jazz music. JAMESMAGAZINE.IT

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Il leggendario cinque stelle dallo stile orientale e calato nella storica cornice londinese ha riaperto il 15 aprile 2019 dopo due anni di opere di restauro multimilionario. Una lunga storia alle spalle: inaugurato nel 1899 inizialmente come residence per famiglie facoltose, per diventare nel 1902 l’esclusivo Hyde Park Hotel (con una Royal Entrance privata), il Mandarin Oriental Hyde Park è l’unica struttura britannica della catena Mandarin Oriental Hotel Group, acquisita nel 1996 dal gruppo di Hong Kong, che oggi conta 32 hotel e 6 residence in 23 Paesi nel mondo. Varcata la soglia del suo imponente edificio edoardiano del primo ‘900 in mattoni rossi, si viene incantati da una seducente combinazione di eleganza classica, design contemporaneo e tradizione orientale che completa il suo fascino accogliente in un tutt’uno con la propria identità. A curare il restyling è stata la nota interior designer Joyce Wang, lasciandosi ispirare dall'età dell'oro e dalla bellezza di Hyde Park: le foglie, la luce del lago Serpentine, gli alberi nelle variazioni cromatiche delle stagioni, sono tutti racchiusi negli interni dell’albergo, impreziositi da opere d’arte e dettagli Art Déco. Per celebrare la riapertura dell’hotel e la sua illustre storia di 117 anni, sono stati creati una serie di pacchetti speciali per gli ospiti. Tra questi il ‘Be the First to Stay’, che include la prima colazione, una bottiglia di Champagne di benvenuto e un credito giornaliero da utilizzare nella nuova Spa, al Mandarin Bar,


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Con la riprogettazione, le 181 camere e suite sono oggi ancora più confortevoli e lussuose, con mobili realizzati su misura che risaltano in un ambiente caldo e invitante. Le 40 suite hanno dimensioni che variano dai 47 mq fino a 444 mq, come la nuova Mandarin Oriental Penthouse, mentre i due nuovi attici Mandarin Penthouse e Oriental Penthouse possono essere collegati per creare una delle suite più grandi di tutta Londra, con tre camere da letto, tre bagni, una sala da pranzo privata, due cucine e vista spettacolare sullo skyline e il lussureggiante Hyde Park. La nuova Spa at Mandarin Oriental London offre le più recenti strutture per il benessere e la bellezza e partnership esclusive con alcuni degli esperti di salute e benessere più ricercati al mondo. Lo stimato designer newyorkese Adam D. Tihany ha supervisionato il suo rinnovo ispirandosi al simbolismo cinese tradizionale per creare un ambiente contemporaneo che riflettesse l’attenzione per i dettagli e l’armonia degli elementi della filosofia orientale. Le 13 sale per trattamenti individuali, tra cui una sala per trattamenti di medicina cinese, le due sale di bellezza che forniscono trattamenti all’avanguardia nel campo della biologia dell’invecchiamento cellulare e della medicina preventiva, nonché una Oriental Suite per massaggi, rendono la Spa al Mandarin Oriental il paradiso del relax a Londra. Il soggiorno al Mandarin Oriental Hyde Park si sublima con un’esperienza gastronomica al bi-stellato Dinner by Heston Blumenthal, che esibisce l’inimitabile alchimia culinaria dello chef con un menu fortemente influenzato dalla continua ricerca e scoperta della storica tradizione britannica e ricette risalenti al 14° secolo. Da non perdere: ‘Mandarin Meat Fruit’, un emblema assolutamente riuscito di eccezionale creatività e tecnica: un finto mandarino imbottito di paté di fegatini di pollo liscio come seta ed esaltato da una deliziosa gelatina di mandarino che lo contrasta. Ingredienti, bilanciati alla perfezione, compongono un mosaico di sapori che regalano al palato emozioni indimenticabili, mentre la consistenza e il gusto avvolgente (e travolgente) inebriano tutti i cinque sensi. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Following the restyling work, the 181 rooms and suites are now even more comfortable and luxurious, with furniture made to measure which stands out in a warm and cosy environment. The sizes of the 40 suites range from 47 m2 to 444 m2, as in the new Mandarin Oriental Penthouse, while the two new Mandarin Penthouse and Oriental Penthouse can be connected to result in one of the largest suites in London, with three bedrooms, three bathrooms, one private dining room, two kitchens, plus a spectacular view over the skyline and the lush Hyde Park. The new spa at Mandarin Oriental London offers the most recent facilities for wellbeing and beauty, as well as exclusive partnerships with some of the most sought-after health and wellness experts in the world. The renowned designer from New York Adam D. Tihany has supervised its restyling project, drawing inspiration from traditional Chinese, to create a contemporary environment which could reflect the care for details and the harmony of elements in oriental philosophy. The 13 rooms for individual treatments, including one for Chinese medicine treatments, the two beauty parlours where state-of-theart treatments are provided in the area of cellular ageing and preventive medicine, as well as one Oriental Suite for massages, make the Mandarin Oriental spa a relaxation paradise in London. Your stay at Mandarin Oriental Hyde Park can be ideally complemented by a culinary experience at the Michelin two-star Dinner by Heston Blumenthal, which provides the inimitable culinary alchemy of the chef with a menu strongly influenced by continuous research and the discovery of traditional British cuisine, and recipes dating back to the 14th century. Make sure you try the ‘Mandarin Meat Fruit’, a totally successful emblem of exceptional creativity and technique: a fake mandarin with chicken liver stuffing, soft as silk and enhanced by a delicious mandarin jelly as flavour counterpart. Perfectly balanced ingredients result in a mosaic of flavours which give the palate unforgettable emotions, while the all-encompassing (and exciting) consistency and taste bring all five senses to life.



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FASCINO E BELLEZZA IN CROAZIA

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A “world apart”, a light-filled, modern structure, overlooking a bay of crystal clear water that resembles Paradise. Monte Mulini is this and much more. The light flooding through the large, lounge windows will be the leitmotiv throughout the day. A window overlooking the park against the light of a sea you just dream of. We are in Rovinj on Croatia’s Istrian coast, a gem of the Mediterranean, which has kept its picturesque, relaxed charm. The Hotel Monte Mulini, with its five resplendent stars, is set back from the town in the modern part of the beautiful marina. It offers its visitors sophisticated luxury and guarantees incredible relaxation, just a few steps from Rovinj town centre. Inaugurated in 2009, today Monte Mulini is one of the most prestigious buildings in the whole of Croatia and boasts the much sought-after seal of Leading Hotels of the World. The dramatic, contemporary building was designed by some renowned British architects and designers. It stands on the hill above Golden Cape, a lush stretch of the Istrian coast. The architecture exploits its incredible location to the full, with a glass wall over three floors, welcoming guests with a stunning view of the sea while they check in. The remaining communal areas are similar in design to make the most of the natural light The spacious rooms and suites are comfortable, with king-size beds, enormous bath tubs and double-sided wardrobes, which can be accessed from the bedroom and from the bathroom. They all have private balconies overlooking the sea, so you can enjoy unique views and precious moments every day.

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glamour and beauty in Croatia

Un “mondo a parte”, una struttura moderna e luminosa, che si affaccia su una baia di acqua cristallina che assomiglia al Paradiso. Monte Mulini è questo e molto di più. La luce che traspare dalle ampie vetrate sarà il leitmotiv di ogni istante del soggiorno. Una finestra sul verde e sulle trasparenze di un mare da sogno. Siamo a Rovigno, sulla costa istriana della Croazia, un gioiello del Mediterraneo che non ha perso nel tempo il suo fascino pittoresco e rilassato. L’Hotel Monte Mulini, cinque stelle scintillante, è defilato rispetto al paese nella parte moderna della bellissima marina. Offre ai suoi visitatori un lusso raffinato e una garanzia di relax incredibile, a due passi dal centro di Rovigno. Inaugurato nel 2009, oggi il Monte Mulini è una delle strutture più prestigiose di tutta la Croazia e si fregia dell’ambito marchio Leading Hotels of the World. Il teatrale edificio in stile contemporaneo è stato progettato da rinomati architetti e designer britannici ed è situato sulla collina di Golden Cape, un lussureggiante tratto della costa istriana. L’architettura sfrutta al meglio la sua posizione incredibile, con una parete di vetro su tre livelli che accoglie gli ospiti mentre effettuano il check-in con una vista assoluta sul mare. Le restanti aree pubbliche sono progettate in modo simile per esaltare la luce naturale. Le camere e le suite sono spaziose e confortevoli, con letti king-size, enormi vasche da bagno e armadi su due lati a cui è possibile accedere sia dalla camera da letto che dal bagno. Tutti hanno balconi privati che si affacciano sul mare, per vivere quotidianamente panorami e momenti unici.


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Gli interni classici, senza tempo, con i grandi caminetti nella hall e nell’atrio centrale assicurano una vacanza indimenticabile anche nei mesi più freddi e non solo in estate. Le camere e le suite sono spaziose e moderne, con tessuti e trame sensuali, mobili su misura e opere d’arte originali croate appositamente commissionate per l’hotel. Un cromatismo elegante con sfumature di oro brunito e bianco crema, impreziosito da viola accesi e sfumature color melanzana, che creano un’atmosfera di lusso caldo e rilassante. Fiore all’occhiello del Monte Mulini è senza dubbio il ristorante Wine Vault, in cui brilla la cucina di Damir Pejcinovic, Chef talentuoso e creativo, raccontata in sala da Filip Bozic, somellier straordinario a cui vi consigliamo di affidarvi totalmente per vivere un’esperienza di assoluta piacevolezza. La nostra si è caratterizzata per un intenso viaggio nelle identità enogastronomiche croate: da una parte i piatti di Damir, perfette icone di una moderna visione della tradizione croata, dall’altra Filip, instancabile narratore di storie che ci ha deliziato con continui assaggi del meglio dell’enologia croata.

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The timeless, classic interiors, with large fireplaces in the foyer and central atrium, ensure a wonderful holiday even during the coldest months and not just in summer. The modern, spacious rooms and suites have luxurious, woven fabrics, bespoke furniture and original Croatian works of art commissioned especially for the hotel. An elegant palette with shades of burnished gold and creamy white, enriched with bright violets and shades of aubergine to create a luxuriously warm, relaxing atmosphere. Monte Mulini’s flagship is undoubtedly its restaurant, the Wine Vault, starring the cuisine of the talented, creative chef, Damir Pejcinovic, with amazing sommelier Filip Bozic to talk you through the menu and who you can rely on completely to help you enjoy a wonderfully agreeable experience. For us it was an intense journey of discovery of Croatian food and wine: With Damir’s dishes on the one hand, perfect icons of Croatian tradition with a modern twist, and on the other, Filip, the untiring storyteller, who entertained us with continual tastings of the very best of Croatia’s wines.


Lastly, every great experience in a luxury hotel like the Monte Mulini can only end with moments of pure wellbeing. Here, the Art Wellness Spa offers you just what you expect in a place like this, decorated in gold and white, stylised rocks with Swarovski crystal “water” drops and natural stone. Set over two levels, the Art Wellness Spa is connected directly by a corridor to the Wellness & Spa area owned by Monte Mulini’s twin property, the Hotel Lone. The two spa centres combine to create one of the largest wellbeing spaces in all Croatia, offering guests over 2,500 square metres of spa facilities. At the end of our visit, we were very unwilling to leave the genuine, pure and beautiful Monte Mulini in this enchanted corner of Croatia, but we hope to return soon.

Rovigno, un gioiello del Mediterraneo che non ha perso nel tempo il suo fascino pittoresco e rilassato Rovinj, a Mediterranean gem, which has kept its picturesque, relaxed charm JAMESMAGAZINE.IT

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Infine, ogni grande esperienza in un hotel di lusso come il Monte Mulini, non può che passare per momenti di puro benessere. Qui è l’Art Wellness Spa ad offrire quello che ti aspetti da un luogo del genere, con i suoi colori oro e bianco, rocce stilizzate con gocce di “acqua” di cristallo Swarovski e pietra naturale. Disposto su due livelli, l’Art Wellness Spa è direttamente collegata tramite un corridoio all’area Wellness & Spa della proprietà gemella del Monte Mulini, l’Hotel Lone. I due centri termali combinati creano uno dei più grandi spazi benessere di tutta la Croazia, offrendo agli ospiti strutture termali di oltre 2.500 metri quadri. Alla fine della nostra visita abbiamo lasciato a malincuore questo angolo incantato di Croazia, vero, puro e bello come il Monte Mulini. Ma speriamo di tornarci presto.


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di Bruno Petronilli

MOUNTAIN RESORT DA SOGNO

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Gradonna, the mountain resort of your dreams

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Arrivando al Gradonna Mountain Resort Châlets si scopre un anfiteatro naturale di boschi, che ricoprono la roccia delle vette degli Alti Tauri come un manto di velluto. E in prima fila le ampie vetrate delle camere panoramiche a sbalzo sull’infinito, l’inebriante profumo del pino cembro che si sente entrando nella hall e i lussuosi chalet che punteggiano il resort dedicati a chi desidera vivere un’esperienza ancora più intima con la natura. Perfetto per chi scia, alle prime armi o esperti sciatori, in quanto si parte, con gli sci ai piedi, direttamente dall’hotel. E poi una Spa, pluripremiata e da sogno, sia per gli adulti che per i bambini anche più piccoli, una cucina dalla filosofia “bio” guidata dall’amore per la tradizione gastronomica, dai prodotti della produzione locale e una delle più lussuose lounge ad alta quota che si possano visitare a 2600 metri di altitudine. Alle pendici del Großglockner, a Kals-Matrei, dove si trova il più esteso comprensorio sciistico del Tirolo Orientale, sorge questo esclusivo resort-ecofriendly dal design pulito ed essenziale costruito nel pieno rispetto della natura, tanto da essere stato premiato “Europe’s Leading Green Resort 2015” dal Wall Street Journal e con il Green Luxury Award nel 2013. Per l’attenzione all’ambiente prestata durante la costruzione, il Gradonna, con la sua architettura futuristica realizzata con materiali naturali provenienti dall’ambiente che lo ospita, è stato insignito del Tiroler Holzbaupreis 2014, il premio sull’impiego del legno nell’edilizia. Il legno di pino rosso è ovunque e si ritma al marmo di Kals, la pietra locale, mentre i loden e i lini pregiati scaldano le parti soffici sia nelle aree comuni che nelle camere. Le scenografiche sculture della hall, che rappresentano la scalata delle donne nel mondo, sono state realizzate in legno di pino cembro da artisti locali, così come le sculture che si trovano all’interno del corpo centrale dell’hotel che spicca il volo con la sua torre di vetro di dodici piani con altrettante suite super esclusive, oltre al ristorante, il bar e una smoking lounge. Qui le piste da sci arrivano fino alla porta d’ingresso, anche degli chalet. E gli impianti di risalita sono attivi dal 2 dicembre fino all’8 aprile, per tutta la stagione. La struttura si trova sulla pista Blauspitz, a pochi passi da un comprensorio di 21 km di circuiti per lo sci di fondo, dove si trova anche una pista per i piccoli appassionati dello slittino. Per gli ospiti che non sciano l’esperienza ad alta quota è comunque comoda: si può, infatti, raggiungere il punto più alto del comprensorio sciistico Kals-Matrei con la cabinovia e andare a bere una cioccolata calda all’Adler Lounge a 2600 metri di altitudine.

On your arrival at Gradonna Mountain Resort Chalets, you’ll discover a natural amphitheatre of woods covering the rock of the Hohe Tauern peaks like a velvet mantle. And taking centre stage, the large windows of the panoramic rooms overhanging the infinite, the inebriating scent of Swiss pine you can detect as you enter the foyer and the luxurious chalets scattered across the resort for those who want closer contact with nature. Perfect if you’re a skier, whether you’re a novice or an expert as you’ll leave wearing your skis directly from the hotel. Not forgetting the multi-award dream Spa for adults and even for the very young, a cuisine based on the “organic “philosophy and guided by a love of gastronomic tradition, ranging from locally produced products and one of the most luxurious high altitude lounges you’ll ever visit standing at a height of 2,600 metres. This exclusive, eco-friendly resort with sleek, simple lines built with nature in mind stands on the slopes of the Großglockner, in KalsMatrei, with the most extensive ski complex of East Tyrol. In fact, it was nominated as “Europe’s Leading Green Resort 2015” by the Wall Street Journal and was given the Green Luxury Award in 2013. For the care paid to nature during construction, Gradonna’s futuristic architecture built using natural materials taken from its surroundings, received the Tiroler Holzbaupresi 2014, the award for the use of wood in construction. Red pine wood is everywhere and alternates with Kals marble, the local stone, whereas warm loden and prized linen decorate the furnishings in the communal areas and in the rooms The sculptural settings of the foyer, which represent the rise of women in the world, are made of Swiss pine by local artists, as are the sculptures inside the main central body of the hotel, which spreads its wings with its twelve-storey, glass tower and with as many exclusive super suites, in addition to a restaurant, bar and a smoking lounge. The ski runs reach right up to the entrance of the chalets’ too. And the ski lifts operate from 2 December to 8 April, for the entire season The hotel stands on the Bluspitz ski run, a few steps from a complex of 21 circuits for cross-country skiing, where you’ll also find a run for young sledge fans. For guests who have no skiing experience at high altitude, it is still convenient as you can also reach the highest point of the Kals-Matrei ski complex by cableway and go and have a hot chocolate at the Adler Lounge 2600 metres high.


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Un rifugio di lusso con immense vetrate che permettono una vista a 360° sulle vette più belle dell’Austria, da toccare quasi con un dito. Per un’esperienza gourmand di alta cucina, è possibile prenotare un tavolo e assaggiare i piatti della tradizione tirolese in chiave moderna, anche di sera davanti ai colori di uno spettacolare tramonto. Ciò che incanta gli ospiti del Gradonna ****S Mountain Resort Châlets & Hotel è il fil rouge che lega ogni dettaglio e che mette al primo posto la natura, il rispetto per l’ambiente e la qualità delle materie prime in cucina. La sinfonia dei sapori è orchestrata dallo chef Michael Karl, che ogni giorno sorprende i suoi grandi e piccoli ospiti con prodotti a km 0, molti provenienti dagli orti del resort stesso. Per i bambini c’è un ristorante a misura di gnomi: si cena nelle carrozze di un trenino, intanto si disegna e si colora e il menù è sempre vario è goloso. La colazione è un vero trionfo di sapori per tutti i gusti: dalle specialità preparate al minuto alle oasi ad hoc di prodotti vegani, vegetariani e gluten free, oltre alla zona healthy breakfast dove scegliere tra succhi di frutta, estratti, yogurt e miele. Nulla è confezionato, nel massimo rispetto della natura e secondo la logica eco-friendly. E dopo lo spuntino di mezza giornata, a base di piatti salati e dolci preparati in casa, la cena si fa sofisticata e il menù propone piatti locali rielaborati in chiave moderna.

design pulito ed essenziale costruito nel pieno rispetto della natura

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sleek, simple lines built with nature in mind

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A luxurious refuge with immense windows giving you a 360° panoramic view of the most beautiful peaks in Austria, which you can almost touch with your finger. For a gourmet experience of top cuisine, you can book a table and taste the traditional Tyrolean dishes with a modern twist, even in the evening bathed in the colours of a spectacular sunset. What enchants guests at Gradonna ***** Mountain Resort Chalets & Hotel is the common thread linking every detail and placing nature in first place, showing respect for the environment and with top quality raw materials in the kitchen. The chef, Michael Karl, orchestrates the symphony of flavours, which take young and old alike by surprise every day, using products with a 0 km footprint, many of which are sourced from local vegetable gardens. Children have their very own gnome-sized restaurant: dinner is served in little train carriages, where they can draw and colour, and a scrumptious, continually changing menu awaits them. Breakfast is a triumph of flavours for all tastes: ranging from specialities prepared on the spot to specifically prepared oases of vegan, vegetarian and gluten-free products, as well as the healthy breakfast area, where you can choose from a selection of fruit juices, smoothies, yoghurts and honey. Nothing is pre-packaged, respecting nature to the full and based on an eco-friendly philosophy. And after a light mid-day snack with home-made sweet and savoury dishes, dinner becomes sophisticated and the menu offers local dishes reworked with a modern twist.


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Per vivere un’esperienza zen a contatto con la natura ci sono i 41 chalet (Classic, Superior e De-Luxe) di varie metrature e sparpagliati casualmente nel bosco come funghi, che possono ospitare fino a 8 persone. Ognuno offre una vista incantevole sulle vette che circondano il resort, il camino, una zona wellness privata con la sauna e una cucina accessoriata di tutto. Anche se, gli ospiti, sono liberi di scegliere se usufruire dei servizi del resort a pranzo e a cena, oppure se avere un personal chef a disposizione con il servizio “rent a chef”. La Spa è un’oasi di piacere di oltre 3.000 mq, premiata con il Leading Spa Award 2015 e con 15 punti dalla autorevole Relax Guide per i trattamenti a base di materie prime locali, come arnica, pino mugo, miele, cristalli di sale, cera d’api, foglie di betulla e ginepro. Noti per essere ricchi di preziosi principi attivi per il corpo e lo spirito. All’esterno c’è una piscina bio-naturale con idromassaggio, riscaldata con energia solare in inverno, mentre all’interno ci sono tre piscine: una per i piccolissimi, con tanto di scivolo per imparare a giocare con l’acqua, e due riservate agli adulti, con un’area dedicata all’idromassaggio. Il relax continua poi nelle saune, nei bagni di vapore e nell’attrezzato centro fitness con palestre di bouldering e arrampicata. L’area delle cabine dedicate ai trattamenti viso e corpo la si riconosce dal profumo dei prodotti di montagna scelti con estrema cura, come Babor e Magdalenas, la nuovissima linea cosmetica naturale che nasce nel Parco Nazionale degli Alti Tauri, vegana, 100% cruelty free, creata, sviluppata e prodotta consapevolmente in Tirolo. Create da un farmacista, sono basate su materie prime a chilometro zero. Erbe alpine, piante benefiche delle Alpi e purissima acqua di cristallo di rocca: tutta la bellezza del Tirolo racchiusa in formulazioni ultra-efficaci. Una linea in grado di rendere il regime di skincare più facile ma decisamente efficace. Tutti i prodotti della linea racchiudono la forza della natura del Tirolo con erbe e piante di alta montagna infuse in acqua purissima di cristallo di rocca ricca di minerali naturali. Il Mini Club del Gradonna ****S Mountain Resort Châlets & Hotel accoglie i bambini a partire dai 3 anni, con un’ampia area dedicata e con accesso diretto all’area sci e ristorante pensata apposta per loro. Ogni giorno ci sono gli appuntamenti con divertimenti attraverso brevi sentieri nel bosco della tenuta. Tutto è studiato e reso possibile grazie a uno staff, attento e selezionato, che stimola la creatività di ogni piccolo ospite avvicinandolo al mondo della natura. E per i più grandi ci sono molte proposte indoor e outdoor da tenere piacevolmente impegnati anche loro.

To provide you with a Zen-like experience in contact with nature, there are 41 chalets (Classic, Superior and De-Luxe) of varying sizes, casually scattered through the wood like mushrooms, which can accommodate up to 8 people. Each one offers an enchanting view of the peaks surrounding the resort, with a fireplace, a private wellness area with a sauna and a fully equipped kitchen. However, guests are free to choose whether or not to make use of the resort facilities at lunch and dinner, or whether to have a personal chef under the “rent a chef” service. The over 3,000 m2 Spa is an oasis of pleasure, awarded the Leading Spa Award 2015 and 15 points by the official Relax Guide for treatments using local raw materials, such as Arnica, Mountain Pine, honey, salt crystals, beeswax, birch and juniper leaves, known to be rich in active ingredients and precious for body and soul. Outside, there is a bio-natural swimming pool with hydromassage, solar heated in winter, whereas inside, there are three pools: one for the very tiny with a slide to learn to play with water, and two reserved for adults with a dedicated hydromassage area. Relaxation continues in the saunas, steam baths and the well-equipped fitness centre with bouldering and climbing gyms. You’ll recognise the area of cabins for face and body treatments by the perfume of carefully selected, mountain products, such as Babor and Magdalenas, the latest natural cosmetic line created in the National Park of the Hohe Tauern, vegan, 100% cruelty free, knowledgeably designed, developed and produced in the Tyrol. Created by a pharmacist, they use raw materials with a zero kilometre footprint. Alpine herbs, beneficial Alpine plants and pure, crystal clear rock water -: all the beauty of the Tyrol enclosed in ultra-effective formulas. A line capable of making your skincare routine much easier and certainly more effective. All the products in the collection enclose the force of nature of the Tyrol with mountain herbs infused in pure crystal clear natural mineral rock water The Mini Club at Gradonna ***** Mountain Resort Châlets & Hotel has a large area just for little children from the age of 3, with direct access to the ski area and the restaurant specially designed for them. Every day they have fun-filled activities along short paths through the woods of the estate. Everything is studied and run by a carefully selected, watchful staff, who stimulate the creativeness of each little guest by introducing them to the world of nature. And for the older youngsters, there is a wide choice of indoor and outdoor activities to keep them happily engaged.


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TULLUM ARCHEOLOGIA D’ABRUZZO AL CALICE

di Dorina Palombi

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Archeologia: “la scienza dell’antichità che mira alla ricostruzione delle civiltà antiche attraverso lo studio delle testimonianze materiali”. Accade con l’architettura, la letteratura, e il vino. Forse succede perché, a un certo punto nella vita di chiunque, scatta la necessità di andare a scoprirsi a ritroso. S’inizia a scavare, in cerca di certezze e tratti distintivi. Feudo Antico nasce proprio così, nel 2004, con il desiderio di riprendere coltivazioni autoctone e riportarle alla luce con il loro grandissimo potenziale: Pecorino e Passerina per iniziare, e successivamente il grande rosso abruzzese che è il Montepulciano. Quando si decise di impiantare il Pecorino si scelse una tenuta collinare in località San Pietro, a pochi minuti di strada da Tollo, perfetta per il suo terreno leggermente calcareo e l’esposizione a est.
Durante la preparazione del suolo vennero alla luce i resti di alcune fondamenta di una villa romana risalente al I secolo d. C., contenitori in terracotta per la conservazione del vino e una cella vinaria. Un segno forse che la scelta di seguire l’istinto e l’identità regionale era quella giusta? Dopo il restauro, che finirà nel dicembre 2020 e il cui obiettivo è la valorizzazione del torcularium, nascerà proprio qui la nuova cantina a due piani che accoglierà il passato proiettandolo verso il futuro in un’unione di bellezza, storia e suggestione. Restauro: “ogni intervento su monumenti, architetture, opere d’arte e altri oggetti di valore artistico, storico o antropologico successivo al completamento dell’opera. La logica e la finalità di questi interventi è variata sostanzialmente durante i secoli, tendendo da un lato al semplice mantenimento dell’efficienza del manufatto, dall’altro all’adeguamento dello stesso al gusto contemporaneo.” JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Tullum: archaeology of Abruzzo in a glass Archaeology: “the science of antiquity, which aims to reconstruct ancient civilisations by studying material evidence”. It happens in architecture, literature and wine. Perhaps it happens because at a certain point in anyone’s life the need to rediscover one’s past is triggered. You begin to dig deep in search of clear certainty. Feudo Antico was created in this way in 2004, with a desire to return to autochthonous crops and bring their enormous potential back to light: starting with the Pecorino and Passerina, followed by the great red wine from Abruzzo, the Montepulciano. When they decided to start with the Pecorino, they chose a hilly, east-facing estate in San Pietro, a few minutes’ drive from Tollo, perfect for its slightly calcareous soil. While preparing the soil, the remains were discovered of some foundations of a Roman villa dating back to the 1st century AD, some terra-


cotta containers to preserve wine and a wine cellar. A sign, perhaps, that the choice to follow their instinct and regional identity was the right one? Restoration, which aims to valorise the torcularium, will be completed in December 2020 and will be a new two-storey winery that will welcome the past and launch it into the future in a blend of beauty, history and fascination. Restoration: “every intervention on monuments, buildings, works of art and other objects of artistic, historic or anthropological value on completion of the work. The logic and purpose behind these interventions has changed substantially over the centuries and have ranged from the simple maintenance of the artefact’s efficiency on the one hand, to adjusting it to contemporary taste” This is also equally valid in this case for wine. This is what actually happened to the Pecorino in its rather tormented life. Forgotten for a long time, used to enhance “too genteel” wines, almost killed by pest control, ignored after the war. A wine which, even the name, left you unsure where to place it in the world: “word is going round that it got its name because it’s the shepherds’ wine; no, no, sheep ate it along the roadside; what are you talking about, it’s called that because it’s rough and salty like the cheese” indiscreet comments murmur along the corridors. Certainly not a top class wine on the Italian wine scene. Best to keep it at the bottom, of the cupboard in the dark to collect dust. Until the year 2000, between the end of the Marche and the beginning of Abruzzo, they realised they weren’t dealing with a prince in shining armour, but with a cursed, silent yet intriguing brigand from the mountains, one that doesn’t ask permission to do things. Better late than never, we say. JAMESMAGAZINE.IT

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Discorso che vale, anche in questo caso, per il vino in ugual maniera. È successo, infatti, anche al Pecorino, nella sua vita piuttosto travagliata.
Dimenticato per lungo periodo, usato per dar forza a vini “fin troppo gentili”, quasi ucciso dalla fillossera, ignorato nel dopoguerra. Un vino che, pure dal nome, non capivi bene che posto dargli nel mondo: “girano voci che si chiami così perché è il vino dei pecorai; no, no, se lo mangiavano le pecore ai bordi strada; ma figurati, si chiama così perché è ruvido e salato come il formaggio” sembrano sussurrare chiacchiere indiscrete da corridoio. Di sicuro non uno in prima fila nel panorama vinicolo italiano. Bene che stesse in fondo, all’ombra, a prender polvere. Fino al 2000 quando, tra fine Marche e inizio Abruzzo, ci si rese conto che non si aveva a che fare con un principe azzurro ma con un dannato brigante proveniente dalle montagne, uno di quelli tanto silenziosi quanto intriganti, uno che non chiede il permesso per fare le cose. Meglio tardi che mai, aggiungiamo noi.


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Nel caso del pecorino di Feudo Antico ci troviamo davanti a ben tre varianti, come fossero fratelli: stesso sangue ma caratteristiche diverse. Il Pecorino Tullum, di nuovissima DOCG, si dona in maniera generosa in tutto il suo “saper d’Abruzzo”. Cresce sulle colline a 200 metri sul livello del mare tra il Massiccio della Maiella, che sembra proteggerlo come farebbe una madre, e l’Adriatico a pochi chilometri, che regala freschezza e libertà. La brezza e l’escursione termica di circa 15 gradi, donano al vino sapidità e profumi che non arrivano mai a diventar stucchevoli: quella primavera che promette un’estate di emozioni, se si ha la pazienza di attendere. Dopo i 6 mesi in vasche di vetrocemento, al naso il profumo di frutta, fiori ed erbe aromatiche regala un bouquet di Mediterraneo decisamente piacevole mentre al palato arrivano sensazioni più maschili, minerali e persistenti. Con circa una decade sulle spalle la frutta si gonfia di sole e succosità ma non perde quella nota erbacea che diventa quasi balsamica nel rosmarino e nella lavanda. Il Pecorino Biologico Tullum, fermentato invece in maniera spontanea con i lieviti dell’ambiente e senza filtraggio o chiarificazione, risulta leggermente velato al calice. Un vino fresco, con profumi di pera, agrumi delicati ed erbe di campo. L’acidità iconica si mantiene, sottolineata dalla mineralità e da una struttura decisa. Un ragazzo che promette bene, dal buon potenziale e dal grande cuore votato alla natura. Il Pecorino Terre Aquilane Casadonna nasce a circa 800 metri d’altitudine in collaborazione con lo chef Niko Romito, tra l’Altro Sangro e l’Altopiano delle Cinque Miglia. Ha tutta l’irruenza della montagna e come tale ti fa mancare un attimo il respiro. Sono i fiori ma quelli che crescono accanto ai ruscelli, non sono più scogli ma roccia ripida e tagliente, sono le erbe, quelle sempre. È complessità ironica. Se il Pecorino Tullum è quell’adorabile surfista che vive di rendita all’università, qui c’è la potenza, lo spessore e il fascino dell’uomo sale e pepe, che parla schietto e ha talmente tanto da dire che a te rimane il silenzio affascinato.

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In the case of Feudo Antico’s Pecorino, we are faced with three different varieties, as though they were brothers: the same blood but with different personalities. The most recent DOCG [controlled and guaranteed designation of origin], Pecorino Tullum, generously gives all its “taste of Abruzzo”. It grows on the hills at 200 m above sea level between the Massif of the Maiella, which appears to protect it like a mother would, and the Adriatic a few kilometres away, which gives it freshness and freedom. The breeze and rise in temperature of approximately 15 degrees give the wine flavour and scents, which never become sickly: a spring that promises a summer of emotions, if you are patient enough to wait. After 6 months in concrete and glass tanks, the scent of fruit, flowers and aromatic herbs gives a decidedly pleasant Mediterranean bouquet, whereas the palate receives more masculine, mineral, persistent sensations. With about a decade behind it, the fruit swells with the sun and juiciness without losing that hint of herbs, which becomes almost balsamic with rosemary and lavender. The Pecorino Biologico Tullum ferments spontaneously with environmental yeasts without any filtering or fining and is slightly cloudy in the glass. A crisp wine with flavours of pear, delicate citrus fruits and wild herbs. It keeps its iconic acidity, highlighted by the full flavoured taste of minerals. A young lad that promises well, with good potential and a big heart dedicated to nature. The Pecorino Terre Aquilane Casadonna was created in collaboration with the chef, Niko Romito at an altitude of approximately 800 metres between Altro Sangro and the Cinque Miglia Plateau. It is as bold as the mountain and as such, it takes your breath away for a moment. These are the flowers that grow alongside the streams, no longer boulders, but steep, sharp rocks, these are the herbs the same as always. It is ironically complex. If Pecorino Tullum is that adorable surfer living on a university grant, here we have the power, depth and fascination of the blunt, salt-and-pepper haired man, with so much to say you are charmed into silence.



wine

I “CAPOLAVORI”

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Tutto si genera da “una concretezza, una carnalità non solo dei corpi, ma proprio delle campagne, degli alberi: la carne del cielo, la carne del fiume...”: questa frase dello storico dell’arte Giovanni Romano ci sembra aderire perfettamente alle Langhe e alle terre del Barolo. Una concretezza e una carnalità trasmesse dai tempi più antichi fino a oggi. E il paesaggio non è un’opera d’arte di cui si può vantare solo Madre Natura, ma anche l’uomo. La Natura e l’uomo insieme qui per secoli hanno collaborato per realizzare un grandioso capolavoro. Le Langhe. La Natura ha plasmato le colline, disegnato i corsi d’acqua, pitturato un suolo magnificamente fertile e ricco. Mentre l’uomo ha piantato viti, alberi da frutto, costruito chiese, castelli, paesi, città. Scrittori quali Cesare Pavese e Beppe Fenoglio ci hanno lasciato pagine bellissime con le descrizioni di queste colline che possiedono qualcosa di magico e insieme carnale. Qualcosa di umile e insieme grandioso. E qui l’uomo continua a rincorrere e a coltivare la bellezza in tutte le sue forme. Ne sono per esempio una chiara e suggestiva testimonianza le tre cappelle restaurate e trasformate in opere d’arte contemporanea negli ultimi 20 anni da artisti del calibro di Sol LeWitt (1928-2007) e David Tremlett, maestri di un’arte concettuale suggestiva e capace di suscitare grandi emozioni. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

It all stems not only from “concrete, carnal bodies, but also from the countryside itself, from the trees: the body of the sky, the body of the river...”: We think the words of the art historian, Giovanni Romano, are a perfect description of the Langhe and the land of Barolo wine. Concrete and voluptuous, passed down from times long past to today. The landscape is not just a work of art created by nature, but also by man. Nature and man have worked together for centuries to create a great masterpiece. The Langhe. Nature has shaped the hills, designed the rivers and painted a magnificently rich, fertile soil. Whereas man has planted vineyards, fruit trees, built churches, castles, villages and towns. Writers, such as Cesare Pavese and Beppe Fenoglio, have left us extraordinary pages with their descriptions of these hills, which hold something magical and sensual at the same time. Something humble, yet also majestic. Here, man continues to chase and cultivate beauty in all its forms. Clear, evocative evidence, for example, are the three chapels, restored and transformed into contemporary works of art over the last 20 years by artists of the calibre of Sol LeWitt (1928-2007) and David Tremlett, masters of expressive conceptual art, capable of arousing great emotions.


DELLE

di Alberto Del Giudice

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The “Masterpieces” of the Langhe


wine

Il primo edificio restaurato insieme da LeWitt e Tremlett, su commissione della famiglia Ceretto, è una costruzione rurale, una cappella dedicata alla SS. Madonna delle Grazie, ma mai consacrata. Eretta a La Morra nel 1914 per proteggere i contadini da spiacevoli eventi atmosferici oggi è nota grazie all’intervento artistico del 1999 come “Cappella del Barolo”. L’esterno profano e curato dallo statunitense LeWitt ricorda il Mondrian affascinato dal jazz e dal boogie-woogie, mentre l’interno realizzato dall’inglese Tremlett suscita una pausa di laica meditazione, proprio come un calice di vino importante. Mentre la seconda cappella è decorata dal solo David Tremlett con la faticosissima tecnica del Wall Drawing (un pastello spalmato con le mani sulle pareti). È la chiesetta di Coazzolo, eretta alla fine del Seicento in cima a una collina coperta di vigneti. La pittura murale dell’artista inglese è una variopinta e festiva “sinfonietta” che dialoga armoniosamente con il paesaggio che la circonda. L’opera commissionata da Silvano Stella, proprietario dello splendido Castello di Coazzolo, è stata realizzata nel 2017. Eppure si presenta quasi come un’architettura senza tempo, che sembra sollevata da terra, grazie all’ariosa decorazione dell’artista inglese.

qui l’uomo continua a rincorrere e a coltivare la bellezza in tutte le sue forme here, man continues to chase and cultivate beauty in all its forms

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A pochi chilometri da Coazzolo, annessa al Monastero di San Maurizio di Santo Stefano Belbo, oggi trasformato in Relais & Chateaux, sorge la terza cappella, fondata nel 1619 dai monaci cistercensi. Anche qui, coinvolto da Pierdomenico Gallo, patron del bellissimo complesso, David Tremlett è intervenuto con la sua squadra per trasformare l’edificio. L’opera, inaugurata il 31 maggio 2019, è un formidabile esempio di come l’arte contemporanea possa dialogare con il passato. Per la verità tutto il complesso del Relais San Maurizio ne è un esempio, grazie all’intelligente ristrutturazione degli architetti Sala e Bemer, che senza compromettere la struttura originaria hanno ridisegnato un luogo incantevole circondato da alberi secolari e con un panorama mozzafiato. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Cappella SS. Madonna delle Grazie


Relais San Maurizio JAMESMAGAZINE.IT

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The first building LeWitt and Tremlett restored together, commissioned by the Ceretto family was a rural building, a chapel dedicated to the Holy Madonna delle Grazie, but which was never consecrated. Built at La Morra in 1914 to protect the farmers from bad weather, today it is known thanks to the artistic intervention of 1999 as “Capella del Barolo”. The profane exterior curated by the American LeWitt is reminiscent of Mondrian, fascinated by jazz and boogie-woogie, whereas the interior created by the Englishman Tremlett arouses a pause of laic meditation, just as a good glass of wine does. The second chapel on the other hand was decorated only by David Tremlett, using the very demanding technique of the Wall Drawing (pastel spread by hand on the walls). This is the little church of Coazzolo, built at the end of the seventeenth century on top of a hill covered by vineyards. The English artist’s wall painting is a brightly coloured, festive “symphony” in tune with the surrounding landscape. The work, commissioned by Silvano Stella, owner of the splendid Castle of Coazzolo, was painted in 2017. Yet the building is almost timeless and appears to float, thanks to the airy decoration of the English artist. A few kilometres from Coazzolo, annexed to the Monastery of San Maurizio and Santo Stefano Belbo, today transformed into Relais & Chateaux, stands the third chapel, founded in 1619 by the Cistercian monks. Here too, enlisted by Pierdomenico Gallo, patron of the beautiful complex, David Tremlett intervened with his team to transform the building. The work was inaugurated on 31 May 2019 and is a formidable example of how contemporary art can talk to the past. To tell the truth, the entire complex of the Relais San Maurizio is also an example, thanks to the intelligent reconstruction by architects Sala and Bemer who, without compromising the original structure, redesigned an enchanting place surrounded by centuries-old trees and with a breathtaking view.


wine

Ristoranti, camere e Spa con vista (sul Monte Rosa). Al Relais di San Maurizio non manca proprio nulla. L’esclusiva e suggestiva Spa è ricavata nei sotterranei dell’antico monastero, dove ospita la Grotta del sale affacciata sui vigneti delle Langhe, la biosauna, l’idromassaggio del vino, lo scrub al Barolo, il massaggio con olio di vinaccioli… insomma, una numerosa e rara proposta di percorsi wellness difficile da riassumere in poche righe. E ancora più difficile è descrivere a parole “l’effetto che fa” sul corpo come sulla mente. Un’altra esperienza davvero unica, riservata ai clienti del Relais di Santo Stefano Belbo è la Truffle Hunting (Raccolta del tartufo), che non può non terminare con un pranzo a casa dello stesso trifulau. Qui a San Maurizio regna, infatti, il territorio. E regna la storia del luogo. Pertanto anche l’esperienza enogastronomica, di alta e rara qualità, si riassume in un vero e proprio “inno alle Langhe”. Dal menu degustazione di “Origini Bistrot”, ogni mese costruito intorno a un prodotto stagionale della regione, dalla pesca al tartufo, fino all’impagabile esperienza di cenare presso il ristorante stellato “Guido da Costigliole” con in cucina il grande Luca Zecchin e in sala un trio di gran classe formato da Andrea e Monica Alciati e dal fedele Shin, il cane più gourmet del mondo. Sì, proprio un cane! Custode tra l’altro di una delle cantine più preziose d’Italia, che oggi conta 30 mila bottiglie per 3 mila etichette e consente ai clienti di conservare i propri vini preferiti in cellette private.

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Restaurants. rooms and Spa with a view (overlooking Monte Rosa). Relais San Maurizio lacks nothing. Its exclusive, impressive Spa has been created in the basement of the ancient monastery, which houses the Grotta del sale overlooking the vineyards of the Langhe, a bio-sauna, a wine hydromassage, the Barolo scrub, the massage with grapestone oil... in fact, numerous, unusual wellness opportunities on offer, which are difficult to sum up in just a few lines. And even more difficult to put into words is “the effect it has” on both body and soul. Another truly unique experience reserved for customers of the Relais di Santo Stefano Belbo is Truffle Hunting, which can only end with lunch at the home of your trifulau (truffle hunter). The territory reigns supreme here in San Maurizio. The history of the place also takes first place. Therefore, the rare, top quality food and wine experience can also be summed up as a true “hymn to the Langhe”. From the taster menu at “Origini Bistrot”, constructed every month around a seasonal product of the region, from fishing to truffle hunting, and to the priceless experience of dining at the starred restaurant “Guido da Costigliole” with the great Luca Zecchin in the kitchen and a stylish in-house trio with Andrea and Monica Alciati and the loyal Shin, the most gourmet dog in the world. Yes, a dog! Guardian of, among other things, one of Italy’s most precious wine cellars, which nowadays holds 30 thousand bottles with 3 thousand labels and which enables customers to keep their favourite wines in private storage. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

BAROLO 2015

95 PARUSSO BAROLO DOCG BUSSIA Parusso in vigna come in cantina lavora da sempre senza pregiudizi e regole prestabilite. Pertanto ogni suo vino ha una personalità ben definita, che non deriva solo dal terroir e dalla specificità del Nebbiolo, di cui il viticultore di Bussia è un grandissimo interprete, ma in gran parte perché Marco Parusso lavora fondendo abilmente la tradizione con tecniche e strumenti di sperimentazione più innovativi. E questo Cru di notevole eleganza ben rappresenta gli obiettivi perseguiti e raggiunti. Autenticità, eleganza e armonia. Parussa has always worked both in the vineyard and the cellar without prejudice or preset rules. So his wine always has a well-defined personality, which comes not only from the terroir and specific features of Nebbiolo wine, of which the wine-grower from Bussia is a truly great interpreter, but largely because Marco Parusso works by blending tradition with the most innovative techniques and instruments. This considerably vintage Cru clearly represents. the objectives pursued and achieved. Authentic, elegant and harmonious.


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CERETTO BAROLO DOCG BRICCO ROCCHE

MOSCONI BAROLO DOCG CHIARA BOSCHIS E. PIRA & FIGLI

Questo vino non avrebbe bisogno di presentazioni senonché la bottiglia dell’annata 2015 è davvero di inestimabile valore. Proviene da una vigna Castiglione Falletto che è un vero gioiello, per il terroir, l’esposizione e l’altitudine, tra i 350 e i 370 metri s.l.m. Bricco Rocche, insieme agli altri 4 cru di Barolo della Cantina, Bussia, Brunate, Prapó, Cannubi San Lorenzo, davvero premia la conversione al biologico di tutti i 160 ettari di proprietà di Ceretto, tra Langhe e Roero.

I vini di questa piccola cantina, che non produce più di 40 mila bottiglie, sono noti per la loro marcata impronta stilistica. Soprattutto il Barolo. Questo grazie al meticoloso lavoro svolto in vigna, secondo una conduzione rigorosamente biologica. La vinificazione avviene quindi separatamente per ogni singola parcella e condotta in modo che ogni denominazione della maison si esprima al meglio e senza compromessi. Il Mosconi proviene dal vigneto più vecchio di proprietà dell’azienda.

This wine shouldn’t need any introduction, but a bottle of the 2015 vintage is truly priceless. It comes from a vineyard in Castiglione Falletto, which is a true gem for its terroir, aspect and altitude of between 350 and 370 metres a.s.l, Bricco Rocche, together with another 4 cru of Barolo of the Winery, Bussia, Brunate, Prapó and Cannubi San Lorenzo, has rewarded their conversion to organic farming of the entire 160 hectares, owned by Ceretto between the Langhe and Roero.

The wines from this tiny winery, which produces no more than 40 thousand bottles, are well-known for their strong stylistic stamp. Especially the Barolo. This is thanks to the meticulous work in the vineyard, according to a strictly organic management. Wine production takes place separately for each plot and conducted so that each designation of the maison is shown at its best without any compromise. The Mosconi comes from an older vineyard owned by the company.

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RÉVA BAROLO DOCG RAVERA

PODERI LUIGI EINAUDI BAROLO DOCG CANNUBI

È sempre un grande piacere salutare la nascita di una nuova realtà vitivinicola. Réva nasce infatti in anni recentissimi, nel 2013, su iniziativa di un collezionista di vini, Miroslav Lekes, che ha riunito intorno a sé giovani ma esperti enologi Daniele Gaia, Gian Luca Colombo, Gabriele Adriano. L’azienda produce vini biologici di grande qualità. Primo tra tutti il Barolo Ravera, che debutta proprio quest’anno. Ottenuto da una vigna di poco più di un ettaro, affina 24 mesi in botti di rovere e viene prodotto in sole 4.500 bottiglie.

Ogni Barolo ha il proprio stile. E sarebbe facile definire il Cannubi di Einaudi “presidenziale”, visto che proviene dalle proprietà del secondo Capo di Stato della Repubblica italiana. Questo è un vino certamente di grande struttura e dalle spalle larghe e autorevoli, ma è al tempo stesso esuberante, con una ricchezza di note aromatiche quasi provocante. E certamente vanta una delle sue migliori espressioni proprio con l’annata 2015.

It is always a great pleasure to welcome the creation of a new wine producer. Réva was actually created very recently in 2013 on the initiative of a wine collector, Miroslav Lekes, who gathered around him some young, expert oenologists, Daniele Gaia, Gian Luca Colombo and Gabriele Adriano. The company produces top quality organic wines. First and foremost the Barolo Ravera, which is making its debut this year. Obtained from little more than one hectare of vineyard, it ages for 24 months in oak casks and only 4,500 bottles are produced.

Every Barolo has its own style. It would be easy to call Einaudi’s Cannubio “presidential” seeing as it comes from properties of the second Head of State of the Italian Republic. This is certainly a well-structured wine with wide authoritative shoulders, yet at the same time exuberant with rich, aromatic, almost provocative notes. It can certainly boast that the 2015 vintage is one of its best productions. JAMESMAGAZINE.IT

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di Silvia Ugolotti

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In the past, it was known as Central Bessarabia. Today, this tiny, extremely fascinating country, locked between Romania and Ukraine, with a troubled history and complicated geography, is beginning to optimistically look to the future. With a place centre stage on the tourist market, especially for its wine production, hills, rows of vines, fortresses and monasteries built into the rock, a lush green countryside and kind welcoming people. Situated on the same latitude as Burgundy, Moldova is twentieth among the wine producing countries with the highest density of land under vineyard cultivation (approximately 100 thousand hectares) in the world compared to agricultural land. Increasingly appreciated by foreigners, according to data from the World Tourism Organisation (UNWTO), the number of visitors has risen by 19.6% over the last year, whereas the number of vineyards offering tourist facilities has doubled. Wine production actually represents 3.2% of the GDP and the annual production is 1.8 million litres. In 2017 alone, Moldova exported 54.2 million bottles of wine, a 15% rise compared to the previous year, trading increasingly with Europe, Canada, China and Poland. Moldavian wine’s troubled history goes back a long way: from the Soviet policy of destruction of the vines to the embargo imposed by the Russian Federation. The obstacles it has had to overcome have not discouraged the producers, solid, determined folk, who have improved Moldavian wine labels and made them more competitive, by opening up to a more international market. Today, one third of the Moldavian population works in the wine producing sector and there are over a hundred companies producing top quality vines by cultivating international varieties and autochthon varieties, capable of withstanding temperatures of -30o: Rara Negra, Rara Alba, Feteasca and Viorica: “We have top quality vineyards, producing increasingly improved wines and increasing the value of the country in the world’s vine producing community. On a global level, wine tourists have exceeded the billion mark and Moldova must be able to attract at least a part of them. We have installed over 150 explanatory signs to guide the visitor to the main tourist attractions in the country: wineries, monasteries, churches, museums, nature reserves,” said Chiril Gaburici, Minister of the Economy and Infrastructures of the Republic of Moldova. “We don’t have any beaches or ski runs, but visitors will find hospitable people to welcome them, exquisite food and extraordinary wines.” JAMESMAGAZINE.IT

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Negru de Purcari / Chateau Purcari Chateau Purcari

In passato fu la Bessarabia Centrale, oggi questa terra piccola dal fascino grande, chiusa tra Romania e Ucraina, dalla storia travagliata e la complicata geografia inizia a guardare al futuro con ottimismo. Con un posto in prima fila sul mercato turistico, in particolare per la sua produzione vinicola. Colline, filari di vigne, fortezze e monasteri costruiti nella roccia, una campagna verdissima e l’accoglienza gentile della sua gente. Posta alla stessa latitudine della Borgogna, la Moldova si colloca al ventesimo posto tra i paesi che producono vino con la più alta densità di terreno coltivato a vite (circa 100 mila ettari) al mondo in rapporto al terreno agricolo. Sempre più apprezzata tra gli stranieri, secondo i dati Organizzazione Mondiale del Turismo (Unwto), il numero di visitatori è aumentato del 19,6% nell’ultimo anno, mentre il numero di cantine che offrono servizi turistici è raddoppiato. La produzione del vino rappresenta, infatti, il 3,2% del Pil e la produzione annuale è di 1,8 milioni di litri. Solo nel 2017, infatti, la Moldova ha esportato 54,2 milioni di bottiglie di vino, il 15% in più rispetto all’anno precedente, rivolgendosi sempre di più verso l’Europa, il Canada, la Cina, la Polonia. E’ una storia antica, quella del vino moldavo e travagliata: dalla politica sovietica di distruzione della vite all’embargo imposto dalla Federazione Russa, gli ostacoli che ha dovuto superare non hanno scoraggiato i produttori, gente solida e determinata, ma che ha fatto dei vini moldavi etichette migliori e più competitive, aprendosi a un’economia di mercato più internazionale. Oggi, un terzo della popolazione moldava lavora nel settore vitivinicolo e sono oltre un centinaio le aziende che producono vini di qualità coltivando varietà internazionali e vitigni autoctoni in grado di resistere fino a -30°: Rara Negra, Rara Alba, Feteasca e Viorica: “Abbiamo vigneti di grande qualità, dai quali ricaviamo vini sempre migliori, incrementando il valore del paese nella comunità vinicola mondiale. A livello globale i turisti del vino hanno superato il miliardo e la Moldova deve essere in grado di attrarne almeno una parte. Abbiamo installato oltre 150 cartelli esplicativi, che guideranno i visitatori verso le principali attrazioni turistiche del paese: cantine, monasteri, chiese, musei, riserve naturali”, ha detto Chiril Gaburici, Ministro dell’Economia e delle Infrastrutture della Repubblica di Moldova. “Non abbiamo spiagge o piste da sci, ma chi viene a visitarci troverà ad accoglierlo persone ospitali, cibo squisito e vini straordinari”.


La cantina più antica è Chateau Purcari, nata nel 1827. I suoi vigneti, sulle colline di Stefan Voda nel sud est del paese, sono accarezzati dalla brezza del Mar Nero. Il miglior vino è il Negru de Purcari, un rosso secco di uve Cabernet Sauvignon. A estremo sud, a Vulcanesti, nella regione autonoma e rurale di Gagauzia abitata da una minoranza di ceppo turco e di fede ortodossa, c’è Kara Gani, a conduzione familiare. I titolari curano personalmente ogni aspetto della produzione: il rosso è il vino rappresentativo della casa. Scalinate alla francese, fontane, giardini, erbario e naturalmente le cantine: Castel Mimì costruito nel XIX secolo da Costantin Mimì governatore della Bessarabia, è una struttura elegante, con un vino di bandiera, il cabernet sauvignon reserve che ben si accompagna ai raffinati piatti del suo ristorante. E’ l’azienda vitivinicola più antica della Moldova, essendo stata fondata nel 1827. Ha una ricca eredità storica, e produce uno dei più autentici vini moldavi, il Negru de Purcari, e il Rosu de Purcari. La cantina più celebre, invece, è Cricova, a una quindicina di minuti da Chisenau. Più che una cantina è una cittadella scavata nella roccia calcarea con 120 chilometri di gallerie dove il vino riposa: 600 etichette per 1 milione di bottiglie sono conservate a 80 metri di profondità e 12 gradi di temperatura. All’interno vengono custodite anche molte collezioni private, alcune appartengono a nomi importanti e personaggi della politica come Merkel, Putin e il senatore Kerry. Lo spumante prodotto secondo il metodo champenoise è il fiore all’occhiello dell’azienda. Ci sono sale per banchetti e degustazioni e appesa a una parete una lettera di Yury Gagarin che dopo due giorni di assaggi e brindisi scrisse: “è stato più semplice raggiungere lo spazio che andarmene da questa cantina”. La cantina di Milestii Mici è tra le più celebri, per essere entrata nel Guiness dei primati: la sua collezione di vino è la più grande al mondo e conta ben 1,5 milioni di bottiglie di vino conservate in 200 chilometri di gallerie. Poi ci sono cantine dalla storia più recente, come l’azienda vitivinicola Château Vartely, nella città di Orhei, che ha iniziato la sua produzione nel 2008 ed è specializzata nella produzione di vini di qualità con ciclo integrale. Interessante anche Et Cetera, boutique winery che include una pista per aeromobili da turismo: di proprietà della famiglia Luchianov, permette agli ospiti di partecipare alla vendemmia o fare delle passeggiate in bicicletta attraverso le vigne. Durante le degustazioni, è sempre molto apprezzato lo Spumante extra brut metodo Charmat prodotto con uva Glera, una sorta di Prosecco moldavo. Da sorseggiare con calma, magari dopo aver partecipato a una lezione di cucina per imparare la ricetta della Placinta, una pasta sfoglia ripiena di verdure e formaggio.

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The oldest winery is Chateau Purcari, founded in 1827. Its vineyards on the slopes of Stefan Voda to the south-west of the country, are caressed by the breeze from the Black Sea. The best wine is the Negru de Purcari, a dry red made from Cabernet Sauvignon grapes. In the far south, in Vulcanesti in the autonomous rural region of Gagauzia, inhabited by a minority of Turkish stock and orthodox faith, is the family-run Kara Gani. The owners personally manage every aspect of production: red is the house wine. French flights of steps, fountains, gardens, a herb garden and naturally the cellars: Castel Mimi built in the nineteenth century by Costantin Mimi, Governor of Bessarabia, is an elegant building with a flagship wine, Cabernet Sauvignon Reserve, which makes for a good accompaniment to the sophisticated dishes in the restaurant. This is the oldest wine-making company in Moldova, as it was founded in 1827. It has a rich historical heritage and produces one of the most authentic Moldovian wines, the Negru de Purcari, and the Rosu de Purcari. The most famous winery, however, is Cricova, about fifteen minutes from Chisenau. More than a winery, it is a citadel excavated from the limestone rock with 120 kilometres of tunnels, in which the wine rests: 600 labels for 1 million bottles are kept 80 metres deep at a temperature of 12 degrees. Many private collections are JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Cantina Cricova

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also kept inside, some of which belong to important names of people in politics, such as Merkel, Putin and Senator Kerry. The sparkling wine produced according to the Champenoise method is the company’s flagship. There are rooms for banquets and tastings and hanging from a wall is a letter from Yuri Gagarin who, after two days of tastings and toasts, wrote: “It was far easier for me to go into space than to leave this cellar.” The wine cellar of Milesti Mici is one of the most famous, for having entered the Guinness Book of Records: its wine collection is the largest in the world with 1.5 million bottles of wine preserved in 200 kilometres of tunnels. Then, there are more recent wineries, such as the wine-producing company Château Vartely, in the town of Orhei, which began production in 2008 and specialises in the production of top quality wines using an integral cycle. Also of interest is Et Cetera, a boutique winery, which includes a runway for light aircraft. Owned by the Luchianov family, it allows guests to take part in the harvest or go for bicycle rides through the vineyards. During the tastings, visitors really appreciate the Spumante extra brut, Charmat method, produced using Glera grapes, a sort of Moldovian Prosecco. Sip it slowly, preferably after taking part in a cookery lesson to learn the recipe for Placinta, a puff pastry filled with vegetables and cheese.


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Cantina Kara Gani


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LA FRANCIACORTA di Sofia Landoni

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Vivere un territorio è l’unico modo per conoscerlo realmente. C’è da percorrerlo, da osservarlo nei suoi scorci e nei suoi colori, percependolo attraverso innumerevoli punti di vista. Degustare un vino non basta per addentrarsi nelle profondità di esso: occorre respirare il territorio, occorre camminarlo, assaggiarlo, incontrarlo nei suoi mille volti. Franciacorta è una parola che rappresenta molto più di ciò che si pensa. Franciacorta è una delle bolle più famose d’Italia, è la finezza di uno spumante rifermentato in bottiglia, lungamente a contatto con i lieviti; e poi Franciacorta è il vento che soffia dalla Valcamonica, è il caldo sole che abbraccia il Monte Orfano a sud. Franciacorta è l’acqua del Lago d’Iseo che assume colori cangianti con la luce del temporale imminente e che coccola le barche quando tutto è calmo. Franciacorta è la bellezza di Monte Isola, isolotto popolato da radi paesini arroccati alle pendici di un monte, ove il tempo pare essersi fermato. Qui dominano alberi, uliveti e boschi, che colorano la fisionomia di una località verdeggiante dove la vita sembra svilupparsi intorno al lago, quel lago che gli abitanti di Monte Isola trattano alla stregua di un familiare. Da esso i pescatori locali hanno saputo trarre il meglio, rendendo la zona molto nota anche fra gli appassionati gourmet grazie alla Sardina di Monte Isola, ossia i filetti di Agone che vengono essiccati all’aria, pressati e conservati sott’olio. Una lavorazione lunga e paziente, che ha portato al conferimento del Presidio Slow Food. La Franciacorta è da percorrere. O, in certi casi, da pedalare. Sono tantissimi i sentieri che si snodano lungo le dolci pendenze delle colline, attraversando vigneti e boschi o facendo tappa per le cantine di Franciacorta. Alcuni enti organizzano

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Living in in Franciacorta Living in an area is the only way to really get to know it.You need to travel from one end to the other, observe the glimpses and colours it offers from numerous viewpoints. Tasting a wine is not enough to understand its depths: you need to breathe the surroundings, walk through the area, taste it and become aware of its thousands of facets. Franciacorta is a name that represents much more than you think. Franciacorta is one of Italy’s most famous labels. It is a sophisticated sparkling wine, with secondary fermentation in the bottle, remaining in contact with the lees for a long time; Franciacorta and the wind that blows from Valcamonica and the hot sun that embraces Monte Orfano to the south. Franciacorta and the water of Lake d’Iseo, which takes on iridescent colours in the light of an imminent thunderstorm and which cradles the boats when all is calm. Franciacorta and the beauty of Monte Isola, an island with sparse villages perched on the slopes of a mountain, where time appears to stand still. Trees, olive groves and woods abound, which colour the landscape of a lush green area where life seems to revolve around the lake, that lake which the inhabitants of Monte Isola treat more like a family member.


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wine

i tour in base alle esigenze dei turisti, offrendo loro la scelta di diversi pacchetti e il noleggio di efficientissime biciclette elettriche. Roberto Marini di Remo Lucia Sport è uno di essi: un personaggio eclettico, che ha sintetizzato la sua vocazione sportiva con la passione per il vino diventando una guida turistica sulle due ruote. Sono numerose le cantine che aderiscono a tali iniziative e che se ne fanno promotrici. Tra queste, certamente è da segnalare la cantina Bosio. Situata a poca distanza dal Lago d’Iseo, Bosio sostiene attivamente i progetti legati al cicloturismo, diventando una meta auspicabile per tutti i ciclisti in cerca di una rinfrescante bollicina. Per chi ama il gusto più delicato ci sarà un calice di Satèn, setosa espressione di Chardonnay dalla bolla finissima e dai toni freschi di sambuco ed erbe aromatiche. Per chi invece ricerca un carattere dritto, teso e finemente dotato di nerbo, si consiglia il Bosio Nature Millesimato 2014, dove il 30% di Pinot Nero e l’assenza di dosaggio zuccherino si fanno ricordare. A coloro che ricercano l’eccellenza, Bosio dedica invece dei fuoriclasse come il Boschedòr 2013, equamente ripartito fra Pinot Nero e Chardonnay, e il Girolamo Bosio Riserva Pas Dosè 2011, apice dell’austerità del Pinot Nero che qui è presente per il 70%. I percorsi che si snodano fra il celato cuore franciacortino permettono di osservare anche flora e fauna di diverso tipo, nonché di godere un bellissimo panorama sulle Torbiere del Sebino. Un tempo sede di estrazione della torba per opera dei monaci cluniacensi di San Pietro in Lamosa – monastero fra i più storici della Franciacorta – oggi le Torbiere costituiscono una riserva naturale preziosissima. Mariaclaudia e altre

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esperte guide turistiche del gruppo ArteConNoi – impresa tutta al femminile, animata da competenti storiche dell’arte – accompagneranno alla scoperta della struttura monastica e delle Torbiere, senza tralasciare il tentativo di avvistamento delle specie avicole più o meno rare che popolano la riserva. Franciacorta è anche accoglienza delle strutture ristorative e JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

The local fisherman have exploited it to the best advantage and made the area very well known among gourmet aficionados, thanks to the Sardine of Monte Isola, or the filets of Agone which are dried outdoors, pressed and conserved in oil. A long, painstaking process, for which they have been awarded the Slow Food Presidia. You should walk or, in certain cases, pedal across Franciacorta. There are numerous paths winding along the gentle slopes of the hills, through vineyards and woods or stopping at the wineries of Franciacorta. Some organisations organise tours according to tourists’ requirements and offer a choice of various packages and the hire of very efficient, electric bicycles. Roberto Marini of Remo Lucia Sport is one of them: an eclectic character, who has combined his vocation for sport with his passion for wine to become a tourist guide on two wheels. Numerous wineries take part in and sponsor these initiatives. Among them, we should highlight the Bosio winery. Situated close to Lake d’Iseo, Bosio actively supports projects linked to cycle tourism to become a favourite destination for all cyclists looking for a bit of refreshing bubbly. For those of you with a more delicate palate, there’ll be a glass of Saten, a silky Chardonnay with fine bubbles and zingy tones of elderflower and aromatic herbs.


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ricettive. Impossibile privarsi di una sosta, a pranzo o a cena, nel ristorante Cadebasi, dove i due giovani soci Giuseppe Pasini e Alessandro Baccanelli hanno concretizzato la loro idea di cucina traducendola in un’esperienza gustativa vera e propria. La carta prevede infatti la proposta di numerosi piccoli piatti – chiamati “buffetti” - di impronta estremamente creativa. La porzione ridotta consente di realizzare diversi assaggi, così da permettere un percorso più o meno articolato all’interno della cucina firmata Cadebasi. Ma è impossibile privarsi anche di una chiacchierata con la signora Rosalba Tonelli del Cappuccini Resort di Cologne. Oltre ad essere una delle più belle strutture ricettive della zona, il Cappuccini Resort è un luogo dove si respira la forza di un sogno e l’anima di chi questo sogno lo ha inseguito fino alla fine, lottando contro tutti e desiderando, desiderando tantissimo. Rosalba è un’imprenditrice, una sognatrice, una coraggiosa, un’amante dell’avventura, una lavoratrice instancabile. Una persona che non ha mai avuto paura di essere sé stessa e che ha trasformato le sue idee in geniale creatività. E per i grandi gruppi, le famiglie e tutti coloro che vogliono ascoltare il silenzio, immersi in una villa di altri tempi? La Sister’s House è il posto giusto. Gabriella Iannucci e le sue tre sorelle sono entrate in possesso di questa villa nel centro di Bornato circa 30 anni fa. Hanno dovuto rimboccarsi le maniche non poco per sistemare quel labirintico e affascinante snodarsi di camere e di sale, un tempo proprietà della zia. Oggi è una dimora adibita a casa vacanze, intrisa di un valore storico che si intuisce da ogni vecchio scrittoio e da ogni affresco. Location prescelta per numerosi matrimoni, sa essere anche un luogo di relax, in cui viaggiare con l’immaginazione ai tempi che furono, quando in quelle sale giravano abiti settecenteschi e facevano ritorno le carrozze con i loro cavalli. Per conoscere un territorio occorre abbandonare l’obiettivo di comporne un puzzle, ma dare sempre spazio a quella curiosità viva che porta, ancora una volta, a percorrerlo.

For those looking for an upright, strong personality with a fine backbone we recommend Bosio Nature Millesimato 2014, where the 30% of Pinot Nero and the lack of added sugar make themselves felt. To those of you seeking excellence, Bosio has dedicated a first-class champion, the Boschedor 2013, equally divided between Pinot Nero and Chardonnay and its Girolamo Bosio Riserva Pas Dose 2011, the pinnacle of austerity of Pinot Nero, which makes up 70% of this wine. The paths that wind their way through the heart of Franciacortina also enable you to observe different types of flora and fauna, and to enjoy a fantastic view over the Torbiere del Sebino [peat bogs of the Sebino wetland]. Once the centre of peat extraction by the Cluniac monks of San Pietro in Lamosa - one of the oldest monasteries of Franciacorta - now the Torbiere are a very precious nature reserve. Mariaclaudia and other expert tourist guides of the group ArteConNoi - an all-women business, run by competent art historians - will take you to discover the monasteries and the Torbiere, without forgetting to attempt sightings of some quite rare species of birds living on the reserve. Franciacorta also means welcoming hospitality and catering structures. Impossible to go without a break at lunch or dinnertime. In the Cadebasi restaurant, where the two partners, Giuseppe Pasini and Alessandro Baccanelli have followed through with their culinary idea and transformed it into a true experience for the taste buds. The menu offers numerous tiny extremely creative dishes - called “Buffetti”. The small portion allows you to taste various dishes, and work your way carefully through the cuisine signed Cadebasi. However, you can’t miss a chance to chat with Mrs Rosalba Tonelli at the Cappuccini Resort in Cologne. Not only is it one of the most beautiful accommodation structures in the area, the Cappuccini Resort is a place where you get an inkling of the strength of a dream and the soul of the person who has followed that dream right to the end, fighting against one and all and wanting it so very much. Rosalba is an entrepreneur, a dreamer, a courageous woman, an adventurer, an untiring worker. Someone who has never been afraid to be herself and who has transformed her ideas into creative genius. And for large groups, families and all those who want to listen to silence, immersed in a villa of times gone by? The Sister’s House is just the place. Gabriella Iannucci and her three sisters inherited this villa in the town centre of Bornato about 30 years ago. They had to roll up their sleeves a fair bit to fix that labyrinth with its fascinating, winding bedrooms and halls, once owned by their aunt. Now, it has been transformed into a holiday home of historic importance, which you can guess from every old writing desk and every fresco. A favourite location for weddings, it also knows how to offer relaxation and be a place where you can let your imagination turn back to bygone times, when eighteenth century gowns swirled around the rooms and the horse and carriages were back once more. To get to know an area, you need to leave behind your aim of building up a jigsaw. Instead, you need to give space to your inner curiosity, which allows you to once again travel through it.


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Rome, the most beautiful terraces in the world

LE TERRAZZE PIÙ BELLE DEL MONDO Divinity Lounge Bar & Restaurant / The Pantheon Iconic Hotel

Se è vero che tutte le strade portano a Roma, d’estate le stesse strade vi porteranno fino ai tetti dei palazzi antichi e degli hotel lussuosi, che diventano delle splendide terrazze affacciate sulla città eterna. Ogni terrazza è unica, creata amorevolmente dall’uomo, che risalta un panorama maestoso, un punto di vista inatteso, una cupola a portata di mano o un sentiero segreto tra gli scorci sconosciuti. Le terrazze di Roma regalano un’esperienza sensoriale, difficile da dimenticare. Benché ce ne siano tante, ve ne raccontiamo sette, le più belle come le sette meraviglie, uniche come i sette colli, magiche come i sette colori dell’arcobaleno.

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They say that all roads lead to Rome; in the summer, those same roads will take you up to the roofs of ancient buildings and luxurious hotels, which become marvelous terraces overlooking the Eternal City. Each terrace is unique, lovingly created by man, offering a majestic panorama, an unexpected vantage point, a dome you can almost reach out and touch, or a secret path. The terraces of Rome will give you an unforgettable sensory experience. Although there are many, we will tell you about seven of them: the most beautiful like the Seven Wonders, unique like the Seven Hills, magical like the seven colors of the rainbow.

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DIVINITY PANTHEON

Francesco Apreda

di Giulia Nekorkina

Divinity, rooftop Lounge Bar & Restaurant del The Pantheon / Iconic Rome Hotel, è una delle più belle terrazze, dalla quale Roma può essere ammirata, godendo al contempo della cucina di una delle firme più talentuose del panorama gastronomico italiano: Francesco Apreda. La vista che offre il Divinity è unica: un colpo d’occhio a 360 gradi sulle bellezze di Roma e sui suoi suggestivi tetti, con ben sette cupole a recitare un ruolo da protagonista. A spiccare, in tutta la loro magnificenza, sono in particolare Sant’ Ivo alla Sapienza, capolavoro del maestro Borromini, e, ovviamente, il Pantheon. In abbinamento ai piatti di Apreda non solo Champagne e spumanti italiani di gran pregio, il ruolo di primo piano è riservato anche per la mixology, grazie ai cocktail studiati dal bartender Mirko Zaccaria. Divinity, the rooftop Lounge Bar & Restaurant at The Pantheon / Iconic Rome Hotel, is one of the most beautiful terraces for admiring Rome, while at the same time enjoying the culinary delights prepared by of the one of the most talented names in Italian cuisine: Francesco Apreda. Divinity offers a unique 360-degree view of the beauty of Rome and its charming roofs, with seven domes taking the lead role. Standing out in all their magnificence are the masterpiece by Borromini, Sant’Ivo alla Sapienza, and the Pantheon. Apreda’s dishes are accompanied not only by champagne and excellent Italian sparkling wines (spumanti); a starring role is also given to mixology, with the cocktails created by bartender Mirko Zaccaria. The Pantheon / Iconic Rome Hotel Via di S. Chiara, 4/A - Roma


Cielo / Hotel de la Ville

CIELO HOTEL DE LA VILLE

Located in a historic 18th century building at the top of the famous Spanish Steps in Rome, the Hotel De La Ville offers not only luxury accommodations, but also a gourmet experience in one of its three restaurants or three cocktail bars, including one extraordinary rooftop setting with a spectacular view of the capital. It’s called Cielo - “Sky” - and the name was never more appropriate: from here it really does seem that you can reach up and touch the sky. A lunch with fusion flavors is a must, combined with elegant wine-based cocktails - a Cielo specialty. Or you can enjoy a lingering aperitif with a fiery sunset that slowly fades into night, enveloped in the music of a DJ set. All this makes Cielo the most fashionable and chic place in the capital, not to be missed. Hotel de la Ville Via Sistina 69 - Roma

SKY BLU TERRA ALEPH

UP SUNSET BAR RINASCENTE

Il Roof Top dell’Aleph Rome Hotel è considerato il luogo più cool per un apertitivo a bordo piscina nel cuore del centro storico della Città Eterna. E’ una delle più famose terrazze di Roma, celebrate da film internazionali, e il luogo preferito da romani e turisti per le serate estive. Incastonata nel cuore del centro storico, a due passi da Via Veneto e Fontana di Trevi. Unica nel suo genere, con la scenografica piscina a sfioro, in cui l’azzurro dell’acqua si confonde con il blu del cielo di Roma al fresco del celebre ponentino. Cosa volere di più dopo una giornata nella frenesia della città se non uno dei Martini cocktail, una rilassante esperienza con un narghilè o un divertente appuntamento “Be Curious”, con tanto di musica live?

Attraverso un percorso tra le ultime proposte della moda italiana e internazionale, si approda sulle terrazze tra le più belle della capitale con una vista mozzafiato a 360° tra la basilica di Santa Maria delle Fratte, San Pietro, il palazzo del Quirinale e le innumerevoli cupole. Si può scegliere tra il Terrace Restaurant MadeITeranneo e il UP/Sunset Bar, il progetto di Riccardo di Giacinto del ristorante All’Oro, 1 stella Michelin, per un light lunch, un aperitivo al tramonto o per una serata romantica, accompagnati dai sapori della cucina mediterranea e dalla selezione di vini, bollicine o cocktail home made. Il leitmotiv delle terrazze è la luce che inonda beatamente ogni spazio e coccola lo sguardo che si perde nello splendido panorama.

The Roof Top at the Aleph Rome Hotel is considered the coolest place for a poolside aperitif in the heart of the Eternal City’s historic center. It is one of the most famous terraces in Rome, celebrated in international films, and the favorite place of Romans and tourists for summer evenings, a stone’s throw from Via Veneto and the Trevi Fountain. Unique in its kind, with a spectacular infinity pool, where the blue of the water blends in with the azure of the Roman sky in the cool of the famous ponentino breeze. What more could you want after a day in the frenzy of the city other than a Martini cocktail, a relaxing experience with a hookah, or a fun “Be Curious” date, complete with live music?

Following an itinerary among the latest in Italian and international fashion, one arrives at the most beautiful terraces in the capital, with a breathtaking 360° view of the Basilica of Santa Maria delle Fratte, St. Peter’s Basilica, the Quirinal Palace, and the countless domes. You can choose between the Terrace Restaurant MadeITeranneo and the UP/ Sunset Bar, the project by Riccardo di Giacinto of the 1 Michelin star All’Oro restaurant, for a light lunch, an aperitif at sunset or a romantic evening, accompanied by the flavors of Mediterranean cuisine and the selection of wines, sparkling wines or homemade cocktails. The leitmotif of the terraces is the light that blissfully floods every space and brightens the endless view of the magnificent panorama.

Aleph Rome Hotel / Curio Collection by Hilton Via di S. Basilio, 15 - Roma

MadeITerraneo Terrace Restaurant & UP/Sunset Bar Via del Tritone 61 - Via Due Macelli 23 - Roma JAMESMAGAZINE.IT

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Sly Blu Terra /Aleph Hotel

Ospitato in uno storico palazzo del XVIII secolo e posizionato in cima alla famosa Scalinata di Trinità dei Monti di Roma, l’Hotel De La Ville offre non solo i soggiorni lussuosi, ma l’esperienza gourmet in uno dei tre ristoranti o negli altrettanti cocktail bar, tra cui uno straordinario rooftop con una spettacolare vista sulla capitale. Si chiama Cielo, e mai il nome fu più azzeccato: da qui sembra davvero di poter toccare il cielo con un dito. Irrinunciabile un lunch dai sapori fusion abbinati ai ricercati cocktail a base di vino - una specialità di Cielo, altrimenti un lungo aperitivo col tramonto infuocato sullo sfondo, che, piano-piano, si tramuta nella notte, avvolta dalla musica del DJ set. Tutto questo rende Cielo il luogo più chic della capitale, da non perdere.


Giuseppe Di Iorio / Ristorante Aroma

The Court / Palazzo Manfredi

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THE COURT AROMA

Grand Hotel Plaza

Terrazza insolita, quella di The Court, il nuovo cocktail bar di Palazzo Manfredi con esclusiva vista Colosseo. La posizione è unica, da cui ammirare i resti della più grande scuola gladiatoria dell’antica Roma: il Ludus Magnus. The Court si presenta come una vera corte cinta tra due alti muri: il lungo bancone in marmo da un lato, gli accoglienti salotti dall’altro con un passaggio in mezzo. L’aperitivo a The Court non ha nulla da invidiare a quelli di Londra o New York: al bancone c’è Matteo Zed, uno dei bartender più noti di Roma, che ha girato il mondo. Ai cocktail di Matteo si affiancano i gustosi finger food di Giuseppe Di Iorio, 1 stella Michelin: lo chef di Aroma, ristorante all’ultimo piano del Palazzo Manfredi, omaggia tutte le sere gli ospiti di The Court con le sue creazioni.

Ristorante Mirabelle / Hotel Splendide Royal

An unusual terrace, The Court, the new cocktail bar in Palazzo Manfredi with an exclusive view of the Colosseum. Its location is unique, allowing one to admire the ruins of the greatest gladiatorial school of ancient Rome: the Ludus Magnus. The Court looks like a real court surrounded by two high walls: the long marble bar on one side, comfortable chairs, divans and tables on the other, with a passageway in the middle. An aperitif at The Court is as fine as any you would find in London or New York: behind the bar is Matteo Zed, one of the most famous bartenders in Rome, who has traveled around the world. Matteo’s cocktails are accompanied by the tasty finger food of Giuseppe Di Iorio, the 1 Michelin star chef at Aroma, the restaurant on the top floor of Palazzo Manfredi. Di Iorio pays tribute to the guests at The Court every night with his creations.

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The Court Palazzo Manfredi Via Labicana, 125 - Roma

TERRAZZE GRAND HOTEL PLAZA

MIRABELLE SPLENDIDE ROYAL

Grand Hotel Plaza al Corso, nel cuore della Roma antica e barocca, a due passi da via Condotti e da piazza di Spagna, occupa Palazzo Lozzano, avvinto da un abbraccio floreale dei giardini delle due ampie terrazze panoramiche al quinto piano. La Terrazza Accademia di Francia si affaccia, da un lato, verso Trinità dei Monti, Villa Medici, La Casina Valadier e Villa Borghese, mentre, su quello opposto sembra toccare la maestosa cupola della Chiesa di S. Carlo al Corso. Un luogo irrinunciabile, pieno di salottini nascosti tra il verde, perfetto per un cocktail o un evento privato alla luce del tramonto. La Terrazza Trinità dei Monti è un altro luogo suggestivo che gode di una magnifica vista su Roma. Un luogo di classe per un calice di bollicine o una cena sotto le stelle eseguita dallo chef Umberto Vezzoli.

Una terrazza gourmet con una vista mozzafiato da Villa Medici a Trinità dei Monti, fino a San Pietro e al Gianicolo, e un’insuperabile accoglienza sono le vere protagoniste del ristorante Mirabelle, al settimo piano dell’Hotel Splendide Royal. Venire al Mirabelle è concedersi un piccolo lusso di un lunch, un lungo momento da assaporare durate l’aperitivo o uno spazio fuori dal tempo per una cena stellata dello chef Stefano Marzetti, 1 stella Michelin. Impossibile non farsi conquistare dalla cucina raffinata, dallo stile e dall’eleganza di uno dei roof garden più spettacolari di Roma. Le note di pianoforte in sottofondo, l’arte dell’ospitalità di Mirabelle e le luci di Roma vi faranno innamorare perdutamente di questo angolo di Paradiso.

The Grand Hotel Plaza on Via del Corso is in the heart of ancient and Baroque Rome, just around the corner from Via Condotti and Piazza di Spagna. Occupying Palazzo Lozzano, the hotel is embraced by the flowers of the gardens on the two large scenic terraces on the fifth floor. The Accademia di Francia Terrace looks out over Trinita dei Monti, Villa Medici, La Casina Valadier and Villa Borghese on one side, while on the other side it seems to touch the majestic dome of the Church of San Carlo al Corso. It is a must, full of charming nooks hidden among the greenery, perfect for a cocktail or a private event in the glow of sunset. The Trinità dei Monti Terrace is another evocative place that offers a magnificent view of Rome. A classy place for a glass of sparkling wine or a dinner under the stars prepared by chef Umberto Vezzoli.

A gourmet terrace with a breath-taking view from Villa Medici to Trinità dei Monti, taking in Saint Peter’s and the Gianicolo, plus a flawless welcome, are the real protagonists at the Mirabelle restaurant, on the seventh floor of Hotel Splendide Royal. Eating at Mirabelle means enjoying a luxurious lunch, a long moment to be enjoyed with an aperitif, or a timeless location for a dinner cooked by chef Stefano Marzetti, decorated with one Michelin star. You are bound to be captured by the stylish cuisine, by the charm and elegance of one of the most spectacular roof gardens in Rome. With piano chords in the background, the art and hospitality at Mirabelle and the beauty of Rome by night, you cannot but fall deeply in love with this corner of Paradise.

Grand Hotel Plaza Via del Corso, 126 - Roma

Ristorante Mirabelle / Hotel Splendide Royal Roma Via di Porta Pinciana, 14 - Roma

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culture

FIUM di Alex Pietrogiacomi

500 GIORNI DI RIVOLUZIONE Fiume, 500 days of revolution

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Cinquecento giorni di rivoluzione. Cinquecento giorni di un’impresa rimasta impressa su più strati, nel dna della nostra storia e che ha raggiunto il mondo con la sua risonanza epica, latina. Cinquecento giorni che sono stati troppo spesso dimenticati oppure abusati e saccheggiati a titolo personale o partitocratico, da troppe persone, alcune stagliatesi nella collettività mondiale con la loro partecipazione ai fatti dell’umanità. Cinquecento giorni che hanno rappresentato un punto di svolta sociale, un prodromo, un esperimento che ha cavalcato le onde del tempo per essere “visionario” nel suo e attuale e futurista nel nostro. L’Impresa di Fiume, con Gabriele d’Annunzio in testa ad essa, arriva a compiere 100 anni e nel farlo svela la profonda fascinazione che molti hanno ancora nei suoi confronti, per diverse ragioni che non toccano soltanto i libri di scuola o quelli per la storiografia bensì l’animo coraggioso, ardimentoso, romantico e filibustiere di ciascuno di noi. Va a spingere dove c’è la sacca stessa delle nostre emozioni, premendo fino a farle traboccare, uscire violente e gioiose in un flusso che vuole essere un fiume in cui immergersi per ritrovarsi come individui e collettività. Questa “bolla” storica non è finita, non ha mai smesso di ardere anche se ricoperta dalla cenere dei decenni, da onte e distorsioni e non l’ha fatto perché ha mantenuto una sacralità e una vitalità assolutamente uniche. Fiume, in croato Rijeka, una città che nel 1919 contava all’incirca 130.000 abitanti e che il Vate definì “inquieta e diversa”, composta da una popolazione multietnica in cui chi parlava italiano (tra abitanti e italiani stessi) rientrava nei 29.000 che lo faceva. JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Five hundred days of revolution. Five hundred days of an endeavor that has left its impression in several layers, in our history’s DNA, and which has reached the world with its epic, Latin resonance. Five hundred days that too often have been forgotten or abused and plundered for personal or political reasons, by too many people, some standing out in the global community with their participation in the deeds of humanity. Five hundred days that represented a social turning point, a premonition, an experiment that rode the waves of time to be “visionary” then and current and futuristic in our times. The Endeavor of Fiume, with Gabriele D’Annunzio as its leader, has reached its 100th anniversary, and in doing so it reveals the profound fascination it still holds for many, for various reasons that touch not only school or history books, but also the courageous, daring, romantic and military adventurer spirit in all of us. It surrounds our bag of emotions, squeezing it until they overflow, violent and joyful, flowing like a river in which we can immerse ourselves so as to find ourselves as individuals and as a collectivity. This historical “bubble” is not over, it has never stopped burning, even if covered by the ashes of decades, by disgrace and distortions, and it has not done so because it has maintained an absolutely unique sacredness and vitality. In 1919 Fiume, known as Rijeka in Croatian, had a population of 130,000. D’Annunzio called the city “restless and different,” and it had a multiethnic population, 29,000 of whom spoke Italian.


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Una città irredenta, una città che fu protagonista di “un episodio de nazionalismo più consueto, […] soprattutto una rivolta generazionale contro ogni regola costituita dal liberalismo, dal socialismo, dalla diplomazia tradizionale e dalle convenzioni” come dice Giordano Bruno Guerri nel suo Disobbedisco, e continua “Forse solo in una città come questa, alla fine della guerra più orribile che il mondo avesse conosciuto, era possibile un’avventura senza precedenti né seguito. D’Annunzio la occupa e la guida per sedici mesi, primo e ultimo poeta al comando nella storia dell’umanità, dandole una costituzione utopistica: La Carta del Carnaro, che teorizza un governo della cosa pubblica lontano da quello dello Stato liberale, socialista, fascista”. Senza entrare nei fatti, che si possono leggere e consultare facilmente, bisogna saper addentrarsi nella visione del poeta guerriero e delle persone che decisero – uomini e donne – di aderire a questa grande azione di persone libere. Si deve sapere che molto, troppo, è stato preso dallo spirito di questa avventura dal regime voluto da Mussolini che seppe ispirarsi, prendere e far suo tutto il rituale che veniva celebrato all’interno di essa: dai discorsi di D’Annunzio ai balconi e quindi a quella che era una vera e propria politica di massa fino ai dialoghi con i seguaci (che qui erano davvero tali anche in senso spirituale), dall’estetica delle camicie nere e dei fez degli Arditi fino alle canzoni e al “Me ne frego” (nato da uno scontro e dalla violazione di un posto di blocco proprio i quei giorni). Ma cos’era realmente Fiume? La città divenne una grande chiesa a cielo aperto, un ricettacolo di persone che da tutta Italia (e non solo) arrivava per potere assistere e far parte di una grande rivolta di armi e cultura in quelle strade che si rinnovavano durante questa rivoluzione/invasione e la descrive così l’amico francese del Vate, Marcel Boulenger nel suo Chez D’Annunzio: “Fiume è diventata, nel mio vero senso del termine, una città santa. Già nell’attraversare il Veneto sembra di effettuare un pellegrinaggio. Dopo aver passato il Piave, il cui nome risuona così spesso nei bollettini di guerra, il treno corre a lungo sulla pianura, poi l’orrendo Carso inizia a scollinare, dedalo di fortezze naturali dove si tenevano nascosti gli Austriaci, è un gregge di colline tosate, dove non cresce un solo albero, orrendo petrame la cui più potente cannonata riusciva appena a graffiare la superficie. Non si può pensare ad altro che alla guerra attraversando questi luoghi ostili, ai soldati che l’hanno fatta, a gli eroi che vi si sono per sempre santificati, e a che al più ardito e tenace di tutti loro. Il cammino verso Fiume è in Italia la strada del ricordo e della gloria. Ed è seguendo questa strada che si è arriva a Fiume, senza sfidare la geografia. Avvicinandosi alla città, soprattutto da Trieste in poi, il treno inizia ad assomigliare a un convoglio di pellegrini. Ma che pellegrini! Una strana folla, accorsa da ogni lato dell’Italia, si dirige verso d’Annunzio: giovani, ancora dei giovani, alcuni a volte giovanissimi. A stento di vedono di qua e di là pellegrini i cui capelli sono anche appena ingrigiti. Gli occhi di ognuno brillano, luccicano, doppiamente vivi: non vi si legge indifferenza o noia o quella stu-

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An irredentist city, a city that was the protagonist of “an episode of more usual nationalism, [...] above all a generational revolt against every rule constituted by liberalism, socialism, traditional diplomacy and conventions,” as Giordano Bruno Guerri remarks in his Disobbedisco. He continues adding, “Perhaps only in a city like this, at the end of the most horrible war that the world had ever known, was such an adventure possible, that was without precedence or following. D’Annunzio occupied it and guided it for sixteen months, the first and last poet in command in the history of humanity, giving it a utopian constitution: the Charter of Carnaro, which theorized a government of public affairs far from that of the liberal, socialist, fascist State.” Without going into the facts, which can be easily read and consulted, one must know how to step inside the vision of the warrior poet and of the people – the men and women – who decided to support this great action of free people. It must be known that much, too much, was taken from the spirit of this adventure by the regime of Mussolini, who knew how to be inspired, to take from it and to make his own all the ritual that was celebrated within it: from D’Annunzio’s balcony speeches and thus what was real mass politics up to the dialogues with his followers (who in Fiume were exactly that, also in a spiritual sense), from the aesthetics of the black shirts and the fezzes of the Arditi to the songs and to the motto “I don’t care” (which came from a fight and the forcing of a checkpoint that took place precisely in those days). But what was Fiume really? The city became a large open-air church, a repository of people who came from all over Italy (and elsewhere) to be able to see and be part of a great revolt of arms and culture on those streets that were renewed during this revolution/invasion. D’Annunzio’s French friend Marcel Boulenger describes it thus in his Chez D’Annunzio: “Fiume has become, in my true sense of the word, a holy city. Crossing Veneto it already felt like a pilgrimage. After passing over the Piave, a name that resounded so often in war bulletins, the train runs for a long time across the plain, then the horrendous Karst Plateau begins to rise, a maze of natural fortresses where the Austrians kept themselves hidden, a flock of shorn hills, where not a single tree grows, horrendous rockiness where the most powerful cannonade would barely scratch the surface. Going through these hostile places one cannot think of anything other than the war, the soldiers who fought it, the heroes who have been forever sanctified there, and the most daring and tenacious of them all. The path towards Fiume is in Italy the road of memory and glory. And it is by following this road that one reaches Fiume, without braving the geography. Nearing the city, especially from Trieste onwards, the train begins to look like a convoy of pilgrims. But what pilgrims! A strange crowd, flocking from every part of Italy, moves towards D’Annunzio: young people, still young, some of them very young. You can barely see pilgrims here and there whose hair is just starting to gray. Everyone’s eyes sparkle and shine, doubly alive: you can see no indifference or boredom in them, or that stupid


lassitude you find in snobs the world over. But it is certainly not out of ostentation that the youth of Italy goes to Fiume! These believers with gleaming eyes joyfully go all the way there to form a community, a community of Italianness: and one has the impression, so strong is their cheerful brotherhood, that there are no longer rich or poor in these coaches. Just Italians.” At a certain point, however, many felt themselves to be Italian, such as Harukichi Shimoi, the samurai who showed up in Fiume, struck by this imagination-taking-power that burned daily among many difficulties and made him admirable in the eyes of the Poet above all in his cultural and transcultural work (documented in the excellent book by Guido Andrea Pautasso, Un Samurai a Fiume), aimed at “being present” as a man of action and as a bridge between our peninsula and the island of the Far East. Every person who took part in this endeavor had this feeling of a rapture of their senses, of an individual who finds himself in the community and vice versa, and even reporters, journalists, writers and artists had this feeling and saw themselves in it, wanting to strip away “every sumptuous robe of rhetoric and tell it with the same voice of the time” (as Carlo Otto Guglielmino says in the book Fiume una Grande Avventura). This centennial that we begin to remember, to commemorate in these lines, does not represent a moment uprooted from our artistic and adventurous spirit; rather, it permeates and supports it, as Gabriele D’Annunzio did with his people, with whom he ate and laughed and for whom he worked hard day and night to the point of burning himself out, all for an idea, for a dream. This centennial is a piece of our history that inspires writers (for example the Di Mino brothers with the novel L’alfabeto delle Stelle, or Orlando Donfrancesco with Sulla Cima del Mondo), artists, scholars and men, with the laws issued, with its artistic vein that improved and gave nourishment to daily life, with alcohol, drugs, promiscuity and femininity (there were many Ardite women there) that foreshadowed all the theories and reflections of the ‘60s. D’Annunzio erected a mystique of war and love at the same time, that could be transformed into music (such as the album D’Annunzio by Sköll), which we can still hear in the air today.

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pide lassitudine che si trova negli snob del mondo intero. Ma non è certo per ostentazione che la gioventù d’Italia si rende a Fiume! Questi credenti dallo sguardo brillante vanno gioiosamente fin lì per entrare in comunione, una comunione di italianità: e si ha l’impressione, tanto forte è la loro allegra fratellanza, che non ci siano più né ricchi né poveri in questi vagoni. Solo degli Italiani.” A un certo punto però Italiani si sentirono in molti come anche Harukichi Shimoi, il samurai che si presentò a Fiume, colpito da questa immaginazione al potere che si consumava giornalmente tra non poche difficoltà e che lo rese ammirevole agli occhi del Vate soprattutto nella sua opera culturale e trans culturale (documentata nel bel libro a cura di Guido Andrea Pautasso Un Samurai a Fiume), tesa ad “essere presente” come ponte e come uomo di azione tra la nostra penisola e l’isola d’oriente. Ogni persona che ha partecipato a questa impresa ha avuto questa sensazione di rapimento dei propri sensi, di individuo che si ritrovava nella collettività e viceversa e anche i cronisti, i giornalisti, gli scrittori e gli artisti avevano questo sentore e si riconoscevano in esso, volendo poi spogliare di “ogni paludamento retorico e raccontarla con la stessa voce di allora” (come dice Carlo Otto Guglielmino nel libro Fiume una Grande Avventura). Questo centenario che in queste righe si comincia a ricordare, a rievocare, non rappresenta un momento avulso dal nostro spirito artistico e avventuroso, anzi lo impregna e sostiene, così come faceva Gabriele d’Annunzio con il suo popolo, con il quale mangiava e rideva e per il quale lavorava alacremente giorno e notte fino a consumarsi, tutto per un’idea, per un sogno; questo centenario è un pezzo della nostra storia che ispira scrittori (basti pensare ai fratelli Di Mino con il romanzo L’alfabeto delle Stelle o Orlando Donfrancesco con Sulla Cima del Mondo), artisti, studiosi e uomini, con le leggi promulgate, con la sua vena artistica che migliorava e dava linfa al quotidiano, con l’alcol, le droghe, la promiscuità e la femminilità (molte erano le Ardite presenti) che anticipavano tutte le teorie e riflessioni del ’68. D’Annunzio eresse una mistica di guerra e di amore al tempo stesso, capace di tramutarsi in una musica (come l’album D’Annunzio di Sköll) che ancora oggi possiamo ascoltare nell’aria.


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The Hague and the Panorama Mesdag

di Stefano Tesi

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Con buona pace di Rotterdam e della stessa Amsterdam, nessuna città è forse più “olandese” dell’Aja, la capitale. È olandesissima per tanti motivi. Raccolta, ordinata e pulita. Tranquilla e composta al punto che i ciclisti si arrabbiano se un pedone cammina per strada anziché sul marciapiede. Ospita i palazzi reali e i simboli del potere statale, ma tutto con un basso profilo, come nella tradizione orange. E’ piccola, proprio come il regno dei Paesi Bassi, e anche col brutto tempo riluce di quei riflessi nordici che, contro ogni apparente logica, fanno risaltare i colori rendendoli più nitidi, netti. Le sue propaggini, senza soluzione di continuità, si spingono ormai fino al Mare del Nord. Senza brusche mutazioni di orizzonti, tuttavia: ovunque cieli alti e case basse. Scendi dall’aereo a Schiphol, l’enorme aeroporto di Amsterdam, e per raggiungere l’Aja (o Den Haag o anche ‘s-Gravenhage: quante capitali al mondo possono vantare tre nomi?), senza nemmeno uscire dall’aerostazione, prendi un trenino, anch’esso lindo, che in mezz’ora ti porta direttamente a destinazione. Lo prendi così, come si prenderebbe una subway per i sobborghi di una metropoli. Invece no: le porte si aprono e sei davvero nella capitale del regno, anche se tutto contribuirebbe a farti credere di essere approdato altrove. Forse in provincia. A piedi, infatti, almeno in centro, vai praticamente ovunque.

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With all due respect to Rotterdam and even Amsterdam, perhaps no city is more “Dutch” than the capital, The Hague. It is very Dutch for many reasons. Quiet, tidy and clean. Quiet and well-behaved to the point that cyclists get angry if a pedestrian walks down the street instead of on the sidewalk. It has the royal palaces and symbols of state power, but all with a low profile, as in the Orange tradition. It is small, just like the Kingdom of the Netherlands, and even when cloudy it shines with those Nordic reflections that, against all apparent logic, make its colors stand out sharper and clearer. Its spurs stretch uninterruptedly as far as the North Sea. However, there are no abrupt changes in the horizon: everywhere the sky is high and the houses are low. Get off the plane at Schiphol, the huge Amsterdam airport, and to get to The Hague (or Den Haag, or even ‘s-Gravenhage: how many capitals in the world can boast of having three names?), without even leaving the terminal you can catch a train, also clean and neat, which takes you straight to your destination in half an hour. You just get on, like you would take a subway to the suburbs of a big city. But no: the doors open and you are really in the capital of the kingdom, even if everything would make you think you had landed somewhere else. Perhaps in the provinces. Indeed, you can go almost anywhere on foot, at least in the center. This writer took the following approach: having read a guidebook for a smattering about the city, I began to wander randomly through streets and squares and, at the end of my tour, I discovered that I had stumbled across all of what the sad conformist language of tourism trivially calls ““attractions,” as if it were an amusement park, and instead they are wonderful places that are very worthy of further investigation.


Thus half a day flew by at the Mauritshuis, one of the most important Dutch museums, and not only that. It holds paintings by the greatest Dutch and Flemish artists of the 17th and 18th centuries, those admired a thousand times on postcards and gadgets, in illustrations and catalogs: from the Girl with a Pearl Earring by Vermeer to Rembrandt’s The Anatomy Lesson, just to give an idea; and then Fabritius, Rubens, Steen, Hals. Moving through the rooms, you are inexplicably pierced by the charm of the Nordic light, whether portrayed on wooden panels or canvas. I spent the other half of the day at the Huis ten Bosch Palace, the residence of the king and his family (not open to the public, although people take selfies in front of the gate hoping to catch a glimpse of someone from the royal family looking out the window), at Noordeinde Palace, the official seat of the royal house since 1609 (here the garden and stables with carriages are open), and at the severe, enormous, monumental Binnenhof, the center of Dutch political life. Then, as if guided by an instinct, I arrived at the sober edifice that houses the Panorama Mesdag. And here begins another story. I came to know the Panorama Mesdag many years ago and almost reluctantly, involved as I was in the research, or of what remains, of the View of Delft by Jan Vermeer. JAMESMAGAZINE.IT

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Chi scrive si è regolato come segue: letta la guida per un’infarinatura sulla città, ho cominciato a girare a caso per strade e piazze e, alla fine del giro, ho scoperto di essermi imbattuto in tutte quelle che il triste linguaggio conformista del turismo chiama banalmente “attrazioni”, neanche si trattasse di un luna-park, e che invece sono luoghi tanto meravigliosi quanto meritevoli di molti approfondimenti. Così mezza giornata è volata al Mauritshuis, uno dei più importanti musei olandesi e non solo. Ci sono i dipinti dei massimi artisti olandesi e fiamminghi del XVII e XVIII secolo, proprio quelli ammirati mille volte su cartoline, gadget, illustrazioni e cataloghi: dalla Ragazza con l’Orecchino di Perla di Vermeer alla Lezione di Anatomia Rembrandt, per capirci; e poi Fabritius, Rubens, Steen, Hals. Anche se restituito su legno o su tela, tra le sale il fascino della luce nordica ti trafigge inesplicabilmente. L’altra mezza è trascorsa tra il Palazzo Huis ten Bosch, residenza del re e famiglia (l’accesso non è ammesso, ma la gente si fa i selfie davanti al cancello sperando di intravedere qualcuno della royal family affacciato alla finestra), Palazzo Noordeinde, sede ufficiale della casa reale dal 1609 (qui sono aperti il giardino e le scuderie con le carrozze) e il monumentale, severo, enorme Binnenhof, il centro della vita politica olandese.


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Poi sono arrivato, come guidato da un istinto, al sobrio edificio che ospita il Panorama Mesdag. E qui comincia un’altra storia. Ho conosciuto il Panorama Mesdag molti anni fa e quasi controvoglia, impegnato com’ero nella ricerca, o di ciò che resta, della veduta di Delft di Jan Vermeer. Ebbi il buon senso di assecondare la guida, che insisteva per portarmi a visitare un’altra veduta, meno celebre eppure, a suo dire, non meno affascinante: quella di Scheveningen, all’Aja, dipinta a fine l’800 da Hendrik Willem Mesdag (1831-1915). Fu un’esperienza che non ho mai dimenticato. E che sempre mi torna in mente quando, come di questi tempi, si tende a scrutare ogni orizzonte per avvistare con inquietudine ciò che viene da lontano. Perché se il mondo è pieno di luoghi-simbolo, lo è anche di situazioni simboliche. E il Panorama Mesdag è ambedue le cose: un luogo e una situazione. Dipinto ad olio su tela, circolare, lungo 120 metri ed alto 14, per un diametro di 40 e una superficie-monstre di 1680 mq, raffigura con assoluta fedeltà la vista che, nel 1881, si godeva dalla duna più alta dell’allora villaggio di Scheveningen, affacciato sul mare del Nord e oggi rinomato sobborgo balneare della capitale olandese. Dov’era la duna, dicono, ora c’è un semaforo. L’opera d’arte, invece, è sempre rimasta dove fu dipinta e fu costruito il museo che ancora oggi la racchiude, appena fuori dal centro della città. Si tratta di una sorta di gigantesca istantanea d’epoca, ma realizzata col pennello e con una messa in posa di parecchie settimane. Per realizzarla, l’autore si servì di un ingegnoso scafandro di vetro dall’interno del quale riuscì a tratteggiare minuziosamente, sulla superficie trasparente, ciò che vedeva per poi riprodurlo, con l’aiuto di qualche assistente, sull’immensa tela. Un’opera insolita e straordinaria, insomma: si tratta del più grande ed uno degli ultimi “panorami” sopravvissuti al mondo di

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I had the good sense to follow the guidebook, which insisted on taking me to visit another view that was less famous and yet, according to the guidebook, no less fascinating: that of Scheveningen, in The Hague, painted in the late 1800s by Hendrik Willem Mesdag (1831-1915). It was an experience I have never forgotten. And it always comes to mind when, as in these times, we tend to scrutinize every horizon to catch sight of that which comes from far away. Because if the world is full of symbolic places, it is also full of symbolic situations. And the Panorama Mesdag is both of these: a place and a situation. An oil painting on canvas, circular, 120 meters long and 14 meters high, with a diameter of 40 meters and a gargantuan surface area of 1680 sq.m., it depicts with absolute fidelity the view one would see in 1881 from the highest dune of the then village of Scheveningen on the North Sea. Today it is a renowned seaside suburb of the Dutch capital, and they say that where the dune once was, there is now a traffic light. The work of art instead has always remained where it was painted, and a museum was built that still holds it, just outside the city center. It is a kind of gigantic instant snapshot, but done with a brush and with an exposure that lasted several weeks. In order to create it, the painter used an ingenious glass diving suit, from the inside of which he managed to sketch what he saw in detail on the transparent surface. He then reproduced it, with the help of some assistants, on an immense canvas. It is, in short, an unusual and extraordinary work: the largest and one of the last surviving “panoramas” in the world, a pictorial genre that was in vogue in the latter half of the 19th century. Since 1886 it has been owned by the artist’s family, which still manages it. It is also, and was


conceived to be, a sort of two-dimensional monument, where the visitor stands at the center: thanks to the effect of a specially-created lighting system, the painted landscape takes on the tones and even the meteorological nuances of the natural light that comes from skylights. The Panorama, however, is special above all for what it implies: in fact, in a single visionary and magnificent glance, it captures not only a world that no longer exists, but the moment of the crucial transition from one epoch to another, the sunset of one economy and the dawn of the next: from fishing to pleasure, from wood to steel, from sailing the sea to enjoying the sea. From villages to cities, from fishermen’s huts to beach resorts. From nets to beach umbrellas. Two opposing universes, one common and one bourgeois, that on a canvas seemingly dense only with boat hulls and sails, distant bell towers and wind-bent bushes, meet instead at a precise spot, where the seines and the barges make way for the isolated architecture of a pavilion and a timid hotel, the rare tourist in a small carriage, the tents of tentative bathers. They are the well-to-do who, without yet blending in, lap on the shore of an ancient, solid, coastal microcosm made up of men of the sea, fish merchants, shipwrights, workers, the wives and children of fishermen, mules and tools. All scattered along the immense grey beach suspended between the ancient city and the burgeoning beach resort. With a sharp caesura: a squad of cavalry trotting on the shoreline. Just a little while longer, and then – you can feel it – nothing will ever be like it was before. But there is no desolation in the show. Only a vague fatalism and the low, diaphanous light of the sky that, in the vastness of the view, seem to slowly mark the passing of time. Welcome to the dune.

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un genere pittorico che fu in gran voga nella seconda metà del XIX secolo. Dal 1886 è di proprietà della famiglia dell’artista, che tuttora lo gestisce. Costituisce inoltre, e fu concepito per essere, una sorta di monumento a due dimensioni, dove il visitatore sta al centro: grazie all’effetto di un sistema di illuminazione studiato ad hoc, il paesaggio dipinto assume le tonalità e perfino le sfumature meteorologiche della luce naturale che viene dai lucernari. Il Panorama è speciale però, soprattutto, per ciò che implica: immortala, infatti, in un solo colpo d’occhio visionario e grandioso, non solo un mondo che non c’è più, ma il momento del cruciale trapasso da un’epoca a un’altra. Del tramonto di un’economia e dell’alba di una seconda: dalla pesca al diporto, dal legno all’acciaio, dal mare navigato al mare goduto. Dai villaggi alle città, dalle capanne dei pescatori agli stabilimenti balneari. Dalle reti agli ombrelloni. Due universi opposti, uno popolare e uno borghese, che su una tela apparentemente fitta solo di scafi e di vele, di campanili lontani e di cespugli piegati dal vento, s’incontrano invece in un punto preciso, dove le sciabiche e i barconi lasciano il posto alle architetture isolate di un padiglione e di un timido albergo, a qualche raro turista in calesse, alle tende di incerti bagnanti. Sono i benestanti che lambiscono, senza ancora confondersi, un antico e solido microcosmo costiero fatto di uomini di mare, commercianti di pesce, maestri d’ascia, operai, mogli e figli di pescatori, muli, attrezzi. Tutti dispersi nell’immensa spiaggia grigia sospesa tra la città antica e il nascente luogo di villeggiatura. Con una cesura precisa: un drappello di cavalleria al trotto sulla battigia. Ancora poco e poi nulla, lo si avverte, sarà più come prima. Ma nello spettacolo non c’è desolazione. Solo un vago fatalismo e la luce bassa e diafana del cielo che, nella vastità della veduta, sembrano scandire lentamente il tempo che passa. Benvenuti sulla duna.


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LUCE, OMBRA, UMBRIA.

di Dorina Palombi

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light, shadow, Umbria

As children we are afraid of the dark, a breeding ground for monsters, witches and mysterious noises; growing up you realize that, more often than not, it is an accomplice during our most intense moments of life. Everything is heightened at night as if, deprived of sight, the body’s other senses become like a cat’s vibrissae, ready to be stimulated: no longer fear, but expectation. Emanuel Gargano played on these concepts to create the collection of lamps whose aim is to “lighten the dark,” filling it with its magic and studding it with suggestions. Thus are born Eremo, Fatua, Morale, Soffio, and Alma, to name but a few, to tell the tale of a virtual walk through that Umbria which acts as a backdrop to the work of the designer from Assisi; the Assisi that Gargano never wanted to abandon, neither after his studies at the ISIA in Urbino, nor after his various international collaborations from London to New York for projects ranging from industrial design to architecture, from art to the study of light. It is a whispered Umbria, as if struck gently by the dawn light that filters through the window and brushes the soft, still sleeping curves, as if lit by a crackling fire in a sensual primitive dance, as if illuminated by sudden lightning, the instant of a movie still. JAMESMAGAZINE.IT

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Da bambini si ha paura del buio, fucina di mostri, streghe e rumori misteriosi; crescendo ci si rende conto che, il più delle volte, è complice nei momenti più intensi della vita. Tutto viene enfatizzato di notte come se, privato il corpo della vista, gli altri sensi diventassero vibrisse pronte a emozionarsi: non più paura, ma aspettativa. Emanuel Gargano ha giocato proprio su questi concetti per creare la collezione di lampade il cui obiettivo è “schiarire il buio”, lasciandolo gonfio della sua magia e costellandolo di suggestioni. Nascono Eremo, Fatua, Morale, Soffio, Alma, per citarne alcune, a raccontare una passeggiata virtuale in quell'Umbria che fa da scenario al lavoro del designer di Assisi; quella Assisi che Gargano non ha voluto abbandonare mai, né dopo gli studi all'ISIA di Urbino, né dopo le varie collaborazioni internazionali tra Londra e New York per progetti che spaziano dal design industriale all'architettura, dall'arte allo studio della luce, appunto. È un’Umbria sussurrata, come colpita dalla luce che filtra all’alba dalla finestra e ne sfiora le curve morbide ancora addormentate, come irradiata dal fuoco scoppiettante del camino in una sensuale danza primitiva, come illuminata da un fulmine improvviso, giusto il tempo di un fotogramma.


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LUCE, OMBRA, UMBRIA. EMANUEL GARGANO.

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Si potrebbe partire proprio da quella finestrella che è Eremo, realizzata con legno recuperato da porte di vecchi casolari della campagna umbra. L’ispirazione proviene da una lampada dei primi del ’900 presente nell’eremo francescano delle Carceri ad Assisi. Eremo viene modulata nell’intensità luminosa dal contatto manuale e si distingue per una marcata consistenza materiale, attutita dalla leggerezza della luce che si stampa tenue sulla parete. Fatua invece è una lanterna magica che produce un cono di luce non manifestandone la fonte, un cilindro di vetro trasparente che si può mettere ovunque e portare ovunque; Fatua quasi scompare alla vista nella sua evanescenza, permettendo ai profumi e al vociare di un tavolo apparecchiato di inseguirsi e alternarsi, e lasciando che i visi si incrocino senza intralcio alcuno. Concepita dalla suggestione avuta durante un viaggio nella campagna giapponese, dove rivestimenti di legno carbonizzato cingono le abitazioni rurali a scopo protettivo, Morale JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

We could start right from that little window that is Eremo, made with wood salvaged from the doors of old Umbrian farmhouses. The inspiration comes from a lamp from the early 1900s found in the Franciscan Eremo delle Carceri hermitage near Assisi. Eremo has a light intensity that is regulated manually, and it is distinguished by its considerable material consistency, muted by the softness of the light it casts tenuously on the wall. Fatua instead is a magic lantern that produces a cone of light without revealing its source, a transparent glass cylinder that can be placed anywhere and carried everywhere. Fatua almost disappears from view in its evanescence, allowing the fragrances and the conversation of a well-laid table to follow each other in turn, letting glances be exchanged without obstacles. Conceived from an idea that came during a trip through the Japanese countryside, where charred wood sidings surround rural houses to protect them, Morale utilizes the wooden bars used at


“schiarire il buio”, lasciandolo gonfio della sua magia e costellandolo di suggestioni “lighten the dark,” filling it with its magic and studding it with suggestions

construction sites to reinforce the structures, and is dedicated to the artist’s father. The salvaged wood is burned in a large bonfire and it is the fire that randomly shapes the look of the lamp. Fire, wood, home, Umbria. Soffio is the lamp that is the most moving, stimulated by the memory we all have of clothes hanging to dry in the sun on hot summer afternoons. The fabric is the living membrane of the lamp, made solid during the making of the lamp, eternally tautened by the June wind. It is that weave of memory, struck by the sun and bent on filtering it to make it soft and enveloping. This is the light you should expect: a soft, motherly caress. Lastly, there is Alma, a stone disk that creates a concentric, changeable eclipse on the wall by bringing it closer or moving it farther away. A tribute to primordial, mythological light, to the creation of matter. Above all, shadow. In a world where the light is always too strong. JAMESMAGAZINE.IT

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utilizza barre di legno in uso nei cantieri edili per armare le strutture ed è dedicata al padre dell’artista. Il legno di recupero viene bruciato in un grande falò ed è il fuoco che plasma casualmente l’aspetto della lampada. Fuoco, legno, casa, Umbria. Soffio è la lampada che più emoziona, complice il ricordo che ognuno di noi ha dei panni stesi al sole ad asciugare nei caldi pomeriggi estivi. È proprio il tessuto la membrana viva della lampada, reso solido durante la lavorazione ed eternamente gonfio del vento di giugno. È quella trama della memoria, colpita dal sole e impegnata a filtrarlo per renderlo morbido e avvolgente. Proprio questa è la luce da aspettarsi: una carezza soffice e materna. Infine Alma, un disco di pietra che crea una eclissi concentrica e modulabile sulla parete, allontanandola o avvicinandola al muro. Un omaggio alla luce primordiale, mitologica, alla creazione della materia. Essere. Soprattutto ombra. In un mondo dove la luce è sempre troppo forte.


lifestyle

di Luca Bonacini

IL FASCINO SENZA TEMPO DELLA MACCHINA DA SCRIVERE The timeless charm of the typewriter

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Neppure Ian Fleming, reporter, giornalista, scrittore e agente segreto durante la Seconda Guerra Mondiale rimase incolume dal fascino della macchina da scrivere. Mentre ultimava Casino Royale, il primo romanzo della saga di 007 e forse già presagiva il successo planetario che sarebbe arrivato, si regalò una macchina da scrivere Royal Quite De Luxe placcata oro e la inaugurò scrivendo alla moglie: “Amore mio, questa è soltanto una letterina per provare la mia nuova macchina da scrivere e vedere se scrive parole d’oro, dato che è dorata”, un inconfondibile ironia che si ritrova anche nei carteggi intrattenuti con i più noti scrittori dell’epoca, da Chandler a Somerset Maugham, dove le pietre miliari della sua breve ma efficace produzione letteraria, verranno chiamate dallo stesso Fleming “opuscoli”, a volte “cosette”, quasi mai “romanzi”. E non sarà il solo ad avere una predilezione per lo strumento meccanico che più cambiò il modo di scrivere dalla fine dell’Ottocento in poi. Tuttavia se l’invenzione della stampa è ascrivibile a Gutemberg che a metà del 1400 realizzò il primo volume stampato della storia, scoprire quando fu ideata la macchina da scrivere si rivela un’impresa tutt’altro che semplice, una genesi a tratti confusa che ci rimbalza dalla vecchia Europa agli Stati Uniti, senza lasciare dubbi sull’importanza di quel piccolo e insostituibile elettrodomestico, che fino alla fine degli anni ’80 molti di noi vedevano girare per casa e talvolta animarsi emettendo quell’inconfondibile ticchettio. Ineludibili compagne di viaggio di scrittori, giornalisti e reporter, le macchine da scrivere contribuirono in modo rilevante alla letteratura nella sua più alta JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

Not even Ian Fleming, a reporter, journalist, writer and secret agent during the Second World War, was left unharmed by the charm of the typewriter. As he was completing Casino Royale, the first novel in the 007 saga and perhaps already foreshadowed the planetary success that would come, he gave himself a gold plated Royal Quite De Luxe typewriter and inaugurated it by writing to his wife: “My love, this is just a little letter to try out my new typewriter and see if it writes golden words, since it’s gold plated”, an unmistakable irony that is also found in the correspondence with the most famous writers of the time, from Chandler to Somerset Maugham, where the milestones of his short but effective literary production will be called by Fleming himself “brochures”, sometimes “little things”, almost never “novels”. And he will not be the only one to have a predilection for the mechanical instrument that most changed the way of writing from the end of the nineteenth century onwards. However, if the invention of printing is attributable to Gutenberg, who in the middle of the 15th century produced the first printed book in history, discovering when the typewriter was invented proves to be a far from simple task, a sometimes confused genesis that bounces back from old Europe to the United States, without leaving any doubt on the importance of that small and irreplaceable appliance, which until the end of the 1980’s many of us saw go around the house and sometimes come alive emitting that unmistakable ticking. As unavoidable travel companions of writers, journalists and reporters, typewriters contributed significantly to literature in its meaning, living alongside the authors, perhaps feeding their creative vein, and it even became an offshoot of their genius and a tool of their success. They have told news stories, court cases, war reports, love stories and sensational betrayals, accompanying simple editors and great names in journalism on all the most important occasions of the twentieth century,


accezione, vivendo accanto agli autori, forse alimentandone la vena creativa, fino a diventare una propaggine del loro genio e uno strumento dei loro successi. Hanno raccontato vicende di cronaca, casi giudiziari, reportage di guerra, storie d’amore e clamorosi tradimenti, accompagnando semplici redattori e grandi nomi del giornalismo in tutte occasioni più importanti del Novecento, anche in trincea, ma sono state soprattutto strumento per la stesura di capolavori e successi senza tempo, quel ticchettio, per alcuni era una vera e propria fonte di ispirazione. Con tutta probabilità sarà Mark Twain il primo scrittore a utilizzare la macchina da scrivere per la stesura di un romanzo, iniziando con la antidiluviana Sholes & Glidden a pedale del 1874, per poi scegliere la Remington nr.2, con cui si suppone abbia scritto Le avventure di Tom Sawyer nel 1876. Le preferite di Ernest Hemingway erano la Corona n. 3, la n. 4, le Remington e le Royal portatili, ma anche la Paillard Hermes Baby, con cui lo scrittore scriveva sia seduto che in piedi e gli fruttarono un Pulitzer e un Nobel, anche se talvolta capitava che se ne dovesse separare controvoglia per saldare qualche conto. Le sceneggiature capolavoro di Orson Welles, come La guerra dei mondi del ‘38, non erano la stessa cosa senza la sua Underwood Standard portatile, con la custodia personalizzata dal suo nome e indirizzo. C’erano un’’Empire, una Corona portatile n. 3. e una Remington portatile, dietro al successo planetario di Agatha Christie e degli investigatori Hercule Poirot e Miss Marple, seppur azionate sotto dettatura da una segretaria, in seguito alla rottura del polso della scrittrice, che scoprirà così di riuscire a concentrarsi meglio,

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even in the trenches, but were above all an instrument for the drafting of masterpieces and timeless successes; that ticking, for some was a real source of inspiration. Mark Twain was probably the first writer to use the typewriter to write a novel, starting with the antediluvian 1874 pedal-operated Sholes & Glidden, and then choosing the Remington No. 2, with which he was supposed to have written The Adventures of Tom Sawyer in 1876. Ernest Hemingway’s favorites were the portable Corona No. 3, No. 4, Remington, and Royal, but also the Paillard Hermes Baby, with which the writer wrote both sitting and standing and earned him a Pulitzer and a Nobel prizes, even if sometimes it happened that he had to unwillingly separate from it to settle some bills. Orson Welles’ masterpiece scripts, such as War of the Worlds in 1938, were not the same without his portable Underwood Standard, with the customized case with his name and address. There were an Empire, a portable Corona No. 3. and a portable Remington, behind the planetary success of Agatha Christie and investigators Hercule Poirot and Miss Marple, although operated under dictation by a secretary, following the fracture of the writer’s wrist, who discovered she could concentrate better, using a wider range of terms. This way of writing with a typist and a cumbersome and primordial Remington also characterized Henry James in the early twentieth century. From a certain point onwards the writer could not do without his typewriter, requiring to hear its sound even at the point of death. Everyone had their favorite and someone was very fast, like Jack Kerouac, who wrote “On the Road” on a telex at 100 bars per minute. Karen Blixen returning from Kenya wrote “My Africa” with her tiny portable Corona No. 3. Jack London achieved success with his Smith Premier 10, Lewis Carroll with his Hammond, Kafka with his Oliver. Francis Scott Fitzgerald and Virginia Woolf wrote with an Underwood; Woody Allen with Olympia SM-3 deluxe and Bukowski with an Olympia SG.


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impiegando una maggior ampiezza di termini. Una modalità di scrittura con dattilografa e un’ingombrante e primordiale Remington, che fu propria anche di Henry James ai primi del Novecento, a cui da un certo punto in poi lo scrittore non potrà più fare a meno, richiedendo anche in punto di morte di sentirne il suono. Tutti avevano la loro preferita e qualcuno era velocissimo, come Jack Kerouac, che scrisse “On the road” su una telescrivente a 100 battute al minuto, i 36 metri del rotolo di carta impiegato, sarà battuto all’asta da Christies nel 2001 per quasi 2 milioni e mezzo di dollari. Karen Blixen di ritorno dal Kenya scrisse “La mia Africa” con la minuscola portatile Corona n. 3. Jack London raggiunse il successo con la Smith Premier 10, Lewis Carroll con la Hammond, Kafka con la Oliver. Francis Scott Fitzgerald e Virginia Woolf scrivevano con la Underwood; Woody Allen con l’Olympia SM-3 deluxe e Bukowski con l’Olympia SG. Per gli amanti del genere a Milano, c’è un luogo del sapere dove tutto ciò rivive e il tempo sembra essersi fermato a quando non esistevano computer, tablet e smartphone, a un’epoca non così lontana nella quale non si sapeva cosa fossero i copia incolla, i salvataggi, i file, e scrivere un’articolo o una lettera richiedeva un’abilità non comune. Oltre duemila macchine da scrivere e calcolatrici meccaniche raccolte con pazienza in Italia e all’estero, che costituiscono il patrimonio del Museo delle Macchine da scrivere di via Menabrea 10 (quartiere Isola), un comparto museale tutto autogestito da Umberto Di Donato insieme ai volontari della sua associazione, aperto al pubblico senza il pagamento di un biglietto e senza il divieto di toccare. All’interno nascono percorsi di conoscenza per gli studenti delle scuole, ma anche iniziative editoriali, corsi di scrittura, mostre tematiche, eventi. Un concentrato di passione concepito ben oltre la logica del profitto che ha animato in questi anni l’opera volontaristica di ricerca e studio di Umberto Di Donato, fondatore e curatore di un prezioso giacimento di cultura che riunisce in sé i valori più autentici della comunicazione fra gli individui, quasi un desiderio di restituire e condividere ciò che Di Donato ha ricevuto, fu infatti grazie alla conoscenza della dattilografia se nel ’58 verrà assunto alla Banca Commerciale Italiana, iniziando una carriera che lo porterà a divenire direttore di importanti filiali. Nel 2006 quando il museo inaugurò, le macchine erano circa duecento, ma grazie alla continua ricerca e alle donazioni, gli esemplari sono decuplicati. Ognuna ha una sua storia: ”la prima che acquistai nel’59 fu la mitica Olivetti Lettera 22 racconta di Donato - ed è tra le settanta macchine che nel 2013 prestai alla produzione che girò la fiction sull’Olivetti impersonata da Luca Zingaretti”. C’è la Remington di Matilde Serao, fondatrice del Mattino di Napoli, la portatile Ico Olivetti di colore rosso di Camilla Cederna, con cui scrisse gli articoli che portarono alle dimissioni del Presidente Giovanni Leone. C’è la macchina da scrivere di Indro Montanelli (in questo

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For lovers of this genre, there is a place of knowledge in Milan, where all this has a new life and time seems to have stopped to when there were no computers, tablets or smart phones, at a time not so distant in which you did not know what ‘copy and paste’, ‘save’, or ‘file’ were, and writing an article or a letter required an uncommon ability. Over two thousand typewriters and mechanical calculators patiently collected in Italy and abroad, which are the heritage of the Museum of Typewriters in Via Menabrea 10 (Isola district), a museum self-managed by Umberto Di Donato together with the volunteers of his association, open to the public with no need to pay a ticket and with no prohibition to touch. In the museum, there are paths of knowledge for school students, but also editorial initiatives, writing courses, thematic exhibitions, and events. This concentration of passion is conceived well beyond the logic of profit that has animated in recent years the voluntary work of research and study of Umberto Di Donato, the founder and curator of a precious deposit of culture that brings together the most authentic values of communication between individuals, almost a desire to return and share what Umberto Di Donato has received. In fact, in 1958 he was hired by the bank Banca Commerciale Italiana for his typing knowledge and started a career as manager of major bank branches. In 2006, when the museum opened, there were about two hundred typewriters. As a result of continuous research and donations, the number has increased tenfold. Each typewriter has its own story: “the first one I bought in 1959 was the legendary Olivetti Lettera 22 – says Mr. Di Donato – which is one of the seventy typewriters that in 2013 I lent to the production of the Olivetti fiction with the actor Luca Zingaretti as the Mr. Olivetti”. There is a Remington that belonged to Matilde Serao, founder of the newspaper Mattino di Napoli, the red portable Ico Olivetti that belonged to Camilla Cederna, with whom she wrote the articles that led to the resignation of President Giovanni Leone. There is the typewriter of Indro Montanelli – in this case not the original one, but the same models used by the famous journalist, which are the Olivetti Lettera 22 (one of the masterpieces of Italian design at the MoMA in New York), which was also preferred by Pier Paolo Pasolini and Enzo Biagi, and Lettera 32, which was launched in 1963 and appreciated by Mr. Montanelli as well as Gianni Mura and Bob Dylan. These are intimate and personal work tools, companions of a lifetime, such as the typewriter of a prisoner who was waiting for capital punishment in an American penitentiary; a Chinese typewriter of the 1920s with ideograms instead of characters; a typewriter that writes in Arabic, another that was supplied to a German command during the Second World War and has a specific “SS” button, or even a typewriter that comes from the Italian Parliament, at the time of Francesco Cossiga, along with sophisticated and innovative models, up to


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typewriters contributed significantly to literature in its highest sense

le macchine da scrivere contribuirono in modo rilevante alla letteratura nella sua piĂš alta accezione


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the pink Barbie toy typewriters. Visiting the Museum in the company of its founder takes you back to the heroic era of great writers, such as Ernest Hemingway, whose portable Remington that he left in a bar in Milan as a pledge to pay for a week of drinks, along with authentic rarities such as the 33 rpm vinyl record “Music for Words” produced by Olivetti in 1950 and sold in conjunction with the “Lettera 22”, where the authoritative narrator is that of Mario Soldati while he teaches how to use the keyboard with ten fingers. But who first designed this precious writing device? It is necessary to go to 1575 - continues Mr. Di Donato - when the Italian printer and publisher Francesco Rampazetto conceived a mechanical instrument with characters in relief that allowed the blind to communicate. There were nume-

La Smith Premier 10 di Jack London

caso non l’originale), ma gli stessi modelli che usava il famoso giornalista, ovvero l’Olivetti Lettera 22 (presente al MoMA di New York tra i capolavori del design italiano), preferita anche da Pier Paolo Pasolini ed Enzo Biagi e la Lettera 32, che lanciata nel 1963 oltre a Montanelli piacerà a Gianni Mura e a Bob Dylan. Strumenti di lavoro intimi e personali compagni di una vita, come la macchina di un detenuto che era in attesa della pena capitale in un penitenziario americano; una macchina cinese degli anni ‘20 con gli ideogrammi al posto dei caratteri; una macchina che scrive in arabo, un’altra che era in dotazione a un comando tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale e ha l’apposito tasto “SS”, o ancora un’esemplare che viene dalla Camera dei Deputati, ai tempi di Francesco Cossiga, insieme a modelli sofisticati e innovativi, fino alle macchine da scrivere giocattolo color fuxia della Barbie. Visitare il Museo in compagnia del suo fondatore ti riporta all’epoca eroica dei grandi scrittori, come Ernest Hemingway di cui è conservato una Remington portatile che gli appartenne e che lasciò in un bar di Milano in pegno, per saldare una settimana di consumazioni, insieme ad autentiche rarità come il disco 33 giri in vinile “Musica per parole” prodotto dalla Olivetti nel 1950 e venduto in abbinamento alla “Lettera 22”, dove l’autorevole voce narrante è quella di Mario Soldati mentre insegna a usare la tastiera con dieci dita”. Ma chi ideò per primo questo prezioso congegno per scrivere? Occorre andare al 1575 - prosegue Di Donato - quando il tipografo ed editore italiano Francesco Rampazetto, concepì uno strumento meccanico con caratteri in rilievo che consentiva ai non vedenti di comunicare. I tentativi furono numerosi, tra i più riusciti quello di Giuseppe Ravizza un avvocato novarese che costruì nel 1846 un “cembalo scrivano”, e quello di Peter Mitterhofer, un falegname sud tirolese che ideò tra il 1864 e il 1869 cinque modelli di macchine da scrivere, sottoponendoli al giudizio dell’imperatore Francesco Giuseppe e ai suoi esperti, che non colsero però la validità del progetto”. Di tutt’altro avviso gli americani, con Cristopher Latham Sholesn che progettò una macchina più funzionale, con una tastiera molto simile a quelle odierne dei computer, che non si inceppava. Fu l’industria bellica Remington a comprendere le potenzialità della nuova invenzione producendo nel 1874 i primi mille esemplari. Nel 1893 Camillo Olivetti è a Chicago insieme al suo insegnante Galileo Ferraris per partecipare a una dimostrazione di Thomas Alva Edison, rimarrà due anni nel reparto di ingegneria elettrica dell’Università di Stanford e una volta rientrato in Italia metterà a frutto idee e conoscenza nella sua impresa e nella prima Olivetti, presentata nel 1911 all’Esposizione universale di Torino. Sarà l’inizio di un’epopea che per un secolo interesserà l’industria registrando l’evolversi di stile e design, coinvolgendo cinema, televisione, moda e costume, con un’unica definitiva battuta d’arresto, il de profundis decretato dall’avvento del digitale.


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thousand units in 1874. In 1893, Camillo Olivetti and his teacher Galileo Ferraris were in Chicago to take part in a demonstration by Thomas Alva Edison. He remained in the electrical engineering department of Stanford University for two years and once back in Italy he put ideas and knowledge to good use in his company and in the first Olivetti typewriter, presented in 1911 at the World Fair in Turin. It was be the beginning of an epic that for a century influenced the industry recording the evolution of style and design, involving cinema, television, fashion and costume, with a single definitive setback, the end decreed by the advent of digital systems. JAMESMAGAZINE.IT

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rous attempts, the most successful being that of Giuseppe Ravizza, a lawyer from Novara who built a “writing harpsichord” in 1846, and that of Peter Mitterhofer, a South Tyrolean carpenter who created between 1864 and 1869 five models of typewriters, submitting them to the judgment of Emperor Franz Joseph and his experts, who did not, however, grasp the validity of the project. The Americans did not think so, as Cristopher Latham Sholes designed a more functional machine, with a keyboard very similar to those of today’s computers, which did not jam. The Remington war industry understood the potential of the new invention and manufactured the first


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VIAGGIO AL CAMP JEEP TRA NUOVI GLADIATORI NATURA E 4X4

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Si chiama Camp Jeep ed è un evento all’insegna dei percorsi sterrati, del fango e della natura, oltre che, ovviamente dei motori. Un appuntamento quindi imperdibile per gli appassionati di off-road e veicoli a trazione integrale. Che siano i boschi austriaci, come è stato lo scorso anno, o le Dolomiti del Trentino Alto Adige che hanno ospitato l’evento quest’anno, la ricetta è semplice e consolidata: tante jeep con altrettanti jeepers che si danno appuntamento per tre giorni di condivisione di una passione. L’appuntamento estivo andato in scena a San Martino di Castrozza, dove le nuvole hanno giocato a coprire e scoprire le Pale di San Martino, quest’anno è stato anche l’occasione per Jeep di presentare un più che gradito ritorno nel catalogo del marchio americano, ovvero JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019

It’s called Camp Jeep and it’s an event dedicated to dirt tracks, mud and nature, as well as, of course, engines. It is an unmissable event for fans of off-road and all-wheel-drive vehicles. Whether it’s the Austrian forests, as it was last year, or the Dolomites of Trentino Alto Adige that hosted the event this year, the recipe is simple and consolidated: many Jeeps with as many jeepers that meet for three days of sharing a passion. The summer event staged in San Martino di Castrozza, where the clouds have played to cover and discover the Pale di San Martino, this year was also the opportunity for Jeep to present a more than welcome return in the catalog of the American brand, i.e. Jeep Gladiator, a pick-up for all types of terrain and direct


Jeep Gladiator, pick-up per ogni tipo di terreno e discendente diretto di quella Jeep Comanche messa in pensione ormai da ventisette anni e ultimo fuoristrada con cassone aperto prodotto in ordine di tempo dal marchio paladino del fuoristrada. Per ripresentarsi da protagonista nel segmento dei pick-up, Jeep ha pensato di tornare in scena con un prodotto capace di attirare l’attenzione degli appassionati: un veicolo open air multiuso, pensato per offrire divertimento di guida, unito alle leggendarie capacità off-road di Jeep e alle tecnologie avanzate già sperimentate sui modelli Wrangler, ovvero quelli che durante il Camp Jeep 2019 ci hanno portato a spasso per le Dolomiti trentine. Prodotta negli Stati Uniti, nella fabbrica di Toledo (Ohio), la nuova Jeep Gladiator arriverà prima nei concessionari del Medio Oriente, nel primo semestre del 2020, con tre diversi allestimenti: Sport, Overland e soprattutto Rubicon, il più off-road di tutta la gamma targata Jeep e capace di superare ostacoli impensabili per una quattroruote comune. L’introduzione in Europa di Gladiator è invece previsto entro la fine del prossimo anno. Come nella consolidata formula di Wrangler, le capacità fuoristrada di Gladiator sono garantite da due avanzati sistemi 4x4 (Command-Trac e Rock-Trac), assali di terza generazione, bloccaggi elettrici degli assali anteriore e posteriore Tru-Lock, barra stabilizzatrice a scollegamento elettronico che rappresenta una novità assoluta nel segmento, oltre agli pneumatici off-road da 32”. Se a livello tecnico il progetto, anche in termini di design, parte dal concetto di Wrangler, per lo specifico del cassone i progettisti di Jeep hanno tenuto in conto le due direzioni di funzio

A trip to camp Jeep. among new gladiators, nature, and all-wheel-drive cars

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descendant of Jeep Comanche that retired twenty-seven years ago and was the last off-road vehicle with open body manufactured in order of time by Jeep. In order to regain its leading role in the pick-up segment, Jeep has decided to return to the scene with a product capable of attracting the attention of enthusiasts: a multi-purpose open air vehicle, designed to offer fun driving, combined with the legendary off-road capabilities of Jeep and advanced technologies already tested on the Wrangler models, i.e. those that during the Camp Jeep 2019 have taken us for a ride in the Dolomites of Trentino Alto Adige. Manufactured in the United States, in the Toledo (Ohio) factory, the new Jeep Gladiator will arrive first in the Middle East dealerships in the first half of 2020, with three different fittings: Sport, Overland and above all Rubicon, the most off-road of the entire Jeep range and capable of overcoming unthinkable obstacles for a common four-wheeler.


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nalità e versatilità, con un sistema di illuminazione under-rail, una fonte di alimentazione esterna coperta da 230 V (disponibile a richiesta) e i robusti fermi integrati che garantiscono la necessaria resistenza. Quando arriverà nel mercato europeo, il nuovo pick-up Jeep Gladiator proporrà sia propulsori benzina che diesel. Nel primo caso si tratterà del motore Pentastar V6 da 3,6 litri sviluppato da FCA US con 285 Cv e 347 Nm di coppia, che è dotato di serie del sistema Engine Stop-Start (ESS). Tutte le versione del Gladiator vendute in Europa potranno anche essere ordinate con l’EcoDiesel 3,0 litri. Non solo Galdiator, però, per le novità del Camp Jeep 2019. Oltre al pick-up in salsa 4x4, sulle Dolomiti è stato presentato anche un altro modello che farà brillare gli occhi dei ‘jeepers’, ovvero la nuova Jeep Wrangler 1941, allestita da Mopar, il marchio FCA dedicato ai prodotti e ai servizi after sales per tutti i veicoli del gruppo, al lancio commerciale a soli tre mesi dalla sua presentazione in anteprima mondiale al Salone dell’automobile di Ginevra. Il veicolo è un modello a trazione integrale con un allestimento adatto anche alle leggi europee in fatto di personalizzazione dei veicoli, dal kit assetto rialzato da 2” allo snorkel (a richiesta), passando per rock rails, battitacco neri, sportello carburante nero e tappetini all weather che arricchiscono la configurazione specifica di questo modello. Completa la configurazione la scritta ‘ 1941’ sul cofano, che ricorda una data simbolo per il marchio Jeep, la nascita della mitica Willys. Adesso resta solo da aspettare che si decida la meta del Camp Jeep 2020 e preparare le valige, oltre alle gomme tassellate.

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The introduction of Gladiator in Europe is expected by the end of next year. As in Wrangler’s consolidated formula, Gladiator’s off-road capabilities are guaranteed by two advanced all-wheel-drive systems (Command-Trac and Rock-Trac), third-generation axles, electric front and rear axle locks from Tru-Lock, an electronic disconnect stabilizer bar that is an absolute novelty in the segment, as well as 32” off-road tyres. While on a technical level the project, also in terms of design, starts from the Wrangler concept, for the specific body Jeep designers have taken into account the two directions of functionality and versatility, with an under-rail lighting system, a 230 V covered external power source (available on request) and robust integrated stops that guarantee the necessary strength. When it enters the European market, the new Jeep Gladiator pick-up will offer both petrol and diesel engines. The first will be the 3.6-liter Pentastar V6 engine developed by FCA US with 285 hp and 347 Nm of torque, which is fitted as standard with the Engine Stop-Start (ESS) system. All versions of the Gladiator sold in Europe can also be ordered with the EcoDiesel 3.0 liter engine. The Gladiator is not the only new model of the Camp JAMES MAGAZINE 04 | SET 2019


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Jeep 2019. In addition to the all-wheel-drive pick-up, another model that will make the eyes of the ‘jeepers’ shine in the Dolomites was also presented, namely the new Jeep Wrangler 1941, fitted out by Mopar, the FCA brand dedicated to after-sales products and services for all the group’s vehicles, at its commercial launch just three months after its world premiere at the Geneva Motor Show. The vehicle is an all-wheel-drive model with an equipment that is also suitable for European laws in terms of vehicle customization, from the 2” raised trim kit to the snorkel (on request), passing through rock rails, black entrance steps, black fuel door and all weather mats that enrich the specific configuration of this model. The configuration is completed by the inscription ‘1941’ on the bonnet, which recalls a symbolic date for the Jeep brand, the birth of the legendary Willys. Now all that remains is to wait for the Camp Jeep 2020 destination to be decided and to prepare the suitcases, as well as knobbly tires.


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di Carlo Mandelli

BMW R2015R. Fun is guaranteed

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DIVERTIMENTO “ASSICURATO”

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Un viaggio alla scoperta dell’anima del motore boxer secondo i tedeschi. C’è un posto dove ogni proprietario di moto BMW dovrebbe andare almeno una volta, come una sorta di pellegrinaggio dedicato al marchio dell’elica e a tutto il suo mondo. Questo posto si trova a Garmisch Partenkirchen, nella Baviera tedesca, dove ogni estate, durante il mese di luglio, vanno in scena i BMW Motorrad Days. Tre giorni di pura passione per le due ruote tedesche interpretate in tutte le possibili declinazioni. Un viaggio da percorrere rigorosamente in moto, per assaporarne al meglio il senso attraverso montagne e pianure, confini e tante curve fino ad arrivare alla verde Baviera. Un viaggio che a volte si decide di fare anche per scoprire i nuovi modelli e testarne le capacità in termini di comodità ma anche di divertimento e prestazioni. Il caso potrebbe essere quello della nuova R1250r, l’ultima arrivata della casa dell’elica in quanto a roadster e che di recente ci ha accolto in sella per macinare chilometri su chilometri, senza mai deluderci. Una nuda, per intenderci, ma con un motore di tutto rispetto e divertimento (in tutta sicurezza e confort) assicurato. Ad un primo sguardo e rispetto alla R 1200r che sostituisce, la nuova R 1250 r cambia poco nell’estetica, ma qualche dettaglio come le cover del radiatore e il puntale, quest’ultimo differente in base alla versione scelta, suggeriscono che si sta per salire su una moto diversa rispetto alla recente antenata, anche prima di accendere il motore, inserire la marcia e dare gas. Protagonista indiscusso, tanto sui tracciati dritti dell’autostrada ma soprattutto fuori, sulle curve in collina e in montagna, è il nuovo motore boxer da 1.254 cc. In quanto a numeri, potenza e coppia si esprimono in 136 CV e 143 Nm, il che significa un aumento rispetto al recente passato della boxer tedesca di 11 CV e 18 Nm. Diminuiscono, invece, i consumi e le emissioni inquinanti, tanto che il nuovo motore è già in linea

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A journey to discover the soul of the boxer engine according to the Germans. There is a place where every BMW motorcycle owner should go at least once, as a kind of pilgrimage dedicated to the brand of the propeller and to its whole world. This place is located in Garmisch Partenkirchen in German Bavaria, where the BMW Motorrad Days are held every summer in July. Three days of pure passion for German two-wheelers interpreted in all possible forms. A journey to be covered strictly by motorbike, to enjoy the best sense and through mountains and valleys, borders and many curves to get to the green Bavaria. A journey that sometimes you decide to do also to discover the new models and test their capabilities in terms of comfort


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con le normative antinquinamento Euro5. Più divertimento e meno inquinamento: l’equazione raggiunge il suo risultato migliore. All’aumentare della cilindrata coincide anche l’aumento di peso a 239 kg (più 8 rispetto alla 1.200 cc) che però praticamente non si sentono, di sicuro non in movimento ma nemmeno da fermo, in manovra. Non cambia invece la struttura classica e consolidata della roadster teutonica, compresa la forcella a steli rovesciati da 45 mm all’anteriore, regolabile, oltre al mono ammortizzatore anch’esso regolabile, al posteriore. Se come accessorio si sceglie anche il Dynamic ESA di seconda generazione, le sospensioni tradizionali si trasformano in semi-attive. Si fila via veloci tra le curve con la R 1250r che tiene il passo quando serve, così come permette di godersi una guida rilassata quando girare più di tanto il gas non è necessario. Sicurezza e confort dettati anche dalle dotazione di serie che oggi prevedono il controllo di stabilità ASC, il sistema di assistenza per le partenze in salita e due riding mode, Road e Rain, insieme con il quadro strumenti digitale con schermo TFT da 6,5 pollici. In aggiunta, per ottenere una moto ancora più accessoriata, è possibile ottenere come optional anche i riding mode Dynamic e Dynamic PRO, il cruise control, le manopole riscaldate, l’ABS PRO con funzione cornering, il Dinamic Brake Control, il cavalletto centrale e il sistema per la chiamata automatica di emergenza. Scenografico il tema del display dedicato alla versione HP (quella più sportiva, con tanto di sella rialzata) che mostra l’angolo di piega massima, il livello d’intervento del controllo di trazione e la potenza frenante applicata. In quanto a livree, se sulle due ruote cercate l’eleganza la R1250r Exclusive è quella che fa per voi. Per gli amanti delle personalizzazioni, invece, la Option 719 è decisamente il modello da scegliere.

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but also of fun and performance. The case could be that of the new R1250r, the latest arrival of the house of the propeller in terms of roadster and that recently welcomed us on the saddle to cover miles on miles, without ever disappointing us. A nude bike, to be clear, but with an engine of all respect and fun (in complete safety and comfort) assured. At first glance and compared to the R 1200r it replaces, the new R 1250 r changes little in aesthetics, but some details such as the radiator covers and the tip, the latter different depending on the version chosen, suggest that you are about to get on a different bike than the recent ancestor, even before you start the engine, engage the gear and give gas. Undisputed protagonist, both on the straight tracks of the highway but especially outside, on the curves in the hills and mountains, is the new 1,254 cc boxer engine. In terms of numbers, power and torque, they are expressed in 136 hp and 143 Nm, which means an increase compared to the recent past of the German boxer of 11 hp and 18 Nm. On the other hand, fuel consumption and pollutant emissions are decreasing, so much so that the new engine is already in


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line with the Euro5 anti-pollution regulations. More fun and less pollution: the equation achieves its best result. As the engine capacity increases, so does the increase in weight to 239 kg (8 more than the 1,200 cc), which, however, can hardly be felt, certainly not in motion but not even when stationary, in maneuvering. The classic and consolidated structure of the Teutonic roadster doesn’t change, including the adjustable 45 mm upside-down fork at the front, in addition to the single adjustable shock absorber, at the rear. If the second generation Dynamic ESA is also chosen as an accessory, the traditional suspensions become semi-active. You spin fast through corners with the R 1250r keeping pace when you need it, as well as allowing you to enjoy a relaxed ride when you don’t need to turn the throttle so much. Safety and comfort are also dictated by the standard equipment that now includes the ASC stability control, the assistance system for uphill starts and two riding modes, Road and Rain, along with the digital instrument panel with 6.5-inch TFT screen. In addition, to obtain an even more equipped bike, it is also possible to obtain as an option the Dynamic and Dynamic PRO riding modes, cruise control, heated grips, ABS PRO with cornering function, the Dynamic Brake Control, the central stand and the system for automatic emergency call. The theme of the display dedicated to the HP version (the sportiest one, with a raised seat) is spectacular, showing the maximum bend angle, the traction control intervention level and the braking power applied. As for livery, if you’re looking for elegance on two wheels, the R1250r Exclusive is the one for you. For lovers of customization, however, the Option 719 is definitely the model to choose.


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