Pubblicazione san cesario nuovo

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...IL NOSTRO PERCORSO La proposta didattica promossa da “Il veliero parla…n…te” per l’a.s. 2014 – 2015 dal titolo “KOINE’: immagini e parole della geografia” ha visto i ragazzi delle classi prime e seconde della scuola Secondaria di Primo Grado tutti insieme impegnati in laboratori didattici, finalizzati a promuovere l’osservazione, conoscenza e descrizione degli ambienti naturali ed antropici, attraverso l’utilizzo degli strumenti più opportuni. Obiettivo finale del percorso didattico è stato per i ragazzi la redazione e produzione di un originale notiziario scolastico che potesse raccontare la libera lettura ed interpretazione che del territorio locale hanno avuto i ragazzi, dopo un accurato lavoro di ricerca storico e documentario. Attraverso un percorso didattico ben pianificato si è dunque partiti dalla conoscenza strutturale del quotidiano tradizionale per poi arrivare alla produzione effettiva di un giornale d’argomento storico-culturale, interamente curato dai ragazzi. . E dunque, partendo dalla raccolta delle fonti (scritte, orali, visive, documentarie…), si è poi passati alla lettura e analisi dei testi più significativi per una comprensione globale della realtà territoriale, fino alla realizzazione di articoli, semplici ma originali, in forma individuale e di gruppo. In particolare i ragazzi hanno a tal fine prodotto un articolo centrale, descrittivo del territorio, redatto in forma diretta e dialogica, sulla falsa riga del testo letto e approfondito nel corso dell’anno e relativo alla realtà territoriale italiana ed europea. In questo modo, partendo proprio da una lettura del territorio che dal generale è poi arrivata al particolare, hanno inquadrato San Cesario come realtà italiana ed europea. L’entusiasmo e la partecipazione dimostrati sono stati prova evidente di come lo stimolo del processo creativo, attraverso l’incentivazione della scrittura e di altre forme di espressione comunicativa, avvicini gli studenti in modo piacevole al mondo dell’informazione, promuovendo un’attività di ricerca che parta da un patrimonio comune per diventare risorsa individuale. Prof.ssa Maria Rosaria Campa


Un titolo tutto originale… “ Strilli di classe ” è il titolo scelto da noi ragazzi per il giornalino realizzato durante il percorso di approfondimento e in linea con le direttive del progetto “Il veliero parla…n…te”. Un titolo a prima vista ‘bizzarro’, ma significativo, quello da noi individuato che ben traduce l’entusiasmante esperienza laboratoriale di questi mesi. “Strilli” è stato, infatti, inteso come una propizia opportunità formativa perché ha consentito a noi alunni di esprimere emozioni, punti di vista e riflessioni sull’argomento-guida di questo percorso didattico multidisciplinare che mira a promuovere lo studio della geografia territoriale attraverso immagini e parole. La nostra non vuol essere dunque una semplice elencazione storica e documentaria della realtà geografica del nostro paese, ma piuttosto una libera lettura ed interpretazione del territorio, attraverso miti, leggende, racconti e testimonianze, reali e immaginarie, che hanno dunque consentito un’osservazione, conoscenza e descrizione dei nostri ambienti naturali ed antropici. “Strilli” è dunque la geniale traduzione di questo dar voce e spazio alla formidabile creatività di noi ragazzi. L’obiettivo, dunque, di autori e redattori è stato quello di esprimere sempre idee ed opinioni con originalità, schiettezza e chiarezza, puntando ad una comunicazione sintetica ed efficace. Ed è stato bello scoprire come sia possibile trattare argomenti storico-geografici con occhi diversi… sicuramente meno noiosi, con un’impronta del tutto originale come solo noi ragazzi sappiamo fare! Una geografia quindi, la nostra, per una volta fatta “sul campo…e con i piedi…”. “Strilli di classe” ci ha dunque stimolati a pensare e a scrivere liberamente la nostra percezione del territorio locale, definendosi pian piano come strumento di formazione e maturazione delle capacità espressive e critiche.


Una rock band di origini inglesi è stata invitata ad esibirsi nel piccolo comune di San Cesario di Lecce, ma quest’esperienza diventa per loro una straordinaria occasione di crescita culturale attraverso la scoperta delle tradizioni e della storia del paese. Un gruppo di ragazzi delle scuole medie è stato scelto per accogliere la delegazione inglese e per accompagnarla in questa visita. Così loro, ansiosi e felici di incontrarli, hanno atteso nella piccola stazione del paese, il treno proveniente da Lecce.

Linda: Li ho trovati! Scendono dalla carrozza 6!!! Nadia: Presto… andiamo loro incontro!!! Che bello…finalmente sono qui, li aspettavamo da tanto per far scoprire il nostro piccolo mondo. Good morning, do you speak Italian?Harry: Sì, lo so parlare solo io, ma posso fare da intermediario tra voi e i miei amici. Ah…dimenticavo, io sono Harry, lui è John, un ragazzo molto timido ma che ama viaggiare, e lui è Will, particolarmente vivace ed estroverso. Linda: E di te non ci dici nulla? Will: He’s very nosy! Linda: Harry ma cosa dice? Io non capisco nulla di inglese… Harry: Emh…dice che sono un po’…ecco…ficcanaso! Scoppiamo tutti a ridere fino a farlo diventare rosso come un peperone! Dopo questo primo, immediato approccio vediamo i ragazzi guardarsi attorno, quasi…come dire…diffidenti e un po’ stupiti ( in negativo! ) dall’aspetto del paesaggio intorno! Harry: Ma che paese è mai questo?! Io…pensavo fosse…molto più grande, attivo… insomma…vivo!!! A questo punto mi sa che è proprio il caso di intervenire – penso tra me e me- e con fare deciso e un po’ patriottico attacco: Linda: So che l’impatto potrebbe non essere dei migliori, ragazzi! Per voi che venite da chissà dove, e chissà quale e quanto grande realtà, il nostro paesino potrebbe risultare una noiosissima e insignificante “location” per la vostra esibizione. Ma non è esattamente così, ve lo assicuro: anche noi sapremo trasmettervi qualcosa…promesso!


E continua il mio spirito patriottico… Linda: San Cesario ha un’antichissima tradizione storica che risale, figurarsi, sin ai tempi dei romani: conosciuto infatti come “Castrum Caesaris”, in onore del grande Cesare Augusto, fu poi evidenziato col nome attuale nel Medioevo. Ignorando i loro volti visibilmente inebetiti e distratti, continuo imperterrita con voce importante e fare decisamente ciceroniano: Linda: Il paese ricade nella cosiddetta “Valle della Cupa”, un’area caratterizzata da affinità naturali, climatiche e culturali. Harry mi blocca confuso… Harry: Della…che??? Sorrido e proseguo cercando di spiegarmi ancora meglio. Linda: Della c – u – p - a: geomorfologicamente si tratta di una depressione carsica e di un’area geografica ben definita, con al centro Lecce (capoluogo di provincia, a due passi da qui!) e a cui fanno da corollario numerosi altri centri della zona. Risorse fisiche e culturali confermano l’importanza dell’area come antico insediamento umano: la presenza di terreni fertili, facilità di prelevare acqua da una falda poco profonda, presenza di rocce calcaree da usare come materiale da costruzione. Mi sento in piena esplosione culturale e continuo… Linda: Figuratevi che qualcuno (in realtà saprei anche chi è stato ma fingo di rimanere vaga per non sembrare troppo pesante!) definì questa “Cupa” la “Tivoli dei leccesi” in quanto, per il terreno fertile e la vicinanza al capoluogo, rappresentava una meta ambita dai nobili locali. E a questo punto non posso che concedermi una conclusione di questo “breve” iter storico altrettanto plateale…e aggiungo, soddisfatta della mia presentazione:

Linda: Dell’antica bellezza di questi luoghi purtroppo rimangono oggi ben poche testimonianze, ma al visitatore attento non potrà sfuggire il fascino ancora intatto di queste campagne, e la fattura di gusto sottile delle opere che l’uomo volle realizzarvi con il proprio lavoro o per il proprio diletto.


Si sarà capito che avevo imparato tutta l’espressione a memoria pur di far bella figura??? Forse avrei potuto evitare di pronunciarla ad un sol fiato…vabbè…pazienza…ormai è andata! Abbandono immediatamente i miei pensieri critici e per una volta mi preoccupo di considerare la loro reazione. Ovviamente l’unico che mi ha seguita per sommi capi è stato Harry, vista la sua dimestichezza con la lingua italiana, ma in ogni caso la sua espressione non è delle migliori: mi sorride compiacente e ammirato ma è evidente che sta fingendo! A questo punto propongo di andare a fare un aperitivo e tutti accettano senza pensarci due volte. Raggiungiamo dunque la piazza centrale e, in men che non si dica, ne ordiniamo uno ricchissimo di sfizierie di ogni tipo. Harry: Cosa sarebbero queste ciambelle senza zucchero? Linda: Ahahah…non sono ciambelle, queste sono le tipiche “friseddhre” salentine… Nadia: …fatte di farina di grano e da gustare condite con pomodori, capperi e origano. Notiamo che i ragazzi inglesi esplodono in una fragorosa risata: forse questa parola assomiglia ad una stranezza inglese! Ma non capendo li guardiamo con aria sorpresa. Per farli smettere mi butto: Linda: Andiamo a visitare il Municipio? Vi va?

Ovviamente ce ne è voluto un po’ prima di staccarli dal piatto, ma alla fine sono usciti di corsa, interessati a vedere nuove stranezze. Arrivati di fronte al Municipio, infatti, ci hanno sorpreso gli sguardi dei ragazzi colpiti dallo stile barocco ricco di decorazioni e statuette sparse sulla facciata. Linda: Lo sapevate che inizialmente questa era una scuola primaria? – Attacco – Harry: Siamo troppo curiosi di scoprire l’interno di questo mondo barocco! Jonh: What is that? Nadia: Finalmente hai aperto bocca e sono anche felice di averti capito! Linda: Quello è il pozzo sovrastato dalla statua del duca Marulli, un nobile cittadino dei vecchi tempi. Avviciniamoci…e, se la vista non v’inganna, noterete anche una piccola faccia di diavolo portafortuna! Harry: Ma in questo bellissimo paese non c’è un luogo di incontro, come dire, un pò più “giovane”…o meglio giovanile??? Nadia: Certooo! E sarebbe un peccato non visitarlo!


Attendiamo che Harry traduca tutto agli altri due e ci incamminiamo verso la “Distilleria De Giorgi”, ammirando la bellezza delle strade con una ricca varietà di colore. Eccoci arrivati a destinazione. Inizio a parlare: Linda: Questo posto in passato ha avuto un’importanza rilevante per la storia economica ed industriale del paese. Il nostro piccolo nucleo urbano – continuo – è stato per circa ottant’anni un importante centro per la produzione e la vendita dell’alcool, all’ingrosso e al dettaglio, alle più prestigiose società italiane produttrici di bevande alcoliche. Nell’androne, una statua di San Cesario fa la guardia a quel che rimane della distilleria e cela ancora un segreto. Secondo la legenda, infatti, nella schiena del Santo era nascosta l’”acchiatura”, una sorta di bottino nascosto dallo stesso proprietario. E ancora oggi, forse per una sorta di timore reverenziale, c’è ancora in paese chi sostiene che la distilleria sia stata benedetta dal santo patrono. Questa ex- distilleria è quindi oggi la testimonianza materiale più completa, conservandosi l’edificio, i macchinari e l’archivio, del patrimonio industriale di S. Cesario di Lecce. Nadia: Per noi ragazzi questo parco ristrutturato a puntino è diventato un luogo di incontro, dove conoscere nuova gente, e contenitore di eventi culturali e di spettacolo. A questo punto Harry ci blocca per chiederci da dove provenga quel profumo delizioso… (forse Will aveva ragione col dire che fosse un pò ficcanaso!). Ci dirigiamo verso il banchetto facendo ammirare ai giovani turisti le bellezze dell’interno, ricco di alberi alti e sempreverdi, piccoli viali tortuosi che portano ovunque e una piccola fontana al centro, che ravviva il paesaggio. Nadia: Presto ora tutti a mangiare!!! I ragazzi restano a guardare per qualche minuto la bellezza di questo posto incantato tra colori e vivacità della gente che ci circonda. Dopo una lunga coda riusciamo ad intrufolarci e a prendere qualcosa. Fuggiti dalla folla ci sediamo e ci accorgiamo che i ragazzi rimangono incantati dalla bellezza del piatto. Nadia: Ragazzi che aspettate? Non penserete mica di conservarlo come ricordo!

Harry: No, no. Ma…ecco…cosa sarebbero? Linda: Quelle treccioline che vedete nel piatto sono le tipiche “sagne ‘ncannulate”, condite con salsa di pomodoro, basilico e ricotta forte.


Nadia: …mentre quella pasta fritta è la cosiddetta “ciceri e tria”, condita con ceci. Bhe ragazzi si è fatto tardi, vi accompagneremo al “Cafauso”! John: Co…foso??? Linda: Si, vi abbiamo preso una camera in quel quartiere! Will: What is it? Linda: Lo scoprirete presto… Nadia: Eccoci arrivati!

Gli sguardi dei ragazzi, attratti dalle scritte dell’entrata del Cafauso, ci colpiscono. Nadia, la sognatrice del gruppo, prende improvvisamente la parola: Nadia: Io adoro questo posto…”Lu Cafausu” è un luogo immaginario che esiste per davvero, anomalia architettonica ed esistenziale, portatore sicuramente di una storia e di un qualche significato che nessuno esattamente conosce. Un luogo attorno a cui aleggiano al contempo morte e vita… Mi inserisco allegramente in questo alone di mistero, cercando di smorzare un po’ i toni: Linda: Questa costruzione risale al 1800. E’ un gazebo a pianta esagonale di stile tra il gotico e il floreale. Ai lati vi sono sei archi: tre aperti e tre chiusi. Al suo interno, sugli archi chiusi, un tempo vi erano degli affreschi, ma ora si sono rovinati ad eccezione di uno stemma e delle cornici. In passato è stato un punto di appoggio per la duchessa Marulli che controllava i contadini al lavoro ma durante la Seconda Guerra Mondiale è diventato un punto di ristoro per gli americani, chiamato “Coffe house” che poi… Nadia: …si, grazie al nostro fantastico dialetto è diventato “Cafausu”! Ragazzi, questo è uno dei quartieri più belli di San Cesario e anche uno dei più nascosti e meno conosciuti. In realtà di posti strani e ambigui nel nostro paese ce ne sono diversi. Sarebbe ad esempio altrettanto bello farvi conoscere il “Ninfeo delle fate” che già dal nome…la dice lunga! Harry: Fate?? Ninfeo?? Ma questo paese è un mix di mistero e fantasia??? Oh my God!!! Sorrido…ma cercherò anche stavolta di essere chiara il più possibile, e con “tono da Piero Angela” attacco:


Linda: Si ecco…già nel nome, oltre che nella struttura, richiama i ninfei di epoca greca e romana. Si tratta di edifici che sorgevano in località particolarmente ricche di acqua, in cui si veneravano le Ninfe e ci si riuniva per svago. Scavato in un masso monolitico, il “Ninfeo delle Fate” è composto da due vani. Il primo, largo 10m per 5m, ha nelle sue pareti delle nicchie che racchiudono statue di ninfe scolpite nel masso, corrose nel tempo dall’umidità. La seconda stanza è circol… ma nemmeno il tempo di terminare la frase e Nadia (che di magie e fantasie è maestra!) mi interrompe e con la testa chissà dove comincia a blaterare: Nadia: La leggenda narra che in questo luogo amassero ritrovarsi le fate del posto, e qualcuno narra, ancora oggi, che, di notte, vadano a bussare alle porte delle case per spaventare la gente. Le voci di popolo raccontano fatti suggestivi e inquietanti. C’è chi giura di aver visto le fate in abiti bianchi mentre cambiano aspetto e diventano invisibili o si trasformano in animali… - e con accentato alone di mistero prosegue - Nel Ninfeo, sempre secondo la leggenda, era nascosta l’ “acchiatura”, ovvero un oggetto prezioso e antico lasciato lì dalle fate. Per questo a nessuno era permesso entrarci. Un contadino, poi, ritrovò l’oggetto, riuscendo ad ottenere la protezione delle fate, tanto che in una notte di temporale fu salvato nel momento in cui un fulmine lo colpì. Ancora permane, legata a questo posto misterioso, la legenda di una ragazza con forte desiderio di maternità che la portò quasi alla follia. Qui veniva per cullare il ramo di un albero proprio come se fosse un bambino. Le fate ebbero pietà di lei tanto da trasformare quel ramo in un bambino in carne ed ossa per donarglielo.

Il racconto ha sufficientemente estasiato l’intero gruppo, rilassandolo fino al sonno. Quindi corro ai ripari e mi faccio avanti per accompagnare i ragazzi alle camere. E una volta lì, dopo qualche minuto, dormivano come ghiri! Senza far rumore, in punta di piedi, anche noi torniamo alle nostre case a riposare. Il giorno dopo, cariche di energia, alle prime ore del mattino, ci ritroviamo ed andiamo a comprare l’occorrente per un calorico dolce. Appena entrati nel supermercato andiamo alla ricerca dei nostri ingredienti. Nadia: Ragazze, io vado a prendere zucchero e farina. Linda: Ok…io prendo arance e uova. Ci vediamo all’uscita.

E così andiamo a svegliare i ragazzi inglesi, ansiose di preparare questo dolce. Linda: Ragazzi, è ora di alzarsi! Presto c’è una sorpresa per voi! John: Surprise??? Nadia: Yes: ci hai capito!


I ragazzi si alzano in un lampo e tutti insieme ci prepariamo per impastare gli “nfocacatti”. Will: What are they? Linda: Gli “nfocacatti” sono dei dolcetti tipici di San Cesario: sapiente impasto di farina, zucchero, uova ed essenze di agrumi che vengono modellati a forma di piccole cupole, passati al forno e successivamente glassati con zucchero. Vi piaceranno! Iniziamo a mescolare il tutto e subito ci ritroviamo ricoperti di farina da capo a piedi e le mani immerse nello zucchero. Harry: Non puliremo noi vero? Linda: Ma no, tranquilli, dovremo andare a vedere la casa-museo di Ezechiele Leandro. Infornati i dolci, cerchiamo di liberarci dalla farina e dopo ci affrettiamo ad assaggiarli! Harry: Buonissimi!! Ce li farete portare in Inghilterra? Nadia: Certo! Ve ne prepareremo degli altri! Linda: Adesso andiamo o si farà tardi! Arrivati alla casa di Ezechiele Leandro vediamo i ragazzi indietreggiare… Nadia: Cosa vi succede? Non avrete mica paura?! Harry: Noi? Paura? Noo…è solo che pensavamo di aver sbagliato luogo. Will: It seems Halloween! Nadia: Ahahah…no, non sono mostri. Harry: Si…ma l’ambientazione sarebbe perfetta! Guarda lì quell’ammasso di pietre e quant’altro… Linda: Si, forse hai ragione…a prima vista sembrerebbe proprio così. Quello in realtà è il suo famoso “Santuario della Pazienza” , uno spazio visionario, da lui voluto ed edificato, fatto di grovigli, teste, pozzi, statue, piccole tessere musive, stille di colore incastonate nella roccia, mucchi di pietre accatastate, scolpite, lavorate, tra moltitudini di forme e spirali, concrezioni ed accumulazioni. Ehh…anche questa è arte! Tutti scoppiano a ridere e notiamo che anche le opere di Leandro quasi arrossiscono.


Nadia: A voi sembrerà strano, ma le opere di Ezechiele Leandro sono famose in tutto il mondo e solo dopo la sua morte furono apprezzate e valutate dai migliori collezionisti. Nel corso degli anni la sua produzione è stata diversamente definita “naif”, primitiva e nelle modalità utilizzate nel 900’ per l’arte “diversa”…fuori dai canoni tradizionali. Harry: Beh allora…scusate! ( E si inchina in segno dimesso) E io che lo avevo considerato un disordinato modo di metter pietra su pietra! Ahahahah… Linda: Si esatto, hai detto bene: è proprio quello che voleva l’artista! Figurati che gli avevano proposto di lavorare come ceramista per la realizzazione di un mosaico ma lui rifiutò dicendo: « Per fare un mosaico metti pietra avanti pietra, io invece pensavo di mettere pietra su pietra! ». Ed è così che inizia appunto la sua predilezione per la scultura. Le opere contenute in questo museo sono “allegorie di sentimenti umani” e di concetti a volte di non facile interpretazione: per questo motivo poi l’artista si riteneva incompreso dai suoi concittadini. E a conferma di questa mia pesantuccia spiegazione indico ai ragazzi una stravagante statua posta all’ingresso esterno del santuario, fatta appunto di tante piccole pietre colorate, cocci di ceramica e frammenti di vetro: la “Madonna con Gesù”. John: Is it real? Linda: Si, certo! Quest’artista era peraltro considerato un vecchio pazzo perché utilizzava materiali di scarto per costruire le sue opere. Ma nonostante Ezechiele fosse nato a Lequile era considerato parte integrante di San Cesario. Harry: E perché allora sarebbe venuto qui? Nadia: Per sposare sua moglie, Francesca Martina, da cui ebbe quattro figli. Harry: Davvero? E come faceva? Io non riesco nemmeno a costruire qualcosa con le lego! Ma si può? Linda: Ce lo chiediamo anche noi…ovviamente di monumenti il nostro piccolo paese ne ha davvero tanti. Sarebbe ad esempio molto bello portarvi a visitare le Chiese del paese: vero trionfo architettonico! Guardo le altre del gruppo ma nessuna mi sostiene nella disquisizione archeologica. E allora mi ravvedo. E va bene…ma almeno lasciatemi descrivere la piccola chiesetta dedicata allo Spirito Santo perché aveva ispirato molti a credere nella religione cristiana con fervore e penitenze. Fu fatta eseguire con estrema semplicità. Fu luogo di preghiere ed offerte da parte dei lavoratori delle terre vicine di nobili residenti nelle masserie e palazzi. Nel periodo della costruzione, dopo le mura, fu usata per ristoro dei viandanti o come ricovero per la notte.


Secondo la leggenda, una notte di luna piena l’ombra dei corpi stesi raffigurò sulla parete tre uomini che indicavano a chi c’era di andare via. E così, la paura di aver visto la raffigurazione della trinità fece sgombrare la costruzione e mai più nessuno vi entrò. I ragazzi sono stanchi e così vanno a dormire contenti di aver imparato tante nuove cose sul nostro piccolo paese. Il giorno dopo sono loro stessi a venirci incontro: finalmente iniziano ad orientarsi. Li vediamo avanzare con un pacco di dolci in mano… Nadia: Ahh…bravi! Ci avete portato i “mustazzoli , ottima scelta! Linda: Sono dei buonissimi dolci. Presto assaggiamoli… che aspettiamo? Will: Very. . very. . very good!!! Harry: Ha ragione, sono i dolci più buoni che abbiamo mai assaggiato! Nadia: Vero ragazzi, sono dei biscottini deliziosi! Con la pancia piena ci dirigiamo verso l’appartamento dei ragazzi dove ci travestiamo per una fantastica sorpresa. Siamo riuniti in salotto e, da subito, scoppiamo in una risata! Uno alla volta escono dalle loro camere: Harry travestito da “Aladino” con dei buffi pantaloni a cavallo molto basso, coloratissimi e una piccola lampada in mano color oro. Improvvisamente notiamo i grandi baffi disegnati sotto il naso di John, vestito da “Zorro”! Will, invece, dopo essersi fatto aspettare a lungo, ci sorprende con una fantastica maschera da Spiderman! All’inizio credevamo che quei pettorali sotto il costume fossero veri ma immediatamente ci ha poi rivelato il suo segreto! Nadia: Che delusione!!! Pensavo fossero reali! Ormai pronti, ci dirigiamo verso la piazza.. Harry: Cosa c’è là in fondo? Linda: Presto, avviciniamoci… Harry: Perché quella gente festeggia una persona che è morta? Linda: Ahahahahah…ma quella persona non è veramente morta! Questo è un finto funerale che è di tradizione fare qui a San Cesario, in occasione della fine del carnevale. Per una volta Linda interviene per dire qualcosa di allegro…più o meno: infatti, anche se in pieno tema carnascialesco, sempre di morte si parla! Linda: Quella che vedete in allestimento è la famosa festa de “Lu Paulinu” …


A tale pronuncia tanto cafona i ragazzi cominciano a ridere sfrenatamente. Linda: Tradizionalmente questo finto funerale si svolgeva il pomeriggio del martedì grasso, ultimo giorno di carnevale. Su un carretto tirato da un asino viene sistemato un “turaletto” – dimentica completamente di rivolgersi a ragazzi stranieri – Harry: Un tura…che??? Linda: Si, giusto: una rudimentale struttura in legno su cui normalmente venivano appese le foglie di tabacco per essere essiccate; oppure si allestisce un vecchio letto sul quale viene disteso un fantoccio o anche un uomo, noto in tutto il paese. Nelle strade, durante la sfilata del corteo, si svolge una sorta di pantomima lasciata all’improvvisazione, alla creatività e alla genialità degli interpreti. I ragazzi, attoniti, provano a seguire il racconto che non è ancora ben chiaro. Linda: Accanto alla bara trovano posto la moglie e le parenti addolorate (quasi sempre uomini vestiti da donne) che piangono disperate. In basso, ai piedi del carro, invece, il diavolo vestito di rosso, saltella felice in attesa di prendere l’anima di Paulinu e portarla all’Inferno. Ad un certo punto salgono sul carro uomini travestiti da medici che tentano di salvare Paulinu, resuscitandolo dalla definitiva morte: uno di loro farà addirittura finta di aprire la pancia del fantoccio, dalla quale tira poi fuori salsicce, fiaschi di vino e grosse polpette… - racconta Linda gesticolando animatamente – Ahahahahah…le grida dei ragazzi!!! – Linda: Confessata la sua impotenza di salvare il malcapitato, seguiranno grida disperate da parte della moglie e di altre “finte donne”, note come le amanti di Paulinu, povero sì, ma conosciuto in paese per le sue doti a matorie. Tra soste varie e scene di ogni tipo – che vedrete -, ricche di ilarità, scesa la sera Paulinu viene bruciato tra le grida dei presenti. Tutto questo, nei tempi passati, simboleggiava la fine del Carnevale che lasciava il posto al tempo di quaresima. Noi lo facciamo anche coincidere con la festa di “pentolaccia”. E oltre al finto funerale che, per noi, è la parte più divertente, c’è anche una sfilata di carri che fanno gara. Nadia: A questo punto “Paulinu” lascia il posto alla “Quaremma”, una bambola di paglia e stracci che raffigura una vecchiaccia vecchia e magra, vestita di nero per la morte del Carnevale, che ha nella mano destra un filo di lana ed un fuso (simbolo del tempo che scorre); nella sinistra ha un’arancia amara con dentro 7 penne di gallina che simboleggiano invece le settimane precedenti la Pasqua.


E così, tra un’imitazione e l’altra, risate e boccacce, finalmente è arrivato il momento che aspettavamo da tanto: il loro concerto!!! Nadia: Ragazzi presto, salite sul palco: è ora di cantare. John: Sure… Dopo tanto tempo passato insieme siamo felici di vederli esibirsi e divertirsi, ma tristi di doverli lasciare. E così, subito dopo il concerto, corriamo loro incontro e li attacchiamo alle spalle ricoprendoli di schiuma. I ragazzi non si arrabbiano, ma ci abbracciano ringraziandoci di tutto. Bye bye ragazzi ...sicuri in qualche modo di avervi arricchiti!!!


Incontro con l’artista…Ezechiele Leandro… Questa intervista è fantastica, immaginaria…per un semplice motivo: Ezechiele Leandro un’intervista ufficiale non ha mai voluto rilasciarla. E’ stato sempre molto chiaro e preciso in merito. In compenso però Ezechiele parlava molto e si lasciava andare più del solito. Ecco dunque l’intervista mai fatta ma che sarebbe stato bello rivolgergli davvero! Giornalista: La ringrazio per avermi concesso l’onore di intervistarla, sig. Leandro. So bene che lei non ama molto le interviste… Ezechiele L.: Si, si…hai detto bene. Ho il massimo disprezzo per i giornalisti e per la cultura “ufficiale” e soprattutto odio la stampa televisiva che cerca sempre di farti fare brutte figure. Giornalista: Mi parlerebbe cortesemente della sua vita? E’ vero che era un

trovatello? Ezechiele L.: Si, certo. Allora vediamo…sono nato a Lequile il 10 Aprile del 1905 e poi mi sono trasferito a San Cesario. Poco dopo però, per problemi economici, me ne andai in Africa e ci rimasi per circa 20 mesi. Ed è proprio lì che ho appreso alcune particolari tecniche di disegno. Nel 1946 decisi di aprire un’officina dove vendevo, riparavo e affittavo bici, diventando anche un rottamaio. Giornalista: In quali campi dell’arte ha lavorato sig.Leandro? Ezechiele L.: Arte? Tu sai forse cos’è l’arte? Nessuno lo sa…Arte è una parola che significa tante cose…comunque pittura, scultura, musica e scrittura… Giornalista: E’ vero che quando era ancora in vita veniva spesso criticato dai suoi compaesani? E perché mai poi, vista la sua successiva fama? Ezechiele L.: (con un lungo sospiro risponde) Venivo spesso criticato dai miei compaesani diciamo… per lo stile visibilmente trascurato e contrario a quello dell’epoca. Giornalista: Lo strano e significativo destino dei migliori artisti salentini: ruminare la marginalità geografica e “vomitarla” come marginalità umana ed estetica. Giusto? Ezechiele L.: Si…diciamo. Uno dei segni di riconoscimento di questo mio modo di essere era il codino che ho sempre portato abitualmente. Ma non era solo questo… Giornalista: Forse la sua era più che altro una trascuratezza connaturata, quasi dovuta alla fretta di partorire i suoi oggetti che non permetteva di sprecare tempo nella cura della persona

e degli atteggiamenti…Ma prego, continui pure… Ezechiele L.: Un altro motivo di discriminazione dei compaesani verso di me era il fatto che girassi con un carretto a cercare materiale di scarto, a volte anche nella stessa spazzatura, per la costruzione delle mie opere. Ho sempre usato di tutto: carte, stoffe, copertoni di biciclette, pezzi di legno e materiali di ogni genere e forma. Giornalista: Perché questa scelta? Ezechiele L.: Perché voglio distinguermi dal resto del mondo e questo rende le mie opere uniche e speciali. Giornalista: Ma maestro Leandro come potremmo definire la sua arte? Ezechiele L.: Innanzitutto non chiamarmi “maestro”! Al mio paese i maestri sono quelli che lavorano


duramente e costruiscono oggetti vari. Così potrei anche esser “maestro”, ma non nel senso che intendi tu che mi vuoi far credere un grande scrittore e scultore che tutti invidiano… Giornalista: Lei è considerato un grande artista naïf. Eppure molti critici affermano che non è vero, che è solo un grande imbroglio. Cosa ci dice in proposito? Ezechiele L.: (Nessuna risposta. Leandro mi guarda fisso e poi distoglie lo sguardo. Con aria distratta poi sbotta): Bèh? Abbiamo finito? Giornalista: A cosa si ispirano le sue opere? Ezechiele L.: Diciamo alle Sacre Scritture…anche se il mondo rappresentato nelle mie opere è un “Eden laico”, prima ancora che Adamo attribuisse nomi a tutte le cose, avvolto da esseri serpentiformi… Giornalista: E’ soddisfatto delle sue opere? Ezechiele L.: I miei compaesani non mi danno soddisfazioni e “se possono dire male dicono male; ma se anche hanno la possibilità di farmi i complimenti, preferiscono stare zitti”. Giornalista: Un’ultima cosa: quale messaggio vuole lasciare a chi, un giorno, parlerà delle sue opere? Ezechiele L.: Non credo che nessuno parlerà delle mie cose…ma mi piacerebbe riuscire a far vedere agli altri tutto quello che vedo io nelle mie opere.


Incontro con l’industriale…Nicola De Giorgi… Giornalista: I primi anni del XIX sec. a San Cesario del Salento leccese un manipolo di uomini decisi ha realizzato il sogno di un ciclo continuo per il riciclo di alcuni prodotti e sottoprodotti agricoli. Me lo conferma sig. De Giorgi? Piacere di incontrarla… De Giorgi: Piacere mio! Tutto ciò che veniva dalla terra dava frutto e da quei frutti è venuta la ricchezza del territorio. Un sogno che pian piano è diventato realtà, quello di un uomo, Carmine De Bonis, che ha trascinato nel suo grande progetto altri uomini, me compreso, che hanno fatto impresa! Giornalista: Da dove dunque ha avuto origine questo grande progetto? De Giorgi: Carmine aveva un mulino a vapore. Aveva l’energia e capì che oltre a far girare la macchina per produrre farina poteva affiancare altre attività. Un genio! E in tutto questo coinvolse le due figlie: Marianna, sposa di Pistilli, e Addolorata, mia madre. E’ così che ha avuto avvio l’attività delle distillerie. Giornalista: Quindi lavoravate tutti assieme? De Giorgi: All’inizio…poi intorno al 1905/06 mio padre Vito, insieme a me, iniziò la sua attività in un piccolo locale della piazza di San Cesario ma presto arrivò l’edificio nella via in cui abito io adesso. Gli affari andavano bene e così fui io stesso ad acquistare un altro edificio che confinava con il primo nucleo e tutto il terreno che era nelle vicinanze. E come sempre poi un’attività che decolla ha necessità di infrastrutture e di personale per poter soddisfare le richieste del mercato. Giornalista: Che ricordi ha di quel periodo sig. De Giorgi? De Giorgi: Bèh…ancora oggi, di tanto in tanto, mi reco davanti a quella costruzione: non si può entrare dentro ma io ho ancora negli occhi quello che facevo da ragazzino, il mio arrivo, in due sulla Bianchi nera di papà, vicino al cancello della distilleria. Montagne di vinacce esauste su cui noi ragazzini ci improvvisavamo scalatori, sciatori, alpini! Ed eravamo tutti assieme, tutti i ragazzini di San Cesario, tutti con le biciclette e tutti a giocare alla stazione! Quanti ricordi! E quanti operai un tempo lavoravano in quell’industria; come dimenticare il via vai di mezzi carichi di vinacce, sansa e altre materie necessarie all’ottenimento dell’alcool. Pensi: in questo paesino “ad un tiro di schioppo” dal capoluogo c’erano enormi macchinari e caldaie che garantivano il processo di distillazione. E poi la stazione vicina garantiva che il prodotto di ottima qualità fosse spedito in tutta Europa, creando ricchezza ad imprenditori e operai. Giornalista: Chiedo scusa…ma perché San Cesario è definita “impero del riciclo”? De Giorgi: San Cesario del Salento leccese era il regno del riciclaggio, il paese della “cuccagna” dove l’ottenimento di sottoprodotti di ottima qualità da materiali che avevano già subito vari processi di trasformazione era la norma! Lo stesso Pistilli aveva in progetto di costruire un complesso industriale costituito dalla distilleria, dallo stabilimento vinicolo e da un oleificio (quest’ultimo mai realizzato!) per conquistare l’impero del riciclaggio, creando un circuito perfetto che rendesse la distilleria autonoma per l’utilizzo di materie prime, derivandole da scarti e prodotti degli altri due processi produttivi. Giornalista: Quali materie prime erano più utilizzate in distilleria? De Giorgi: Carrube, fichi, datteri, vinacce, vino… Le carrube venivano portate integre o già tritate. Venivano poi immesse in grandi serbatoi per il lavaggio e la bollitura. Il triturato si trasformava così in liquido zuccherino che veniva fatto fermentare per ricavarne il sidro, a sua volta distillato, ottenendo l’alcool. Ma nulla andava perduto, infatti gli scarti della lavorazione venivano utilizzati come combustibile per caldaia o venduti come mangime per animali. Giornalista: E le vinacce? De Giorgi: Come? Non sai cosa sono le vinacce? E’ la buccia dell’uva solitamente senza raspo. Non sai nemmeno cos’è il raspo? E’ la struttura legnosa che funge da scheletro ad un grappolo d’uva. Noi “imperatori del riciclo di San Cesario” le scaricavamo in grandi vasche e veniva immessa dell’acqua. In questo modo si otteneva un vinello che faceva la stessa fine del trinciato di carrube, ovvero introdotto nel distillatore per ottenere l’alcool puro. Ma non finisce qui! Dopo il lavaggio le vinacce esauste


venivano pressate. Con un lavorazione successiva si separava la buccia dai semi. Da questi si ricavava l’olio di semi di vinaccia. Le bucce venivano usate come combustibile. Le ceneri della combustione delle bucce venivano utilizzate come concime. Giornalista: Tutto questo fa ormai parte del passato…ma le piacerebbe riportare in vita un simile impero? De Giorgi: Rifare l’impresa? Manco a pensarci! Ogni sforzo di recuperare l’operatività della distilleria sarebbe inutile di fronte alla tecnologia, agli attuali costi di produzione, alle normative che prevede il settore. Penso invece che l’impero del riciclo sia un paradigma ormai distrutto da un mercato vorace che produce tonnellate di rifiuti che nessuno vuole. Forse sarebbe il caso di riprendere a ragionare sul riciclo prendendo ad esempio l’industria di S. Cesario del Salento leccese.

Incontro con un paesano protagonista della vita di quei tempi… Giornalista: Quali erano le principali attività del paese in

passato, sig. Ottorino? Ottorino: A San Cesario erano pochi gli agricoltori ma molti gli artigiani. Le donne, e soprattutto le nonne, sferruzzavano sulla soglia di casa dei guanti di lana che poi vendevano. Anche nelle distillerie c’erano le “mesce” che controllavano severamente il lavoro delle donne. C’erano poi i tarletti che lavoravano il tabacco e lo facevano essiccare al sole. I lavoratori del tabacco erano 100, anche se era un lavoro stagionale. Negli anni ’70 iniziarono a chiudere le fabbriche di tabacco e subito dopo San Cesario perse anche l’industria della lavorazione dell’alcool. Nella distilleria molte volte veniva preso l’alcool senza essere tassato e facevano il contrabbando. Veniva addirittura vietato ai bambini di avvicinarsi dove si fermentava il vino perché si poteva morire. Giornalista: Ottorino:

Ricorda suoni particolari del suo passato? A prima ora verso le cinque del mattino passava il pescivendolo con il pesce fresco sulla carta di giornale. Il fruttivendolo girava per le strade con l’ape, il traino circolava in paese con il suo cavallo a raccogliere la spazzatura e ancora il carretto del ghiaccio di cui ricordo il rumore della macchina che lavorava. Poi c’erano le campane di diverse dimensioni che scandivano momenti vari: al mattino,


verso le cinque, quella grande svegliava il paese, mentre la campana rossa indicava ai bambini quando si doveva entrare in classe. C’erano poi le campane per indicare quando una persona stava per morire e il suono era diverso: se il defunto era femmina la campana veniva suonata due volte, se invece era maschio veniva suonata tre volte; con la campana media si indicava che il defunto non era del paese, viceversa si suonava la campana più grande. Per strada poi si sentiva il vociare continuo dei bambini e rumori ogni volta diversi in base ai lavori che si esercitavano. Giornalista: Ottorino:

E profumi? Si sentiva l’odore della distillazione e dell’alcool per tutte le vie, l’odore del mosto e del vino, i profumi e gli odori delle essenze perché in ogni casa si preparava il rosolio e dunque prevaleva il profumo dell’anisetta, dei semi di finocchio, del caffè e del limone.


Tra tradizione…origini…e legende dei piatti e prodotti “tipicamente buoni” del nostro territorio Oggi, trascorsi anni e anni di storia, è facile ritrovare nel nostro territorio la stessa terra “viva e ricca” di un tempo. Una delle sue peculiarità è certamente la cucina tipicamente salentina, densa di tradizioni antiche, sempre briosa nei sapori, ammaliante nei tanti odori. Una cucina che, da sempre, conta su sapori unici, che sfrutta particolarissimi prodotti, che si fa forte di un ottimo olio per condire, che viene innaffiata dallo straordinario vino locale. Ancora, una cucina capace di mescolare profumi, gusti ed odori, talvolta esaltando i singoli ingredienti, talaltra fondendoli e confondendoli in incredibili sfumature. Abbiamo dedicato quindi questo spazio alla ricerca della migliore cucina salentina, tra vecchio e nuovo, tra piatti antichi e rivisitazioni moderne, per richiamare ad un passato che dalla cucina e dai suoi elementi traeva spesso spunto e motivazione al vivere quotidiano.


Gusto e leggende… “I Porceddhruzzi” de Natale… La leggenda narra che un tempo una mamma aveva in casa solo un po’ di farina, vino, olio e miele e così preparò della pasta salata per accontentare i propri figli. Li fece a forma di gnocchetto, arricciato sulla grattugia, e a forma di denti incisivi da uomo. Dopo averli fatti lievitare iniziò a friggerli, ma i bambini erano impazienti perché volevano mangiarli subito. La donna per calmare i figli, che intanto piangevano e strillavano, si inventò una storiella dicendo che i dolcetti erano purtroppo ancora aperti e si dovevano chiudere (“s’annu 'cchjutire”) per poterli mangiarli a Natale. Non sappiamo se la storia è vera, conosciamo però la bontà di questi dolcetti antichi anche se l’origine reale risalirebbe agli antichi greci.

Le “Zzeppule” de San Giuseppe… Di solito vengono prodotte dalle pasticcerie a Marzo, intorno al 19 del mese, giorno in cui si festeggia San Giuseppe e, dunque, la festa del papà. In alcuni paesi salentini, nel leccese e nel tarantino, si celebrano in questa data le cosiddette “Tavole di San Giuseppe“, ossia delle tavolate sulle quali banchettano i santi (San Giuseppe, sua moglie e il Bambin Gesù) che sono stati invitati da una famiglia. Le zeppole sono uno dei piatti che fanno parte di questo pasto tra creature celesti. Essendo un dolce vengono consumate per ultime.


La friseddhra… Le origini della frisella o "friseddhra" salentina sono molto antiche. Si pensa, infatti, sia nata circa 3.000 anni fa a bordo della navi fenicie. Nota anche come pane da viaggio - si poteva conservare per lungo tempo durante la navigazione - la frisella racchiude nella sua forma una praticità relativa al trasporto. Essendo fatte a ciambella si potevano, infilandole in una corda, farne "ghirlande" da appendere e conservare all'asciutto. Al momento del consumo, i marinai le inzuppavano nell'acqua di mare per poi condirle con olio di oliva e accompagnarle ad alimenti poveri come cipolle e (dopo la scoperta dell'America) pomodori. Non solo per mare, ma anche a terra, le friselle rappresentavano il pasto principale dei contadini che, invece, le condivano con pomodoro, olio di oliva, sale e origano. La frisa costituiva la colazione ordinaria del contadino in campagna, dove spesso si teneva una bottiglia d’olio senza portarselo ogni giorno da casa. Un cibo sano, preparato solo con acqua, farina, sale e lievito, privo di grassi quindi, che ancora oggi può essere definito "ottimo" da chi vuole seguire la dieta mediterranea.

Gusto e tradizioni… Vengono di seguito illustrate alcune ricette tipiche del nostro territorio che un tempo rappresentavano anch’esse parte dell’identità del nostro paese. E non solo…! Per ognuna di esse, infatti, siamo andati alla ricerca delle origini del prodotto tipico maggiormente utilizzato, descrivendone caratteristiche e curiosità legate alla nostra realtà territoriale e culturale. E quello che è emerso da questa ricerca è, in generale, un panorama gastronomico povero, certamente, e a portata di mano, ma piuttosto vario nei suoi componenti, nella loro manipolazione, nei suoi sapori e perfino colori; con certe indimenticabili golosità singolari, oggi quasi totalmente scomparse, a quanto pare.


CARNE

Ingredienti: Un panetto di pane un po’ duro; 500g di pomodori maturi; Olio q.b; Sale q.b; Aceto q.b.

DE

PORCU

Modalità di preparazione: Si taglia a fette, grosse un dito , il pane un po’ duro. Si arrostisce alla brace e dopo, su ogni fetta e da tutte e due le facce, si strofinano i pomodori maturi in modo da lasciare sul pane grande parte della polpa. Si condisce il tutto poi col sale, abbondante olio e qualche goccia di aceto. Facoltativa una spolveratina di pepe. Si ammorbidiscono le fette di pane con qualche goccia di acqua e cosi’ preparate si mettono di nuovo sulla brace per qualche minuto. SI SERVONO CALDISSIME

Il prodotto locale tipico: Nome: Pane Ilpane era certamente l’alimento principe della tavola in passato. Ogni famiglia preparava il pane per il proprio fabbisogno e se non possedeva un forno in casa lo portava a cuocere nei forni che i proprietari mettevano a disposizione della gente, a fronte di un compenso (a volte in natura, in pane stesso o in legna). C’erano due tipi di pane principali: le pucce, panelle rotonde di grandezza variabile, mediamente di un kg (con le varianti di oliate, con l’aggiunta di olive nere, e passulate, con uva passa), e le frise.

Storia:

Il pane si preparava in casa una volta al mese, ed era una notte di fatica e di allegria, in cui era impegnata tutta la famiglia e qualche vicina che aiutava e che la settimana dopo sarebbe stata ricambiata. La mattina sveglia alle due o tre per lavorare la pasta rimasta a lievitare nella madia bianca e modellare le pucce, le panelle da consumare fresche e una o due col lusso delle olive nere – le oliate – o delle passule, raccolte dai bambini alla vendemmia correndo avanti alle donne che sforbiciavano i grappoli dell’uva. E a seguire si preparavano le frise, il, pane biscottato che dopo la prima cottura veniva tolto dal forno e con una cordicella tesa tra due gambe d’una sedia segato e rimesso a biscuocere. Così il pane si conservava per l’intero mese e i contadini lo portavano per la colazione in campagna, imbevendolo con l’acqua dell’orcio sempre fresca e condito con i pomodori novelli d’estate e d’inverno con quelli delle “pendule”, una croce d’olio e un pizzico di sale.

Modalità di lavorazione:


Una volta al mese si faceva il pane in casa, e di pucce se ne preparavano sette o otto in più del fabbisogno familiare di una settimana, da regalare e distribuire alle varie vicine e conoscenti, per riceverle poi in cambio nelle settimane successive, secondo una contabilità meticolosa, ma non spilorcia, una solidarietà per cui tutto l’anno ognuno aveva il pane fresco in casa. Per tutti il pane era un oggetto sacro: non era legittimo spezzarlo e ricavarne e lasciarne tozzi piccoli o grossi; bisognava invece affettarlo con cura, per ciascuno secondo il bisogno; non era bene poggiarlo sulla tovaglia alla rovescia, con la pancia di sotto, ma doveva essere in posizione giusta. E se un pezzo cadeva a terra, lo si raccattava subito, lo si ripuliva con la mano, se necessario, e lo si riponeva infine sulla tavola. E il pane si prestava benissimo anche ad essere ampiamente riutilizzato in cucina anche per lungo tempo. Tra queste pietanze poverissime, la ricetta principe è quella dei muerzi o gecamariti. Si tratta di bocconi di pane raffermo tagliati grossi e fritti, mescolati poi a legumi e verdura precedentemente lessati e scolati. In passato rappresentava un piatto semplice e veloce da preparare (si utilizzavano infatti legumi e verdure già consumati nei pasti precedenti) in cui la donna poteva far sembrare al marito di aver passato molte ore ai fornelli. Da qui l’ironico nome della ricetta, gecamariti, che abbagliano l’uomo, da cui emerge la fondamentale misoginia della cultura contadina. Tutti segni e sentimenti questi distintivi di una civiltà indubbiamente diversa da quella presente, ma nostalgicamente rievocata.

Curiosità:

COCULEDDHRE DI MARZOTICA

Ingredienti: Dosi per 4 persone per ottenere circa 80 polpettine di cm 2,5 di diametro  

    

Latte; Ricotta marzotica: 400 gr; Caciocavallo grattugiato: 150 gr; Pane raffermo: 100 gr; Uova: 2; Prezzemolo; Pepe; Brodo vegetale.

Modalità di preparazione: Preparazione: 20 min. Cottura: 10 min. Difficoltà: facile. Mettere in una ciotola la marzotica, le uova, il pane raffermo messo a mollo precedentemente nel latte, il caciocavallo grattugiato, il prezzemolo tritato, latte e pepe, quanto basta. Impastare bene il tutto e formare delle piccole polpette da immergere nel brodo vegetale caldo, dove cuoceranno bollendo molto dolcemente. Normalmente non occorre aggiungere sale, considerando il gusto già deciso e saporito dell’impasto.


Il prodotto locale tipico: Nome: Ricotta marzotica Anticamente la marzotica era una ricotta stagionata di pecora prodotta all’inizio della primavera, quando le pecore cominciavano a brucare il tenero foraggio primaverile e fornivano il latte più ricco e saporito, e anche abbondante perché coincideva con la nascita degli agnellini. Se a questo si unisce il fatto che in questo periodo dell’anno la richiesta di ricotta cominciava a diminuire si capisce come mai i pastori abbiano inventato la ricotta marzotica per conservare il prodotto. Era un piatto che si consumava durante la Quaresima quando la carne era bandita dalla mensa e se si volevano mangiare le polpettine erano di…marzotica.

Storia:

Zona di produzione: Salento. Modalità di lavorazione- E’ una variante stagionale della ricotta propriamente detta che,

dopo essere stata lasciata 24 ore a perdere il siero in eccesso, viene salata a secco e messa poi in forma in fiscelle vegetali, dove è sottoposta a leggera pressatura manuale. Le forme così ottenute, appena la consistenza lo consente, vengono sottoposte “all’inerbimento”, ovvero fatte rotolare in un letto di graminacee selvatiche (particolarmente diffusa è la gramigna) in modo che aderiscano perfettamente alla superficie del formaggio e favoriscano, durante la stagionatura, la formazione di quelle muffe nobili che le conferiscono gusto e aroma particolarissimi, dal tipico sapore erbaceo e fresco. La stagionatura dura almeno 15 giorni in scansie di legno. Per ottenere un prodotto grattugiabile occorre attendere circa un mese. Per una migliore conservazione può essere sottoposta anche a leggera affumicatura.

Caratteristiche: E’ una ricotta a pasta semidura, friabile, non elastica, di colore bianco. La forma è tonda, di peso variabile da mezzo chilo a 2 kg. Il sapore è lievemente piccante.

Stagionalità: Si produce tra febbraio ed aprile. Curiosità: La ricotta marzotica è nella tradizione salentina il gusto inconfondibile della pri-

mavera, da accompagnare volendo anche a fave fresche sbaccellate direttamente a tavola. La marzotica è usata come normale formaggio da antipasto o dessert, ma anche nei ripieni di involtini di carne. Può essere grattugiata sulla pasta fresca con sughi delicati o crudi, donando loro un caratteristico sapore “primaverile”, mentre quando è ancora abbastanza fresca e non si riesce a grattugiarla va spezzettata e mescolata alla pasta creando una piacevolissima cremosità. Difficilmente si trova fuori dalla Puglia e tutte le varie sostituzioni provate non si sono rivelate all’altezza.




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