Rivista-n1-2011

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Editoriale RIAPERTO AL PUBBLICO IL TEMPIO DI VENERE E ROMA

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el mese di novembre del 2010, dopo una breve cerimonia svoltasi alla presenza del Sottosegretario ai Beni Culturali Francesco Giro, del Soprintendente archeologico di Roma Anna Maria Moretti, e della Direttrice del Foro Romano Maria Antonietta Tomei, è stata riaperta al pubblico l’area del tempio di Venere e Roma. Si è trattato di un ulteriore passo in avanti nei confronti di quell’articolato programma voluto dal Commissario delegato per le aree archeologiche di Roma, Roberto Cecchi, che prevede la sistemazione, soprattutto in materia di sicurezza, di molti monumenti della zona archeologica centrale, con l’intenzione di riaprirli alla fruizione pubblica anche attraverso nuovi itinerari di visita e adeguati apparati didattici. La storia del tempio è stata particolarmente travagliata sin dal momento della sua progettazione e posa in opera della prima pietra, avvenuta, per espressa volontà dell’imperatore Adriano, il 21 aprile del 121 d.C. (dies natalis di Roma), se solo si pensa che, come ci informano le fonti, costò la vita a uno dei più noti architetti ufficiali della Roma imperiale: Apollodoro di Damasco. Sconvolto da un incendio sul finire del III secolo d.C., il tempio ebbe una nuova sistemazione sotto il principato di Massenzio per divenire poi una cava di materiali a cui attinse, a partire dall’epoca medievale, la Roma Cristiana, per realizzare nuove chiese, conventi, basiliche. Fulcro e simbolo per eccellenza della grandezza dell’Urbe al culmine della suo potere su tutte le terre conquistate, il santuario venne liberato solo durante il periodo fascista dalle numerose superfetazioni edilizie che in parte lo coprivano. Seguirono, dal 1931 in poi, alcuni studi scientifici e indagini archeologiche eseguite, purtroppo, in modo frettoloso, poiché la nascente via dell’Impero doveva essere inaugurata per il decennale della marcia su Roma nel 1932. Non va inoltre dimenticato, che le due metà del tempio, proprio a partire da quegli anni, ebbero due diverse gestioni (il Comune per il lato rivolto verso il Colosseo: la cella di Venere; lo Stato per quello verso il Foro: la cella della dea Roma), comportando così una disparità di interventi programmatici per la tutela e valorizzazione, che solo negli anni ottanta dello scorso secolo sono stati risolti, riunificando il tempio sotto l’unica gestione dello Stato e all’interno della più ampia area monumentale del Foro Romano e del Palatino. La riapertura del tempio e del suo percorso che conduce fin all’interno delle due celle, è la diretta conclusione di una serie di opere di restauro e consolidamento di alcune strutture murarie, come quelle delle absidi o come il riassetto della pavimentazione della grande area porticata esterna. Da qui, ora, anche il visitatore meno attento potrà essere coinvolto e rapito non solo nell’ammirare la maestosità del più grande tempio dell’antichità mai costruito a Roma, ma anche nel godere visivamente lo straordinario panorama che si offre dal terrazzamento, dove con un solo colpo d’occhio è possibile immergersi nello scenario della sottostante valle, su cui sorge ancora l’Anfiteatro Flavio e l’Arco di Costantino, avendo come sfondo le antiche vestigia della Domus Aurea sul Colle Oppio e verso il lato sud la prestigiosa cornice del Palatino. Bernard Andreae


DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI DIRETTORE SCIENTIFICO BERNARD ANDREAE

COMITATO SCIENTIFICO Paolo Arata Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Alessandra Capodiferro Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Fiorenzo Catalli Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Paola Chini Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Vincenzo Fiocchi Nicolai Prof. Archeologia Cristiana Univ. Tor Vergata di Roma Gian Luca Gregori Prof. Ordinario di Antichità Romane, ed Epigrafia Latina, Facoltà Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Eugenio La Rocca Prof. Ordinario Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana, Univ. Sapienza di Roma Anna Maria Liberati Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Antonella Magagnini Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Luisa Musso Prof. Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana e Archeologia delle Provincie Romane, Univ. Roma Tre Silvia Orlandi Prof. associato di Epigrafia Latina presso la Facoltà di Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Rita Paris Direttore Museo di Palazzo Massimo alle Terme Claudio Parisi Presicce Direttore Musei Archeologici e d’Arte Antica di Roma Capitale Giandomenico Spinola Responsabile Antichità Classiche e Dipartimento di Archeologia Musei Vaticani Lucrezia Ungaro Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Laura Vendittelli Direttore Museo Crypta Balbi CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE LAURA BUCCINO - ALBERTO DANTI - GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO - GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI TRADUZIONE DANIELA WILLIAMS GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA

È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber

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IL TEMPIO DI VENE

di Alberto Da

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LA VILLA DEI G

di Gabriele Ro


ERE E ROMA

anti

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GORDIANI

omano

SOMMARIO

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LA VILLA ROMANA DI CASALOTTI

IL SANTUARIO DI GIOVE DOLICHENO

di Gabriele Romano e Luana Ragozzino

di Paola Chini

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RECUPERATE A NEW YORK DUE OPERE STRAORDINARIE

I SERVIZI SEGRETI NELL’ANTICA ROMA

di Flavia Piarulli

di Annamaria Liberati e Enrico Silverio




IL RESTAURO

IL TEMPIO DI VENERE E ROMA

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er la celebrazione del decennale della Marcia su Roma, già nel luglio del 1931, si pensò, con un progetto eclatante e che ben rispecchiava le dottrine politiche dell’epoca fascista, di realizzare una strada che dall’Altare delle Patria giungesse al Colosseo: la via dell’Impero. Dal punto di vista ideologico venivano così a

Nelle due pagine: L’area archeologica centrale in una veduta del 1925 Nella pagina accanto, in alto: Villa Rivaldi: particolare del giardino Nella pagina accanto, in basso: Il tempio di Venere e Roma e la collina Velia prima degli interventi del periodo fascista.Villa Rivaldi: particolare del giardino

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unirsi due importanti simboli della storia di Roma e dell’Italia: quello riferibile ai valori del Risorgimento, fortemente sottolineato nella nuova urbanistica dell’Urbe dalla costruzione dell’Altare della Patria, e quello dell’antico Impero romano, ancora ben presente nella centralità del Colosseo. Il collegamento fra questi due monumenti, attraverso la via dell’Impero, costituiva quindi, per il Fascismo, un completamento naturale, ritenendosi esso stesso erede e continuatore di quelle due realtà storiche e realizzando così un consistente impatto scenografico per la Capitale, finalizzato a celebrare le sue idee politiche e legittimando così le proprie ambizioni di grandezza. L’unico ostacolo per il compimento di questo programma urbanistico era costituito da quella collinetta, denominata Velia, che sorgeva fra Palatino e Colle Oppio e

su cui si innalzava ancora, in direzione nord, la cinquecentesca Villa Rivaldi. Antichissima e connessa con le più antiche vicende legate alla nascita di Roma, la Velia compare già, in stretto legame con il Palatino, nel più antico elenco di montes dell’Urbe, il Septimontium, risalente all’epoca dei Re. Su di essa, in epoca repubblicana, sono attestate abitazioni private di notevole pregio, fra le quali spiccava la residenza di quel Valerio Publicola che rivestì la carica di console insieme a Giunio Bruto nel primo anno di fondazione della Repubblica (509 a.C.), e soprattutto, fra gli edifici di culto, il tempio degli dei Penati, più volte nominato dagli scrittori antichi. L’aspetto di zona residenziale perdurò per molti secoli se si considera che Domizio Calvino, all’inizio dell’età augustea, giunse a distruggere il


sacello di Mutinus Titinus (antica divinità fallica, assimilabile al dio Priapo), per costruire in quella zona i balnea della sua casa. Ma per tornare alla distruzione della Velia, è necessario ricordare che questi interventi non

erano stati previsti dal piano regolatore del 1931, e persino nel primo progetto relativo all’andamento della Via dell’Impero, la strada doveva subire una deviazione in prossimità della collinetta, affinché venisse superata mediante una salita, salvaguar-

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Sopra: L’area monumentale centrale nel articolare del plastico del Museo della Civiltà Romana Sotto: Sterri per la costruzione di Via dell’Impero

dando così sia i giardini della Villa Rivaldi, sia le preesistenze archeologiche affioranti in diverse aree. Ma la fretta dei lavori e gli accesi entusiasmi ideologici del regime, diedero ampio spazio alle ruspe che operarono

profonde demolizioni, ridefinendo in modo del tutto nuovo e artificiale l’aspetto dell’area in questione. Furono a questo proposito impiegate ingenti forze di manovalanza e in condizioni di totale mancanza di sicurezza, come testimoniano le statistiche, poco conosciute, relative ai numerosi incidenti sul lavoro. Il risultato fu l’asportazione di circa 300.000 mq di terra che determinò lo sbancamento della Velia per una lunghezza di circa 200 m, dopo che furono eseguiti selvaggi espropri a danno di numerose famiglie e di artigiani che costituivano anche in questa zona, uno dei tessuti più caratteristici e originali della città. I rinvenimenti archeologici furono notevolissimi, raccolti e conservati in casse per essere depositati nei magazzini comunali, mentre con grande premura furono,


Sopra: Via dell’Impero durante i lavori di apertura

Sotto: Le strutture edilizie rinvenute a ridosso della basilica di Massenzio

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solo in parte, documentate le strutture murarie che via via emergevano e che si riferivano spesso a lussuose abitazioni del primo periodo imperiale. Fra tutti questi ritrovamenti, due in particolare meritano di essere ricordati. Il primo si riferisce a quella lussuosa domus rinvenuta sotto il giardino di Villa Rivaldi, e che ha restituito ambienti affrescati con pitture ad encausto e un importante complesso di opere marmoree comprendenti ritratti di imperatori e di illustri personaggi del tempo, nonchÊ copie o rielaborazioni statuarie di originali greci, fra le quali spiccano la statua di Icaro e una testa di Apollo, copia da originale attribuito a Fidia. Le opere in questione sono attualmente conservate presso la Centrale Montemartini. Il secondo nucleo fu rinvenuto a ridosso del colonnato del tempio di Venere e Roma, lungo il lato ovest, di fronte all’ex convento di Santa

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Sopra: Sterri durante i lavori di sventramento della collina Velia Sotto: Ritratto di Caracalla dalla Domus di Villa Rivaldi. Roma, Centrale Montemartini

Nella pagina accanto, in basso a sinistra: Testa di Apollo tipo Kassel dalla Domus di Villa Rivaldi. Roma, Centrale Montemartini


Francesca Romana. Per quest’ultimo si trattò di una sala ottagona, pregevolmente decorata da rivestimenti in lastrine marmoree, da cui si dipartivano quattro criptoportici che furono inglobati nelle successive fasi di fondazione di età neroniana ed adrianea. L’ampiezza e l’orientamento di questi ambienti hanno fatto ipotizzare una loro pertinenza ai resti abitativi rinvenuti nell’area della Villa Rivaldi. Di recente, inoltre, una più accurata analisi delle decorazioni marmoree ha permesso di proporre, per queste strutture, una datazione alla seconda metà del I secolo d.C., ipotizzando anche che tutto il complesso possa essere stato di proprietà della nobile famiglia dei Domizi Enobarbi, della quale fece parte l’importante figura di Sopra: Particolare dei motivi ornamentali presenti sulla volta affrescata del criptoportico Sotto: Statua di Icaro dalla Domus di Villa Rivaldi. Roma, Centrale Montemartini


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Nella pagina accanto: Il criptoportico rinvenuto durante i lavori del 1932 A sinistra: Particolare del criptoportico In alto: Ruderi rinvenuti sul lato nord della Velia In basso: Particolare degli sventramenti eseguiti per la costruzione di via dell’Impero

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Cneo Domizio Enobarbo, sposo di Agrippina Minore e padre Nerone. Lo sbancamento della Velia ha anche evidenziato, sul versante nord, le strutture in calcestruzzo di fondazione e di terrazzamento della collina che vennero eseguite all’indomani dell’incendio del 64 d.C., quando Nerone, approfittando del disastroso evento, diede inizio a quel progetto urbanistico che portò alla costruzione della sua colossale reggia: la Domus Aurea. Gli architetti dell’imperatore avevano previsto e realizzato proprio sulla Velia il monumentale ingresso, costituito da portici e al cui interno doveva svettare la colossale statua bronzea di Nerone, alta 120 piedi romani (circa 35 m). Alla morte di Nerone anche la Velia rientrò nel programma che i Flavi attuarono nel restituire alla funzione pubblica tutte le aree che il loro predecessore aveva impropriamente destinato agli usi della sua politica egemonica e in particolare la statua colossale, pur restando nella sua posizione originaria, venne trasformata in un’immagine del dio Sole. Pochi anni dopo la sua elezione a imperatore nel 117 d.C., Adriano decise di erigere un tempio alle due principali divinità protettrici dell’impero: Venus Felix, quale progenitrice di Enea, e Roma Aeterna. Fortuna atque Aeternitas, quindi, due concetti ben radicati in questo periodo di maturazione dell’impero romano, pregni di simbolismo, e in cui Adriano volle racchiudere anche l’unione fra le origini di Roma e il suo futuro, quale guida del mondo, nonché una fusione fra Oriente e Occidente che l’impero stesso aveva determinato. La scelta della Velia come sito di quello che si apprestava a essere il più grande tempio mai realizzato a Roma, fu dettata senza dubbio da motivi

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Nella pagina accanto, in basso: Particolare di uno dei pozzi

In basso: Panoramica del taglio della Velia vista dal Colosseo

A sinistra: Un momento dello svuotamento dei pozzi venuti alla luce durante lo sbancamento della Velia

Sotto: Panoramica del taglio della Velia vista dal Vittoriano

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Sopra: Ricostruzione immaginaria degli edifici posti sulla Velia visti dal Clivo Palatino: si ricon0osce in primo piano l’Arco di Tito e sullo sfondo il tempio di Venere e Roma A destra: Pianta del tempio di Venere e Roma dalla Forma Urbis Romae di Rodolfo Lanciani Nella pagina accanto: Nel disegno di Giuseppe Gatteschi, il colosso e il tempio di Venere e Roma dietro

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scenografici: se da un lato, infatti, il tempio costituiva una magnifica quinta prospettica sul versante orientale del Foro, esso poteva anche ammirarsi in tutta la sua grandezza dai diversi piani dell’Anfiteatro Flavio. Per realizzare questo progetto fu pertanto necessario demolire in parte la precedente fase neroniana, mantenendo e ampliando il terrazzamento posto sulla Velia. Il Colosso venne spostato con la forza di 24 elefanti e una volta liberata l’area fu posta la prima pietra. Era il 21 aprile del 121


d.C., dies natalis di Roma. Uomo colto e dedito agli studi e all’esercizio di tutte le scienze e delle arti allora più seguite: medicina, canto, geometria, pittura, plastica, Adriano fu anche architetto e a lui si deve il progetto esecutivo del tempio. Dione Cassio (storico greco, vissuto a cavallo tra il II e il III secolo d.C.), nella sua Storia Romana, ci descrive, in modo assai puntuale, le vicende o meglio il diverbio sorto tra l’imperatore e Apollodoro di Damasco (autore delle grandi opere ufficiali del principato di Traiano), che andò quindi incontro a una triste sorte. Apollodoro, infatti, era abituato a discutere con Traiano ogni nuova creazione o progetto in fase di esecuzione, e immaginava di avere le stesse facoltà

anche con Adriano che, diversamente, non tollerava critiche altrui. Un primo momento di tensione fra i due si ebbe, ancor vivo Traiano, quando volendo il giovane principe intervenire personalmente su alcuni progetti, fu lapidariamente allontanato da Apollodoro che lo apostrofò con queste parole: «vai a dipingere le zucche, poiché null’altro tu puoi comprendere». Divenuto imperatore, Adriano, che non aveva mai dimenticato l’offesa, esiliò il noto architetto, ed eseguì egli stesso i principali piani urbanistici e architettonici per l’Urbe. Tuttavia, a riguardo del progetto del tempio di Venere e Roma, l’imperatore chiese nuovamente consiglio e approvazione all’architetto damasceno, che, fermo nelle sue idee, inviò ulte-

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Sopra: Plastico ricostruttivo del tempio di Venere e Roma visto dal versante del Foro Romano Sotto: Pianta del tempio di Venere e Roma: in evidenza le due fasi costruttive di etĂ imperiale

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Nella pagina accanto, in alto: Sezione prospettica ricostruttiva della fase massenziana del tempio di Venere e Roma visto da via dei Fori Imperiale Nella pagina accanto, in basso: Il Tempio di Venere e Roma in in disegno di Giuseppe Gatteschi

riori critiche sia in relazione alla limitata altezza del podio, sia a proposito delle due statue di culto, troppo alte rispetto alle nicchie, tanto che le divinitĂ , se pur lo avessero voluto, non avrebbero potuto alzarsi. Dopo queste risposte Adriano attese anche qualche anno prima di far


uccidere Apollodoro nella sua residenza in esilio. Una volta avviati i lavori, questi perdurarono per molti anni e il tempio fu terminato solo sotto il principato di Antonino Pio che lo dedicò nel 138 d.C., come testimoniano le monete coniate sotto quest’ultimo imperatore. Il tempio si estende su una piattaforma di 145 per 100 m (500 per 300 piedi romani), che in parte poggia sull’altura della Velia, in parte si estende verso la valle dell’Anfiteatro colmando così il relativo salto di quota. Su questa platea fu collocata, limitatamente ai lati lunghi che erano borda-

ti da un’alta struttura muraria articolata all’esterno (lato via Sacra) in nicchie, un’area porticata, formata da colonne di granito grigio e caratterizzata al centro da due propilei rientranti, le cui colonne presentavano altezza e diametro maggiori delle altre e un marmo di differente qualità e cromia. I lati corti erano invece aperti e occupati, quello verso il Foro da una gradinata, quello verso il Colosseo da semplici scalinate laterali. L’area destinata al tempio vero e proprio si trovava leggermente sopraelevata rispetto al piano del portico e circondata da un doppio periptero (diptero) di

colonne in marmo cipollino di ordine corinzio (dieci sulla fronte e ventidue sui lati lunghi). Si accedeva quindi al cuore del santuario che, diversamente da quanto ci si potrebbe aspettare in un tempio canonico, era costituito da due celle, ciascuna con antistante pronao, contigue e opposte, aventi in comune un unico muro di fondo. I rispettivi ingressi erano quindi collocati uno verso il Colosseo (dea Venere) e l’altro verso il Foro (dea Roma). Quando nel 283 d.C., sotto il principato di Carino, il tempio venne devastato da un incendio si pensò alla sua ricostruzione solo con l’av-

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vento al potere di Massenzio (306-307 d.C.). Agli interventi di questo periodo si deve attribuire l’aspetto attuale del tempio. Furono infatti realizzate le due absidi con soffitto e catino a cassettoni stuccati, secondo la moda architettonica del tempo; le celle vennero coperte con volta a botte e infine le pareti furono decorate da nicchie con il timpano alternativamente triangolare e centinato e delimitate da colonnine di porfido su mensole. L’uso di interrompere la staticità delle pareti mediante nicchie mosse da colonnine su mensole si ritrova, per questo periodo, in altre strutture monumentali quali la vicina basilica di Massenzio, il muro di fondo della piscina delle terme di Diocleziano o la Curia nel Foro romano (nel restauro dioclezianeo). Anche il pavimento, così come lo si può ammirare all’interno della cella dedicata alla dea Roma, era improntato a una forte policromia, mediante l’uso di incrostazioni marmoree a motivi geometrici, fra cui primeggiava il porfido. Ritornando alla fase adrianea dell’impianto templare, c’è da

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sottolineare che la forma e la pianta dell’edificio si manifestano nella loro singolarità, per certi aspetti rivoluzionaria. Il richiamo e la parziale ripresa delle grandi architetture ellenistiche, per la quali Adriano ebbe una vera e propria passione (non a caso sotto questo imperatore si conclusero i lavori dell’Olympeion di Atene), si unisce al rifiuto e alla contrapposizione allo schema canonico dei templi romani su alto podio. Tuttavia un certo compromesso architettonico con la cultura clas-

In basso, a sinistra: Il cantiere di restauro e di ricostruzione di alcune delle colonne del portico esterno del tempio Sopra: Il tempio di Venere e Roma in una veduta della fine dell’Ottocento


sica si nota nel mantenere diversi elementi propri degli edifici templari, quali il diptero di colonne e la forma canonica delle singole celle; necessario tributo a quella civiltà greco-romana, per molti secoli imperante, a cui anche il rivoluzionario periodo architettonico iniziato da Adriano, si sente in dovere di offrire. Le vicende che interessano il tempio di Venere e Roma non si esauriscono con la fine dell’Impero romano. Come spesso accade per i più importanti e prestigiosi monumenti di Roma, la sua rovina fu procurata più dalle opere di saccheggio che dagli eventi naturali o dal suo abbandono. Ancora nel 365 d.C. Ammiano Marcellino annovera il tempio fra le meraviglie di Roma. Intorno all’anno 640 d.C. papa Onorio I, dopo aver ricevuto parere favorevole dall’imperatore di Bisanzio Eraclio, asportò le tegole dorate del tem-

Sopra: Particolare del cantiere di restauro del tempio di Venere e Roma nel 1932 Sotto: Veduta del tempio di Venere e Roma in una foto del 1932

pio per riutilizzarle sulla copertura della nuova basilica di S. Pietro. La spoliazione delle tegole proseguì da parte dei Saraceni durante il sacco dell’846 d.C. per essere completata da Paolo V Borghese (1605-1621). La costruzione della chiesa di S. Maria Nova a opera di papa Paolo I (757-767) sul sito della platea e del pronao della cella dedicata alla dea Roma e la sua successiva trasformazione nella chiesa di S. Francesca Romana, contribuirà in modo determinante alla spoliazione delle strutture decorative del tempio di Venere e Roma. Rodolfo Lanciani ricorda ancora che, al tempo di Carlo Fea, Soprintendente alle Antichità all’inizio dell’Ottocento, si stava continuando l’opera di asportazione dei marmi, da utilizzare, in questo caso, per i lavori intrapresi presso la basilica di S. Paolo fuori le mura. Solo il tempestivo intervento del Fea impedì il perpretarsi di quest’ultimo atto di vandalismo. Il recupero del tempio di Venere e Roma comincia proprio in quegli anni iniziali del XIX secolo. Sotto l’amministrazione francese si eseguirono i primi scavi sistematici (1810-1814), per

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Sopra: Panoramica del Tempio di Venere e Roma durante i lavori di restauro A destra: Il cantiere di restauro e di ricostruzione di alcune delle colonne del portico esterno del tempio Nella pagina accanto: Veduta del lato del tempio dedicato a Venere dal Colosseo

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continuare ad opera del Nibby tra il 1827 e il 1829. Un decisivo apporto per la tutela e la salvaguardia dei resti monumentali del tempio si ebbe a partire dal 1932 per merito del MuĂ€oz. In previsione della visita di Hitler a Roma nel 1938, furono avviate indagini archeologiche mirate a meglio comprendere il complesso monumentale nel suo aspetto originario. Partecipò a questi lavori il trentottenne archeologo Antonio Maria Colini. Egli, nelle sue rela-


zioni di scavo, lamentò sin dal principio l’impossibilità di documentare quanto stava emergendo proprio a causa dell’urgenza con cui si procedeva, a tal punto che, in molti casi, non gli fu permesso di stilare gli stessi rapporti di scavo. Sempre in questi anni, vennero rialzate alcune colonne del portico laterale utilizzando i numerosi frammenti di granito grigio che si trovavano ancora sul posto; fu inoltre realizzato, com’era d’uso durante il periodo fascista, il totale isolamento del monumento, compiendo anche saggi di scavo volti a indagare la tecnica

costruttiva della platea di sostruzione. Infine l’opera di abbellimento fu completata mediante piante di ligustro che ripetevano il tracciato della peristasi delle colonne, siepi di bosso lungo il percorso dei gradini, e infine alloro a sostituire le pareti della cella di Venere. Si adottò in questo modo quel principio dell’’integrazione dell’immagine’ dei ruderi, mediante vegetazione classica, auspicato da Giacomo Boni all’inizio del XX secolo nel suo sperimentale progetto denominato ‘Flora delle Ruine’. Al medesimo periodo si

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Sopra: Gli interventi integrativi eseguiti con essenze arboree sul lato della cella di Venere Sotto: Particolare del punto di contatto fra le absidi delle due celle A destra: Platea e tempio visti dalla via Sacra come appaiono ai nostri giorni

devono altri interventi di restauro e consolidamento eseguiti da Alfonso Bartoli (responsabile della parte del tempio incorporata nell’ex Convento di S. Francesca Romana, trasformato in Antiquarium Forense da Giacomo Boni) all’interno della cella della dea Roma e che ancora oggi si possono ammirare, malgrado una certa forzatura interpretativa adottata nel ripri-

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chiarire alcuni aspetti strutturali del monumento, sia per creare nuovi drenaggi alle murature. Si giunge così ai nostri giorni quando attraverso un nuovo progetto di recupero dell’area, è stato finalmente possibile riaprire alla fruizione pubblica gran parte degli spazi pertinenti al tempio. Un nuovo percorso didattico conduce, infatti, il visitatore lungo il portico, dove mirabile e suggestivo è il panorama che si apre sulla valle del Colosseo, fino ad entrare nelle due celle che ancora conservano, malgrado il passare del tempo, un’atmosfera di profonda sacralità. I

stino della pavimentazione. Gli ultimi interventi di scavo e di indagine conoscitiva si sono svolti all’inizio degli anni ottanta dello scorso secolo, sia per

Sotto: La cella della dea Roma come appare ancora oggi dopo il restauro di A. Bartoli negli anno trenta del XX secolo

In basso: Particolare del portico dell’ex Convento di S. Francesca Romana con la pavimentazione pertinente alla cella ella dea Roma

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IL RINVENIMENTO

ARCHEOLOGIA E STORIA DEL XVIII MUNICIPIO

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l suburbio oggi compreso nel XVIII municipio di Roma era caratterizzato nell’antichità dai tracciati delle via Aurelia e Cornelia e da una vasta area che ha conservato tracce della frequentazione umana a partire già dal Paleolitico. Per dare un’idea dell’estensione di questo territorio basti pensare che raccoglie

In alto: Pianta della zona A destra: Panoramica della Polledrara di Cecanibbio Nella pagina accanto, in alto: Teschio di elefante

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sotto la sua amministrazione un’area compresa tra i quartieri Aurelio, Trionfale e Primavalle, fino alle zone dell’agro di Casalotti e Castel di Guido. Studi e ricerche archeologiche effettuate nel corso degli ultimi decenni hanno permesso di ricostruire la storia legata a questo territorio. Si sono infatti rilevate tracce della frequentazione umana a partire dal Paleolitico grazie a ritrovamenti di manufatti in selce insieme a ossa di grandi mammiferi oggi estinti e non più presenti in queste aree, come rinoceronti, elefanti, ippopotami e cervi. A questo proposito va ricordata la Polledrara di Cecanibbio uno dei più ricchi giacimenti paleontologici rinvenuto nella zona di Castel di Guido. Qui scavi del 1985 hanno riportato alla luce una parte dell’ambiente paludoso che caratte-


rizzava la zona circa 300.000 anni fa, con il letto di un corso d’acqua nel quale sono presenti numerosi reperti fossili appartenenti all’elefante antico e al bue primigenio. Notevole lo scheletro di un elefante che rimase imprigionato nel fango e che conserva tra le vertebre un cranio di lupo. Accanto ai resti fos-

sili troviamo inoltre la presenza di manufatti litici, testimonianze della presenza dell’Homo Erectus. Nel resto dell’area suburbana presa in esame si trovano si sono trovate poi numerose testimonianze della presenza umana anche durante il Paleolitico medio, tracce che scompaiono poi fino all’età del rame e del Bronzo, quando centri abitati di modestissime dimensioni sembrano rintracciabili dalla presenza di reperti ceramici. A partire dall’VIII secolo a.C. questa vasta area è caratterizzata secondo la tradizione romana dai Septem Pagi, sette villaggi in territorio etrusco che Romolo, secondo la tradizione, avrebbe conquistato sconfiggendo i Veienti e assediandoli nella loro città. Si trattava in sostanza di una zona di confine tra Roma e gli Etruschi, importante perché permetteva il controllo della riva destra del Tevere e delle saline alla foce del fiume. A questo proposito va ricordata la scoperta effettuata nel 1983 di un abitato arcaico in località Acquafredda all’altezza del sesto miglio della via Aurelia. Si tratta di un centro abitato probabilmente etrusco caratterizzato da un sistema di difesa a fossati che doveva tro-

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varsi nei pressi del confine tra Roma e il territorio etrusco. In seguito all’espansione romana tutto questa area venne caratterizzata dalla presenza di ville e piccoli centri a carattere agricolo che sorsero lungo i tracciati viari, in particolare lungo l’antica via Roma-Caere, poi via Cornelia, probabilmente ricalcata nel tratto iniziale dall’odierna via di Boccea, e inoltre lungo la via Aurelia, creata da Aurelio Cotta nel III secolo a.C. su un precedente tracciato, che da Roma proseguiva verso nord lungo la costa del Tirreno. La via Cornelia, costruita forse da un Cornelio e già esistente nel IV secolo a.C. come ricorda Livio, doveva partire insieme all’Aurelia dalla Porta Aurelia (o Porta Cornelia) presso il Ponte Elio (Ponte S. Angelo) e passando attraverso il Vaticano oltrepassavano la Porta Cavalleggeri. L’Aurelia qui si divideva in due: Aurelia Vetus (verso Villa Pamphili) e Aurelia Nova che con la Cornelia saliva sul colle Vaticano. In questo tratto il paesaggio era caratterizzato dalle arcate dell’acquedotto Traiano e da ville suburbane, e, all’altezza di Villa Pamphili, da necropoli e colombari, ritrovati all’interno

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Sopra: Disegni di utensili in selce dal Paleolitico Sotto: Canalizzazione romana sotto la tenuta Oliveto o Fonte di San Mario

dei giardini della villa, e da catacombe cristiane come quella di Calepodio, una delle più antiche di Roma. La Cornelia e l’Aurelia giungevano più avanti al bivio oggi conosciuto come la Madonna del Riposo che nell’antichità si trovava nel Fundus Cleandri, probabilmente di proprietà di Lucio Aurelio Cleandro, liberto e prefetto del pretorio dell’imperatore Commodo. Molte antichità trovate in questa zona, compresa tra le vie Aurelia Vetus e Aurelia Nova, sono state raccolte nel corso dei secoli all’interno di Villa Carpegna. Costruita verso la fine del XVII secolo dal cardinale Gaspare Carpegna la villa fu sede di un’importante collezione di sculture antiche e di numismatica. Alla morte del cardinale le raccolte passarono ai Musei Vaticani, mentre l’importantissima biblioteca che vi era conservata venne dispersa. Nei giardini e sui muri della villa si


trovavano iscrizioni in latino ed in greco, capitelli antichi, colonne e rilievi marmorei. Alcuni di questi materiali, come alcune epigrafi sepolcrali e urne cinerarie scolpite con ritratti dei defunti, furono trovate nella campa-

gna circostante e rappresentano la vasta necropoli che doveva trovarsi sui lati della via Cornelia. Scoperte piĂš recenti confermano questa sistemazione topografica: una tomba di etĂ imperiale fu trovata ai primi del

Sopra: Basoli di strada romana Sotto: Antica cava di pozzolana in localitĂ Casotto

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Novecento nei pressi di Villa Carpegna, insieme ad otto tombe coperte a “cappuccina” scavate nel tufo; ancora altre tombe furono scoperte, tra queste una a camera scavata nel tufo

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con tre letti funebri trovata nella zona di Circonvallazione Cornelia. Un’altra raccolta di antichità della zona si poteva ammirare nella Villa fatta da Pietro da Cortona nella Pineta

Sopra: Resti di opera cementizia di muro a sacco Sotto: Sepolcro in opera reticolata di età imperiale. Località Riserva Grande


A sinistra: Speco dell’acquedotto di Traiano presso l’Arco di Tiradiavoli In basso: Acquedotto di Traiano

Sacchetti. Più avanti in località Val Cannuta, il cui nome sembra derivare dai canneti che la caratterizzavano, i due tracciati dell’Aurelia si riunivano, proseguendo insieme il loro cammino, mentre la Cornelia deviava verso la via di Boccea, che sembra ricalcarla. Nel punto di incontro dell’Aurelia Vetus con la Nova si trova la Torretta Troili che si fonda sopra una villa romana di cui oggi non rimane nulla. Anche in questa zona sono state

ritrovate alcune sepolture e delle canalizzazioni del terreno per l’irrigazione di colture. Più avanti lungo l’Aurelia si giunge in località Acquafredda dove si trova un’altra Torre, dell’Acquafredda, anch’essa costruita su villa romana di cui non rimane più traccia. Qui si trova inoltre il fosso della Magliana la cui freschezza delle acque diede il nome alla località, e dove nel 547 d.C. Totila re dei Goti si fermò prima dell’invasione di Roma. Nella campagna cir-

costante sono stati trovati numerosi basoli riconducibili al tracciato della via Cornelia che in località Montespaccato era fiancheggiata da ville rustiche, di cui sono stati trovati alcuni ambienti, uno in particolare molto interessante con mosaico pavimentale in bianco e nero caratterizzato dalla figura centrale di Marsia legato ad un albero e motivi vegetali tutto intorno. Anche in questa località sono state trovate alcune tombe. Interessante inol-

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A pag. 34, in alto: Probabile antica cisterna romana sotto il casale di Santa Rufina A pag. 34, in basso: Fistula aquaria dal bivio di Via Boccea e della Storta A pag. 35: Base di tavola romana in marmo con Protomi e Bassorilievi A sinistra: Mosaico pavimentale Paleocristiano dalla Basilica di Santa Rufina o Selva Candida Sotto: Colonna Paleocristiana dalla Tenuta Lancellotti Nella pagina accanto, in alto: L’Arco di Tiradiavoli di Paolo V Borghese Nella pagina accanto, in basso: Castello di Boccea in una carta del 1500

tre la scoperta fatta nel 1936 di una statuetta di basalto nero raffigurante il dio Ptah con manto a rete e scettro e nella parte posteriore un piccolo obelisco scolpito che reca iscrizione in geroglifici. Proseguendo verso Casalotti si trova una villa romana recentemente scavata, descritta in seguito. Tornando sul tragitto dell’Aurelia troviamo come prima statio, indicata nella Tabula Peutingeriana e nell’Itinerario Antonino al XII miglio della via, la cittadina di Lorium, oggi Castel di Guido. Qui il ritrovamento di una iscrizione dell’imperatore Tito del 79 d.C. sembra confermare la presenza di una villa imperiale testimoniata dalle fonti antiche e nella quale visse e morì nel 161 d.C. Antonino Pio e nella quale soggiornò Marco Aurelio, che ricordava come le strade del luogo fossero sdrucciolevoli e caratterizzate da forti pendenze. In tempi recenti è stata scavata qui la Villa delle Colonnacce appartenente probabilmente a membri della corte

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imperiale e che risulta caratterizzata da un impianto termale con raffinati mosaici pavimentali. Nel territorio circostante sono state trovate molte altre iscrizione relative alla vita del luogo, come testi relativi a diritti di passaggio su proprietĂ private, epitaffi di schiavi imperiali, come quello di Trofimo, amministratore delle proprietĂ imperiali, e iscrizioni di divinitĂ come la Fortuna. Scoperti inoltre molti laterizi con bolli e fistule di

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piombo che testimoniano l’urbanizzazione di questo territorio. Il Nibby nei primi anni dell’Ottocento parla di alcuni ritrovamenti effettuati in questa zona, tra cui statue di una Giunone Velata, una Livia in forma di Pietà ed una Domizia in abito di Diana, oggi conservate ai Musei Vaticani. Scoperta interessante è quella di un mausoleo romano di IV secolo d.C. trovato sotto la chiesa di Santo Spirito che ne sfruttò le strutture come fondazioni nel Seicento. Si tratta di una tomba a pianta circolare con grande pilastro centrale e deambulatorio circolare coperto da volta a botte con cinque nicchie sulle pareti che ospitano arcosoli per le sepolture. Una sesta nicchia comunica con il corridoio di accesso della tomba che venne riutilizzato e modificato al momento della costruzioni di ambienti connessi alla chiesa. Nei pressi si trova il Casale della Bottaccia, originariamente fortificato da due torri, e nei cui dintorni son state trovate importanti testimonianze di

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opere idrauliche romane, come cunicoli, cisterne e conserve per l’acqua piovana. Sempre in questa zona è stato trovato nel 1987 un mitreo del II secolo d.C. Nel tardo impero tutta questa area si va spopolando lentamente fino al tracollo seguito alla caduta dell’impero e alle guerre gotiche. Solo pochi centri abitati si salvano, tra questi Lorium che diviene anche sede vescovile, S. Rufina,

Sopra: Via di Castel di Guido, Casale della Bottaccia Sotto: Porta Cavalleggeri in una foto del 1885 Nella pagina accanto, in alto: Villa Carpegna Nella pagina accanto, in basso: Porta Cavalleggeri nell’incisione di Giuseppe Vasi del XVII secolo


centro religioso di primaria importanza scavato nel 1977-78 con scoperta dei resti paleocristiani, e forse Malagrotta e Boccea. Nel corso dei secoli altre testimonianze si vanno sovrapponendo nel tessuto di questo territorio, chiese, come Santa Maria delle Fornaci e la Madonna del Riposo, ville come la Carpegna, torri e casali, fino a giungere alla moderna urbanizzazione che ha cambiato radicalmente la topografia storica di tutta l’area. Per concludere si evidenzia una delle attività che ha caratterizzato parte di questo vasto territorio suburbano di Roma e che ha trovato una continuità dall’età romana fino agli inizi del Novecento: si tratta della produzione dei mattoni che ha contribuito a creare i palazzi e le case di tutta la città e che avveniva all’interno delle fornaci. La zona di via delle fornaci fuori

porta Cavalleggeri e Porta Fabbrica ne porta ancora il nome, anche sull’altro versante del Vaticano si lavorava l’argilla per ricavarne laterizi, a Valle Aurelia dove il toponimo Valle dell’Inferno ricorda ancora oggi il calore e il fumo dei forni di produzione e dove si conserva una delle ultime ciminiere di queste fornaci.

Bibliografia: A. Nibby, Analisi storico-topografica antiquaria della Carta dei dintorni di Roma, Roma 1849. A.V., Il Suburbio di Roma tra le vie Aurelia e Cornelia, Roma s.d. E. Carnabuci, Via Aurelia, Roma 1992 C.Calci, Roma archeologica, Roma 2002.

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LA VILLA ROMANA DI CASALOTTI

Nel territorio del XVIII municipio a Roma, nei pressi dell’antica via Cornelia, che dal Vaticano portava fino a Cerveteri, una villa di età imperiale databile al II sec. d.C. con una frequentazione attestata fino al IV sec. d.C., è oggi in parte visibile. Esattamente ci troviamo

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in località Boccea e attualmente la strada moderna, via di Casalotti, ha tagliato la villa. Il suo rinvenimento, casuale, avvenne negli anni ’30 in occasione di lavori agricoli. In questa occasione si rinvenne la pars rustica, con un deposito di dolia (grandi orci per olio e grano)

Sopra: Panoramica dello scavo della villa Nella pagina accanto, in alto a sinistra: Particolare dell’ambiente pavimentato in laterizio con cavità per dolio Nella pagina accanto, in alto a destra: Pavimento a mosaico in bianco e nero con motivi geometrici;


costituito da due ambienti uno solo dei quali venne scavato. Questi due ambienti avevano dei pilastri in laterizio a sostegno della copertura mentre i dolia erano disposti irregolarmente. All’interno di uno dei due ambienti erano conservati 8 dolia. Poco lontano, sempre durante gli scavi degli anni ’30, si rinvenne l’impianto termale della villa, che ha rivelato uno degli ambienti decorati con pavimento a mosaico decorato con soggetto marino con nereidi , pesci e molluschi. Mosaici simili si ritrovarono in ambienti termali di altre ville intorno Roma, come la villa di Plinio a Castetlfusano. Vicino a questo ambiente, situato ad un livello più basso, ne venne fuori un altro pavimentato in mosaico bianco. Negli anni ’80, la Soprintendenza Archeologica di Roma riprese di nuovo gli scavi, mettendo in luce tre ambienti: uno a pianta rettangolare, pavimentato in laterizi con cavità circolare forse per un dolio; gli altri due pavimentati in cocciopesto e laterizio. Poco lontano una vasca rettangolare, un pozzo, una base in pietra per un torcular (un torchio per la spremitura di olive o uva) ed una macina. Nel 2000, in occasione del Giubileo, si ripre-

sero di nuovo gli scavi da parte della Soprintendenza, diretti ancora dalla Dott.ssa Rita Santolini, che confermarono la presenza di un impianto termale, attestato ancor meglio dalla sala con le suspensurae (pilastrini in mattoni che sorreggono i pavimenti degli ambienti termali per permetterne il riscaldamento) e la pars rustica, caratterizzata dai dolia e dal torcularium. Nello stesso scavo del 2000 si rinvennero anche frammenti di crustae parietali e intonaci dipinti e una fistula plumbea (tubo per l’acqua), con il nome di Calpurnia Caeia, forse la proprie-

taria del fondo. Dagli scavi eseguiti fino ad oggi, risulta evidente che si tratti di una villa che segue un’evoluzione simile a quella di altre ville, attraverso varie fasi: dall’età repubblicana con la presenza di cisterne e cunicoli e divisione in parte residenziale e parte produttiva, che si mantiene fino all’età imperiale con l’aggiunta di un impianto termale. I

Sotto: Particolare delle suspnsurae di un ambiente termale

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LA SCOPERTA

IL SANTUARIO DI GIOVE DOLICHENO

N

el 1935, nel corso di lavori di scavo per la costruzione di una fogna in via di S.Domenico sull’Aventino, vennero alla luce i resti di un santuario dedicato a Giove Dolicheno, che apparve immediatamente di eccezionale importanza per la topografia dell’area, nonché per gli studi storico-religiosi. Fino a quel

In alto e in basso al centro: Due immagini relative allo scavo del santuario di Giove Dolicheno in Via S. Domenico sull’Aventino nel 1935 Nella pagina accanto in alto a destra: Pianta della zona con in evidenza il punto del ritrovamento Nella pagina accanto in basso a destra: Particolare di muro affrescato rinvenuto nell’area del santuario

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momento, infatti, si era a conoscenza a Roma di pochi santuari dedicati a Iuppiter Dolichenus, divinità di origine orientale che, assimilata alla massima divinità romana Iuppiter Optimus Maximus, aveva avuto un largo seguito nel corso del II e del III secolo in tutto il territorio dell’Impero. In questo periodo, infatti, al culto e alla teologia ufficiale si affiancarono movimenti sincretistici che tendevano ad avvalorare nuove correnti filosofico-religiose, strettamente legate al dilagare di culti orientali misterici. Si assistette, quindi, al fenomeno di una larga diffusione di culti provenienti dall’Oriente (alcuni già importati in precedenza come nel caso dei misteri eleusini di Demetra e quelli di Iside). Anche sull’Aventino, forse meno che in altre aree di Roma, sorsero alcuni santuari dedicati a culti stra-

nieri, tutti impiantati riadattando, secondo le esigenze cultuali, edifici privati già esistenti. Anche il santuario di Giove Dolicheno sorse in un settore di un complesso abitativo tardo-


spazi per accogliere il culto dedicato a Iuppiter Dolichenus. Il culto assunse da subito una connotazione sincretistica: ad esso venne associato anche quello delle altre divinità già presenti sull’Aventino, come è testimoniato dal rinvenimento all’interno del santuario di numerose statue di Serapide, Iside, repubblicano, in uso fino alla fine del I secolo e i primi anni del II sec. d.C.: in un’area originariamente scoperta, all’inizio dell’impero di Antonino Pio, vennero eseguiti lavori adattando gli

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A sinistra: Gruppo statuario di Artemide ed Efigenia con cervo. Dal Dolocenum. Roma, Musei Capitolini In basso: Rilievo con Mitra che uccide il toro. Dal Dolocenum. Roma, Musei Capitolini Sopra: Rilievo con rappresentazioni di Giove Dolicheno. Dal Dolocenum. Roma, Musei Capitolini

Dioscuri, Mitra tauroctono, Silvano, Artemide, Onfale, Ercole Vincitore, Venere, Apollo, Dioniso e di rilievi raffiguranti il Sole e la Luna,. Questa molteplice quantità di raffigurazioni di divinità, per lo più già venerate singolarmente sull’Aventino, dimostra probabilmente il particolare sincretismo e la qualità astrale e cosmica (associazione con Sole, Luna e Dioscuri) del culto di Giove Dolicheno nel santuario aventinese, dove una stretta relazione è stata ipotizzata soprattutto tra Giove Dolicheno-Giunone Dolichena e Serapide-Iside. Da quanto apprendiamo dalle fonti epigrafiche e archeologiche rinvenute a Roma sin dal ‘500, sappiamo che

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A destra: Statua di Omphale. Dal Dolocenum. Roma, Musei Capitolini In basso: Nella foto d’epoca un momento del trasporto delle statue rinvenute nel corso degli scavi

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A sinistra: Il cunicolo di discesa nella Domus adiacente al Santuario In basso: Particolare di un ambiente della Domus con finestra a bocca di lupo A destra: Ambiente centrale della Domus con passaggio ancora interrato e pavimento musivo

cui quello centrale più ampio. L’aspetto del complesso è possibile immaginarlo guardando il plastico (conservato presso i Musei Capitolini) che fu eseguito all’epoca dei lavori di scavo. L’area si compone principalmente di tre ambienti, suddivisa mediante muri che testimoniano varie fasi costruttive e restauri eseguiti nel corso del III sec. d.C. Il primo ambiente a ovest, una sorta di vestibolo (da alcuni interpretato come sala per il culto o come schola), presenta sul lato settentrionale una grande nicchia con la parete, originariamente rivestita da mosaici e marmi, ornata da tre nicchiette (inizialmente quattro) e con un bancone, coperto da una lastra

nell’Urbe esistevano diversi santuari dedicati a Iuppiter Dolichenus (sull’Esquilino, sul Celio, sul Quirinale, nel Trastevere e nell’Isola Tiberina), di cui uno sull’Aventino, menzionato dai Cataloghi Regionari (lista di edifici compilata probabilmente in età costantiniana) con il nome di Dolocenum. L’area del santuario, della quale si conoscono il limite nord, est e ovest, attualmente non è più visibile perché rinterrata subito dopo lo scavo (sono stati lasciati praticabili soltanto alcuni ambienti della domus adiacente, accessibili attraverso una botola posta sul marciapiede). Essa si compone di tre vani, di

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Sopra: Particolare del passaggio dell’ambiente di destra

Nella pagina accanto in basso: Particolare di affresco con uccello

In basso: Particolare di affresco

Nella pagina accanto a destra: Particolare del Santuario durante gli scavi

Al centro in alto: Particolare dell’ambiente centrale e del passaggio al primo ambiente di destra

marmorea, posto in basso. All’interno della muratura della nicchia è stata trovata una moneta dell’imperatore Gordiano Pio (238-244 d.C.), che costituisce un terminus post quem della costruzione di una parte dell’edificio. L’ambiente contiguo, pavimentato come il primo a mosaico bianco e nero, era probabilmente la sala principale, di forma allungata e con due banconi (se ne sono trovati brevi tratti) in muratura addossati alle pareti lunghe, queste ultime rivestite di intonaci dipinti. Nell’angolo N-O della sala, da identificarsi probabilmente con il cenatorium o triclinium (sempre presente nei santuari dedicati a Giove Dolicheno ad imitazione dei santuari mitriaci), è stata rin-

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Addossata all’iscrizione e alla parete N dell’ambiente, è venuta alla luce una sorta di cassa formata da tre lastre di marmo con colonnine scolpite agli angoli, probabilmente un altare, preceduta da un’altra più piccola. Nella parte anteriore vi era un’ara rotonda anepigrafe di travertino. Gli altari erano probabilmente destinati alle funzioni proprie del culto, durante il banchetto sacro. Accanto, all’estremità settentrionale dell’edificio, vi era un terzo ambiente, quasi quadrato, probabilmente con il tetto sorretto da una sola colonna in cipollino posta al centro con la pavimentazione in mattoni bipedali che denota l’importanza secondaria del locale. La destinazione

d’uso di quest’ambiente è quella più problematica: era forse legata a riti di lustrazione. Probabilmente, come in altri culti orientali, infatti, era presente anche un rito lustratorio, durante il quale i fedeli si purificavano prima di accedere alla liturgia. Si ha la testimonianza, infatti, di alcuni santuari dedicati a Giove Dolicheno sorti presso pozzi o sorgenti d’acqua, proprio per soddisfare le esigenze cultuali. Durante gli scavi è stata trovata una copiosa messe di materiale archeologico tra cui numerose iscrizioni contenenti elementi cronologici, necessari per la datazione del santuario, nonché interessanti notizie sul culto e sui fedeli. Dalle iscrizioni si

venuta in situ una iscrizione dedicata a Giove Dolicheno dai patroni Annius Iulianus e Annius Victor, contenente l’elenco di patroni, di candidati e sacerdoti. Tale rilievo è molto importante per la conoscenza dei gradi iniziatici del culto.

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Sopra: Il Santuario di Giove Dolicheno in fase di scavo in Via San Domenico sull’Aventino Sotto: Sculture ed epigrafi rinvenute durante lo scavo

sono apprese ampie informazioni sul culto e sull’organizzazione dei fedeli, detti colitores o fratres. Categoria di essenziale importanza era quella dei patroni, i quali probabilmente sostenevano economicamente il tempio e la comunità . Tra di essi, alcuni avevano anche funzioni cultuali


Sopra: Plastico del Santuario di Giove Dolicheno. Roma, Musei Capitolini Sotto: Statue e iscrizione rinvenute durante lo scavo

e si distinguevano come candidati (probabilmente aspiranti al sacerdozio). Tra le cariche più elevate della gerarchia sacerdotale (esclusivamente riservata agli uomini) vi era il pater candidatorum, che presiedeva all’ini-

ziazione dei candidati o all’abilitazione alla funzione sacerdotale. Non sappiamo esattamente come si svolgesse il rito. Oltre alle processioni, uno dei momenti essenziali doveva essere il banchetto rituale (come avveniva anche nel culto mitriaco), la cui esistenza è testimoniata dal ritrovamento nei santuari di sale con banconi e dalla notizia di termini quali triclinia o cenatoria. Non conosciamo esattamente come era composto il pasto consumato, ma è probabile che una delle portate fosse costituita da carne di toro, animale connesso alla divinità stessa, anche se non sappiamo in quale momento della liturgia esso venisse sacrificato. In modo particolare il rinvenimento di statue e rilievi nei quali Giove Dolicheno appare associato ad altre divinità ha evidenziato il particolare valore sincretistico del culto al quale si rivolgevano fedeli provenienti da varie parti dell’oriente: le immagini sacre e i doni votivi (statuette di offerenti egiziani, decorazioni zoomorfe ecc.), rinvenute nel corso degli scavi, avevano lo scopo, probabilmente, di ricreare l’atmosfera della patria di origine. La valen-

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za sincretistica del culto dolicheno testimonia e conferma un fenomeno cultuale tipico dell’epoca imperiale quando le divinità orientali sembravano particolarmente atte a soddisfare le esigenze spirituali dei fedeli, meglio di quanto non fosse possibile agli dei tradizionali del paganesimo romano. In modo particolare nel corso dell’età imperiale il predominio dell’elemento militare nella compagine dello stato romano fece sentire il suo influsso (legato anche al sempre più frequente reclutamento di soldati tra gli orientali) e portò al dilagare i culti di divinità orientali, in particolare Giove Dolicheno e Mitra, che assumevano l’aspetto di protettori dell’esercito. Soprattutto Giove Dolicheno, era venerato come protettore e trionfatore perché garantiva il ritorno, l’incolumità e la vittoria di coloro

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Sopra: Statuetta di offerente di tipo egizio. Roma, Musei Capitolini Sotto: Epigrafe rinvenuta durante gli scavi Nella pagina accanto in alto: Gruppo statuario di Giove Dolicheno su toro. Roma, Musei Capitolini Nella pagina accanto in basso: Particolare dello scavo di Via San Domenico

che si impegnavano in battaglia: proprio per questi aspetti era particolarmente caro ai militari. Infatti, l’aspetto caratteristico sotto il quale era sempre raffigurato Giove Dolicheno era di una divinità guerriera con la bipenne e il fulmine nelle mani e con l’abito tipico dei militari romani (tunica a maniche corte ricoperta dalla corazza), con l’aggiunta del berretto frigio, evidente indizio dell’origine orientale. Il culto, infatti, era particolarmente diffuso a Doliché (attuale Duluk in Turchia) nella Commagène (regione compresa tra la Cilicia e la Cappadocia), Giove Dolicheno ricopriva nello stesso tempo anche il ruolo di divinità soterica, ossia tutelare del benessere della vita presente e di quella futura dei fedeli. Anche per questa sua qualità il culto incontrò un largo favore in tutto il mondo romano: una diffusione di ampiezza paragonabile a quella del mitraismo. Inoltre gli attributi del toro, della bipenne e del fulmine individuano l’origine di questa divinità, diffusa nel mondo romano da militari e mercanti siriani che veneravano nel loro territorio già in antico il dio della tempesta e della pioggia Baal, dall’ambivalente natura, divinità che protegge e distrugge: la pioggia causa danni al raccolto, ma è anche portatrice di fertilità. L’idea di benessere e di fertilità della


quale Dolicheno sarebbe il dispensatore è rafforzata anche dalla presenza nel santuario dell’Aventino della statua di Silvano e di un Genio con cornucopia, evidenti simboli di prosperità e abbondanza. Il Dolocenum dell’Aventino, che raggiunse il suo massimo sviluppo nell’età dei Severi, ebbe una lunga vita rimanendo in uso fino all’età costantiniana. Probabilmente, fu distrutto all’epoca delle invasioni degli Ostrogoti: risalgono, infatti, all’età ostrogotica undici piccole monete di bronzo rinvenute durante gli scavi, che rappresentano l’ultimo segno di vita del santuario. I

Riferimenti bibliografici: P.CHINI, Il santuario di Giove Dolicheno, in Aurea Roma. Dalla città pagana alla città cristiana (a cura di S. ENSOLI, E. LA ROCCA), Roma 2000, pp. 288294 (con bibliografia precedente).

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IL RINVENIMENTO

LA VILLA DEI GORDIANI

L

e rovine che si vedono all’altezza del terzo miglio della via Prenestina sono caratterizzate dalla presenza della struttura conosciuta da secoli con il nome di Tor de’ Schiavi e identificata come un grande mausoleo che faceva parte, insieme alle altre strutture, di una grande villa imperiale. Tra il 1950 e il 1963

Nelle due pagine in alto: Il Mausoleo e parte della Basilica allo stato attuale Nella pagina accanto in alto: Particolare dell’area negli anni ’50-‘6

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scavi condotti nell’area di questi monumenti emergenti dal terreno hanno svelato, seppur in modo non proprio scientifico visto che parte delle strutture ritrovate vennero distrutte per la costruzione di edifici moderni e manca quasi completamente la documentazione di questi lavori, la storia costruttiva di questa villa di Tor de’ Schiavi, da alcuni identificata con la famosa Villa dei Gordiani, la dinastia degli imperatori che regnò su Roma e l’impero romano nella prima metà del III secolo d.C. Questa identificazione si basa unicamente su un passo dell’Historia Augusta nella vita di Gordiano III scritta da Giulio Capitolino (Gord. III, 32) descrive lungo la via la ricca villa della famiglia imperiale ampiamente restaurata e ristrutturata da Gordiano III (238-244 d.C.), esaltandone la grandiosità, il fasto e la ricchez-

za: “Est villa eorum (Gordianorum) via Praenestina ducentas columnas in tetrastylo habens, quarum quinquaginta Carysteae, quinquaginta Claudianae, quinquaginta Synnades, quinquaginta Numidicae pari mensura sunt. In qua basilicae centenariae tres, cetera huic operi convenientia et thermae, quales praeter urbem, ut, nunc, nusquam in orbe terrarum.” La villa dei Gordiani era dunque costituita, secondo lo scrittore del passo citato, da un porticato con duecento colonne di pregiati marmi, di cui cinquanta di marmo caristio, cinquanta di marmo claudiano, cinquanta di marmo frigio o sinnadico e cinquanta di marmo numidico. Nel ricco possedimento imperiale erano inoltre tre basiliche, delle terme assai vaste che non avevano eguali nel mondo (a parte Roma) e la residenza imperiale vera e propria.


Essendo l’unica prova a sostegno dell’identificazione delle strutture al terzo miglio della Prenestina, portata per la prima volta dal Ficoroni nel Settecento, ovviamente cominciò subito una accesa discussione tra i vari studiosi, sostenitori o meno di questa identificazione, che continua ancora oggi. Notizie di ritrovamenti e scavi nell’area della villa si

hanno già a partire dal Seicento, con la scoperta di alcune iscrizioni funerarie. Di conseguenza cominciarono i primi scavi nel Settecento documentati anche dai noti disegni effettuati da Piranesi che rimangono testimonianza di uno stato di conservazione di parti della villa oggi purtroppo non più visibile. Nell’Ottocento si conoscono almeno quattro diverse campa-

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gne di scavo che portarono al ritrovamento di mosaici, are, busti e sculture. Tra le sculture qui scoperte e poi passate nella collezione del principe Alessandro Torlonia sono da ricordare una copia dell’Olympias o Afrodite fidiaca che venne restaurata da Gnaccarini, allievo del Canova, un busto ritratto di Menandro, un busto maschile e la copia del celebre gruppo di Boethos del fanciullo che strozza l’oca. Da questi terreni sappiamo inoltre provenire vari busti e lapidi poi passati ai Musei Vaticani, oltre al mosaico pavimentale con la rappresentazione della Gorgone scoperto durante gli scavi del 1835 e poi collocato a Palazzo Massimo. Sempre in questo periodo si trovarono altri mosaici pavimentali di cui uno policromo con la rappresentazione delle quattro stagioni, e proveniente dalle vaste sale termali della villa, delle

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Sopra: La sala ottagona negli anni ’50-‘60 Sotto: Ricostruzione grafica ipotetica della Villa dei Gordiani

Nella pagina accanto in alto: Pianta dell’area archeologica Nella pagina accanto in basso: Ricostruzione grafica ipotetica del Mausoleo


quali venne trovato anche un praefurnium. Inoltre numerosi sono stati i ritrovamenti relativi ad una necropoli ( sarcofagi e lapidi funerarie) lungo la via Prenestina proprio in corrispondenza del tratto di Tor de’ Schiavi.

Il toponimo moderno di Tor de’ Schiavi si trova applicato al grande mausoleo a partire dal Cinquecento, e viene dal nome della famiglia che possedeva questi fondi. In precedenza, forsa da epoca medioevale, era invece conosciuto come Monumentum Carucii (probabilmente il nome di un’altra famiglia) o monumentum quod dicitur statuarium. Nel Seicento tutta l’a-

rea faceva parte della tenuta di Tor Sapienza di proprietà del Collegio Capranica, quindi successivamente passò sotto il possesso della famiglia dei Massimo e dopo il 1870 divenne proprietà dei Lancillotti che all’inizio del Novecento la vendettero in lotti da urbanizzare. Interessante la descrizione dettagliata che Nibby nella prima metà dell’Ottocento fa di

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queste rovine della Villa Gordianorum nella sua “Carta de’ dintorni di Roma”, in particolare quando afferma di vedere all’interno del grande mausoleo di Tor de’ Schiavi, sotto le finestre circolari, una fascia dipinta con soggetti cristiani, che mette in relazione con un possibile riutilizzo durante il medioevo di questa struttura come chiesa, in particolare come chiesa di S. Andrea, dedicata probabilmente all’apostolo e di cui rimane nome nel fondo (fundus s. Andreae) di questa zona menzionato in un documento dell’anno 984. I dipinti medioevali osservati dal Nibby con soggetti cristiani sono documentati ancora agli inizi del Novecento da Tomassetti che li descrive come ormai quasi svaniti. Lo scavo principale della villa venne effettuato da parte della Soprintendenza del Comune di Roma negli anni Cinquanta e

Sessanta del Novecento e portò alla distruzione di parte delle strutture ritrovate per la costruzione di una scuola nella zona nord del complesso. I lavori interessarono dapprima le strutture della villa, poi l’area ad ovest del Mausoleo e quindi la necropoli lungo la Prenestina, portando alla luce parti superstiti della struttura, la basilica e una catacomba, in seguito distrutta, in via Dignano d’Istria. Le ultime esplorazioni archeologiche vennero effettuate negli anni Ottanta del Novecento con la scoperta di un certo numero di sepolture all’interno della basilica. I lavori di scavo hanno permesso di tracciare la storia del grande complesso imperiale. Sappiamo dunque che la villa ebbe origine in età repubblicana ed ebbe varie fasi costruttive che la modificarono fino ad assumere aspetto monumentale di villa imperiale. I resti della villa repubblicana che non furono distrutti dalle ruspe furono reinterrati subitodopo gli scavi, e si vide che intorno a questo nucleo originario si svilupparono le fasi edilizie successive nel II, III e IV secolo d.C. testimoniando come l’eventuale residenza dei Gordiani si formò probabilmente inglobando ed espandendo preesistenti strutture architettoniche. Le rovine oggi visibili sono distribuite lungo i due lati della strada con i resti più importanti e imponenti collocati sulla sinistra della via. Sulla destra invece si trova una grande cisterna a pianta quadrata con contrafforti e due piani di sei ambienti ciascuno, e intorno alla quale si possono vedere i resti di altre strutture. Sulla sinistra della Prenestina invece si trovano le principali strutture monumentali della villa, ora all’interno di un parco.

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Si possono vedere parti restanti di una cisterna in opera mista del II secolo d.C. caratterizzata da grandi contrafforti, e a cui venne sovrapposta una seconda cisterna più tarda, coperta con volta a crociera e rivestita di cocciopesto. La cisterna superiore doveva costituire la vera e propria riserva idrica della villa, mentre quella inferiore doveva avere solamente funzione di sostegno. La presenza di queste elevato numero di cisterne sembra trovare giustificazione nella presenza di un acquedotto testimoniata da un frammento di iscrizione, trovato vicino al tracciato della via Prenestina, relativa ad un cippo di delimitazione dell’aqua Augusta, diramazione dell’aqua Claudia o dell’aqua Appia, che venne costruito all’epoca di Tiberio e che doveva servire al rifornimento idrico della struttura e all’alimentazione del suo vasto e articolato complesso termale.

Nella pagina accanto: Planimetria del Mausoleo Sopra e sotto: Resti di una villa Repubblicana rinvenuta nell’area durante gli scavi degli anni ’50-‘60

I resti della villa di età repubblicana sono stati ritrovati alle spalle di queste cisterne e sono caraterizzati da murature in opera incerta e resti di mosaici policromi che, come detto in precedenza, furono rinterrati in seguito agli scavi. Le esplorazioni archeologiche hanno permesso di individuare varie fasi edilizie della villa e almeno tre diversi settori con funzioni diverse. La parte centrale era costituita da un atrio corinzio con sei colonne laterizie sul lato conservato (parte di queste strutture fu distrutta dalle ruspe nel corso dei lavori) con muri in opera quasi reticolata e pavimento in cocciopesto, databili ai primi decenni del I secolo a.C. A sud dell’atrio si sono trovati una serie di ambienti restaurati più volte fino al IV secolo d.C. (murature in opera listata), ma che originariamente dovevano avere funzione di balneum, dello stesso periodo cronologico dell’atrio. Ad ovest di quest’ultimo venne trovato un criptoportico a quattro bracci in opera reticolata con volta a botte ribassata che venne rimaneggiato più tardi con muri in opera listata e che doveva avere probabilmente funzione di cella vinaria. Tutta l’area della villa ad est dell’atrio centrale doveva essere riservata alla parte produttiva della strut-

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In alto a sinistra: Resti di sepolture rinvenuti nell’area della villa dei Gordiani In basso a sinistra: Catacombe cristiane rinvenute negli anni ’50-‘60

tura visto che sono stati trovati ambienti con cocciopesto e vasche di decantazione per l’olio e il vino e stanze per la spremitura di olive e uva. A sud dell’atrio la presenza di scarse tracce non ha permesso di chiarire in maniera precisa la funzione di questo settore. La datazione di questo nucleo originario della villa è del I secolo a.C. (probabilmente in età sillana) con modifiche fino al I secolo d.C. Nella zona ad est di questo nucleo originario della villa nel II secolo d.C. venne creato un settore termale articolato intorno alla celebre aula absidata con

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volta a forma di conchiglia. Questo caratteristico ambiente che originariamente doveva raggiungere un’altezza di circa 12 metri presenta un lato esterno rettilineo mentre la parte interna curvilinea è caratterizzata da nicchie (se ne conservano tre). Rimane inoltre parte della volta che ha appunto la particolarità di avere forma di conchiglia e che conserva decorazioni in stucco. Sul lato est, opposto al lato caratterizzato dalle nicchie, doveva aprirsi su un giardino con un porticato curvo a due colonne. Questa struttura doveva avere funzione di ninfeo o di


mostra d’acqua (per la presenza di canalizzazione per l’acqua) e doveva inoltre essere in rapporto con una più complessa struttura scenografica. Tutta quest’area doveva avere gli ambienti pavimentati con mosaici in bianco e nero decorati da motivi geometrici. L’altro grande monumento superstite si trova nell’area sudovest della villa. Si tratta della grande aula ottagona, monumento a cupola identificato come ninfeo. Questo può essere messo a confronto con la grande cupola di Baia e il Tempio di Minerva Medica di Roma. Si tratta di un’aula di pianta ottagonale databile alla seconda metà del III secolo d.C. ed identificata come ninfeo o sala relativa alle terme, di cui dovevano far parte anche gli ambienti circostanti caratterizzati dalla presenza della pavimentazione a mosaico. Un’altra ipotesi vuole riconoscere in questa sala una sorta di ingresso scenografico alla villa, come ad esempio avviene per una struttura analoNelle due pagine in alto: Resti della villa dei Gordiani negli anni ’50-‘60 Sotto a destra: Strutture della villa in opera reticolata e pareti con resti di intonaco Sotto: Particolare di una parete affrescata

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ga nel caso del Palazzo di Diocleziano a Spalato. All’interno di questo ambiente ottagonale si trovano quattro nicchie rettangolari e quattro nicchie curvilinee con decorazioni in stucco e finestre circolari per l’illuminazione. La copertura è a cupola emisferica, in gran parte crollata forse durante il medioevo, che si imposta su archi di scarico e che venne alleggerita da anfore inserite in file concentriche nella muratura. Sui resti di questa struttura in età medioevale venne costruita una torre conosciuta nel XIIIXIV secolo come Monumentum, fondata sulla cupola antica che proprio in questa occasione venne forse ripristinata e rinforzata con l’aggiunta di un pilastro circolare centrale di sostegno costituito da scaglie di basalto e tufo. Interessante notare come nel corso dei secoli vari studiosi tentarono di interpretare questo monumento, il Ligorio vi volle riconoscere un tempio, Piranesi un sepolcro, Canina e Nibby

un’aula termale. Nel settore est del parco si trova il grande mausoleo rotondo conosciuto come Tor de’ Schiavi. Il nome è derivato da Vincenzo Rossi dello Schiavo che nel 1571 era proprietario del casale noto in precedenza come

Nella pagina accanto: Gruppo scultoreo con fanciullo che strozza l’oca rinvenuta nell’area della villa. Roma, Musei Capitolini Sopra: Resti della villa dei Gordiani, sullo sfondo il Mausoleo Sotto: Particolare di un pavimento musivo della villa

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Monumentum e di tutti i terreni circostanti. Il grandioso monumento, dal diametro di base di 19 metri, si articola su due piani e può essere accostato al Mausoleo di Romolo sulla via Appia. Il piano inferiore risulta essere seminterrato e vi si può accedere attraverso una porta posteriore. È costituito da un ambiente anulare con nicchie semicircolari e rettangolari alla parete che dovevano ospitere i sarcofagi, e coperto da una volta a botte sorretta da un grande pilastro centrale. Al piano superiore coperto a cupola si accedeva invece attraverso una scalinata che terminava con un pronao tetrastilo (ora crollato) che immetteva in un ambiente forse riservato allo svolgimento del culto e nel quale si aprono nicchie che ricalcano la disposizione di quelle del piano inferiore. La cupola anticamente doveva essere nascosta dal prolungamento del cilindro di base nel quale si aprivano finestre rotonde. Il monumento viene datato

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generalmente all’età costantiniana grazie anche al ritrovamento nelle murature di bolli laterizi dell’inizio del IV secolo d.C. Grazie ad alcuni disegni del Seicento di Pietro Santi Bartoli sappiamo che la cupola doveva essere riccamente decorata da pitture con scene di udienze imperiali, divinità varie e la figura di Giove in trono con il fulmine e l’aquila imperiale. Il mausoleo per dimensioni e prestigio testimoniato dalle raffinate, eleganti e ricchissime decorazioni dovrebbe essere attribuito ad un membro della famiglia imperiale, e, vista la sua cronologia, tale membro potrebbe essere ricercato tra i componenti della dinastia dei tetrarchi oppure tra gli esponenti della famiglia di Costantino. Altra ipotesi vuole che invece tale mausoleo possa essere appartenuto ad un personaggio illustre non appartenente alla famiglia imperiale. Non c’è comunque certezza sull’identificazione del personaggio o i personaggi sepolti all’interno del

grande Mausoleo all’interno della villa dei Gordiani. Un indizio ulteriore per cercare di risolvere la questione relativa all’attribuzione del Mausoleo può trovarsi in un frammento d’iscrizione rinvenuto nei pressi dell’abside della basilica dove si legge la formula invicto, che può essere riferita ad un imperatore di III o IV secolo d.C. A sud-est del mausoleo si trovano invece i resti della basilica, probabilmente edificata poco più tardi del mausoleo stesso, con la tipica pianta a circo (67 x 29 m.) e composta di tre navate. Le navate laterali risultano separate da quella centrale da pilastri in opera listata che sostengono archi e che si prolungano nel deambulatorio che corre dietro l’abside. La basilica può essere accostata a quella dei SS. Apostoli presso S. Sebastiano e a quella dei SS. Marcellino e Pietro al Mausoleo di Elena sulla via Labicana. All’interno della basilica della villa dei Gordiani sono state ritrovate 47 sepolture poverissime, forse tutte da attribuire al personale servile della famiglia imperiale che doveva lavorare nella villa. Accanto alla basilica sono stati scoperti inoltre resti di colombari databili al I secolo d.C. e delle catacombe, come in via Dignano d’Istria


dove è stato rinvenuta una catacomba su due piani. Siamo dunque di fronte ad un monuentale complesso funerario con basilica circiforme per le sepolture in prossimità di un grande mausoleo e di un vasto cimitero. Queste caratteristiche consentono di accostare il Mausoleo di Tor de’ Schiavi al sopra citato Mausoleo di Elena con la basilica dei S.S. Marcellino e Pietro sulla via Labicana, complesso contemporaneo e appartenente allo stesso fondo costantiniano “ad duas lauros”. Possiamo utilizzare questo ulteriore complesso funerario di Tor de’ Schiavi per ricostruire un articolato schema topografico che nella tarda antichità caratterizzò buona parte del suburbio romano, costituito dagli elementi Mausoleo – basilica cimiteriale circiforme – cimitero. Gli elementi emersi dalle ricerche condotte nell’area della villa al terzo miglio della Prenestina non consentono di identificare con sicurezza queste strutture con la villa dei Gordiani, soprattutto in base al fatto che dagli scavi emerge la mancanza di materiali pregiati nel periodo compreso nella prima metà del III secolo d.C., corrispondente all’impero della dinastia dei Gordiani. È anche

Nella pagina accanto in alto a sinistra: I resti di un ambiente termale allo stato attuale Nelle due pagine in alto: Il Mausoleo allo stato attuale In basso: I resti della Sala Ottagona allo stato attuale

probabile comunque che il settore riscoperto ed esplorato archeologicamente della villa sia un altro rispetto a quello descritto dalle fonti e che di conseguenza gli edifici descritti nell’Historia Augusta aspettino ancora di essere individuati. Le uniche corrispondenze monumentali alle parole delle fonti antiche potrebbero essere trovate nelle imponenti strutture dell’aula ottagona e del ninfeo riconducibili ad una lussuosa zona termale. Ma al di la del problema dell’identificazione sappiamo comunque che questa villa di Tor de’ Schiavi dovette appartenere alla famiglia imperiale a partire dalla fine del III secolo – inizio del IV secolo d.C. quando all’interno dell’area si costruisce il grandioso Mausoleo il cui unico nome che possiamo attribuire finora è Tor de’ Schiavi. I Bibliografia: G. Romano, La villa dei Gordiani, in Forma Urbis (suppl.), 9, 2008. M. De Franceschini, Ville dell’agro romano, Roma 2005, 144156. M. Maiuro, Gordianorum villa, in Lexicon Topographicum Urbis Romae Suburbium, vol. III, 2005, 31-36.

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L’ATTIVITÀ DEL TPC

IL RECUPERO A NEW YORK DI DUE OPERE STRAORDINARIE

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e attività illegali a danno dei beni culturali (furti, falsificazioni, scavi archeologici clandestini, importazioni ed esportazioni illegali) sono, purtroppo, numerosissime: il furto, in particolare, costituisce una minaccia persistente. Fra le merci più in voga, da sempre, i reperti archeologici che, dopo aver attraversato clandestinamente la frontiera, sono

Nelle due pagine: Il prof. Stefano De Caro il Tenente Colonnello Raffaele Mancino e il Generale Pasquale Muggeo del nucleo Tutela Patrimonio Culturale durante la conferenza stampa Nella pagina accanto in alto a sinistra: Il Generale del nucleo Tutela Patrimonio Culturale Pasquale Muggeo Nella pagina accanto in basso: La Dott.ssa Mona Forman dell’ICE di New York e il Generale Pasquale Muggeo durante la conferenza stampa

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esposti nelle collezioni private, in gallerie d’arte e in musei, con la conseguente decontestualizzazione dell’oggetto. I migliori clienti per i ricettatori risultano essere i mercati esteri, caratterizzati da una forte domanda da parte di galleristi, case d’asta, collezionisti senza scrupoli e, nel passato, anche di alcune istituzioni museali. Talvolta, però, non mancano buone notizie nella lotta contro i furti d’arte e il traffico internazionale di materiale archeologico, grazie ai notevoli risultati ottenuti dal Comando Carabinieri Tutela del Patrimonio Culturale (TPC) che, in stretta collaborazione con il Ministero per i Beni e le Attività

Culturali, le relative Soprintendenze e gli organi internazionali, ha saputo intercettare i binari principali del traffico illegale e che dal 1969 opera per consentire al patrimonio italiano di recuperare centinaia di reperti finiti sui mercati internazionali per milioni e milioni di euro. È il caso di due antichi reperti di particolare interesse storicoartistico, sottratti da musei italiani negli anni Ottanta e che, come altri, hanno percorso molti chilometri seguendo il traffico illecito di beni archeologici trafugati e rivenduti illegalmente. Particolarmente curiose le circostanze del ritrovamento del


Quando viene notata da Michele Speranza, maresciallo capo del Reparto Operativo TPC, in vacanza con moglie e figli nella Grande Mela, l’opera è esposta in questa prestigiosa galleria. Incuriosito e insospettito dalla presenza di una tale scultura di manifattura romana, il sottufficiale chiede informazioni al proprietario che, però, si mostra schivo circa la provenienza del busto, contrario a far fotografare le opere esposte e si rifiuta di mostrare la licenza di esportazione che, in realtà, non ha mai posseduto. Al rientro del maretorso marmoreo di statua acefala panneggiata, raffigurante una donna con una cornucopia, simbolo dell’abbondanza, al braccio sinistro, e identificabile con la dea Fortuna. L’opera, databile al I-II sec. d.C., fu rubata - assieme ad altre sei sculture - nella notte fra il 15 e il 16 giugno 1988 da ignoti che scassinarono la serratura d’ingresso del Museo Civico ‘Pio Capponi’ di Terracina (Latina). Dal ninfeo di una qualche villa romana (per ornare il quale era stata probabilmente scolpita), la statua migrò così in una delle più esclusive gallerie di antiquariato di Manhattan, nella centralissima Madison Avenue.

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sciallo in Italia sono partite le indagini e, in via cautelativa, è stata bloccata la vendita della scultura. Le foto, scattate di nascosto con il cellulare, sono state utili per il riconoscimento del reperto, uno dei tanti schedati nella banca dati del Comando Carabinieri del nucleo TPC, un vero e proprio archivio informatizzato mediante cui anche i cittadini possono accedere a un cospicuo elenco di immagini e di descrizioni di beni artistici, archeologici e librari saccheggiati. Il gallerista, messo di fronte all’evidenza dagli agenti dell’ICE (Immigration and Customs Enforcement) di NewYork, ha deciso di restituire la statua romana e l’opera, grazie alla collaborazione dell’Ambasciata Americana, ha finalmente ritrovato la “via di

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casa”: ci sono voluti sette mesi per accertarsi che si trattava del bene trafugato e ben vent’anni per ritrovarlo! Il busto marmoreo, del valore di quasi 500 mila euro, è stato riportato in Italia e aspetta nel caveau del Comando il nulla osta dell’autorità giudiziaria di Latina per essere riportato nel suo museo.

Sopra: Il Maresciallo Capo Michele Speranza del nucleo Tutela Patrimonio Culturale accanto al “ busto di donna con cornucopia” da lui riconosciuto a New York Sotto: L’immagine dell’asta di Sotheby’s New York nel 2006 quando venne “battuto” il bronzetto romano raffigurante Zeus (o Poseidone) Nella pagina accanto: Il bronzetto romano raffigurante Zeus recuperato dai Carabinieri del nucleo TPC


Sempre dagli USA arriva un inedito bronzetto romano (cm 24,7), raffigurante Zeus (o Poseidone) e databile anch’esso in epoca imperiale (I-II sec. d.C.), che fino alla notte del 13 maggio 1980 era conservato nel Museo Nazionale Romano. Il prezioso manufatto, rinvenuto durante una campagna di scavo dalla Soprintendenza Archeologica di Roma presso la chiesa dei Santi Sergio e Bacco degli Ucraini in piazza Madonna dei Monti, era ancora inedito: se fosse stato pubblicato, probabilmente, sarebbe stato più difficile venderlo all’estero. Molto spesso, infatti, il problema non è solo l’assenza di sistemi antifurto efficienti, ma di una mancata catalogazione e pubblicazione: i controlli antivandalici e antintrusione, anche agli addetti alla sorveglianza, sono essenziali, ma è altrettanto necessario gestire, mediante una capillare archiviazione dei dati, la grande mole di materiale archeologico del nostro patrimonio. La straordinaria opera, «una reinterpretazione - secondo l’allora Direttore Generale per le Antichità del Ministero dei Beni Culturali, dott. Stefano De Caro - del tema di Zeus di Capo Artemisio», una volta approdata negli Stati Uniti, passa di mano in mano: diviene oggetto di una pubblicazione su una nota rivista di antiquariato americana firmata da Marion True (ex curatrice delle antichità del J. Paul Getty Museum di Los Angeles, accusata nel 2005 dal governo italiano per traffico illecito di antichità assieme al mercante Giacomo Medici) e viene persino esposta in una mostra organizzata nel Cleveland Museum of Art, prima di comparire, nel 2006, nella sede newyorkese di una delle più antiche case d’asta del mondo, la Sotheby’s. Qui la statuetta è acquistata da una ignara signora e intercettata dai controlli del

Comando TPC che, grazie all’aiuto di esperti della Soprintendenza Archeologica di Roma, in prima istanza della dott.ssa Rita Paris (direttrice del Museo Nazionale Romano di Palazzo Massimo alle Terme e funzionario della Soprintendenza Archeologica di Roma), hanno riconosciuto l’esemplare romano, la cui ultima valutazione ammonta a 500 mila euro. L’intervento mediatore dell’ICE è stato fondamentale nelle trattative con la proprietaria, che ha deciso spontaneamente di restituire alle autorità italiane il prezioso bronzetto: l’opera tornerà presto alla fruizione pub-

blica fra i bronzi del Museo Nazionale Romano. Durante la conferenza stampa, svoltasi il 19 novembre presso il Nucleo TPC, sono state presentate le opere recuperate e comunicate le dinamiche operative. Oltre al generale Pasquale Muggeo, nuovo comandante del Nucleo Tutela Patrimonio Culturale, e ai già citati maresciallo capo Michele Speranza, dott. Stefano De Caro e il tenente colonnello Raffaele Mancino (TPC), era presente il vice direttore dell’Ufficio ICE di New York, la dott.ssa Mona Forman, che ha contribuito in prima fila nella positiva riuscita delle indagini. I

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LA STORIA

DALL’ETÀ ARCAICA ALLA CRISI DELLA REPUBBLICA

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e si intende realmente capire quali fossero le minacce alla sicurezza interna e chi fossero gli uomini chiamati a fronteggiarle è necessario, soprattutto per il periodo che va dall’età arcaica sino alla crisi della repubblica, comprendere il particolare rapporto tra pubblico e privato, reli-

In alto, a destra: Particolare di un rilievo dall’arco di Traiano a Benevento. L’imperatore conclude un trattato con un capo germanico alla presenza di Iuppiter, garante della fides contenuta in questo impegno. Primo quarto del II sec. d.C. Nella pagina accanto: Plastico di Roma arcaica, particolare della Rupe Tarpea, luogo di esecuzione dei traditori e dei violatori della fides

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gione e diritto esistente in Roma antica e del tutto differente da quello dei moderni Stati occidentali. La dimensione del “pubblico” non appare così distinta da quella del “privato”. Un ruolo centrale hanno gli organismi familiari primitivi, la cui federazione intorno alla figura del re è alla base della stessa fondazione di Roma. Essi appaiono in principio dotati di una marcata dimensione militare e sono spesso identificati con le gentes. Ancora in epoca storica il potere del capo famiglia aveva carattere talmente “sovrano” che nei casi di alto tradimento la punizione del colpevole spettava sia alla città che al padre del traditore. La religione costituiva a sua volta un elemento essenziale della costituzione romana. La stessa fondazione di Roma sarebbe stata dovuta alla volontà degli dei e non è dunque un caso

che proprio in età arcaica il maggior numero dei comportamenti illeciti considerati pericolosi per la città avesse natura religiosa. Tra di essi vi era la violazione della fides, cioè della buona fede elevata a valore religioso ed a divinità, punita con la precipitazione. Questa pena venne poi riservata proprio ai traditori, cioè a coloro che per eccellenza violavano la fides perché ponevano in pericolo l’esistenza della città e quindi offendevano anche gli dei che ne avevano guidato la creazione. Sino alla crisi della repubblica non venne mai istituita una specifica struttura per la raccolta delle informazioni e la tutela della sicurezza costituzionale. In Roma antica, infatti, tanto la sicurezza politica che quella pubblica per molto tempo poggeranno non soltanto sulle ordinarie magistrature, ma in larga parte anche direttamente sul


sistema di valori civili e religiosi della città e sui meccanismi di controllo familiari e pubblici. Essi infatti realizzavano un pervasivo sistema di controllo che si traduceva in una vera e propria auto regolamentazione di ciascun cittadino. Questo diffuso sistema di controllo sociale si basava sui meccanismi della vita associata ed è per questo che la notte, cioè il momento in cui tali meccanismi erano sospesi, veniva considerata come il teatro di congiure di ogni genere. Venne riconosciuta una vera e propria presunzione di pericolosità per qualsiasi riunione che non fosse stata una pubblica assemblea del popolo romano e specie per quelle svolte

di notte: “Sappiamo che nella Legge delle XII Tavole è stabilito che nessuno tenga delle riunioni notturne”. La sicurezza dell’ordine interno non era affidata soltanto alle magistrature, all’auto regolamentazione dei cittadini ed alla delazione, ma era anche il risultato dell’impiego di vincoli e rapporti sociali preesistenti la fondazione di Roma e che affondavano le loro radici proprio nel mondo delle gentes aristocratiche, come la clientela, la sodalità, l’amicitia o il rapporto di patronato. Spesso infatti magistrati o uomini pubblici non esiteranno per fare fronte a minacce portate all’ordine costituzionale, ad impiegare risorse personali o a mobilitare forze a loro fedeli proprio a causa

di quei legami di antichissima origine o di loro analoghi più moderni. Durante i primi anni della repubblica aristocratica, ad esempio, quando i patres dovevano difendersi dalla giustizia rivoluzionaria della plebe, spesso i clientes delle grandi famiglie venivano inviati a saggiare gli umori della folla o a tentare opere di dissuasione più o meno cruente. Così ad esempio nel caso del processo a Cn. Marcio Coriolano, che la tradizione vuole avvenuto nel 491 a.C.: “All’inizio si cercò di evitare il processo disponendo dei clientes che spaventassero singoli (plebei) per tenerli lontani dalle riunioni e dai consigli della plebe”.

La crisi della Repubblica Considerata l’importanza dei valori costituzionali laici e religiosi della repubblica, si comprende perché nella storiografia la pericolosità delle congiure sia spesso sottolineata dimostrando come i congiurati avessero creato una serie di vincoli e di valori opposti ed inconciliabili con quelli che legavano ciascun cittadino alla repubblica: questo tema è presente anche nelle orazioni ciceroniane contro Catilina. E’ tuttavia significativo del caos istituzionale del I sec. a.C. come, nel quadro del suo sfortunato tentativo, Catilina si fosse riappropriato di alcuni simboli e valori repubblicani, cercando di proporsene come il legittimo detentore a tal punto da scendere in battaglia con l’insegna del-

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con esso divenne abituale la proclamazione del nemico politico come “hostis publicus”, “nemico pubblico del popolo romano”, che equiparava il destinatario ai nemici esterni della repubblica. In questo clima di crisi continuano ad esistere quei legami sociali che avevano dato vita al precedente sistema di informazioni e sicurezza, ma essi ormai vengono piegati all’interesse del singolo magistrato o del singolo comandante e non più al superiore bene della res publica. Lo stesso Cicerone non esitò a

l’aquila utilizzata da Caio Mario nella campagna di quasi quarant’anni prima contro i Cimbri ed i Teutoni, e a morire come un vero soldato romano venendo ritrovato agonizzante “in mezzo ai cadaveri dei nemici”. Ancor prima, la crisi dei valori repubblicani è simboleggiata nel 133 – 132 a.C. dalla vicenda di Tiberio Gracco e dai tribunali straordinari istituiti per punire i suoi sostenitori. Essa è anche la crisi del sistema repubblicano di informazione e sicurezza, che si era retto proprio su quei pervasivi valori. Nascono nuovi strumenti giudiziari, tra cui le corti straordinarie per la repressione di sin-

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goli crimini, che si trasformano spesso in organi inquisitori con cui si mira a colpire il nemico politico della parte al potere in quel momento e spesso ciò è vero anche per le successive corti permanenti di giustizia criminale. Lo strumento impiegato dal senato per fare fronte alle diverse congiure e sedizioni che agitarono questo periodo rimase invece il “senatoconsulto ultimo”, con cui l’assemblea autorizzava la reazione armata dei consoli in nome della salvezza della res publica. Pur essendo uno strumento di dubbia costituzionalità, la sua votazione divenne una prassi abituale e


servirsi delle proprie clientele contro Catilina, lasciando le magistrature della repubblica in secondo piano: “Senza che tu te ne accorga, gli occhi e le orecchie di molti ti spieranno e ti terranno sotto controllo, così come hanno fatto sino ad ora”. Ai contemporanei non sfuggiva però che Cicerone, come altri, non era immune dal malcostume dei tempi: “Non è forse vero che (…) ti sei procurato numerosi individui assetati di denaro, attraverso cui tenti di sapere chi ha provocato o sembra abbia provocato un’offesa, chi odia e chi è odia-

to, chi insidia e chi è insidiato? Per mezzo di costoro tu lavori (…)”. Pochi anni dopo, l’omicidio di P. Clodio Pulcro ed il rogo del senato apriranno la strada all’impiego dei legionari di Pompeo in ordine pubblico all’interno del recinto sacro della città e di lì all’uso dell’esercito in servizio di informazione e sicurezza politica la distanza sarà breve: già si intravede all’orizzonte l’istituzionalizzazione di queste strutture militari con le cohortes praetoriae augustee.

Nella pagina accanto: Cippo terminale menzionante i magistrati previsti dalla legge agraria di Tiberio Gracco. Nel 133 – 132 a.C. la vicenda del tribuno ed i processi contro i suoi sostenitori manifestarono definitivamente la crisi dei valori repubblicani. Da Atena Lucana, prima metà del II sec. a.C. A sinistra: Busto di Cicerone. Il famoso oratore e uomo politico non esitò a fare uso senza scrupoli delle proprie spie anche a fini personali. I sec. d.C. In alto: Grande Rilievo delle imprese di Traiano, particolare della testa di un pretoriano. Lungo la paragnatide dell’elmo è visibile il simbolo dello scorpione Sotto: Grande Plastico di Roma antica, particolare della ricostruzione dei castra peregrina sul monte Celio. L’organizzazione che aveva le sue basi in questa caserma costituisce il primo esempio di una struttura realmente specializzata nel servizio di informazione e sicurezza

Il principato I corpi armati che durante l’età delle guerre civili erano stati gli esecutori della volontà di comandanti ed uomini politici vengono istituzionalizzati da Augusto e divengono ora il principale strumento della sicurezza interna. La disciplina del crimine di lesa maestà è aggiornata con una nuova legge dell’anno 8 a.C. L’apparato informativo è garantito dalla creazione di un

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Sopra: Pianta generale dei rinvenimenti sotto S. Stefano Rotondo (da Lissi Caronna 1986) Sotto: Mitreo sottostante la chiesa di S. Stefano Rotondo dopo il restauro

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servizio di comunicazioni pubblico, il cursus publicus, nonché dal ricorso alla delazione giudiziaria già ampiamente usata durante la repubblica ed anzi favorita dallo stesso sistema delle corti permanenti di giustizia criminale, in cui ciascun privato, e dunque anche un delatore opportunamente instradato,

poteva rendersi promotore della pubblica accusa. Accanto alle coorti pretorie, il sistema di informazione e sicurezza dell’impero continua a giovarsi di una vasta gamma di personaggi legati al principe da vincoli personali o istituzionali ma non necessariamente ricollegabili ai servizi di informazione e sicurezza. E’ solo con Traiano, o più probabilmente con Adriano, che tuttavia si assiste alla creazione di una vera e propria struttura specializzata esclusivamente nella raccolta delle informazioni e nell’esecuzione di compiti di sicurezza politica: si tratta di un complesso apparato che fa capo ad una caserma del monte Celio, i castra peregrina, il cui comandante rispondeva soltanto al prefetto al pretorio ed all’imperatore. All’interno di questa organizzazione spicca il ruolo dei frumentarii, messaggeri, spie ed esecutori delle condanne a morte emesse dall’imperatore e dagli alti funzionari. Così ad esempio nel caso di M. Aquilio Felice, inviato nel 193 d.C. da Didio Giuliano ad uccidere il futuro imperatore Settimio Severo: “(…) venne inviato anche il centurione Aquilio, noto


A destra: Dedica a Giuliano, “restitutore del mondo romano”. A questo imperatore si deve un netto ridimensionamento della schola agentum in rebus, il servizio di informazioni e sicurezza tardo imperiale. Da Aceruntia, 355-363 d.C.

assassino di senatori, affinché uccidesse Severo”. Evidentemente però Aquilio, noto anche come “assassino di comandanti”, dovette comprendere la fragilità della posizione di Didio Giuliano e passare dalla parte di Severo. Da un’epigrafe apprendiamo infatti come egli in seguito svolse una notevole carriera che lo condusse a diventare prefetto della flotta pretoria di Ravenna.

Il tardo impero Si deve probabilmente a Diocleziano lo scioglimento del servizio di informazione e sicurezza incentrato sui castra peregrina del monte Celio e la sua sostituzione con la nuova schola agentum in rebus. Come già i frumentarii prima di loro, gli agenti sono messaggeri, spie ed esecutori degli ordini dell’imperatore e degli alti funzionari. Essi dipendono forse già con Costantino dal potente magister officiorum, il “maestro degli uffici”, vertice della burocrazia centrale e periferica, della sicurezza politica e della sicurezza personale dell’imperatore. Degli agentes in rebus facevano parte anche i curiosi, ispettori del servizio di comunicazioni pubblico, ed i principes, inviati a ricoprire ruoli dirigenziali nelle amministrazioni periferiche per garantire l’uniformità dell’azione di governo in tutto l’impero ecumenico. Accanto agli agentes del “maestro degli uffici” continuano ad operare anche altri funzionari legati da particolari rap-

porti di fiducia, spesso malriposta, al sovrano in carica. Tra di essi è tristemente famoso il notarius, cioè segretario imperiale, Paolo, detto “La Catena” sia perché “era bravissimo a creare indissolubili nodi di calunnie” che evidentemente anche per i suoi modi brutali. Dopo aver imperversato contro presunti nemici interni, Paolo venne arso vivo nel 361 d.C. su ordine dell’Augusto Giuliano insieme con l’agens in rebus Apodemio, “nemico serio ed instancabile di tutte le brave persone”. Accanto a questi esempi poco edificanti spicca invece il caso del notarius Filagrio, che nello stesso periodo arrestò su ordine di Giuliano il re degli Alamanni Vadomario.

In basso: Plastico di Roma arcaica, particolare del tempio di Semo Sancus, Dius Fidius. Il valore della fides è essenziale per la comprensione dei principi del sistema di informazione e sicurezza romano

Lo spionaggio militare dalle origini alla seconda guerra punica La religione costituiva una parte integrante della costituzione romana e la sua importanza deve essere valutata anche riguardo la politica estera e militare. La fides infatti era dovuta anche ai popoli con i quali non esistevano rapporti di alleanza o contro cui si era scesi in guerra soltanto dopo un complesso rituale giuridico religio-

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so che rendeva il conflitto una “guerra giusta” contro un nemico “ingiusto”. L’intransigenza dei patres dell’antica repubblica verso ogni comportamento contrario alla fides e quindi anche contro lo spionaggio è provata dalla curiosa circostanza per cui la lingua latina non possiede un termine preciso per indicare il complesso delle astuzie da mettere in campo contro il nemico, per esprimere le quali deve ricorrere alla lingua greca che definisce quei comportamenti strateghemata. La seconda guerra punica ed il massiccio ricorso fatto da Annibale ad ogni spregiudicato stratagemma militare, indussero alla fine i Romani ad adottare un atteggiamento meno intransigente. Nel conflitto annibalico, infatti, la fides romana dovette opporsi al suo malvagio contraltare, la Punica fides, ben rappresentata dalla stessa attitudine di Annibale al travestimento ed allo spionaggio: “(…) era solito usare parrucche adatte alle età più diverse e le cambiava di continuo: allo stesso modo cambiava gli abiti, scegliendoli sempre in accordo con le parrucche. In questo modo riusciva a rendersi irriconoscibile non solo a quelli che lo vedevano di sfuggita, ma anche a chi gli era familiare”.

Le guerre civili e lo spionaggio militare

Lo spionaggio militare romano venne affinato durante i drammatici anni delle guerre civili che condussero alla fine della repubblica. I singoli comandanti militari crearono una rete di servizi informativi costituita da soldati, liberti ed amici a loro fedeli che anticipa

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organizzazioni destinate a diventare istituzionali a partire dall’impero di Augusto. Tra le figure di liberti che nelle guerre civili operarono accanto alle spie militari è il caso di ricordare Demetrio, che catturò Quinto Labieno, il figlio del famoso legato di Cesare in Gallia. Quinto Labieno si era schierato con gli uccisori di Cesare e dopo la loro disfatta si era alleato con i Parti, impegnandosi a combattere le forze di Antonio in Oriente. Infine, sconfitto “Cambiata la veste fuggì e per qualche tempo visse nascosto in Cilicia, ma in seguito fu catturato da Demetrio. Questi era un liberto di Cesare inviato da Antonio a Cipro, saputo che Labieno si era nascosto in Cilicia, fece delle indagini e lo catturò”.

L’impero: guerra di spie tra Roma e la Persia

Avviandoci alla conclusione di questi rapidi spunti, piace ricordare che lo scacchiere nel quale in età imperiale era più accesa la guerra di spie tra Roma ed i suoi avversari era naturalmente quello orientale, su cui incombeva la minaccia persiana. Nell’uno e nell’altro fronte erano sempre attive spie che cercavano di confondersi in tutti i modi con i mercanti in transito o con la popolazione locale. Questa presenza aumentava naturalmente durante i conflitti e proprio lo


storico ed ufficiale imperiale Ammiano Marcellino racconta la cattura nel 359 d.C. di un disertore romano divenuto spia dei persiani: “(…) era nato in Gallia, preso la tribù dei Parisii, aveva prestato servizio in un’unità di cavalleria ma, temendo la punizione per un certo crimine che aveva commesso, si era rifugiato presso i Persiani ed in seguito, fattosi una famiglia con moglie e figli, in considerazione della sua onestà era stato mandato come spia dalla nostra parte ed aveva riportato spesso notizie veritiere. Adesso invece era stato inviato dai nobili Tamsapore e Nohodare, che avevano comandato le schiere dei razziatori, e ritornava da quelli per riferire quanto aveva appreso. Dopo di ciò, avendoci informati circa i movimenti dei nemici, venne ucciso”. Procopio di Cesarea ricorda invece le spie romane in Oriente: “(…) da tempo l’erario pagava molti individui che, recandosi presso i nemici ed entrando fino nella reggia persiana con il pretesto di

commerciare o in qualche altro modo ed indagando con esattezza ogni cosa, al loro ritorno in territorio romano potevano riferire alle autorità ogni segreto dei nemici”. I

Nella pagina accanto: Base di statua eretta a Caio Mario. Durante la guerra civile tra Mario e Silla venne fatto un ampio uso dei servizi di informazione e sicurezza, spesso personalmente fedeli al singolo comandante militare. Da Cereatae Marianae, I sec. d.C.

Sopra: Particolare dalla Colonna Traiana. Due esploratori romani si apprestano a riferire a Traiano. Durante il II sec. d.C. gli esploratori militari si trasformeranno da guide di cavalleria in vere e proprie spie in grado di penetrare in territorio ostile. II sec. d.C. Sotto: Particolare dalla Colonna Traiana. Gli esploratori romani comandati da Ti. Claudio Massimo tentano di raggiungere il re dei daci Decebalo per catturarlo vivo. Nel corso del II sec. d.C. le unità di esploratori subiranno decisive trasformazioni e saranno spesso collocate lungo i confini con vere e proprie funzioni di spionaggio. II sec. d.C

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