Editoriale
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isultato della cooperazione pluriennale tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana e lo State Administration for Cultural Heritage della Repubblica Popolare Cinese, la mostra “I due Imperi. L’Aquila e il Dragone” tenutasi nel Museo di
Palazzo Venezia a Roma, ha avuto in esposizione più di 400 capolavori italiani e cinesi che hanno contribuito ad illustrare la nascita e lo sviluppo di questi due imperi dell’antichità, attraverso la rievocazione degli aspetti della vita quotidiana, del culto religioso e dell’economia. Articolato in due sezioni differenti, la prima allestita nel suggestivo scenario della Curia del Foro Romano e la seconda, più ampia, nelle prestigiose sale di Palazzo Venezia, questo progetto espositivo rappresenta inoltre un tassello importante di una positiva collaborazione tra le due Amministrazioni Statali sottolineata anche dall’Anno Culturale della Cina. Una collaborazione suggellata dall’accordo stipulato tra i due paesi che prevede anche in futuro un forte impulso allo scambio di mostre e collezioni museali, attraverso l’organizzazione e la coproduzione di progetti espositivi. A questo proposito è importante sottolineare come il Ministero per i Beni e le Attività Culturali parteciperà attivamente all’allestimento del nuovo Museo Nazionale della Cina di Piazza Tien nan men, che riaprirà le porte la prossima primavera diventando uno dei più grandi musei al mondo. Nella mostra di Palazzo Venezia per la prima volta in assoluto si sono messi a confronto i due imperi più importanti dell’antichità, l’Impero Romano, prima repubblicano e poi imperiale, e l’Impero Cinese delle dinastie Qin e Han, unendo idealmente l’Occidente e l’Oriente nel periodo che va dal II secolo a.C. al IV secolo d.C. Cinquanta musei hanno partecipato al progetto con le opere esposte nella mostra, il cui allestimento è stato curato per l’Italia dal Professor Stefano De Caro, Direttore Generale per le Antichità del Ministero peri i Beni e le Attività Culturali, per la Cina dal Professor Xu Pingfang, Responsabile dell’Istituto di ricerca e archeologica dell’Accademia Cinese di Studi sociali, Direttore della Società Cinese di Archeologia, capo editore del Yanjing Xuebao. Questa unione ideale ricreata nel Museo di Palazzo Venezia mette finalmente in contatto due civiltà che nell’antichità non si incontrarono mai direttamente, commerciando attraverso la mediazione delle popolazioni poste tra i loro territori, ma che si conoscevano e stimavano, come provano le parole riportate in un testo cinese antico, lo Hou Hanshu in cui è provato che il popolo Han tenesse in grande considerazione Roma, conosciuta come Daqin “Grande Qin”. Ritrovamenti archeologici lungo la via della seta in cui si trovano insieme monete romane imperiali e oggetti cinesi testimoniano che ci fu un incontro fra le due civiltà, seppur indiretto e mediato dai mercanti.
DIRETTORE RESPONSABILE MARIA TERESA GARAU DIRETTORE ESECUTIVO ROBERTO LUCIGNANI DIRETTORE SCIENTIFICO BERNARD ANDREAE
COMITATO SCIENTIFICO Paolo Arata Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Alessandra Capodiferro Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Fiorenzo Catalli Funzionario Soprintendenza Archeologica di Roma Paola Chini Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Vincenzo Fiocchi Nicolai Prof. Archeologia Cristiana Univ. Tor Vergata di Roma Gian Luca Gregori Prof. Ordinario di Antichità Romane, ed Epigrafia Latina, Facoltà Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Eugenio La Rocca Prof. Ordinario Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana, Univ. Sapienza di Roma Anna Maria Liberati Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Antonella Magagnini Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Luisa Musso Prof. Archeologia e Storia dell’Arte Greca e Romana e Archeologia delle Provincie Romane, Univ. Roma Tre Silvia Orlandi Prof. associato di Epigrafia Latina presso la Facoltà di Scienze Umanistiche, Univ. Sapienza di Roma Rita Paris Direttore Museo di Palazzo Massimo alle Terme Claudio Parisi Presicce Direttore Musei Archeologici e d’Arte Antica di Roma Capitale Giandomenico Spinola Responsabile Antichità Classiche e Dipartimento di Archeologia Musei Vaticani Lucrezia Ungaro Funzionario Sovraintendenza Roma Capitale Laura Vendittelli Direttore Museo Crypta Balbi CAPO REDATTORE ALESSANDRA CLEMENTI REDAZIONE LAURA BUCCINO - ALBERTO DANTI - GIOVANNA DI GIACOMO LUANA RAGOZZINO - GABRIELE ROMANO DOCUMENTAZIONE FOTOGRAFICA ROBERTO LUCIGNANI TRADUZIONE DANIELA WILLIAMS GRAFICA E IMPAGINAZIONE STUDIOEDESIGN - ROMA WEB MASTER – PUBBLICITA’ MARIA TERESA GARAU REDAZIONE E AMMINISTRAZIONE Via Orazio Antinori, 4 - ROMA
È vietata la riproduzione in alcun modo senza il consenso scritto dell’Associazione Rumon Tiber
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SAN MARTINO AI MON di Giulia Evangelisti
SOMMARIO
NTI
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NAPOLI LE TERME DI VIA TERRACINA
L’AQUILA E IL DRAGONE di Gabriele Romano
di Flavia Piarulli
42 MUSEO ARCHEOLOGICO NAZIONALE DI SARSINA di Stefania Perini
58 NERONE di Alessandra Clementi
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SAN MARTINO AI MONTI
’attuale basilica di San Martino ai Monti insiste su un complesso di edifici, la cui fase più antica risale al III secolo d.C. Le fonti letterarie e archeologiche non aiutano a chiarire l’origine del culto ed il suo sviluppo, ancora incerte sono la precisa funzione degli ambienti sottostanti l’area della basilica e la doppia denominazione del titulus, altrimenti unica nel suo genere.
Nelle due pagine: Facciata della Basilica allo stato attuale A destra: L’abside nella parte posteriore della Basilica Nella pagina accanto in alto: Muro antico in blocchi e laterizi Nella pagina accanto in basso: Interno della Basilica
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Fragmentum Laurentianum, dedicò una basilica “beati Martini” vicino san Silvestro. Nel sinodo del 499, firmano i sacerdoti del titulus Equitii,mentre in quello del 595 vengono ricordati quelli del titulus Sylvestri. Fra il 772 ed il 775, durante il suo pontificato, Adriano I rinnova la basilca di San Silvestro, riparandone il tetto crollato ( L. Pont., I 505) , e restaura “ecclesiam beati Martini sitam iuxta titulum Sylvestri”. Nell’itinerario di Einsiedeln, vengono distintamente nominate le due chiese di Secondo il Liber Pontificalis, la fonte maggiore di informazioni, per quanto riguarda l’evoluzione dell’edificio e della sua denominazione, Silvestro I (314335)avrebbe istituito il titulus, “qui cognominabatur Equitius” (L. Pont., I, 170), facendo in seguito rifermento al titulus Sylvestri (Lib. Pont., I 187), posto “in regione III”, nei pressi delle terme di Traiano. La menzione successiva riguarda l’attività di papa Simmaco (498-514), che erige “a fundamento” la basilica dei santi Silvestro e Martino (L. Pont., I 262) o, secondo quanto riporta il
san Martino e San Sivestro tra Santa Lucia ed il palazzo nei pressi di Santa croce in Gerusalemme. Particolare è il riferimento alla diaconia di Silvestro e Martino, durante il pontificato di Leone III (L. Pont., II 12,41, n.64), poiché tale denominazione, mai comparsa precedentemente, non sarà ulteriormente ricordata, né può essere suffragata da altre fonti. Poiché l’edificio era in rovina nel IX secolo, Sergio II fa ricostruire dalle fondamenta la basilica di Martino, o di Ss. Martino
fatto accenno allo spostamento, confrontando il passo con uno analogo su Santa Prassede, da cui sarebbe direttamente derivato. La struttura attuale è, perciò, quella pertinente ai lavori altomedievali, ancora visibile nelle murature posteriori dell’abside.
Sopra: La basilica in una incisione del XVIII secolo Sotto: Pianta degli ambienti antichi Nella pagina accanto in alto: Vista assonometrica della Basilica Nella pagina accanto in basso: La scala che porta agli ambienti antichi
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e Silvestro,: dubbiosa la collocazione del nuovo edificio, poiché le due versioni del medesimo passo sono discordanti, facendo l’uno riferimento alla costruzione “in alio non longe demutans loco”, tacendo, invece, l’altro (L, Pont., II 93). Secondo Duchesne, la versione più vicina al vero sarebbe quella in cui non viene
L’area archeologica sotterranea si estende a 10 metri sotto la quota della chiesa attuale, verso ovest, e consiste in un edificio a sei vani ( D, E, F, G, H, K). Le volte a crociera sono sorrette da pilastri cruciformi centrali e lungo i muri perimetrali; un ambiente più ad ovest, denominato C, è pertinente ad una fase successiva, ma comunque ascrivibile al medesimo periodo, perciò considerato parte della struttura originale. A nord di C, si sviluppava un cortile (A-B), delimitato in un secondo momento da una parete curva in opera listata, mentre una scala portava ad altri ambienti inferiori oggi interrati. A est, un altro cortile
(M-N) fu in seguito coperto con una volta a botte. Al di sopra, si sarebbero sviluppati due piani ulteriori, distrutti nei lavori degli anni ’30, in quanto pericolanti. A est del complesso, sotto l’attuale basilica, restano sepolti i resti di un altro edificio, di cui il muro P costituisce una facciata. Alla prima fase, corrispondente al momento in cui la struttura venne edificata, appartengono frustuli di affreschi parietali e di mosaici pavimentali in bianco e nero, datati al III secolo d.C. Nel IV secolo, il cortile M-N venne coperto, gli ambienti centrali vennero dotati di bassi muretti in opera listata, poggianti direttamente sul pavimento e appoggiati ai pilastri, la cui funzione di divisori o di sedili può essere solo ipotizzata. Tra il V ed il VI secolo, il muro est di M-N, i pilastri centrali e i tre della parete est dell’edificio principale vennero foderati con una spessa muratura in laterizio, poggiante anch’essa direttamente sul mosaico pavimentale, al solo scopo, sembra, di aumentare la superficie decorabile. Sono riferibili a questo periodo le prime testimonianze di una destinazione al culto cristiano degli ambienti, costituite proprio dagli affreschi evangelici negli ambienti. Sono presenti nove pannelli su registri sovrapposti, con scene della vita di Cristo, di cui sono identificabili solo l’Annunciazione e la Negazione di Pietro, la lunetta del vano K è decorata con una Maiestas Domini. La nicchia della parete sud di F, sotto il pontificato di Simmaco, con un affresco rappresentante un personaggio con la mano destra benedicente e la sinistra velata recante un ogget-
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to, identificato con uno dei titolari della chiesa. Durante i lavori del XVII secolo, eseguiti per opera dei padri Filippini, venne curata la riproduzione dell’opera in mosaico, ma interpretando i soggetti come san Silvestro e la Vergine. Nel IX secolo, l’edificio di cui il muro P costituiva la facciata fu inglobato o distrutto e l’ingresso tamponato; l’ingresso a D fu aperto solo da K e vennero realizzati nuovi affreschi, rispettando la decorazione precedente. In M, sulle nicchie, Vergine fra Sante e Cristo fra Pietro, Paolo,
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Processus e Martinianus, sull’arco verso la sala attigua, Agnello con i sette sigilli fra il Battista, Giovanni Evangelista e altri santi; sulla parete est del vano H, Madonna in trono con bambino e due santi ed in E, la Croce gemmata. Comparando le fonti letterarie e le evidenze archeologiche, l’origine del complesso può dunque individuarsi in epoca romana, con una finalità commerciale: si trattava probabilmente di magazzini, che occupavano ambienti precedentemente connessi alle terme del colle
Oppio, come i mosaici e le decorazioni parietali lasciano supporre: si tende perciò ad escludere le ricostruzioni di Lanciani e Apollonj-Ghetti, secondo cui, i resti attualmente visibili sarebbero pertinenti ad una domus, nella quale, Vielliard e Testini, vedevano la probabile sede del primitivo culto cristiano; la domus ecclesiae, inoltre, sarebbe stata di proprietà di Equitius e, secondo l’uso consueto, nel IV secolo, avrebbe preso il nome del costruttore dell’edificio, papa Silvestro, appunto. Secondo l’ipotesi attuale, i
primi lavori di riadattamento e restauro sono riferibili all’operato di papa Silvestro, che adattò il locale alle esigenze cultuali. In quest’epoca sarebbe esistito un unico titulus, con il nome del donatore e del costruttore, alternativamente ricordati dal Liber Pontificalis, in virtù proprio di
Sopra: Ingresso agli ambienti del complesso antico, in primo piano reperti rinvenuti durante lo scavo In alto a destra: Particolare di affresco parietale A destra: Vano E, parete est. Ai lati i due pilastri centrali della sala, avvolti dalle guaine murarie posteriori
questa nota duplicità, oppure, due tituli distinti, in due edifici diversi, ma contigui. La prima ricostruzione non presenterebbe dunque problemi nell’attribuzione, poiché, semplicemente, un unico edificio di culto avrebbe avuto una duplice consacrazione e l’una avrebbe prevalso,
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Nella pagina accanto: Particolare del vano E Sopra: Particolare di affresco parietale con, al centro, la Madonna ed il Bambino sul trono A destra: Particolare dell’ambiente K, parete est
nel tempo, sull’altra. Tuttavia, ciò non concorda con quanto riportato nei passi successivi del Liber Pontificalis. Il fatto che nel sinodo del 499 venga ricordato il clero del titulus Equitii ed in quello del 595, il titulus Sylvestri potrebbe far supporre che, dal VI secolo, il primo scompaia, prevalendo la seconda denominazione, ma sembra più possibile ipotizzare (Cecchelli) che, ancora nel VI e nel VII secolo, esistessero due strutture indipendenti, poiché, come precedentemente riportato, iuxta sanctum Silvestrem, papa Simmaco fece edificare la chiesa di san Martino (che non viene definita titulus) e l’itinerario di Einsiedeln fa riferimento alle due chiese di Silvestro e Martino
A sinistra: Ambiente K. Decorazione della lunetta della parete est: Cristo con Pietro e Paolo e un Santo che offre una carona Sotto: Particolare dell’ambiente N Nella pagina accanto: Ambiente A-B. Rampa di accesso ai vani sotterranei
separatamente, restaurate e rinnovate poi da Adriano I nell’VIII secolo. Appare comunque certo che dal VI secolo non si abbia più menzione diretta del titulus Equitii. La menzione della diaconia di Leone III crea problemi per l’attribuzione delle funzioni dell’area archeologica, non essendo rilevabile in altre fonti: essa sarebbe stata dedicata a San Martino, in posizione attigua al titolo di san Silvestro, sfruttando, secondo la consuetudine, gli horrea romani; la sua fondazione è stata abbassata al pontificato di Simmaco dalla Cecchelli, in base ai confronti con santa Maria in via Lata e allo studio delle murature. I due culti di Silvestro e Martino confluirono poi nell’unica chiesa fondata da Sergio II, annessa al monastero. I BOAGA E., Il titolo di Equizio e la basilica di san Martino ai Monti, Roma 1988 SERRA S., Titulus Equitii et Sylvestri, in Lexicon Topographicum Urbis Romae, IV, pp.325-328 TESTINI P., Archeologia Cristiana, Bari 1980 KRAURHEIMER III, 87-124
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LE TERME DI VIA TERRACINA
“mens sana in corpore sano” così Giovenale esordiva nella satira X nella sua invettiva contro la bramosia di potere e gli antichi romani compresero appieno questo messaggio. La parola “terme” deriva dal greco thèrmai (= sorgenti calde), ma la realtà che rappresenta è specificatamente romana: qui, nei più o meno grandiosi complessi dei bagni pubblici cittadini, ci si incontrava, si discuteva,
Nelle due pagine: Vista dall’esterno degli ambienti termali A destra: Veduta dei resti dell’apoditerium e del frigidarium
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ci si rilassava e, perché no, si intrecciavano amori essendo unica la piscina per gli uomini e le donne, almeno fino a quando i Cristiani non ebbero tanto potere da poter imporre la separazione dei sessi. Recarsi alle terme non era solo uno dei principali svaghi nell’antica Roma: i romani, infatti, pur vivendo in una società avanzatissima nei sistemi idraulici, non avevano l’acqua in casa e la presenza di un luogo in cui l’igiene era alla portata delle
masse, diventava una vera e propria necessità tanto che l’ingresso era gratuito e lo Stato le finanziava come un servizio sociale. Le terme divenivano così un luogo dotato oltre che di palestre, di portici, giardini, fontane, ninfei, di spazi attrezzati per giochi e spettacoli, di auditori, sale d’esposizione, di ambienti di soggiorno e di riposo in cui rigenerare il corpo e lo spirito in una dimensione lontana dalle preoccupazioni e dalla frenesia della vita quotidiana. Fu questo uno
dei più bei regali che il regime imperiale abbia fatto, non solo all’arte, ma alla civiltà perché tutti potevano usufruire di questo servizio, indipendentemente dal ceto sociale. I primi impianti, risalenti già al III sec a.C. ebbero grande successo e, in poco tempo, si moltiplicarono divenendo sempre più comodi e attrezzati. I bagni potevano essere: pubblici, diretti da un privato a scopo di lucro (balnea meritoria); privati, case particolari con una o più stanze per il bagno e frequentate da una clientela ristretta che voleva evitare la confusione degli stabilimenti maggiori; costruiti da ricchi cittadini e più tardi dagli imperatori come dono alla città (le grandi thermae pubbliche). I principi dei bagni erano gli stessi dell’odierna idroterapia, basati sulla brusca alternanza fra caldo e freddo dopo una abbondante sudorazione, per agire beneficamente sul ricambio e sulla circolazione, favorendo la disintossicazione e la riattivazione dell’organismo. Finito il bagno, si sottoponeva di nuovo il corpo al massaggio con olio. Non solo nelle grandi città esistevano luoghi deputati alla cura corporis, ma anche nei piccoli centri e in punti di snodo dei principali assi viari in cui sorgevano stationes e mansiones, ovvero luoghi di sosta e di ristoro attrezzati con lo stesso criterio delle nostre “stazioni di servizio”. È probabilmente quest’ultimo il caso delle terme di via Terracina, collocate all’incrocio tra l’antica via Antiniana (o per colles) che, valicando il Vomero, collegava Neapolis con Puteoli e la via che proseguiva dalla Crypta Neapolitana (la galleria che perforava la collina di Posillipo per mettere direttamente in comunicazione Mergellina con Fuorigrotta e per
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collegare più rapidamente Napoli con Pozzuoli, lunga 705 mt e nata alla fine del I sec a.C. dal genio dell’architetto Lucius Cocceius Aucto). Proprio qui, lungo il tratto di Via Terracina che si stacca a D al termine di Via Marconi, durante i lavori per la costruzione della Mostra d’Oltremare, nel 1939 è venuto alla luce un ben conservato edificio termale di un ipotetico luogo di sosta (statio), un ritrovamento che suscitò grande fervore nell’ottica della costruzione del grande impianto fieristico. Fu l’archeologo Amedeo Maiuri ad
interessarsi del recupero storicoarcheologico dell’area e ad occuparsi del restauro degli ambienti termali, non completamente esplorati e in parte distrutti in seguito all’apertura della moderna via Terracina, come le strutture del lato NO dell’impianto che sono andate perdute. L’impianto, databile nella sua forma originaria alla prima metà del II sec. d.C., si articolava su almeno due piani e risulta costruito prevalentemente in opera reticolata, vittata e laterizia. Nel corso del tempo, il complesso ha subito diversi interventi che ne hanno modificato lo spazio e reso illeggibili percorsi in antico abituali. In origine, l’ingresso doveva aprirsi direttamente in una sala che fungeva da vestibolo (sala E) e tutto il corpo a NE del nucleo originario non esisteva ancora: oggi, infatti, l’ingresso dell’edificio risulta essere il corridoio A e di epoca altrettanto posteriore appaiono gli ambienti B, disposti sulla sua destra (di difficile identificazione ma che costituivano probabilmente delle tabernae), e la latrina C che si apre a emiciclo alla fine del corridoio. La precede una piccola anticamera che conserva ancora l’antica volta a botte e ciò che resta della vasca per le abluzioni. La latrina, illuminata da cinque finestre che si aprivano nella parete semicircolare, era probabilmente coperta da una semicupola e adornata di sedili in pietra o in marmo dei quali restano i fori di supporto disposti a distanze uguali. Le labili tracce di colore sulle pareti attestano l’esistenza di antiche pitture che il tempo e la mal conservazione del sito hanno praticamente cancellato. Ancora visibile resta però la decorazione musiva del pavimento le cui tessere bianche e nere disegnano due delfini che nuotano fra onde marine nella parte centrale e una animale marino fantastico, forse
un grifo marino, in quella inferiore. Poco distante dal muro si riconosce una canaletta di marmo nella quale scorreva l’acqua usata per l’igiene personale e proveniente dalla cisterna D. Il percorso continua a sinistra del corridoio B con l’ingresso nel vestibolo E, un ambiente a pianta quadrata che si serviva dell’adiacente sala rettangolare F come apodyterium (lo spogliatoio nel quale l’utente riponeva i vestiti ) dal quale si aveva accesso agli ambienti termali veri e propri. La sala E in funzione di vestibolo era originariamente l’in-
Nella pagina accanto in alto: Pianta del complesso termale di Via Terracina Nella pagina accanto in basso: veduta dall’alto del frigidarium In basso: Panoramica delle strutture del complesso termale
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Nella pagina accanto: Il pavimento musivo del frigidarium A destra: Vani di passaggio con scale che portavano al frigidarium In basso: Sullo sfondo ambienti caldi del complesso termale
gresso dell’impianto termale e solo successivamente venne adibita ad apodyterium. Meglio conservato rispetto a quello della latrina è il mosaico figurato a tessere bianche e nere che ricopre il pavimento con il quale è possibile il confronto con il gruppo rappresentato nel calidarium delle contemporanee terme di Buticosus a Ostia. Vi si trova rappresentata, all’interno di una doppia riquadratura con cornice intermedia piuttosto ampia, una nereide seduta sulla coda di un giovane tritone; gli angoli superiori sono ornati da due amorini, l’angolo inferiore sinistro da un delfino. Sopravvivono anche le tracce dell’antica zoccolatura e delle lastre di marmo che rivestivano le pareti. Il frequentatore romano delle terme poteva ora scegliere il suo percorso che prevedeva diverse soste nel settore SE del complesso ovvero negli ambienti caldi a temperatura variata G, H, I, L. Realizzati tutti in opera laterizia, tranne la sala G in opera reticolata che con ogni probabilità si identificava con il solarium, avevano forme e dimensioni differenti, erano sfalsati fra di loro per poter meglio sfruttare il calore e fungevano da tepidaria con temperature decrescenti in base alla loro distanza dalla fonte di calore nelle quali avveniva la traspirazione del corpo e la preparazione dello stesso alle temperature più elevate. Queste, infatti, terminavano nel calidarium (M), la stanza più riscaldata e più vicina al praefurnium
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(O), la cui bocca è ancora visibile alle spalle di quanto resta della vasca della sala M. Questo comprendeva, oltre al forno vero e proprio, anche un vano di servizio (P), utilizzato forse come deposito per la legna. Dal praefurnium si aveva anche accesso al corridoio di servizio Q che, correndo intorno alla zona calda sul versante est, era adoperato per la manutenzione degli hypocausta e per l’alimentazione dei forni secondari. Secondo le indicazioni di Vitruvio il calidarium, orientato a S o SO per poter meglio utilizzare il calore del sole, aveva una forma rettangolare ed era costituito da due spazi: uno che conteneva l’alveus, la vasca di immersione della quale sopravvive nelle terme di via terracina parte del vano in muratura che la ospitava, l’altro il labrum, conca rotonda al centro della quale zampillava dell’acqua per le abluzioni posta in genere nell’abside e qui andata perduta. Nel sito l’ambiente M si presenta con la tipica pianta rettangolare
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con una sola abside sul lato NE. La sala riceveva luce da tre grandi finestre disposte sulla parete SO. Il crollo parziale delle pavimentazioni e la caduta dei rivestimenti parietali hanno messo pienamente a nudo il sistema di riscaldamento artificiale di questi ambienti mediante la circolazione di aria calda nelle intercapedini laterali, costituite da tubuli in terracotta, e in quelle al di sotto del pavimento (hypocaustum). La combustione della legna determinava il riscaldamento dell’aria circostante che veniva immessa nelle intercapedini, alle quali essa cedeva il proprio calore che era così trasmesso agli ambienti. Attraverso un vano (N), in cui la temperatura si abbassava progressivamente per abituare il corpo alle temperature più basse, si giunge nel frigidarium R, posto al termine del percorso. Costituisce la stanza centrale del complesso termale, a pianta quadrangolare e come suggerisce Vitruvio risulta essere l’ambiente più vasto al cui interno si tro-
vavano due vasche rivestite in marmo per il bagno freddo disposte sui lati SE (quella semicircolare) e NO (quella rettangolare) della sala. Ben conservato appare il mosaico del pavimento realizzato rigorosamente con tessere bianche e nere e che mostra un corteo di animali fantastici, cavalcati o seguiti da figure antropomorfe di non facile lettura poiché furono modificate più volte nel tempo. La scena corre lungo i quattro lati della sala: 1)una figura alata che insegue una pantera marina porgendogli un oggetto (NE); 2) un Poseidon seduto su un grifo marino (NO); La figura fu oggetto di un rifacimento nella parte superiore: la figura della Nereide fu modificata all’altezza delle ascelle, inserendo il volto e il braccio destro con tridente di un Poseidon, i quali però risultano più piccoli e non armonici rispetto alla figura primitiva. 3) un amorino con la corporatura di un efebo che cavalca un ippocampo (SO) oggetto di un intervento su una figura origina-
ria di Nereide, interrompendola all’altezza della vita e sostituendovi, da quel punto, i tratti di Imene. La figura della Nereide su ippocampo si può trovare a Ostia nelle Terme di Nettuno (in posizione speculare) e nelle Terme Marittime. 4)una divinità seduta su un toro marino (SE) oggetto di un rifacimento tardo che rappresentava in origine una Nereide seduta a ritroso su un toro marino, ma gli interventi edili cui si è accennato resero necessario il rifacimento della figura umana, sostituita da una rozza immagine di divinità con tridente ispirata a Poseidon. Lo scarso valore del mosaicista è evidenziato, oltre che dalla posizione sgraziata del personaggio, dal fatto che trascurò di eliminare le gambe della precedente Nereide (le quali sporgono sulla coda dell’animale), nonché la mano sinistra, reggente una briglia. In ogni angolo vi è un delfino. Lungo le pareti del frigidarium vi sono numerose aperture, che probabilmente consentivano di seguire dei percorsi differenziati e personali ma di cui non se ne conosce ancora l’esatta funzione. Il Il frigidarium, si ricongiungeva infine mediante un ingresso tripartito al vestibolo. Le analogie planimetriche più strette le ritroviamo con le terme romane a Velia, le terme del foro di Cuma, le coeve terme del Foro
di Ostia e con quelle di Agnano. Tutti questi impianti presentano oltre che ambienti di decompressione che permettono al corpo di abituarsi gradualmente ad una temperatura differente, un percorso ad anello con collegamento diretto fra frigidarium e calidarium. Un ampio passaggio colonnato fra il vestibolo e il frigidarium è presente, così come nelle terme di Fuorigrotta, anche in quelle di Velia e di Cuma segno di un’unicità stilistica e architettonico-strutturale che abbracciava tutto l’Impero. In quasi tutti gli ambienti del complesso termale erano presenti decorazioni musive a tessere
Nella pagina accanto: Particolare del pavimento musivo del frigidarium raffigurante un cavallo marino Sopra: Particolare del frigidarium Sotto: Particolare del pavimento musivo del frigidarium raffigurante un drago marino Nella pagina seguente in alto: Particolare della latrina Nella pagina seguente in basso: Particolare delle sospensurae Nelle due pagine seguenti: Particolare della scala originale con stucchi e marmi colorati
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bianche con cornice nera ma solo in tre ambienti (vestibolo, frigidarium e latrina)si articolavano motivi figurativi, tutti a soggetto marino. Purtroppo a causa di agenti esterni, umidità e infiltrazioni nel tessuto pavimentale i mosaici non ci sono giunti in condizioni ottimali; per esempio, il mosaico del vestibolo, rinvenuto integro al momento dello scavo si è poi parzialmente disfatto rendendo necessari alcuni interventi di restauro. I soggetti marini risultano essere un tema ricorrente fra i modelli decorativi della prima età imperiale. Quelli di via Terracina sono stati eseguiti nella prima metà del II sec. d.C. e vi sono tuttavia tracce di rifacimenti avve-
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nuti in età più tarda i quali, pur testimoniando una certa continuità nello spirito della decorazione originale, mostrano un netto calo qualitativo. L’analisi dei soggetti risulta facilitata dalla possibilità di confronto con alcuni mosaici di Ostia più o meno coevi e che, in qualche caso, derivano da cartoni estremamente simili. Il tema dominante è l’incontro e le successive nozze di Poseidon e Anfitrite, cui partecipa tutto l’universo marino con i suoi tritoni, nereidi, animali ibridi e delfini. Questo complesso archeologico è, a memoria napoletani, sempre stato chiuso al pubblico e il più delle volte neanche gli abitanti di Fuorigrotta sanno
dell’esistenza a via Terracina di resti pressoché completi di antiche terme romane. Un sito che rimane chiuso dietro alte cancellate che ne rendono impossibile la visibilità lasciandolo in uno stato di semi-abbandono. Gli agenti atmosferici stanno deteriorando il tessuto connettivo dei mosaici, l’azione del tempo corrode le strutture, l’attività edificatrice dell’uomo ha già distrutto parte del complesso termale. Ciò di cui necessita il sito è un urgente restauro conservativo. Qualunque sia il tipo di piano adottato occorre comunque tener presente che un effettivo controllo è possibile solo garantendo nel tempo la regolarità degli interventi. Valorizzare siti archeologici come questo e renderli fruibili al pubblico è possibile ma è necessario coinvolgere le associazioni, le scuole e la cittadinanza con un’azione di sensibilità verso i beni culturali, di promozione e conoscenza per capire il valore del nostro patrimonio archeologico, di quelle che non sono solo macerie ma le testimonianze del nostro passato. I
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L’AQUILA E IL DRAGONE
el Museo di Palazzo Venezia a Roma, la Soprintendenza Speciale per i Beni Archeologici di Roma ha inaugurato, il 19 novembre 2010, la seconda sezione della mostra I due Imperi. L’Aquila e il Dragone, che rimarrà in esposizione fino al 6 febbraio 2011. Più di 400 capolavori italiani e cinesi testimoniano e ricostruiscono la nascita e lo sviluppo di questi due Imperi dell’an-
tichità, attraverso la rievocazione degli aspetti della vita quotidiana, del culto religioso e dell’economia. Questa mostra segue l’anteprima della prima sezione, allestita nel suggestivo
In alto: Testa di moro in marmo “bigio morato” II sec. d. C. Roma, Museo Nazionale Romano, Terme di Diocleziano A destra: Atena, Pegaso e Bellerofonte Intonaco dipinto 48 X 55 cm. Metà del I sec. d. C. Da Pompei
Nella pagina accanto: La splendida Venere di Sinuessa. Museo Archeologico Nazionale di Napoli
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scenario della Curia del Foro Romano (in mostra dall’8 ottobre 2010 al 9 gennaio 2011) che illustra la grandezza politica dei due Imperi. Dieci statue dell’esercito di terracotta del Primo
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Imperatore, rinvenuto alla fine degli anni Settanta del secolo scorso a Xi’an (Shaanxi), e due imponenti animali fantastici di pietra che, posti all’entrata della tomba, preservavano dall’influsso degli spiriti maligni. La mostra ha già raccolto molti e favorevoli consensi nella prima tappa effettuata a Pechino, al Beijing World Art Museum (29 luglio - 4 ottobre 2009), in occasione delle celebrazioni per il 60° Anniversario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese e, successivamente, a Luoyang, nel Luoyang Museum (29 ottobre 2009 - 15 gennaio 2010). In totale sono cinquanta i musei coinvolti, la mostra è curata per l’Italia dal Professor Stefano De Caro, Direttore Generale per le Antichità del Ministero peri i Beni e le Attività Culturali, per la Cina dal Professor Xu Pingfang (responsabile dell’Istituto di Ricerca Archeologica dell’Accademia Cinese di Studi Sociali, Direttore della Società
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Cinese di Archeologia, capo editore del Yanjing Xuebao). Testimonianze di contatti tra i due Imperi le abbiamo da fonti romane soprattutto nel momento del suo massimo splendore, quando assai intenso era il movi-
mento sulle strade e per mare, lungo quelle rotte commerciali conosciute con il nome di via della seta, che erano battute dai mercanti che dal Mediterraneo raggiungevano la Battriana e il Turkestan cinese e viceversa. Plinio il Vecchio riferisce che ogni anno gli affari con l’India, gli arabi e i Cinesi, conosciuti dai Romani con il nome di Seres, costavano almeno 100 milioni di sesterzi (Naturalis Historia VI, 26; XII, 41), pari a circa 200 milioni di euro attuali. Anche da parte cinese sappiamo della conoscenza del popolo romano, infatti un testo cinese noto come Annali degli Han riporta che nel 166 d.C. un’ambasciata inviata dall’imperatore romano An-Tun (Marco Aurelio Antonino) era giunta fino ai confini della Cina. Secondo lo stesso testo, i Romani avrebbero voluto entrare in contatto diretto con i Cinesi, ma erano stati messi in guardia dagli An-hsi (i Parti) che volevano mantenere il controllo esclusivo sulla via della seta. I ritrovamenti archeologici lungo questa via commerciale, tra cui i tessuti egizi e i vetri romani rinvenuti a
Lou Lan e in Honan e altri reperti trovati più lontano, come le monete di Marco Aurelio e Antonino Pio, rinvenute nel Vietnam meridionale a Go Oc Eo, insieme ad altri oggetti, come uno specchio cinese del tardo periodo Han e alcuni manufatti indiani, testimoniano un contatto -seppure mediato e indiretto - fra le due civiltà. Nella mostra di Palazzo Venezia per la prima volta in assoluto si sono messi a confronto i due Imperi più importanti dell’antichità, unendo idealmente l’Occidente e l’Oriente nel periodo che va dal II sec. a.C. al IV sec. d.C. Questa mostra che riunisce l’Impero romano, prima Nella pagina accanto in alto: Oscillum in marmo di diametro 42,5 cm e spessore 3,5 cm I sec. d.C. proveniente da Pompei Nella pagina accanto in basso: Particolare di affresco con volatile. Proveniente da Pompei Sopra: Gruppo di due figure (cosiddetto Oreste ed Elettra) Marmo, altezza 150 cm I sec. a.C.-I sec. d. C. Da Pozzuoli, Museo Archeologico Nazionale di Napoli A destra: Pitture parietali di “Secondo stile pompeiano” I sec. a. C. Boscoreale
repubblicano e poi imperiale, e l’Impero cinese delle dinastie Qin e Han, è il risultato della cooperazione pluriennale tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali della Repubblica Italiana e lo State Administration for Cultural Heritage della Repubblica Popolare Cinese. Questo progetto rappresenta inoltre un tassello importante di una positiva collaborazione tra le due Amministrazioni, sottolineata anche dall’Anno Culturale della Cina. L’accordo stipulato tra i due paesi prevede l’istituzione di una collaborazione pluriennale che darà un forte impulso allo scambio di mostre e collezioni museali, attraverso l’organizzazione e la coproduzione di progetti espositivi. Aspetto essenziale di questa collaboraIn alto: Affresco con serpenti proveniente da Pompei Al centro: Specchio in argento proveniente da Pompei A sinistra: Tesoretto di monete rinvenuto a Pompei Nella pagina accanto in alto: Scaldavivande in bronzo. Da Pompei Nella pagina accanto in basso: Suppellettili in argento. Da Pompei
zione sarà la partecipazione attiva del MiBAC (Ministero per i Beni e le Attività Culturali) al progetto di musealizzazione del nuovo Museo Nazionale della Cina di Piazza Tien nan men che, dopo un lungo e importante intervento di restauro, riaprirà le porte la prossima primavera e sarà caratterizzato da 192.000 mq espositivi, diventando uno dei più grandi musei al mondo. Una collaborazione esclusiva che prevede, inoltre, la realizzazione di un museo statale della cultura italiana, vera e propria vetrina delle civiltà e delle testimonianze storico-artistiche che si sono sviluppate nel territorio della penisola italiana. Allo stesso modo, in uno spirito di reciprocità, l’Italia offre un prestigioso spazio espositivo nelle sale monumentali del Palazzo di Venezia, al fine di ospitare un museo statale della cultura cinese. Nella sezione romana della
mostra di Palazzo Venezia sono ospitati reperti che testimoniano la nascita e la struttura dell’Impero romano. Come documentano gli esemplari esposti, un importante veicolo di trasmissione dell’ideologia e della politica, prima repubblicana e poi imperiale, era costituito dalle immagini e dalle iscrizioni riprodotte sulle monete. A una religiosità dai tratti fortemente
conservatori, ma nello stesso tempo costantemente aperta ad apporti esterni, rinviano alcune delle sculture presenti in mostra come la Venere Pudica del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Particolarmente ricca la sezione con affreschi come Atena, Pegaso e Bellerofonte provenienti da Pompei, e le pitture parietali da Boscoreale. Testimonianza della vita quoti-
Sopra: Veste funeraria in placche di giada del re Jian di Zhongshan (I sec. d. C.) In alto a destra: Supporto per albero delle monete. Terracotta, dinastia Han Orientale Nella pagina accanto in basso: Cassaforte in legno con borchie metalliche
diana è invece l’emblema musivo con pesci dal Museo Nazionale Romano e il mosaico con busto di atleta dai Musei Capitolini, che ben illustra gli svaghi del tempo libero. Nella sezione cinese, la mostra presenta al pubblico una selezione dei tesori più preziosi della millenaria storia della civiltà cinese, alcuni dei quali in Occidente per la prima volta. Manufatti di grande valore stori-
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co e artistico che provengono da 61 tra i più importanti Musei, Istituti di Archeologia e Amministrazioni locali di Beni Culturali di ben diciannove province e città della Repubblica Popolare Cinese. Il periodo preso in considerazione va dal 221 a.C., anno della fondazione dell’Impero da parte della dinastia Qin (221-206 a.C.) alla fine della dinastia Han Orientale, avvenuta nel 220 d.C. Tra i materiali in esposizione vengono presentate splendide giade, lacche, sete, ori, bronzi, terrecotte. Eccezionale per la qualità è l’imponente sarcofago di legno, lacca e giada (cm 108 x 280 x 110) appartenuto a un sovrano dell’antico regno di Chu, rinvenuto a Shizishan nella provincia del Jiangsu (II-I secolo a.C.). Altrettanto mirabile è la veste
funeraria del re Jian di Zhongshan, rinvenuta a Beizhang nella provincia dello Hebei (I secolo d.C.), costituita da migliaia di piastre di giada, di varie dimensioni e diversi spessori, cucite insieme con filo d’oro: a quel tempo si riteneva che la giada preservasse la salma dalla decomposizione, consentendo di raggiungere l’immortalità. Di grande interesse sono anche alcuni drappi funerari di seta, uno dei quali di inestimabile valore (ne esiste solo un altro simile e nessuno dei due era mai uscito, fino ad oggi, dalla Cina). Posto sul sarcofago del figlio del marchese di Dai (II secolo a.C.), il drappo descrive il viaggio dell’anima del defunto verso il Cielo. Colpiscono le dimensioni di questo delicato manufatto a forma di “T” (cm 235 ca. x 141),
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Sopra: Suppellettili in legno e lacca Sotto: Miniatura il legno di carattere funerario Nella pagina accanto: Particolare di testa di cavallo in legno
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la bellezza delle immagini, la straordinaria ricchezza e complessità dei motivi iconografici. Di eccezionale valore è anche il cosiddetto Albero delle monete, in terracotta e bronzo, una sorta di altare al quale venivano recate offerte in denaro per invocare la protezione delle divinità. Tra le ceramiche, si segnalano alcune
riproduzioni di edifici a più piani, tra i quali spicca il modello invetriato di una torre riccamente ornata, alto 216 cm. Le varie sezioni in cui è articolata la mostra si soffermano poi su vari elementi caratterizzanti la vita dei due Imperi. Particolarmente interessante è il commercio lungo la via della seta, formata da quelle rotte commerciali lungo le vie carovaniere che collegavano le capitali dell’Impero Han, le odierne Xi’an e Luoyang, alle coste del Mar Mediterraneo. La seta veniva indicata dai Romani con il sostantivo sericum che deriva dal nome dato alla popolazione dei Seres (‘Cinesi’) che si riteneva abitasse ai confini della Terra e producesse questo pregiato tessuto, la cui manifattura rimaneva sconosciuta ai Romani (soltanto nel Medioevo se ne conobbero i segreti). Ma il pregiato tessuto giungeva, indirettamente, a Roma: infatti la seta lasciava la Cina sotto forma di tributo pagato all’Impero Xiongnu per mantenere la pace lungo i confini, oppure come dono diplomatico
alle popolazioni dei territori occidentali, e solo da qui poi, attraverso la mediazione di queste popolazioni che controllavano i commerci delle vie carovaniere, raggiungeva la destinazione finale. Ma il commercio non era solamente a senso unico e in una sezione della mostra si delineano le esportazioni di Roma verso l’Oriente, caratterizzate da vetro, vino, argento e altri metalli. Oltre che dalle fonti letterarie la vitalità commerciale tra Occidente e Oriente è attestata da ritrovamenti epigrafici e archeologici: tra gli altri, graffiti dei mercanti di Pozzuoli sulle
strade del deserto egiziano orientale; vetri romani e tessuti egizi nel sito di Loulan e nella provincia di Honan in Cina; uno specchio cinese del tardo periodo Han trovato insieme a manufatti indiani e monete romane di Marco Aurelio e Antonino Pio a Go Oc Eo nel Vietnam meridionale. Nella sezione cinese soni esposte opere delle dinastie Qin e Han, cioè del periodo compreso tra 221 a.C. e 220 d.C., che pur provenendo quasi esclusivamente da contesti funerari, testimoniano la vita del popolo cinese. Sono corredi funerari di per-
sone agiate, composti da vasellame, lampade e bruciaprofumi di bronzo, gioielli di giada, considerata pietra dell’immortalità, con cui si facevano anche finiture per spade, ganci per cinture, pendenti e vasellame esclusivo per i più ricchi. Sono attestati anche modelli di edifici che riflettono la complessa tecnica architettonica dell’epoca. Nell’ambito funerario è documentata inoltre la pratica, diffusa a partire dal V secolo a.C., di seppellire statuine di terracotta o di legno in sostituzione di esseri umani. Ad eccezione delle statue dei soldati di terracotta dell’esercito del Primo Imperatore (esposte nella Curia del Foro Romano), le statuette trovate nelle tombe dal periodo Han sono tutte miniature di persone e di animali e modelli di edifici di varia natura. Le sculture erano disposte in fosse di accompagnamento che circondavano le grandi sepolture nobiliari e lo scopo era quello di creare un mondo in miniatura, ordinato ed eterno. Dal I secolo a.C. cominciò a diffondersi un nuovo tipo di tomba, a camera, divisa all’interno in stanze, che riproduceva un edificio vero e proprio. Sulle pareti affreschi, lastre di terracotta o di pietra scolpite in bassorilievo ritraevano attività inerenti alla vita quotidiana e alla posizione sociale del defunto, scene tratte dall’etica confuciana, rituali funebri o esseri soprannaturali dell’aldilà. Fra i temi preferiti la processione o viaggio in carrozza che simboleggiano il viaggio dell’anima del defunto verso l’ultima dimora, rappresentata da un edificio. Nella Cina antica la morte era percepita come passaggio a nuova vita, pertanto venivano officiati riti atti a traghettare l’anima del defunto nell’oltretomba. Alla morte di un uomo si supplicava l’anima di tornare
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A sinistra: Ruota di carro in bronzo In basso: Modello di torre in terracotta invetriata. Dinastia Han Orientale Nella pagina accanto: Drappo funerario in seta decorato con inchiostro e pigmenti. Dinastia Han Occidentale
nel corpo. Poi uno sciamano prendeva l’abito del defunto e volgendosi a nord, punto cardinale della morte, porgendo l’abito all’anima, chiamava tre volte la persona morente implorando l’anima di tornare indietro. Non ricevendo risposta gettava l’abito, che veniva riposto in una scatola prima di essere steso sul corpo del defunto. A questo punto la morte era accettata e avevano inizio i riti funebri. I familiari smettevano le attività quotidiane per occuparsi del corpo del defunto, non più dell’anima. La salma veniva trasferita nella sezione sud della camera mortuaria, punto del sole e della vita; accanto vi riponevano offerte di vino e cibo; poi il figlio maggiore annunciava la morte del padre e parenti e amici porgevano condoglianze alla famiglia, offrendo doni per il defunto. La salma, lavata, era vestita con gli abiti ricevuti in dono ed era avvolta in numerosi strati di tessuto. Poi veniva portata al luogo di sepoltura. Sigillata la bara, si poneva accanto ad essa il drappo funebre fissato a un’asta (mingjing, ‘stendardo con nome’), cui era affidata la funzione di identificare il defunto che, secondo gli antichi manuali sui riti, non era più riconoscibile dopo la morte. Il magnifico drappo funebre a
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forma di T in esposizione non reca il nome, ma il ritratto del defunto, e con le sue dettagliate illustrazioni indica all’anima il percorso da seguire per giungere alla sua destinazione finale: il Cielo. Il dipinto si divide in quattro parti: in basso è raffigurato il mondo sotterraneo, dominato da due grandi pesci e un gigante; segue la rappresentazione di un rito, forse il funerale, che si svolge intorno a grandi vasi; poi il ritratto del defunto, scortato da due servitori, rivolto verso due uomini; infine un portale a forma di due T rovesciate che immette nel mondo celeste, popolato da figure fantastiche e con la raffigurazione del sole e della luna. La giada, considerata la pietra dell’immortalità, era posta in modo simbolico in vari strati sul corpo. Nella tomba erano sistemate piccole sculture realizzate in questa pietra insieme a tessere per costituire vestiti ricamati con filo d’oro. Anche l’interno del sarcofago veniva rivestito di placche e dischi di giada. Tutti questi ornamenti erano riservati esclusivamente ai membri della famiglia imperiale. Un altro materiale pregiato era la lacca, una resina naturale prodotta da piante di Rhus che crescono in Asia orientale e sudorientale. Si estrae incidendo la corteccia degli alberi e poi si fa bollire fino a ottenere la giusta densità. Si ottiene così il colore dell’ambra chiara e viene applicata a strati sottilissimi (fino a trenta per gli oggetti di migliore qualità), stesi uno dopo l’altro a una distanza di tempo sufficiente a consentire la perfetta essiccazione di ciascun velo. Una volta solidificata, la pellicola di lacca rende l’oggetto perfettamente impermeabile all’acqua e resistente agli acidi, permettendone la conservazione nei secoli. Originariamente i supporti più utilizzati erano legno e tessuti,
ma poi si aggiunsero bronzo, terracotta, bambù, cuoio e carta. Le lacche erano destinate alla Corte che ne offriva una parte all’aristocrazia in un sistema di scambio di doni politici e diplomatici. A suggellare il significato di questa importante mostra sono le parole riportate in un testo cinese antico lo Hou Hanshu, in cui è provato che il popolo Han tenesse in grande considerazione Roma, conosciuta come Daqin (‘Grande Qin’): il testo riporta infatti che «i suoi abitanti sono probi, al pari di quelli del nostro Regno di Mezzo: questo è il motivo per cui la loro terra è
detta Daqin» (Hou Hanshu, 118). E una simile descrizione è la prova inconfutabile che i due Imperi debbano collocarsi su un grado paritario di dignità. I
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L
MUSEO ARCHEOLOGICO DI SARSINA
ungo la ridente vallata del Savio, tra le sorgenti del Tevere e quelle del Rubicone, sorge Sarsina, situata nell’ultimo lembo di Romagna, al confine tra Marche e Toscana, città di origini umbre fondata tra il V e il IV secolo a. C. Divenne un importante cen-
In alto a destra: Il Mausoleo di Obulacco (I sec. a.C.) collocato all’interno del Parco delle Rimembranze, all’ingresso del paese, per primo accoglie il visitatore che arriva a Sarsina Nella pagina accanto: L’Obulacco rispetta i canoni architettonici delle tombe a mausoleo: è suddivisa in tre parti , una base, un corpo mediano che come nella maggior parte dei casi ospita una porta come simbolo di passaggio dalla vita alla morte - e una copertura, in questa parte d’Italia a forma di cuspide piramidale
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tro in epoca romana -fu conquistata da Roma, infatti, nel 266 a. C, diventando prima città foederata e poi munipicium- e già nel III secolo governava un ampio territorio al di qua e al di là del crinale appenninico che comprendeva alcune vallate romagnole e l’alto Tevere. Augusto la assegnò alla Regio Sexta, l’Umbria, -e non alla Regio VIII, l’Emilia- riconoscendo alla città di Sarsina quell’unicità e quella tipicità che l’avrebbe sempre contraddistinta nel corso nei secoli, sia da un punto
di vista sociale che culturale. L’economia della città era prevalentemente legata all’agricoltura e alla pastorizia (ricordiamo i famosi formaggi di Sarsina, decantati in particolare da Marziale), unitamente alla lavorazione della lana e delle stoffe. Questo tipo di economia silvana giustifica la presenza in città dei cosiddetti collegia dei dendrofori (i boscaioli), dei muliones (costruttori di strade), dei fabri (i carpentieri) e dei centonari (dal nome di grossi panni in
lana chiamati centoni, utilizzati per spegnere piccoli incendi), una sorta di forma primitiva dei attuali vigili del fuoco, insomma. I collegia erano vere e proprie aggregazioni di arti e mestieri ed avevano grande importanza all’interno della vita pubblica: i membri di uno stesso collegium erano estremamente solidali tra di loro, avevano un proprio rappresentante all’interno della vita sociale e un posto dedicato per la sepoltura all’interno della necropoli. Sarsina, infatti, aveva una propria città dei defunti, situata ad un paio di chilometri dal foro -la struttura urbanistica della città non è cambiata granchè nel corso dei secoli, si muove dalla piazza, situata a pochi metri dall’antico forum, fino al sovrastante colle di Calbano, dove si trova l’arena plautina, sede di rappresentazioni e rassegne teatrali
durante i mesi estivi, muovendosi per centri concentrici-, lungo gli argini del fiume Savio, ovviamente per ragioni logistiche ed igieniche. II Museo Archeologico Nazionale di Sarsina, sorto con lo scopo di raccogliere i reperti e
le testimonianze sempre più numerose disseminate in tutto il tessuto cittadino, ha origine nell’ultimo quarto del XIX secolo. L’allestimento è stato curato dalla Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’Emilia Romagna, seguendo un preciso impianto museale e didattico. Cercherò in queste poche pagine di condurvi con me attraverso un virtuale viaggio all’interno del Museo e della necropoli, per tornare insieme ai fasti e alle suggestioni di quella Sarsina dimenticata. Nelle prime due sale sono raccolte una serie di reperti funerari provenienti dalla necropoli che durante il III secolo, a causa della deviazione del corso del fiume Savio a seguito di un forte terremoto, fu interamente sommersa. Il fango preservò la città dei defunti con il suo contenuto e ce li restituì in condizioni pressocchè ottimali tra il 1927 e il 1930, gli anni della più massiccia campagna di scavi in quella zona. Vi sono raccolte tutte le diverse tipologie di tombe rinvenute nella necropoli cittadina, dalla semplice stele alla tomba a cippo (dall’omonima forma): mi preme menzionare, in particolare, quella di Cetrania Severina, sacerdotessa del culto di Marcana Vera,
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sorella dell’imperatore Traiano Sarsina partecipò attivamente con risorse e mezzi propri alla campagna di conquista della Dacia, la cui base era fissata nel porto di Classe, nei pressi di Ravenna, alle foci del fiume Savio. Quest’ultimo era all’epoca navigabile e permetteva contatti continui con Ravenna e le sue influenze orientali -che riporta su un fianco uno stralcio del testamento della sacerdotessa, la quale lasciò seimila sesterzi, di cui quattromila da spendersi per l’acquisto di olio per tutti i componenti dei collegia dei dendrofori, fabri e centonari, ed i restanti duemila da utilizzarsi per onorare i Mani ogni anno nell’anniversario della sua morte.
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Nella seconda sala, oltre ad un’altra straordinaria ed enigmatica tomba a cippo dedicata a Marcana Vera, che ospita sul fronte un breve carme che ricorda il ciclo delle stagioni e dunque il passare della vita giocato sull’acrostico del nome della defunta, troviamo un esempio di stele-ritratto. Si tratta della sepoltura di Lucius Caesellius Diopanes, con molta probabilità un liberto che conquistò prima della morte la libertà. Volle, infatti, farsi raffigurare sulla propria tomba con gli attributi dell’uomo libero, il volumen e un grosso anello, a testimonianza dell’affrancatura e di un raggiunto prestigio sociale. Sempre nella stessa sala troviamo tombe a tempietto, quali
Nella pagina accanto in alto: Splendido esempio di tomba a cippo dedicata alla sarsinate Marcana Vera Nella pagina accanto in basso: La tomba a ritratto di Lucius Caesellius Diopanes, un liberto che volle farsi raffigurare sul proprio sepolcro con tutti gli attributi dell’uomo libero, ovvero la toga, il volumen e l’anello Nelle due pagine: Il Mausoleo di Petus (I sec. a.C.), il più antico rinvenuto a Sarsina Sotto: Particolare dell’iscrizione
metà del I sec. a.C.), giunta mutila fisicamente ma nella sua interezza per quanto riguarda il testo, recuperato e ricopiato in un codice di epoca umanista. Si tratta si un lascito di una porzione di terreno all’interno della necropoli, sul quale ogni cittadino sarsinate poteva costruirsi la propria tomba. Erano escluse però alcune categorie di persone, tra cui gli auctorateis (cioè coloro che si sono arricchiti con la frode), quei sibi laqueo manu attulissent (i suicidi per impiccagione) ed infine coloro che quequelle di Helvia Arbuscula, su cui è visibile la raffigurazione di una porta, il simbolo principe del passaggio dalla vita alla morte o quella di Antella Prisca (I sec. d. C.), il cui signacolo è inquadrato all’interno di una sofisticata elaborazione architettonica e sul cui frontone possiamo notare la presenza della testa della Gorgone e due leoni accovacciati su teste di capri, ad enfatizzare la sacralità del sepolcro. Lungo il corridoio che separa le prime due sale dalla IV e dalla V, troviamo diversi elementi decorativi e simbolici provenienti dalle tombe della necropoli, tra i quali finte urne cinerarie, fasci littori e pigne. Il reperto più importante di questa sezione è l’iscrizione di Horatius Balbus (I
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Nella pagina accanto: Il mausoleo di Rufus (I sec. a.C.) è il più spettacolare tra quelli conservati all’interno del museo Sopra: Particolare del corpo mediano Sotto: Il grande mosaico raffigurante il trionfo di Dioniso (III sec d.C.) qui ricostruito a parete, ornava il pavimento di un triclinium estivo di una domus dell’antico forum
stum spurcum professi essent, ovvero quelli che svolgevano professioni indegne. La sala IV ospita il primo e più antico esempio di tomba a mausoleo rinvenuto in città (I sec. a.C.). Nel IV secolo a.C. Mausolo, sovrano di Alicarnasso in Asia Minore, si fece costruire per
primo una tomba monumentale, di proporzioni imponenti, dando avvio a quelle tipologie di sepoltura denominate “a mausoleo”, appunto. Il primo mausoleo che incontriamo è quello di Publius Verginius Petus, del quale rimane soltanto la base, sul cui fronte leggiamo l’iscrizione Petus tribunus militum a populo che, insieme agli attributi iconografici dello scudo e della lancia, della sedia curule, del subsellium e del fascio littorio, ci aiutano a comprendere come il defunto avesse avuto un importante passato militare ed una magistratura civile. Accanto al mausoleo di Petus troviamo alcuni blocchi di arenaria, la pietra serena più diffusa nel territorio sarsinate, completamente scavati all’interno e chiusi da grappe in ferro originali. I due blocchi, uno superiore ed uno inferiore, servivano a formare una sorta di sepolcro incavo, all’interno del quale veniva racchiusa l’urna cineraria. I blocchi poi, sigillati dalle grappe, venivano interrati al di sotto
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della tomba, stele, tempietto, ritratto, cippo o mausoleo che fosse. La sala successiva, la V, rappresenta il cammeo del Museo e racchiude il grande mausoleo di Rufus (I sec. a.C.), 4,62 metri di base per un altezza complessiva di 13,35, e il mosaico con il trionfo di Dioniso (III sec. d.C.). Il mausoleo di Rufus è stato magistralmente ricostruito nella sua interezza, integrando ovvia-
mente le parti mancanti con altre ricostruite per garantirne la stabilità e permettere al visitatore di fruirne totalmente, ma immediatamente identificabili. Il monumento si compone di tre parti, una base, un corpo mediano ed una copertura, in questa parte d’Italia a cuspide piramidale. Il podio a dado è decorato con un fregio a menandro e coronato da un fregio dorico a fiori e bucrani. Sul fronte è
In alto a sinistra: L’immagine centrale del mosaico con la raffigurazione di Dioniso Sopra: Parte dei molti riferimenti iconografici ad animali esotici “orientali”
Nella pagina accanto in basso: Una delle quattro teste maschili alate a rappresentare i venti Sotto: Particolare di una baccante A destra: Particolare del mosaico
visibile l’iscrizione di dedica che in origine ricordava quattro persone (le stesse probabilmente raffigurate dalle due statue femminili e due maschili poste nella cella templare del corpo mediano), delle quali soltanto una però effettivamente sepolta all’interno del mausoleo. La parte terminale, a cuspide, è circondata da quattro sfingi, poste ad ideale protezione del sepolcro. Di fronte al mausoleo di Rufus, ricostruito a parete, si trova il mosaico del Trionfo di Dioniso (III secolo d.C.), concepito in origine come pavimento di un triclinium di una domus poco distante dal centro città. Il maestoso mosaico, 8,90 per 6,30 metri, fu realizzato con tessere in marmo e pasta vitrea policrome.
La fascia superiore, decorata con una scena di caccia in bianco e nero, rappresenta con ogni probabilità la soglia di ingresso al triclinium, la sala da pranzo, mentre le tre laterali, prive di decorazione, erano destinate ai triclini dei commensali. Al centro troviamo Dioniso che torna trionfante dall’oriente, laddove aveva esportato la coltivazione della vite, su di una biga trainata da tigri e circondato da Pan ed un satiro. Attorno, sono visibili ninfe, putti, animali esotici particolarmente fantasiosi e, ai lati, quattro teste maschili alate, che rappresentano i quattro venti. La fattezza e la pregevolezza dei materiali ci fanno capire come Sarsina non risentisse affatto della crisi economica del
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pessime condizioni probabilmente dai primi cristiani, i quali le trassero chiaramente fuori dal tempio e le presero a colpi di mazza, con l’intento di distruggere gli idoli pagani. La statua più interessante, divenuta nel tempo il simbolo del museo e di Sarsina, è l’Attis, divinità fanciulla di origine anatolica (ne è simbolo evidente il berretto frigio qui dai lembi sollevati e fermati posteriormente sui capelli ricciuti), connessa col culto dei dendrofori e particolar-
tempo, così come lo stile elegante e raffinato si mostra davvero nella sua unicità. La sala successiva, ospita una sezione interamente dedicata alle divinità orientali. Come già accennato, Sarsina potè godere appieno della vicinanza con la città di Ravenna, favorita dal collegamento garantito dal fiume Savio, tanto da fare proprie stili, influenze e culture di origine orientale. Sarsina aveva, in effetti, un tempio interamente dedicato alle divinità orientali. Esistevano in città addirittura due filoni di culto, uno egizio (Osiride, Iside ed Arpocrate) ed uno frigio-anatolico (Mitra, Cibele ed Attis). Al museo sono visibili statue appartenenti ad entrambi i culti, ma ridotte in
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Nella pagina accanto in alto: Statua raffigurante Serapide appartenente al filone di culto egizio Sotto: Statua acefala raffigurante Cibele, appartenente al filone cultuale frigio-anatolico In basso a sinistra: Particolare di statua raffigurante Iside A destra: Parte di pavimento in cocciopesto con decorazione geometrica a favo In basso a destra: Particolare di pavimento a tessere musive
mente sentito a Sarsina. Il ritmo della figura è decisamente armonico, così come la resa del corpo e dei panneggi. Passando attraverso l’ultima sala del pianterreno, ricca di
reperti provenienti dal foro, resti ed epigrafi attestanti la costruzione della cinta muraria che difendeva l’intera città, non si può non dedicare uno sguardo a due splendide urne cinerarie in
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Nella pagina accanto: La statua simbolo del museo sarsinate, l’Attis, divinità fanciullo dal tipico copricapo frigio Sopra: Tubazioni in piombo (fistulae) per la distribuzione dell’acqua agli edifici pubblici
A destra: Esemplare di vasellame domestico a vernice opaca (I - II sec d.C.) Sotto: Particolare di piatto votivo (linx) in ceramica invetriata decorata con motivi fitoformi
alabastro, racchiuse in una teca in vetro sulla parete di destra. Al primo piano troviamo la ricostruzione di una tomba “alla cappuccina”, proveniente anche in questo caso dalla necropoli, la tipica sepoltura che a partire dall’età di Augusto e fino agli inizi del III secolo andò a soppiantare definitivamente quella a stele. Il signacolo era costituito da un’ anfora, che fuoriusciva dal terreno, mentre le spoglie del defunto venivano interrate e ricoperte da grosse tegole. Accanto alla tomba, così come nelle teche circostanti, troviamo una serie di oggetti di uso quotidiano che andavano a costituire il cosid-
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detto corredo funerario, ovvero quell’insieme di oggetti comuni, domestici che venivano offerti come accompagnamento per la vita ultraterrena. Altri oggetti che troviamo esposti sono i balsamari per contenere le essenze profumate, specchi, spilloni in osso per fissare le acconciature, aghi per cucire, ciotole e vasellame per mescolare le terre colorate, monete utilizzate come obolo per Caronte e lucerne, intese sia come oggetto di uso comune che come simbolo votivo, ovvero come strumento di illuminazio-
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Nella pagina accanto in alto: Ricostruzione di un triclinium Nella pagina accanto in basso: Coppa in vetro policromo
ne del passaggio dalla vita alla morte. Proseguendo nella nostra visita, troviamo porzioni di pavimento di opus signinum (cocciopesto decorato con motivi geometrici e floreali a tessere musive) della tarda età repubblicana (fine del II-I sec. a.C.), tubuli per condutture idriche, mattoni per suspensurae (piccole colonne per il sostegno dei pavimenti riscaldati) e fistulae, tubazioni in piombo per la distribuzione dell’acqua agli edifici pubblici. L’ultima sala si apre con la ricostruzione, ad opera di uno
Sopra: Calice in vetro decorato a losanghe proveniente dall’area della domus che ha restituito il mosaico del trionfo di Dioniso
studio artistico sarsinate tutto al femminile e la consulenza della Soprintendenza per i Beni Archeologici dell’EmiliaRomagna, di un secondo triclinium, di cui ci resta il pavimento a mosaico policromo raffigurante Ercole ebbro sorretto da un satiro ed alcune porzioni dell’originale decorazione parietale. Partendo da questi elementi si è partiti per ricostruire in maniera eccezionalmente fedele all’originale l’intero locale, che oggi si
presenta perfino adornato di veri triclinii in legno, una dispensa ed un gioco da tavolo con lucerna fallica, vasetto per l’olio di ricarica, pinzette per stoppino e tessere in pasta vitrea per segnare i punti. Nelle ultime vetrine segnaliamo la presenza, oltre che di un’interessante coppa in vetro policroma di una straordinaria modernità, anche di una testa femminile con diadema (metà I sec. d.C.), proveniente da un edificio pubblico, con ogni probabilità riconducibile alla famiglia imperiale e, più precisamente, a Livia, la moglie di Augusto. La fierezza e l’eleganza di quel volto resteranno con voi, quando ve ne andrete e porterete con voi gli echi e le suggestioni di un passato glorioso che tra queste mura torna più vivo che mai. I
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NERONE
U
n percorso spettacolare che guiderà i visitatori dell’area archeologica centrale, fino al 18 settembre, attraverso i luoghi che parlano di Nerone, al di là della cupa leggenda che ne ha fatto per secoli il simbolo di tirannia e nefandezze; un lungo
Nelle due pagine: Interno del Tempio di Romolo che ospita uno schermo dove vengono proiettati film inerenti l’imperatore Nerone Nella pagina accanto in alto a destra: Manifesto del film Quo Vadis
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IL TEMPIO DI ROMOLO
Maria Moretti, alla presenza delle curatrici Maria Antonietta Tomei e Rossella Rea, del direttore del Foro Romano e Palatino, Roberto Egidi e di studiosi componenti il comitato scientifico quali Andrea Carandini, Andrea Giardina, Marisa Ranieri Panetta, solo per citarne alcuni. Il percorso della mostra si snoda proprio in quei luoghi che furono teatro della straordinaria e suggestivo trekking archeologico che si apre idealmente dalla Domus Tiberiana, dove Nerone visse da giovanissimo, quando la madre Agrippina sposò Claudio, e dove venne incoronato imperatore, e che si snoda dal cd. Tempio di Romolo al Colosseo, passando per la Curia Iulia al Foro Romano e per il Criptoportico neroniano al Colle Palatino. La mostra dedicata ‘all’immaginifico’ imperatore, che riunisce poco meno di 200 pezzi, è stata inaugurata ad aprile dal sottosegretario ai Beni Culturali, Francesco Giro, e dalla Soprintendente ai Beni Archeologici di Roma, Anna
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LA CURIA trasformazione urbana portata avanti da Nerone negli ultimi quattro anni del suo impero e tocca tutti i luoghi che sono da tempo al centro di attività di scavo sostenute dalla gestione del Commissario straordinario.
Muovendosi dal cuore del Foro si può partire per questo viaggio nel tempo dalla Curia Iulia, dove sono esposti i ritratti marmorei della dinastia giulioclaudia, dipinti e sculture di età moderna che dimostrano l’inte-
resse suscitato nei secoli da questa figura storica ‘complessa e contraddittoria’, come ha ricordato la Moretti. Si prosegue per il Tempio di Romolo, dove un videowall propone un’antologia dei film dedicati alla figura di Nerone, impersonato da grandi attori come Petrolini, Peter Ustinov e Alberto Sordi. Dirigendosi poi verso il Palatino, il Criptoportico neroniano offre un allestimento
A sinistra e in alto al centro: Nelle due foto l’interno della Curia con il nuovo allestimento per la mostra di Nerone Sopra: Ritratto di Nerone rilavorato come Domiziano e poi restaurato come Nerone in età moderna. Roma, Musei Capitolini Sotto: Statua loricata di Nerone Marmo , età neroniana. Bologna, Museo Civico Archeologico
Sopra: Interno della Curia, in primo piano il ritratto di Agrippina Minore. Marmo lunense Roma, Museo dei Fori Imperiali
Sotto: Interno della Curia, panoramica di reperti in marmo, in primo piano la statua loricata di Nerone, a sinistra le statue di Messalina (?) e di principessa claudia (Claudia Ottavia ?)
Nella pagina accanto in alto: Ritratto di imperatrice, (Poppea Sabina ?) marmo etĂ neroniana Roma, Palazzo Massimo alle Terme Nella pagina accanto in basso: Ritratto di Nerone in basalto
dedicato al lusso sfrenato e alla sontuosità delle dimore imperiali. Qui spiccano le decorazioni originali e gli stucchi che rivestivano le volte, e alcune statue recentemente scoperte che svelano tracce di vivaci pigmenti; sempre nel criptoportico sono esposti iscrizioni e rilievi che raccontano le gesta dell’imperatore e l’importanza della propaganda legata al culto imperiale. Nel Museo Palatino affreschi e marmi policromi testimoniano la fastosità della Domus Transitoria (la prima casa di Nerone imperatore, fatta costruire tra il 60 e il 64 d.C.): nei locali dell’Antiquarium per la prima volta viene presentato un video che ne ipotizza la ricostruzione in 3D. Una traccia originaria della pavimentazione è ancora visibile nel secondo livello dell’abitazione che, distrutta dall’incendio del 64, sarà poi inglobata dalla
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IL CRIPTOPORTICO NERONIANO
Domus Aurea. Il video con la ricostruzione virtuale ne documenta tutta la stupefacente bellezza. Un sito di inestimabile pregio, scavato dai Farnese nel Settecento e riportato alla luce dall’architetto e archeologo Giacomo Boni negli anni Venti
con scavi stratigrafici noti e pubblicati, poi chiuso per decenni. Ma, come ha annunciato la Moretti, dopo l’estate, con la messa in sicurezza dei lavori dei solaio realizzato negli anni ‘60, sarà possibile avviare visite guidate per piccoli gruppi di perso-
ne in quel che resta della Domus e nel ninfeo di grande impatto scenografico, articolato in nicchie e ornato di colonnine in marmo colorato. Proseguendo la visita, poco distante, nella Vigna Barberini, si può ammirare dall’alto l’ipotetica ‘Coenatio rotunda’: una ricostruzione virtuale mostra come doveva essere la famosa sala da pranzo girevole raccontata da Svetonio. Con questi passaggi ‘spaziali’ il percorso punta ad offrire una nuova lettura di quell’ambiziosa attività edilizia portata avanti dall’imperatore, illustrata anche dalle recenti scoperte negli edifici neroniani nell’area del
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Nella pagina accanto: Veduta generale del criptoportico Sopra e a destra: Due inquadrature del criptoportico con il nuovo allestimento per la mostra di Nerone
Palatino e quindi, per continuità , presentare al grande pubblico gli scavi condotti nella valle del Colosseo, dal 1986 ad oggi. E’ proprio il II ordine del Colosseo a ospitare la ricostruzione dell’incendio, allestendo
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Nella pagina accanto: Statua in marmo del cd. Britannico. Napoli, Museo Archeologico Nazionale A destra: Statua in marmo di sacerdotessa. Napoli, Museo Archeologico Nazionale Sotto: Capitelli di lesena dalla domus del Gianicolo
quei reperti e materiali che hanno consentito di comprendere la situazione della valle che ospita l’Anfiteatro Flavio il giorno prima di quell’evento disastroso, il giorno stesso (il 18 luglio del 64 d.C.) e poi all’inizio della ricostruzione dell’area. In questa sede si possono anche esaminare i grandiosi programmi edilizi promossi da Nerone, e, a testimoniare, ancora una volta, il lusso e lo sfarzo ricercato dall’imperatore contribuiscono una sezione dedicata alla decorazione architettonica del suo tempo e reperti provenienti dalle ville neroniane di Anzio e Subiaco. Gran finale con la ricostruzione in 3D della Domus Aurea.
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LA DOMUS TRANSITORIA
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L’ANTIQUARIUM PALATINO
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PALATINO VIGNA BARBERINI - LA COENATIO
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IL COLOSSEO
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