YAPpy Birthday! Share your volunteer story!

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Š YAP - Youth Action for Peace - Italia, 2015 Progetto grafico di Lisa Zaytseva


Il concorso “YAPpy Birthday! Share your volunteer story!” è stato organizzato in occasione del 45° anniversario dell'associazione di volontariato internazionale YAP - Youth Action for Peace. E' stato pensato per festeggiare insieme ai nostri volontari tutti questi anni di attività: una storia così lunga e così ricca di esperienze, conquiste, soddisfazioni non sarebbe mai potuta esistere senza l'inestimabile aiuto e sostegno dei volontari che da 45 anni scelgono di donare il loro impegno, la passione, le energie positive e le loro capacità ai progetti di volontariato che propone YAP Italia. Facciamo volontariato perché ci piace conoscere persone nuove e crescere insieme a loro, scoprire realtà diverse dalla nostra e farne parte, sognare un mondo migliore e dare il nostro contributo a renderlo tale. Raccontiamo tutto ciò che abbiamo vissuto durante un progetto di volontariato perché dalla condivisione nasce il coinvolgimento e perché così contagiamo le altre persone con il nostro spirito di solidarietà, la nostra voglia di fare e di metterci in gioco. Non pretendiamo di cambiare il mondo ma crediamo che ogni volontario lasci un segno di cambiamento nelle persone con le quali ha condiviso il suo percorso e che quindi ogni azione di volontariato abbia un impatto importante. Il presente catalogo raccoglie le foto, i racconti e i link sui video, fatti dai YAPpy volontari che sono partiti per i campi di volontariato, progetti a medio termine e scambi giovanili nel 2015. Al concorso hanno partecipato 32 volontari inviando complessivamente 63 foto, 8 racconti e 3 video. I vincitori del concorso hanno ricevuto come premio le iscrizioni gratuite ai progetti di volontariato 2016 e quindi ci auguriamo di poter presto condividere le loro testimonianze nuove. I. La migliore fotografia del progetto di volontariato 1° premio. Gioia Bano, volontaria in Repubblica Ceca 2°premio. Margherita Bini, volontaria in Islanda 3° premio. Alessandro Ferrari, volontario in India II. Il miglior racconto del progetto di volontariato 1° premio. Marius Cadar, volontario in Scozia. 2° premio. Sofia Muschio, volontaria in Francia 3° premio: a pari merito Anna Piccolo, volontaria in Germania, e Asia Charles, volontaria in Francia III. Il miglior video del progetto di volontariato 1° premio. Francesca Pesci, volontaria in Spagna. 2° premio. Valeria Codognotto, partecipante dello scambio giovanile in Francia 3° premio. Arianna Frascarelli, volontaria in Marocco




VALERIA CODOGNOTTO. SCAMBIO GIOVANILE "MELTING POTES MIGRATIONS" A Vaunières ci sono arrivata un po' per caso. Ma un caso fortunatissimo. Nelle prime sere calde di maggio, dopo intere giornate in biblioteca tra ragionamenti e risate con gli amici migliori, a un passo dalla laurea, mi concentravo sulla direzione da darmi dopo aver indossato la corona d'alloro per la prima volta. Così è arrivata l'opportunità di fare delle „vacanze intelligenti“. Tre settimane, venti ragazzi da Italia, Belgio, Francia ed Estonia, un progetto sulle migrazioni, le tende, le Alpi francesi e un festival finale. Perché no? Il paese con la mia lingua preferita, la natura estrema che non conosco, nuove persone da tutta Europa e un dibattito attualissimo e stimolante. Di corsa a preparare CV e una colorata lettera di motivazione! Dopo qualche ora arriva la conferma.. si parte! Liste con le cose da comprare (su Google Maps Vaunières è un puntino in mezzo al verde, quindi niente „civiltà“, bisogna portare tutto!), valigie che scoppiano e un lungo itinerario di viaggio. Dopo un primo giorno di tragitto arrivo nell'elegante Torino, dove posso fare una passeggiata per le vie pedonali del centro prima di andare in albergo. Ultima notte in un letto vero! Riparto il mattino dopo e sul treno da Chambéry a Lus-la-Croix-Haute conosco Valentina e Gaia, che sono partite quella mattina da Milano. Sorridenti e alla mano fin dal primo momento, si instaura giù un rapporto che è diventato bello solido molto in fretta. Alla stazione troviamo Clémence, una ragazza minuta e taciturna che ci porta a Vaunières su di un furgoncino che cigola sfrecciando su una stradina stretta e sterrata. Ed ecco il villaggio! Quattro o cinque case, un teatro all'aperto, tavoli di legno per mangiare assieme, un campeggio e Toones, il cane più vecchio di Vaunières. Ci appropriamo subito della nostra nuova casa per tre settimane; basse tende da due persone in cui cerchiamo di creare un ambiente confortevole. Conosciamo Lisa dalla Germania, Laura e Benjamin dalla Francia, che insieme a Clémence ci guideranno in questa nuova avventura. Ma finalmente, tra quella sera e i giorni seguenti, incontriamo i nostri compagni di avventura. Ecco Adile, Maïte, Collyns, Souliman, Omar, Lina-Maï, Émilie, Sebastien, Matthieu, Charline, Kerli, Koite, Olja, Francesca e Michela! Già dal primo impatto è evidente la diversità di carattere, di cultura, di lingua e di motivazione, ma fin da subito si crea una bellissima armonia di gruppo. Ci cominciamo a scoprire l'un l'altro piano piano; ognuno dondola a modo suo e con il suo tempo, cercando di stabilire un equilibrio con gli altri. Così comincia la prima settimana, in cui mettiamo un po' d'ordine tra le idee sulle migrazioni. Ogni mattina ci troviamo alle 8.30 davanti all'auberge per il point matin, il momento in cui ci scambiamo ogni tipo di informazione e in cui ognuno può proporre un'attività per la giornata, in maniera estremamente libera. Poi gli abitanti del villaggio si distribuiscono nei vari chantiers (cantieri) che al momento sono l'isolamento di una casa, la ristrutturazione di una facciata, la costruzione di una passerella per le carrozzine e naturalmente la cucina. Noi però abbiamo in programma


delle attività un po' diverse, dato che siamo il gruppo che si dovrà occupare più degli altri della preparazione del festival del 22 agosto. La maggior parte degli ateliers a cui partecipiamo portano sull'interculturalità e ci fanno riflettere e discutere sulle differenze tra culture e modi di vita, un po' quello che stiamo sperimentando lì a Vaunières. Così ognuno sceglie una foto che per lui rappresenta le migrazioni, costruiamo insieme una nuova cultura con le sue regole che qualcuno da un altro gruppo dovrà sperimentare, ci ritroviamo confusi e seduti in cerchio nella taverna buia per simulare la cultura „albatros“ e corriamo per il villaggio per darci la carica giusta prima di iniziare. E ancora ci mettiamo nella pelle di migranti che arrivano in Francia scappando da situazioni inumane, poi siamo di nuovo noi a raccontare la nostra esperienza di migrazione, poi siamo componenti di un consiglio comunale di una città inventata pronti a difendere le nostre idee. Le pile si ricaricano a metà giornata con il pranzo preparato dalla “squadra cucina” sotto la guida di Felicitas, una ragazza tedesca ma poliglotta che sembra uscita da un mondo fatato. Il momento dei pasti è molto importante: lo scopo non è solo catapultarsi al tavolo del buffet dove stanno verdure, piatti dal mondo intero, frutta e dolci, ma soprattutto conoscere gli altri abitanti del villaggio che, data la peculiarità del nostro progetto, non abbiamo l'occasione di incontrare troppo spesso. Tutto ciò è possibile grazie anche alla proposta di Patrick, un ragazzo simpatico ed esuberante in servizio civile che lancia lo speed mealing: ad ogni portata del buffet si cambia tavolo e commensali. Così possiamo conoscere Louis e Javer, due simpatici spagnoli e habitués delle estati di Vaunières, una coppia di musicisti francesi in viaggio perenne con un asino che li aiuta a trasportare ciò che serve, i componenti dei campi di lavoro internazionali, gente di passaggio, curiosi, un gruppo di adulti con leggeri ritardi mentali che si cimenta con creatività a lavorare pietra e sabbia. A Vaunières può fermarsi chiunque: il patto è contribuire alla vita del villaggio. Dopo la frutta e il dessert, ci si ritrova tutti in coda all'Auto-Wash, una struttura in legno che contiene delle bacinelle in cui ognuno lava il suo piatto, il suo bicchiere e le sue posate. Una soluzione rapida ed efficace per ridurre il lavoro della squadra iscritta per il lavaggio piatti. Ogni settimana, infatti, ognuno si iscrive almeno due volte nel calendario dei compiti da svolgere per la comunità: lavaggio pentole, pulizia degli spazi comuni, immondizie eccetera. Ogni piccolo compito è occasione di incontro e scambio, ogni giorno si torna in tenda con molte informazioni in più rispetto a quando ci si sveglia. Così tra i nostri ateliers e dibattiti, passeggiate in montagna, sieste musicali, discese al fiume per fare la “lavatrice”, lezioni di zumba e interattivi spettacoli teatrali della sera, la prima settimana passa in fretta. Durante il week end ci immergiamo nella natura, partecipiamo agli incantevoli festival dei villaggi vicini e visitiamo qualche cittadina. Le due settimane che seguono sono molto intense: adesso siamo proprio noi a dover ideare dei workshop per i visitatori del festival e proporre attività e decorazioni. Le prime idee e i primi gruppi cominciano a formarsi: ci saranno ateliers di ombre cinesi, di comunicazione e lingue straniere, quiz itineranti di cultura generale, poesie sulle scalinate, i continenti che galleggiano nella fontana e tanto altro ancora. Mano a pennelli e seghetti e dal niente nascono delle bellissime proposte. L'uno con l'altro ci aiutiamo a trovare quello che serve per realizzare le nostre idee, ed ecco che anche costruire un mappamondo gigante e colorato in mezzo a un bosco diventa possibile. Piano piano si avvicina il giorno del festival.. È finalmente sabato! Tutto è pronto, i visitatori e le associazioni con i loro stand non tardano ad arrivare. Per fortuna splende il sole e la temperatura è ideale: il villaggio è pieno di persone, idee


e colori. In ogni angolo succede qualcosa che vale la pena di sperimentare. La sera si assaggiano riso e dahl, tacos e dolci dal mondo e si gusta la birra “Vaunièrina”, poi il teatro si accende con dj e gruppi musicali, insomma, un successo! Il giorno seguente abitanti e visitatori si svegliano tardi, stanchi dai balli fino a notte fonda nonostante un breve temporale. Il villaggio va messo in ordine, e vanno messe in ordine anche le nostre tende e le valigie.. sono già passate tre settimane! Lunedì il momento dei saluti è parecchio difficile, lacrime e abbracci sinceri testimoniano amicizie speciali, nate in pochissimo tempo ma molto profonde, forse a causa del contesto particolare in cui ci trovavamo. Solo qualche settimana dopo, dal Portogallo dove sto cominciando una nuova vita e un servizio volontario europeo, riesco ad avere il tempo di realizzare quanto Vaunières è stata intensa e quanto mi ha cambiata. Sul momento forse non mi era così chiaro, essendo sempre impegnata a gestire la vita di comunità e tutte le sue facce, le notti in tenda e gli insetti in bagno. A Vaunières l'atmosfera è bizzarra: il tempo scorre lento durante le giornate ma molto veloce sul lungo periodo, non c'è né internet né rete, si torna alla dimensione semplice dei rapporti umani, del doversela cavare con poco, di inventare il tempo con creatività, tutti insieme. Quando ripenso al villaggio e a tutta quella meravigliosa diversità di persone che ho conosciuto penso a una casa, un posto dove essere liberi e propositivi, un posto dove ho vissuto tantissime cose in pochissimo tempo, un posto di cui mi porterò dietro tutto il positivo ma anche le cose che mi hanno fatto paura e che mi hanno fatto crescere. A Vaunières l'atmosfera è sospesa, è la natura a dettare i ritmi e i tempi, ma ogni momento è diverso dagli altri perché dipende tutto da chi lo compone e da cosa si inventa, da come reagisce agli stimoli e da come si adatta. A Vaunières l'atmosfera è bizzarra e sospesa, lenta e frizzante. Ed è casa.






MARIUS CADAR. CAMPO DI VOLONTARIATO IN SCOZIA Erano le 5 di mattina. L'autobus correva lungo la strada, avevamo appena oltrepassato il confine. Il verde delle colline già ci circondava lì nell'autostrada. In quel momento mi sentivo come in quel film nel quale quel medico scozzese lasciò tutto per andare in Africa, in Uganda, nell'ignoto. Peccato che non ero in Africa ma nella terra che aveva abbandonato, nè tanto meno ero un medico ma solo uno studente in cerca della sua strada. Glasgow mi diede il benvenuto alla sua maniera: con la pioggia. Scesi dall'autobus ognuno per la sua strada e io, beh io mi sentivo spaesato. Non mi aspettavo tutto quel freddo, era estate in fin dei conti. Girare per una città con lo zaino in spalla non è mai facile, è straziante soprattutto se quello zaino rappresenta il proprio armadio per due settimane. La città a quell'ora era ancora addormentata, le vie vuote e impregnate da quello strano odore di umido unito al fumo. Io e Jerome, il ragazzo belga che avevo incontrato il giorno prima a Londra, eravamo soli per strada. Girammo per il centro, vedemmo tutto ciò che potemmo in quelle condizioni e poi entrammo nel museo d'arte moderna. Dopo aver ammirato, con i nostri evidenti limiti, le opere esposte, ci addormentammo davanti a quel magnifico film artistico che proiettavano al piano terra, mai sedia fu più deliziosa. Alle 14 ci dovevamo vedere alla stazione degli autobus. La vidi in lontananza e non ci volevo credere, ma era proprio lei, Bex, la nostra campleader. Pantaloncini corti, t-shirt dei Lonely Toones, sandali da frate francescano, il primo pensiero che ebbi fu "beh, forse sono io quello sbagliato". L'incontro con gli altri ragazzi è stato imbarazzante. Non ci si conosce, l'inglese è per alcuni un mezzo non proprio confortevole per esprimersi ed ecco il perché dei lunghi silenzi. L'autobus ci portò a vedere posti magnifici, il verde delle colline, i ruscelli sboccanti da ogni parte, le valli, i vari Loch Lomond e Loch Fyne, tutto era straordinario, uscito da una fiaba e poi la sorpresa, ad avvalorare la mia tesi, il castello. Eh beh, ero proprio in una fiaba... L'idilliaco paesaggio fu però subito annichilito dalla realtà dei fatti, il museo non era un paradiso. Ci accolse Bob, il direttore, insieme a Melanie, l'altra campleader. Faceva freddo, anche se era appena uscito il sole. Girandomi intorno non c'era nulla, solo mucche che pascolavano in lontananza, verdi colline, boschi, prati e il nostro museo. Quando entrammo in quella che sarebbe stata la nostra casa per le successive due settimane volevo scappare. Letti di legno degli antichi contadini delle Highlands senza materassi, ci dissero che dovevamo cominciare a fare il fuoco, altrimenti di notte saremmo morti di freddo. Ridevo, non sapevo che fare. Quella situazione era talmente tanto assurda che non poteva essere vera, eppure era così. Alla notizia che si poteva fare la doccia solo ogni due giorni per mancanza di acqua calda cominciai a ridere nuovamente. Quando ci dissero che anche con la pioggia bisognava lavorare mi venne ancora più da ridere, per non parlare di quando vidi la cucina o la toilette (la natura ovviamente). Ridevo. Era tutto quello che desideravo...


I miei compagni di campo erano tutti un po' timidi all'inizio, erano quasi tutti alla prima esperienza, non io che l'avevo già provata l'anno prima e quindi mi offrii subito per le varie faccende, per dare una mano. La mancanza di energia elettrica nella casa e l'uso di lampade ad olio non creava grandi disagi, parlavamo di più, condividevamo più cose. Il giorno dopo vedemmo il museo. Costruito come Township medioevale, Auchindrain fu abitato fino agli anni '60 del Novecento. Il terreno era povero, il tempo non permetteva molte colture. Gli uomini allevavano le tipiche "cows" scozzesi, mentre le donne lavoravano la lana e accudivano i figli. Mi proiettai più volte in quel mondo fatto di Mac e Mick, di leggende e paure e devo confessare che non mi sarebbe dispiaciuto vivere nella loro tranquillità. Subito dopo il sostanzioso pranzo costituito da mezzo piatto di zuppa andammo a fare la prima passeggiata per il bosco, se non altro servì a conoscerci meglio e sì, anche a bagnarsi un po', ma questo fa parte del gioco. Il primo giorno di lavoro fu estenuante, ben 5 ore a scavare e pulire canali in preparazione al ponte che avremmo dovuto costruire sul ruscello vicino casa. Piano piano però ci si fece l'abitudine, già al secondo giorno di lavoro i dolori non si sentivano più. Conoscemmo Kathie, la responsabile dei lavori al museo, ci fece i complimenti per la dedizione e l'attenzione che ci mettevamo nello svolgere il nostro dovere tanto da arrivare nei giorni seguenti persino ad offrire un posto ad uno di noi. Comunque non ci fu solo il lavoro, la sera si giocava a carte e devo dire che le carte italiane ebbero un gran successo, un po' come la cucina italiana, ma qui niente di nuovo. La sorpresa più grande l'abbiamo avuta quando abbiamo saputo che il costo dell'autobus era fuori dalla nostra portata e quindi se volevamo andare a visitare le città più vicine avevamo due possibilità: camminare per decine di chilometri o fare l'autostop. Per me fu un'esperienza unica, non l'avevo mai fatta prima. Ci dividevamo in gruppi di due o tre, strategicamente un ragazzo e una ragazza così da ispirare più fiducia nei conducenti. Ad essere sincero ero molto scettico sulla riuscita del nostro piano, pensavo che nessuno si sarebbe fermato, ma adesso dopo aver conosciuto decine di persone e aver visitato luoghi che sembravano impossibili da raggiungere, posso dire con certezza che quel sentimento di umanità che contraddistingue le genti di questi luoghi è difficile trovarlo in altre parti. Padri di famiglia che pur di accompagnarci accostavano la macchina e facevano spostare i loro figli nei posti dietro insieme ai bagagli o chi ci accompagnò solo fino a metà strada, scusandosi di non poterci portare a destinazione ma cogliendo l'occasione per scambiare due battute sui Glasgow Rangers e sulla mancanza di lavoro nelle Highlands e ancora altri. Il lavoro procedeva, i rapporti fra i volontari divenivano sempre più forti, addirittura di amicizia, forse per qualcuno qualcosa di più, alla fine arrivammo ad essere una grande famiglia multiculturale. Venivamo tutti dall''Europa: Grecia, Spagna, Germania, Francia, Belgio, Scozia e Italia. In quel contesto tutto assume un valore diverso, le nostre sicurezze cominciano ad incrinarsi, le nostre convinzioni diventano più morbide, si cresce, si diventa più maturi. Si accetta l'altro, il suo modo di fare, di vivere, di porsi di fronte alla natura e all'uomo. Il multiculturale è dentro di noi. Un gesto, una parola che a noi sembra normale ci si accorge che


per qualcun'altro non lo è, è inconsueto. Si conosce molto, non solo degli altri, ma soprattutto di sé. La libertà che si sente in determinati momenti non può essere raccontata a parole, bisogna viverla. Al ritorno sembrava che fosse passato solo un giorno da quando ci eravamo incontrati, appariva strano il pensiero di non rivedersi più, quasi incredibile. Ci si abitua anche a condizioni estreme se si è circondati da una grande famiglia. Niente è impossibile, è solo difficile, era questo il nostro motto. A Glasgow, a sera tardi, quando tutti se ne erano andati per la loro strada e io ero rimasto solo lì in quella stazione da dove la mia avventura era iniziata, mi resi conto che dovevo tanto a quella nazione che mi aveva ospitato per tutto quel tempo. Per me non è solo un ricordo, è una esperienza di vita che lascia il segno, un po' come i primi passi, non ci saranno più i secondi primi passi.




ROBERTA CIAMPO. CAMPO DI VOLONTARIATO IN SPAGNA Caro Diario, Ho qualcosa da raccontarti e non so da dove iniziare. Sarà la paura di non riuscire ad esprimere a parole quello che porto nel cuore; sarà l'emozione di rivivere quei momenti che mi impedisce di scrivere speditamente, come se fosse passato un giorno e non un anno. Ma, come per ogni cosa bella o brutta che sia, c'è sempre un inizio. Ebbene, la mia esperienza è iniziata nell'agosto del 2014, in un momento in cui sentivo il bisogno di mettere alla prova me stessa e di spingermi un po' oltre i miei limiti. É così che ho deciso di partecipare al servizio di volontariato, promosso dall'associazione "YAP - Youth Action for Peace", volto all'insegnamento della lingua inglese in un piccolo paesino dell'Andalusia, in Spagna. In particolare il progetto "De Amicitia" era fondamentalmente diretto ai bambini tra i 4 e i 12 anni, per cui il mio compito era quello di sviluppare la loro curiosità verso una lingua quasi totalmente sconosciuta. Del resto neanche io conoscevo molto lo spagnolo, e mi rendevo conto delle difficoltà a cui andavo incontro, sapendo per esperienza che comunicare è indispensabile per chi va alla ricerca di avventure o anche solo di una pausa dalla normalità. Comunicare con una persona significa per me aprirmi a lui, per lasciarmi affascinare dal suo mondo, dalla sua cultura, dal suo modo di pensare e dalle diversità che ci separano ma che al tempo stesso ci avvicinano. Se non avviene lo scambio di idee, non può' esserci condivisione di esperienze e di emozioni. Tutto ciò con i bambini è stato tutto molto più immediato e spontaneo. Attraverso i giochi, l'intrattenimento, la musica, la nostra barriera linguistica non era più un problema. Anzi, dal momento che la lingua italiana e quella spagnola erano molto simili, ciò che poteva essere considerata una preoccupazione, si è trasformata in una fonte di divertimento e di studio. Addirittura hanno suggerito che l'anno seguente fosse organizzato un progetto di studio dell'italiano, in quanto lingua più semplice per loro rispetto all'inglese. Sicuramente anche la musica ha avuto il suo effetto, d'altronde la musica è un linguaggio universale che ti arriva anche quando le parole mancano. Mi piacerebbe cimentarmi di nuovo in un'esperienza del genere, innanzitutto perché ho appreso più di quanto ho insegnato, e l'arricchimento personale credo sia una delle conquiste più ambite. In secondo luogo ho incontrato persone fantastiche che hanno condiviso con me i momenti di spasso e quelli di stress, che sono stati per me una vera famiglia, e che continuo a sentire attualmente. Ancora ricordo quanto ci siamo divertiti a Granada, a ballare e cantare e ridere senza mai smettere. Infine questa esperienza mi ha fatto capire che bisogna aprirsi al mondo, alle persone e alle avventure, anche quelle che non ci sogneremmo mai di fare, perché a mio parere scoprire ciò che è lontano, diverso e sconosciuto, significa scoprire una parte di te che non credevi esistesse.


Ora è passato più di un anno e non posso che ricordare con un sorriso nostalgico quanto la mia vita sia cambiata da quel momento. Tutte le prove che ho affrontato e le scelte che ho preso sono state realizzate con una marcia in più, e con una voglia di farcela e di combattere per i propri sogni e le proprie ambizioni che non credevo di possedere. Caro diario, la persona che ti scrive in questo momento è una persona diversa da quella che partì nell'agosto passato, e mi auguro che sia per il meglio. Ed è per questo motivo che aspetto con impazienza la prossima esperienza di questo tipo, la prossima avventura e la futura scoperta del mondo.

Tua Roberta

23/08/2015





ASIA CHARLES. CAMPO DI VOLONTARIATO IN FRANCIA Ho partecipato a un campo di volontariato a Nogent-sur-Oise dall’8 al 29 luglio insieme a una mia amica. E’ ormai settembre e, pur svanendo i ricordi, non dimenticherò mai quello che ho provato svolgendo un’attività impegnativa per la pace, incontrando e stringendo un legame indissolubile con ragazzi provenienti da cinque nazioni tra loro molto diverse al livello sia culturale che religioso. Ho trascorso tre settimane indimenticabili in cui vi sono stati momenti di duro lavoro e di svago. Ho avuto l’opportunità di entrare in contatto con stili di vita opposti al mio. Tuttavia, credo sia stato proprio questo ad aver lasciato in me un segno profondo. Inoltre, dal punto di vista linguistico, è stato molto interessante confrontarsi, scambiarsi opinioni e, allo stesso tempo, imparare qualcosa anche dagli altri. A mio parere, gli animatori, che hanno svolto un ruolo molto importante nel processo di integramento, sono stati sempre disponibili, qualora ne avessimo avuto bisogno. Abbiamo soggiornato in un complesso sportivo attrezzato, che offriva spazi assai vasti, tra cui un campo di atletica e uno da tennis. Poi, vi era un edificio al cui primo piano si trovava una sala dove passavamo gran parte del tempo, subito dopo aver lavorato. In questo luogo condividevamo i pasti. In particolare, al fine di poter cenare insieme la sera, la prima settimana, essendo l’ultima del ramadan, aspettavamo che il sole tramontasse, rispettando in questo modo ciò che la religione dei ragazzi musulmani stabiliva. In aggiunta, poco dopo aver cominciato il campo, il Municipio del comune, che ha sostenuto con grande entusiasmo le attività da noi svolte e i progetti cui aderivamo, ha voluto accoglierci con una riunione in presenza delle famiglie dei ragazzi del posto. Durante il mio soggiorno ho avuto modo di partecipare attivamente alla vita cittadina, ovviamente con il consenso degli animatori. Abbiamo svolto diverse attività insieme a un gruppo di ragazzi di Nogent, entrando così in contatto diretto con gli abitanti del paesino, e anche questo ha favorito il nostro inserimento, che, in seguito, si è consolidato meravigliosamente. Durante il volontariato, invece, siamo stati divisi in due gruppi dello stesso numero, affinché potessimo dare il meglio di noi stessi, impegnandoci e svolgendo con cura il lavoro che ci era stato affidato. Un gruppo si impegnava in un asilo che aveva bisogno di manutenzione soprattutto per quanto riguardava il cortile. Quel gruppo ha costruito, dipinto e verniciato con le proprie mani una recinzione, all’interno della quale ha coltivato un orto. Poi, si è occupato di montare tavoli e sedie di legno perché i bambini potessero giocare anche da seduti e, infine, ha disegnato a terra, con utensili appropriati, giochi come “campana”. Io, insieme al mio gruppo, ho reso servizio in un centro d’affari e di innovazione sociale, che era ancora incompleto dal punto di vista dei lavori di costruzione. Credo che, il fatto di essersi impegnati nel compimento di un’attività per la pace, di aver avuto uno scopo comune fin dall’inizio, di aver stretto amicizia con persone provenienti da background culturali, religiosi, sociali, economici diversi, abbia concesso di creare un bagaglio di memorie, ricordi, esperienze che, sicuramente, ha favorito una crescita personale straordinaria. Inoltre, progetti di questo tipo, in cui bisogna sapersi organizzare e gestire, non più con l’aiuto e il supporto dei propri genitori, ma con quello dei propri coetanei e quello di collaboratori a noi estranei, soprattutto per i più giovani, aiuta a sviluppare una grande autonomia. Ciò prepara, insomma, a tutto quello che concerne la vita, quindi anche a rispettare le regole e gli altri, al di là delle differenze culturali che spesso, purtroppo, dividono e a confrontarsi l’uno con l’altro, creando così un dialogo pacifico continuo, che un giorno, magari, renderà migliore il mondo in cui viviamo.




SOFIA MUSCHIO. ROCHARD 2015: LAVORO MA NON TROPPO Ichi, ni, san, shi, go, roku, shichi, hachi, kyu, ju. Quang è nato in Svizzera, da madre vietnamita e padre francese, con origini ebraiche. È un lavoratore instancabile, sempre pieno di energia nonostante l’età e la ferita al ginocchio. Ci ha spiegato che fare stretching prima di iniziare a lavorare può essere molto utile. È il terzo giorno di lavoro, ma quella appena trascorsa è già la quinta notte qui a Bécéleuf, un paesino di campagna nella regione francese Poitou-Charente. Volontari e locali sono insieme, prima di dividersi per svolgere le varie mansioni: martello e scalpello per alcuni, badile e carriola per altri. Le sorelle della Repubblica Ceca sono facilmente riconoscibili: capelli biondi, lineamenti austro-ungarici e due bandane rosse in testa del tutto identiche. Misha e Petra ruotano entrambe le braccia in avanti, ma intanto pensano a cosa cucinare per pranzo. Ancora niente gulash, perché la paprika dolce è fondamentale per la riuscita del piatto. E attenzione a non sbagliare: non è zuppa, è gulash! Sergio è accanto a loro e sembra avere un debole per le due ragazze slave. Riflette sul prossimo quesito che potrebbe fare loro: poco importa che riguardi la lingua ceca o l’organizzazione dei reparti nei supermercati del loro Paese; l’unica cosa che conta è che sia un argomento ricco di insidie, cosicché la precisazione dei vari dettagli possa durare almeno una ventina di minuti (giusto il tempo per scegliere un nuovo argomento). Sergio è messicano, ma da qualche anno vive in Texas. Negli ultimi mesi ha svolto attività di volontariato a Montendre, poco lontano da Bécéleuf, facendo parte dell’organizzazione che gestisce questo workcamp. È il leader del gruppo insieme a Chloé, che però ha un carattere totalmente diverso. Anche lei è qui, ma il suo stretching ha uno stile più elastico e snodato, ricorda i movimenti che compie quando gioca col fuoco. Ha già mostrato ai volontari la maestria con cui sa muovere le bolas, però il vero spettacolo è previsto per l’international meal, il pasto internazionale che si terrà verso la fine del campo insieme a tutti gli abitanti del villaggio. Chloé è nata in Normandia ed ora vive in una comune nei Paesi Baschi. Guadagna i soldi che le servono facendo crepes durante i mesi invernali. Per il resto, ama viaggiare e conoscere gente nuova. Ha quasi trent’anni ormai e sembra soddisfatta del suo stile di vita. Un, deux, trois, quatre… Maxime flette la gamba sinistra e si sforza di ricordare il verbo essere: I am, you are, she… she? Ah, niente da fare, l’inglese non gli entra proprio in testa. Vorrebbe interagire di più con gli altri ragazzi, ma lui, così timido, fa fatica ad integrarsi nel gruppo. Tuttavia, durante il lavoro riesce a comunicare, spesso attraverso gesti e sguardi, anche solo per scambiarsi consigli sul punto in cui dare la prossima martellata. Eccolo arrivare trafelato: il cerchio si allarga per far posto a Dominique, il vero responsabile di ciò che accade a Rochard. Un legame affettivo lo unisce al campo di volontariato: proprio suo padre, insieme ad un gruppo di amici, comprò il


cottage che ora è al centro dei nostri sforzi. Sono già passati otto anni dall’estate in cui il primo gruppo di volontari si recò a Rochard. Dominique conserva il ricordo di ognuno e non perde mai occasione di mostrare le foto di quei gruppi multiculturali che hanno apportato il loro contributo. Ruota la testa in senso antiorario una volta, poi due volte, e con la coda dell’occhio vede Giovanni, che copia con diligenza i movimenti di Quang. Lo vede e sorride, perché prova una strana simpatia per quel ragazzo italiano un po’ esuberante. Giovanni è uno de pochi ragazzi del gruppo, ma vale doppio quando si tratta di distruggere un muro. Mentre si afferra il piede sinistro, ripensa ai giochi che ha imparato in queste sere: deve assolutamente diventare il campione indiscusso a Jungle Speed! Già dalla prima sera, è stato bello scoprire il piacere di essere un gruppo, poter stare in compagnia e dover trovare ogni volta una maniera diversa per divertirsi. Giochi in scatola, di ruolo o coi dadi, tutti i volontari hanno fatto posto nelle loro valigie per qualche passatempo. Giovanni ha deciso di portarseli tutti con sé, annotando materiale necessario e regole, nella speranza di trasportare a Milano un po’ di quel divertimento. A Kubra, invece, lo stretching non è mai piaciuto molto. Tuttavia può avere un suo certo fascino se fatto alle 8.30 del mattino, in mezzo alla natura boschiva e circondata da persone che pensano in dieci lingue diverse. Non vede l’ora di andare a cogliere le more: nel sentiero che va da Rochard allo stadio ce ne sono un’infinità. Tutti i giorni percorriamo quella strada, a piedi o in bici, per fare la tanto desiderata doccia calda. E ogni volta rubiamo qualche mora, con la promessa che un giorno o l’altro torneremo a casa con secchi pieni, in vista di una deliziosa crostata. Lo stretching è quasi finito e Shuk si pente di aver lasciato nella yurt la sua preziosa macchina fotografica: sarebbe stata perfetta come trecento cinquantaquattresima foto. È vero, in Cina la patologia da scatto compulsivo è in piena diffusione e Shuk ne è la dimostrazione vivente. È già un mito qui a Rochard, non passa mezz’ora senza che qualcuno si chieda dove sia la nostra fotografa ufficiale e la risposta è quasi sempre la stessa: sta immortalando delle foglie ingiallite, un maiale che grugnisce o un qualsiasi altro dettaglio di poca importanza. Shuk è venuta da Hong Kong, è quella che ha fatto il viaggio più lungo per arrivare fin qui. Ha trovato subito il modo di farsi voler bene, con il suo animo spensierato e un po’ buffo. Finalmente siamo pronti, si inizia a lavorare e ci si ritroverà tutti insieme solo al break time delle 11.00. Io non vedo l’ora e intanto ripenso alla sera precedente: valzer e polka hanno animato il cottage, con Petra e Misha al centro per insegnarci i passi base. Mi sto dirigendo verso quella parete che ormai mi è diventata così familiare e un po’ ho voglia di riprendere in mano martello e scalpello. Volgo la testa indietro e vedo il cerchio allargarsi, le persone dividersi. In lontananza guardo la yurt e so già che mi mancherà, che tornata a casa mi sentirò stretta nella mia camera, nel mio solitario appartamento cittadino. Mi mancherà uscire la mattina presto e sentire l’erba umida di rugiada. Mi mancherà tutto, ma la nostalgia non riuscirà ad avere il sopravvento, perché la consapevolezza di aver vissuto appieno ogni momento sarà più forte.



SOFIA DOMINICI. CAMPO DI VOLONTARIATO IN FRANCIA 11 GIORNI DI LAVORO, DIVERTIMENTO E PARTECIPAZIONE. Così come l’ape instancabilmente lavora per la propria comunità, così lavoriamo noi, per riportare bellezza e funzionalità in luoghi segnati dal tempo. La mattina si emerge dal caos delle tende e si affrontano gli impegni della giornata esposti in bella vista negli spazi comuni. Il pranzo viene preparato da un gruppo selezionato dagli animatori che cucina qualcosa di tipico del proprio paese. I pasti sono l’occasione di misurare la completa inettitudine in cucina ma anche per entrare in contatto con le varie culture presenti nel campo. Il fine settimana poi gite, cinema, shopping, il tutto sempre sotto l’occhio vigile ma benevolo di fantastici leader come sono stati, nel mio caso, Lucile ed Erwan. Una fantastica luna piena illumina il barbecue dell’ultima sera in riva al lago, momenti indimenticabili. I miei programmi per l’anno prossimo? Rifare quest’esperienza!



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