Outdoor Work on the South Shore

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SEEDS 015 OUTDOOR WORK ON THE SOUTH SHORE, 30/06/2015 - 15/07/2015 Racconto Pioggia, vento e tanto fango. La costruzione che bisogna trasformare in guest house è accogliente e bella, ma noi per dormire abbiamo una casetta di fronte, forse un tempo destinata alle mucche. Appena arrivati, lavoro sotto il diluvio universale: spalare la terra, senza capirne il perché. Siamo fradici, ma non possiamo entrare nella guest house, lasceremmo le impronte e, lì, guarda caso, hanno appena finito di pulire. Ci viene presentato il sottoscala, dove possiamo cambiarci per renderci accettabili. Sottoscala che, alla fine, diventerà il nostro migliore amico. La cena bisogna prepararla noi, nella nostra “accommodation”, ma non abbiamo acqua per cucinare e, così, ci forniscono un contenitore di plastica, rotto, che versa inesorabilmente in terra, fra prese di corrente e l’unico fornello che abbiamo, da campeggio. Per lavare i piatti dobbiamo entrare nella guest house: “Non ora! Per favore! Ci sono ancora gli ospiti in sala!”. Qualcuno si arrabbia un po’, qualcuno la prende sul ridere. Insomma, è vero che siamo volontari, ma non siamo venuti qua per patire! Iniziano le proteste, il camp leader è un po’ preoccupato, chiama l’associazione islandese. Non ci tiriamo giù però, sistemiamo i letti, e aspettiamo il giorno successivo, andando stanchissimi a dormire. Il sole in Islanda non tramonta mai d’estate e così non fa mai buio. Alcuni, soprattutto durante le prime notti, ne sono disturbati e si svegliano ogni ora; ad altri, come me, non cambia niente. Anzi, ci sono anche i suoi lati positivi: in Islanda si sogna tutte le notti, e siamo arrivati alla conclusione che sia dovuto proprio alla luce. Il giorno dopo, nonostante l’inizio un po’ ..incerto, ecco, siamo carichi. Penso, anzi, che la situazione del giorno prima ci abbia dato la grinta giusta per affrontare quelle due settimane nel migliore dei modi possibili. Infiliamo i guanti e iniziamo a lavorare. E, sia durante quel giorno, che nei giorni successivi, di lavoro, ne abbiamo fatto tanto. Tanto, da consumarli quei guanti, facendogli assumere un colore grigiastro, da gialli che erano. Per essere precisi, lavoravamo sei ore al giorno: sveglia alle 8 (è durata solo i primi cinque giorni…) per la colazione, inizio del lavoro alle 9, pausa pranzo dalle 12.30 alle 13.30, fine del lavoro alle 16. Il lavoro è stato per tutta la prima settimana quello del primo giorno, ma il tempo andava sempre a migliorare, e ne capivamo il senso finalmente: dovevamo spianare tutte le montagne di fango intorno alla casa per poi sistemarci il prato. Direi che tutta l’area intorno aveva un aspetto sicuramente migliore! Nella seconda settimana ci aspettavano invece cose molto più divertenti, come pitturare la casa. Anche il rapporto con la famiglia ospitante andava sempre più a migliorare, abbiamo iniziato a saper convivere con loro: la madre, che dopo averci strillato contro il primo giorno perché eravamo tutti bagnati, ha addirittura iniziato a prestarci i suoi vestiti, e a prepararci torte immense con tutti gli ingredienti inimmaginabili, rendendoci contenti come dei bambini; il padre, che ci ha preparato un secondo bagno tutto per noi, e, anche se dovevamo farci la doccia tra assi di legno, viti, e lattine di birra che, dopo aver utilizzato, gettava in terra senza un ordine, lo abbiamo apprezzato; e il figlio, un personaggio inespressivo (siamo arrivati alla conclusione che non riuscisse a sorridere) che però ogni giorno veniva in casa per cercare di aggiustarci l’unica stufetta che avevamo, (sempre senza grandi risultati, ma almeno ci provava), e per complimentarsi per il lavoro che avevamo svolto. Dalle quattro del pomeriggio, potevamo fare ciò che volevamo. Non avevamo un’auto per spostarci, e questo ha complicato le cose, ma fino a un certo punto. Ci muovevamo facendo autostop e, ho scoperto, che in Islanda con l’autostop puoi arrivare davvero dappertutto. Stai al bordo della strada e…Fingi un sorriso, anche se è un’ora che aspetti sotto la pioggia e sei completamente bagnato, anche se dopo due ore che sei lì senza risultati vorresti solamente buttartici sotto, alle macchine. In autostop siamo andati a Vik, una cittadina lì vicino, in una spiaggia a una decina di chilometri, e, soprattutto, siamo riusciti anche ad arrivare in una piscina naturale sperduta tra le montagne, dove siamo stati fino alle quattro di notte, tra alghe e acqua caldissima. Le piscine in Islanda non sono solo un luogo per rilassarsi, ma per parlare, conoscere


gli abitanti del posto, e i turisti. Una cosa è sicura: chi viaggia da solo in quest’isola, non rimane da solo. In quel posto ci ha portato, infatti, una ragazza svedese, che poi ha riaccompagnato a casa una parte di noi, ed è restata nella nostra accogliente “stalla”. Non potevamo offrirle niente di più che un posto in terra per dormire, una tazza di the, e una fetta di pan Carrè, ma sembra abbia apprezzato lo stesso. Non avevamo, infatti, grande varietà di cibo, e il pan Carrè andava per la maggiore: al mattino pane e nutella, a pranzo pane e formaggio. Solo a cena, chi sapeva cucinare poteva finalmente sbizzarrirsi un po’. E il “chi sapeva cucinare” era riservato esclusivamente ad una ragazza cinese, che ci ha fatto deliziare con tanti dei suoi piatti. Per fortuna, non mi hanno mai fatto cucinare: io e l’altro italiano non sapevamo neanche fare buona la pasta, e lo abbiamo ampiamente dimostrato con la nostra “splendida” carbonara che abbiamo fatto lo sforzo di cucinare nell’international dinner. Alla faccia degli stereotipi. A proposito di stereotipi, sembra che nessuno tra di noi ne rispettasse uno. Eravamo in otto: due francesi, che avevano tutto for che la puzza sotto il naso; due cinesi che, pur essendo sorelle, erano diversissime; una belga e una svizzera che...Boh, non conosco gli stereotipi di tutto il mondo. Comunque, tante abitudini diverse, tante differenze in generale: alcuni erano iperattivi, altri avevano bisogno di momenti di tranquillità; alcuni erano maniaci dell’ordine, altri sarebbero vissuti, e sono stati accontentati, anche nel caos più totale. A parte tutto, ci siamo trovati bene, anzi, forse più di un semplice bene. Ho sempre pensato che per partecipare a progetti del genere, qualcosa in comune con gli altri lo trovi sempre, ed è stato anche questa volta così. Non so identificare questo “qualcosa”, forse è soltanto la voglia di mettersi in gioco, di fare esperienze diverse dal solito viaggetto da turista, di volere aiutare qualcuno. Affrontavamo tutto con il sorriso, ci divertivamo tanto, sia con una zappa in mano, tutti ricoperti di fango, sia la sera, in mezzo ai campi infiniti dell’Islanda. Abbiamo condiviso momenti della nostra vita, non smettevamo mai di parlare, in realtà. Non tutti parlavamo bene inglese ma ci facevamo capire con gesti e un mix di lingue continuo, e anche questo era il bello. Com’è facile comunicare quando si vuole farlo! Ho imparato anche qualche parola in cinese, dopo cinque ore di tentativi…Per poi sentirmi dire che ero un disastro, diciamo che ci ho provato. A tutto ciò si aggiungeva l’Islanda in sé, con i suoi paesaggi perdifiato, infiniti, e non è un modo di dire. I campi, le montagne, i ghiacciai fanno proprio questo effetto, lo stesso che fa il mare visto dalla spiaggia: tu sai che hanno una fine, ma non la vedi mica. Ecco, quello che ti rimane dell’Islanda è proprio l’immensità, difficilmente associabile all’isoletta che si vede nella cartina. Oltre alla grandezza, sicuramente c’è la varietà. In Islanda, si passa dai vulcani ai ghiacciai, dalla neve alle piscine di acqua calda. E, come ultima caratteristica, non poco collegata alle prime due, secondo me bisogna citare la stranezza. Laggiù, sei capace di prendere il sole mentre diluvia. Il sole gioca sempre un po’ a nascondino, si fa vedere nei momenti più assurdi: tutto nuvoloso, e il sole che illumina solo il ghiacciaio. Il tempo è capace di cambiare una cosa tipo venti volte al giorno. A questo si aggiunge la stranezza anche degli islandesi stessi che, abituati a vivere nel buio più totale durante l’inverno, vogliono “godersi” l’estate, e se ne escono a maniche corte quando noi pappamolle abbiamo golfino, golfetto, pile, giubbotto, tre pantaloni diversi, sciarpa e due cappelli, lasciando intravedere solo gli occhi. L’aiuto che offrivamo alle persone del posto, il fatto di vivere a stretto contatto con loro, ha fatto sì che non fossimo più turisti. Non visitavamo più l’Islanda, ma la vivevamo, ci entravamo dentro. E, una volta tornati a casa, avevamo tutti qualcosa di più. Questa è forse ciò che più mi spinge a continuare ad aderire a questi progetti: possono essere esperienze positive, possono essere esperienze strane, e possono sicuramente anche essere esperienze negative ma, tutte quante, contribuiscono ad arricchirti, e a farti “crescere”, indipendentemente dalla tua età. Margherita Bini


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