L'idea di museo

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DALLA GENESI DI ARCHETIPI MUSEALI A CURA DI YLENIA ALESSIA ARDIZZONE

Lettura critica del testo L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, a cura di M.C. Ruggieri Tricoli e M.D. Vacirca.


M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998

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SOMMARIO

Introduzione

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PARTE I. ARCHETIPI DELLA COMUNICAZIONE MUSEALE NEL MONDO ANTICO 1. Le origini del collezionismo 2. L’archetipo della tomba 3. Il tempio 3.1 Le collezioni 3.2 Variazione del rapporto tempio-collezioni 3.3 Qualità ambientali 4. La città 5. L’arsenale 6. Il teatro 7. Il giardino musaico 8. La biblioteca

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PARTE II. PERMANENZA DI ORIGINARI ARCHETIPI 1. Introduzione 2. Ricordando il tempio: dal gusto per l’accumulo al white cube 3. Ricordando l’arsenale: l’eco della produzione 4. Ricordando il teatro: dalla teatralizzazione della città alla teatralizzazione dell’opera d’arte 5. Ricordando la biblioteca: dai filosofi ai ricercatori

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CONCLUSIONI

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BIBLIOGRAFIA

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ELENCO E FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

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APPENDICE

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Note bio-bibliografiche delle autrici

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Attribuzione scientifica delle parti del libro L’idea di museo 60

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Introduzione

Esiste più di una somiglianza fra i templi Greci ed i nostri musei.1

Il testo L’idea di museo, propone un’avvincente lettura nata dalla volontà di delineare una preistoria del museo, come le due autrici amano definire. Rifiutando la convinzione che vuole la nascita dell’organismo museo a partire dal Rinascimento, Maria Clara Ruggieri Tricoli e Maria Desirée Vacirca ne dimostrano le radici molto più lontane, riconoscendo nella tendenza umana a musealizzare un atteggiamento antropologico. Gli archetipi del collezionismo e della musealità investigati dalle autrici corrispondono con una certa coerenza alla stratigrafia della forme simboliche, studiata dal filosofo tedesco Ernst Cassirer nel testo Filosofia delle forme simboliche. Non solo, oltre ad un gran numero di studiosi contemporanei, l’Autore che ha maggiormente accompagnato le due autrici nella stesura del testo è stato Pausania, con Perigesi. All’interno della linea di pensiero delle due autrici trovo calzante la definizione di museo di Durand: Il museo è una macchina che funziona non quando esiste un qualche edificio acconcio, esteticamente valido e funzionalmente adeguato, nel quale una qualche collezione possa essere conservata o collocata: il museo è una macchina che funziona quando diviene una struttura logica e semiologica e cioè quando il rapporto di un insieme ordinato di spazi,

K. Pomian, voce Collezione, in M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 32, voce bibliografica incompleta. 1

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con un insieme ordinato di concetti e con un insieme ordinato di oggetti, consegue quel surplus che è appunto prerogativa dell’insieme in quanto struttura rispetto alla semplice addizione matematica delle parti.2

Come le autrici sostengono, dagli albori della storia fino all’ultimo periodo alessandrino, l’antichità, e più precisamente il mondo greco, sviluppano un’idea articolata e complessa di come le collezioni possano trasmettere conoscenza, idee, sentimenti, di come esse vadano allestite per essere più comunicative e di come sia possibile integrare oggetti e scritture, arti visive e aurali. Il testo ha una struttura molto semplice: ad ogni archetipo museale corrisponde un capitolo. La comprensione e identificazione di tali archetipi risulta così molto intuitiva. Nel ripercorrere la ricerca svolta dalle autrici, ho trovato opportuno seguire la loro strategia. La prima sezione della mia lettura critica è più descrittiva, e ripropone gli archetipi museali suddivisi in capitoli. Nella seconda sezione, più critica, ho cercato di analizzare il protrarsi degli archetipi museali antichi nei luoghi museali d’oggi. Questa scelta nasce da una lettura in particolare: Inside the white cube di Brian O’Doherty. Presento alcune frasi per meglio comprendere l’idea che ha spinto questa mia ricerca: « [lo spazio espositivo è costruito] in base a leggi rigorose come quelle che presiedevano all’edificazione di una chiesa medievale». Il principio fondante di queste leggi è che «il mondo esterno deve rimanere fuori», «l’arte esiste in una specie di eternità […]». «Le camere funerarie dell’antico Egitto forniscono un parallelo sorprendente. Anch’esse concepite per eliminare la consapevolezza del mondo esterno […]

G. Durand, Les structures antropologiques de l’imaginaire, Bordas, Parigi 1963, trad. it., Le strutture antropologiche dell’immaginario. Introduzione all’archetipologia generale, Dedalo, Bari 1972, p.38. 2

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contenevano dipinti e sculture capaci di consentire l’accesso o il contatto a quella dimensione.»3 I modelli antichi si sono protratti fino ai nostri giorni? Sotto quale veste? La lettura del testo di O’Doherty ha mosso questi miei pensieri, a cui cercherò di dare risposta nella seconda sezione della mia ricerca. Durante la stesura della mia rielaborazione, nella seconda sezione della tesina, ho cercato di attribuire maggiore importanza anche all’apparato iconografico avendo riscontrato una carenza di questo nel testo analizzato. Viceversa ho trovato molto interessante la presentazione di immagini di musei contemporanei alla fine di ogni capitolo, peccato però che non vi sia stato collegato un ulteriore approfondimento.

B. O’Doherty, Inside the white cube, the ideology of the Gallery Space, University of California press, Los Angeles 1986, trad. it., Inside the white cube, L’ideologia dello spazio espositivo, Johan & Levi editore, Monza 2012, p.18. 3

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PARTE I. ARCHETIPI ANTICO

DELLA COMUNICAZIONE MUSEALE NEL MONDO


1. Le origini del collezionismo

L’uomo è sempre stato animato da un istinto che lo ha portato a raccogliere oggetti che richiamavano, per vari motivi, la sua attenzione. Si può quindi affermare che l’attitudine a collezionare, come sottolinea George Henry Rivière, «è un’attitudine tipica dell’uomo, è un carattere antropologico fondamentale.» 1 Quanto affermato deve essere esteso oltre al mondo umano anche al mondo animale: seppur nelle forme più embrionali ed impulsive, la tendenza a raccogliere degli oggetti, legata spesso alla costruzione di una tana, si presenta come un atto istintivo talmente forte da non potere essere negato. Così nel mondo animale, così nel mondo umano, la raccolta di oggetti avviene secondo un dato criterio, si attua una selezione che prosegue nella conservazione e nella precisa collocazione di un oggetto all’interno di un dato sistema. Nell’ambito delle culture primitive, è possibile ritrovare le prime esperienze cerimoniali e simboliche: il Culto del cranio attribuito all’uomo di Neanderthal, nonché i numerosi corredi funebri composti da ossa animali disposte attorno ai defunti, fanno supporre che «gli uomini di tipo neanderthaloide avessero sviluppato concetti superiori alla loro modesta cultura materiale; concetti che sottendono un’ancestrale capacità di gusto estetico legato al culto dei morti.»2 G.H. Rivière cit. in M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 9. 1

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G.Clark, World prehistory, Cambridge University Press, Cambridge 1961, trad. it. La preistoria del mondo, Garzanti editore, Milano 1967, p. 55.

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La qualità estetica o, meglio, la capacità di esprimere un giudizio estetico, all’inizio, quasi esclusivamente di natura empatica è una delle proprietà caratterizzanti del collezionismo. Come si potrebbe definire il concetto di collezionismo? Le definizioni di Krzysztof Pomian e Walter Benjamin sono state esaminate dalle due autrici. Secondo Pomian affinché si possa parlare di collezionismo devono sussistere due requisiti fondamentali: la sottrazione dal circuito economico e la capacità semiotica (seppur destinata agli occhi dei defunti spenti) che sottolinea come la stessa attitudine ad usare ornamenti, tinture e decorazioni sia già un presupposto del collezionismo; di fatti secondo lo stesso Pomian «tale attenzione extraeconomica, e quindi squisitamente estetica e collezionistica può essere ritenuta presente a partire dai reperti di mezzo milione di anni fa»3. Benjamin analogamente, insisteva sul concetto di sottrazione alla fatticità per gli oggetti da collezione. Nella sua ricerca Benjamin parlava di un altro concetto molto interessante: curiosità e pionierismo sono, per il critico e scrittore tedesco, caratteristiche fondamentali della figura del collezionista. Caratteristiche che muovono l’uomo verso la ricerca, l’interesse, la collezione, la catalogazione, la conservazione di un dato oggetto. È quindi nel Paleolitico che si manifestano le prime forme di collezionismo. Risulta molto importante sottolineare che il valore attribuito a queste ancestrali collezioni non è semplicemente privato, del defunto: è un valore collettivo. Attraverso le memorie della singola persona, che il singolo clan, il singolo popolo, si costruisce la propria identità collettiva e procede verso la propria auto-affermazione nel tempo. Il valore simbolico di un oggetto si dilata nel tempo perché nasce la volontà di difendere e di conservare quel tesoro appartenente ad un dato luogo. Così collezione e sito esprimono il loro ancestrale legame. 3

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 12.

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Nel testo preso in esame le autrici dichiarano che fin dalle prime civiltà si rende manifesta l’attitudine a collezionare, nata dall’istinto animale di possedere, dall’idea tipicamente umana di creare senso attraverso gli oggetti, dall’atteggiamento collettivo a radicarsi attraverso insiemi di cose significative, dalla convinzione che proprio tali insiemi, dotati di una loro magica capacità di sopravvivenza, garantiscano la conservazione e la sopravvivenza del popolo che li ha creati.

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2. L’archetipo della tomba

Alla fine del Neolitico, con il Calcolitico, poi con l’età del Bronzo, la funzione simbolizzante delle collezioni mortuarie appare consolidata e spesso caratterizzata anche da uno smaliziato uso della copia e del modello. Affrontando il tema dei corredi mortuari, è d’obbligo citare la civiltà che delle architetture funerarie ha fatto il suo tratto distintivo: gli Egizi. Costituito un rituale funebre attorno a determinati oggetti, sancitane la loro uscita dell’uso, dal godimento quotidiano e dal consumo, questo popolo è stato in grado di costruire sistemi di collezioni esaurienti, grazie a nuove forme di comunicazioni quali la scrittura ed il disegno. Per aiutare il ka del defunto nella ricostruzione della sua vita terrena, nel giorno in cui si risveglierà, gli oggetti, gli ambienti e le situazioni della vita passata vengono descritti minuziosamente. Non sono più solamente gli oggetti a costituire la collezione, ma l’intera sala funeraria: la pittura parietale completa quel catalogo di vita che il sistema della sepoltura vuole riprodurre. Lo stesso significato ha l’uso, ampiamente documentato nelle stesse sepolture egizie, di modelli in legno che riproducono ambienti della vita quotidiana del defunto. Per esempio, le miniature conservate al Museo Egizio di Torino, costituiscono, ai giorni nostri, non tanto un’importante documentazione della cultura funeraria, quanto la possibilità di una fedele riproduzione degli ambienti di vita quotidiana. Oggetti scelti e catalogati secondo un dato criterio, un racconto che lega le parti:

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[…] la tendenza umana a musealizzare ci appare non solo del tutto definita, ma anche già virtualmente dotata di tutti gli strumenti odierni, e, soprattutto del concetto fondamentale che la collezione ritrova tutta la sua magica vitalità soltanto quando essa è integrata in un sistema di comunicazione più complesso e vario. 1

Fin dalla lettura delle prime pagine mi sono chiesta se non si potesse affermare che le basi della museologia odierna sono rintracciabili in queste epoche, così lontane, finora descritte. Volendo accettare questa riflessione, appare riduttivo collocare le «storie relative all’organismo museo, a partire dal Rinascimento, o, come molte, addirittura dal Settecento»2: ne deriverebbe un’immagine poco credibile di un organismo senza radici, e la convinzione limitativa che la tendenza a musealizzare sia nata all’improvviso. Alla radice di ogni collezione sta un senso estetico nascente, un’empatia dell’uomo per le cose, un conferimento di significato: nell’archetipo della tomba da sempre considerato il vero archetipo di museo questo rapporto si orienta verso un atteggiamento tesaurizzante, che è l’antenato di ogni idea di tutela. In effetti, il primitivo sentimento tesaurizzante connesso alla collezione funeraria, ha come diretta conseguenza, proprio il sentimento della sacralità cui alcuni oggetti sono indissolubilmente legati. È questo senso del sacro che permette le prime autentiche forme di inscenamento delle cose, il primo tentativo di attribuire significato ad esse, oltreché religioso ed estetico, anche storico didattico e scientifico. Quella forma di musealità che anche gli antichi sapevano ben praticare, non era per nulla scevra dalla convinzione che sia necessario non soltanto conservare, ma anche esibire e dimostrare, connettere le cose ad un racconto. La memoria si trasforma in memoria esposta.

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 19. 2 Ivi, p. 6. 1

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3. Il tempio

Fra culto dei morti e culto di esseri divini esiste una continuità riconosciuta già dagli stessi Greci. La necessità di uno spazio di raccolta di oggetti senz’uso, o come affermerebbe lo stesso Pomian di oggetti semiofori, sia esso tomba sia esso tempio, era mosso dal timore della dispersione: così la costruzione di insiemi culturali ordinati e collocati logicamente atti a garantire la sopravvivenza della memoria. Alle collezioni mortuarie “fruibili” per il defunto e non per i vivi, vanno accostate le collezioni votive a carattere sacro e religioso. Esse assolvono alla medesima funzione, rivolgendosi però al godimento degli dei e alla memoria collettiva dei fedeli. Il senso della memoria si esplica per i Greci tanto nei doni votivi quanto nei doni sacrificali (anche quando l’offerta viene bruciata viene considerata come antenata del pezzo da collezione, ma soprattutto portatrice di memoria). La collezione templare segna una grande svolta: dal corredo funebre alla dotazione templare appunto, dalla offerta singola a quella collettiva, dall’appropriazione estetico-affettiva a quella didattico-culturale. Il tempio […] è fin dal principio il più importante luogo delle collezioni, di quelle raccolte di oggetti cioè, che, o per il loro particolare valore, o per il loro particolare significato, o per la loro particolare bellezza, vengono selezionati e destinati a forme privilegiate di contemplazione. Tale contemplazione, riservata soltanto agli occhi del dio e dei suoi sacerdoti, si trasforma […], assumendo decisamente un vero e proprio carattere pubblico. 1

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 30. 1

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Questa trasformazione, come spiega Jean-Pierre Vernant, avviene con l’avvento della scrittura, in età arcaica, quando il sapere orale cede il passo ad un sapere fatto di verità divulgate in maniera certa tramite la scrittura.2 Si passa così dalla capacità narrativa sincronica, alla capacità di narrazione diacronica: le immagini si adeguano al discorso narrativo. Si apre il concetto di narrazione visiva, fondamento dell’arte occidentale, ma soprattutto requisito per impostare un qualunque discorso museale: per poter narrare, cioè, delle vicende storiche, archeologiche, scientifiche, servendosi principalmente di strumenti visivi e non auricolari. Ed in effetti i santuari della classicità, superata la fase in cui i templi venivano gestiti come abàta, e cioè come luoghi inaccessibili, assolvevano esattamente come i musei di oggi, alla triplice funzione della conservazione, dell’esibizione e dell’implicita significazione. 3 Quest’ultima è legata ad un senso del sacro, da considerare come il fondamento stesso del concetto di tutela. 3.1 Le collezioni Nel mutato atteggiamento che intercorre fra la piena classicità del V sec. a.C. e l’approssimarsi dell’Ellenismo con la fine del IV sec., il pubblico diviene sempre più protagonista dell’esibizione artistica. Le collezioni templari si accrescono: dal V sec. in poi si diffonde nella mentalità greca l’idea della ricchezza e della meraviglia della produzione umana: bassorilievi di attività belliche o atletiche; scudi, spade, corazze; componimenti poetici incisi su pietra o lamine d’oro, piuttosto che statue prodotte da famosi artigiani. La scienza entra nei templi come oggetto di 2

Cfr, J.P. Vernant, Les origins de la pensée grecque, Presses universitaires de France, Paris 1986, trad. it. Le origini del pensiero greco, Feltrinelli, Milano 2001, pp. 36-45. 3 Cfr, G. Pugliese Carratelli, La civitas religiosa nel mondo classico, in F. Cardini, a cura di, La città e il sacro, Garzanti Scheiwiller, Roma 1994, pp. 85-118.

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donazione, frutto di interesse e curiosità: carri, navi, o parti di modelli di essi, spesso resi mobili (il caso più eclatante è il cavallo di Troia). Molto importante è la funzione archivistica che questi luoghi assumono, esibendo ogni genere di documento importante, come per esempio i trattati di pace. Il materiale epigrafico, ovviamente, viene collocato all’interno dei templi per essere letto, e quindi le incisioni vengono apportate nei luoghi più accessibili e visibili, preferendo le parti esterne del tempio. Non solo. I templi tendono ad assumere un’ulteriore funzione: mete di pellegrinaggio in quanto luoghi di cura. Così riproduzioni di organi, e altre parti umane divengono parte del tesoro templare. Gli elementi che formavano la suddetta collezione venivano posizionati all’interno di apposite teche o scaffali, appesi alle pareti interne della cella come nel caso delle armi, posate direttamente sulle ginocchia della statua, come accadeva con vasi e piatti, piuttosto che conservati su tràpeza, tavole, ai piedi della divinità. Non solo all’interno della cella: i doni venivano esposti anche nel pronao, sulle scalinate, e, dove lo spazio risulta insufficiente le statue venivano appese al soffitto, o ancora nell’ottica odierna del museo en plein air, all’esterno di esso, lungo la strada che lo precede. Anche se l’esibizione di questi oggetti avveniva secondo un certa logica, mossa dal desiderio della contestualizzazione, si è lontani dai criteri allestitivi odierni; forse il principio che qui trova il suo luogo natale è quello dell’accumulo: trovo possibile il parallelismo tra le celle dei templi greci e le wunderkammer barocche. 3.2 Variazione del rapporto tempio-collezioni In questa espansione delle collezioni, i templi che divengono insufficienti a contenerle e valorizzarle, debbono ampliarsi. Da una parte nascono luoghi specializzati per i donaria come le stoài; dall’altra il

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rapporto fra tempio e anathema si modifica. Il tempio da tesoro-edificio, concetto che sottende uno stretto legame con il luogo e la sacralità di questo, in cui il simulacro divino giunge in un secondo tempo come atto di devozione, si trasforma. Il tempio si adatta nelle proprie forme all’importanza di alcune donazioni: nasce il concetto di edificio atto a mostrare. Si possono prendere due casi ad esempio: il tempio di Olimpia in cui la statua di Zeus si adatta alle dimensioni della cella, nella tradizionale situazione di figura/sfondo in cui non viene ricercato uno spazio autonomo attorno al simulacro; e il Partenone in cui tutto il progetto del naos viene modificato in funzione della colossale raffigurazione della dea Athena, sottendendo quindi studi delle diverse condizioni di visibilità del simulacro del dio. Oltre alle stoài, non mancano altri ambienti specializzati, nati dall’espansione dei templi. Pinacoteche per soli dipinti, calcoteche per sole offerte bronzee, oploteche dove si conservano armi, e molti altri ambienti per raccolte specialistiche. 3.3 Qualità ambientali Se, come affermato dalle autrici, già con gli Egizi la tendenza umana alla musealizzazione era ormai definita, penso che con i Greci si assista ad una grandiosa evoluzione verso tematiche di tipo museologico: dalla costruzione di templi attorno alla statua della divinità, di templi (musei) di un anathèma, a studi di controllo illuminotecnico, conservativo e igroscopico. Il tema della luce, o meglio il problema dell’illuminazione della cella irradiata dall’unica apertura dell’ingresso, per esempio, mosse diversi studiosi verso l’elaborazione di soluzioni. Esclusa la possibilità di aperture zenitali per illuminare naturalmente la cella, vista l’inesistenza di accorgimenti pervenutici rispetto sistemi di displuvio delle acque a

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pavimento, altre sono state le soluzioni architettoniche. Aperture ai lati della porta di ingresso alla cella, piuttosto che l’espediente della columnatio finestrata: la necessità di aprire finestre accanto al vano d’ingresso innescò raffinate riflessioni prospettiche sul rapporto fra bucature e colonnato d’accesso. Ma seppur l’antichità si serviva principalmente di illuminazione naturale, va ricordato che anche gli antichi erano soliti utilizzare espedienti di illuminazione artificiale, ricorrendo all’uso di lampade. Oltre alla tipologia di illuminazione, è da sottolineare l’importanza che i Greci attribuivano alla qualità della luce: «infatti, e qui entriamo in un campo ancora più interessante, ancora più museologico, non ci si preoccupava soltanto della quantità di luce, ma anche della sua qualità, ponendo in essere espedienti per il controllo del cromatismo […]»4. L’uso di particolari materiali, come l’alabastro, o particolari finiture, come soffitti d’oro, permettevano il controllo cromatico. Non solo. Furono avanzati diversi studi per migliorare la conservazione nel tempo delle collezioni. Particolari unguenti o cere venivano stese sugli oggetti interessanti, al fine di proteggerli dall’umidità, condizioni atmosferiche avverse, e da insetti. Anche le condizioni igroscopiche destarono l’interesse degli antichi: famoso il caso dell’Olympeion dell’Altis per la realizzazione di una profonda vasca in calcare nero, colma d’olio, al fine di preservare la statua del dio Zeus dall’assorbimento dell’eccessiva umidità di quel sito boscoso. Conservazione, tutela, fruizione visiva corretta, contestualizzazione, senso del meraviglioso: « […] proprio nei templi, attraverso l’incessante depositarsi di memorie storico artistiche, maturano tutti i concetti che ancora oggi fanno parte del complesso psicologico della genesi museale»5. M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 45. 5 Ivi, p. 57. 4

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4. La città

Il popolo Greco ha sempre guardato a se stesso come un’entità collettiva: questo sentimento si è confermato nel tempo sotto forma di grande impegno verso la trasformazione della città, con sempre maggiore attenzione verso i luoghi pubblici, rispetto a quelli privati. Tutta la città greca, nei suoi santuari, nelle sue piazze, nei suoi portici, nelle sue strade si presenta come una città-museo, un grande monumento di pietra. La profonda musealità delle poleis greche, ma perfino del territorio in generale, trova il suo fondamento nella componente teatrale. La massima espressione di ciò, la si trova nello studio dell’Acropoli di Atene. Si possono ricordare gli effetti di figura/sfondo presenti fra le diverse architetture principali: Propilei/Partenone, Partenone/Eretteo, per esempio, insieme alla dinamica della visione rotatoria, visione per angulos/visione frontale, che si innesca nel rapporto della via delle Panatenaiche con il Partenone. Questi accorgimenti, sono sinonimo di una progettazione scenografica, impostata sulla ricerca di determinati punti di vista e particolari correzioni ottiche. Senza un’esperienza del teatro così forte come quella greca, non sarebbero, secondo le autrici, esistiti quei progressi registrati nell’assemblaggio visivo delle architetture. La città così teatralmente composta si presenta, nella continua volontà di perpetuazione della memoria, come macchina mnemotecnica, ovvero come «complesso dei vari espedienti escogitati per aiutare la memoria a ritenere date, termini tecnici, liste cronologiche e altre nozioni

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difficilmente associabili tra di loro e riducibili a sistema, e che quindi si ricordano con difficoltà […]»1 All’interno del sistema città-museo, viene utilizzato un espediente ricorrente: l’epigrafe. Essa ha alle sue spalle la complessità stessa della nascita della scrittura da un lato e dell’iconografia antica dall’altro: stele mesopotamiche, obelischi assiri, epigrafia egiziana. Secondo Robert: «si potrebbe parlare, per i paesi greci e romani, di una civiltà dell’epigrafia».2 Questa tecnica assai favorevole alla necessità di perpetuazione della memoria, confluisce, all’intero delle città greche, nello sforzo di tesaurizzazione non più della singola opera, bensì degli accadimenti, dalla storia della città. Molto interessanti sono gli studi corredati a questa tecnica, connessi alla modalità di fruizione della città: la lettura avviene in movimento. Non solo: l’epigrafe doveva essere letta oltre che in movimento, anche a distanza, e soprattutto doveva essere colta a colpo d’occhio. Tutto è studiato per saltare subito agli occhi, per essere facilmente leggibile: alternando il colore dei brani, diminuendo con attenzione la lunghezza della scritta garantendo facilità di ricezione ed incisività. Epigrafe come libro condensato. Penso che questi accorgimenti possano trovare ancora oggi la loro attualità, o forse gli studi odierni possano qui trovare le loro radici. Prendiamo ad esempio le lapidi legislative della Grecia classica: con le riforme di Solone si sancì l’esposizione (su lapidi, stele, ecc…) in luogo pubblico delle leggi; le lapidi legislative erano sempre accostate alle statue dei magistrati preposti ad attuarne i contenuti. Quest’abile integrazione di scritti e immagini cristallizza un’efficace e persuasiva comunicazione. Ritengo che anche questa strategia sia un’ulteriore

Voce “mnemonica”, in Enciclopedia italiana Treccani, http: www.treccani.it/ vocabolario/mnemonica/ 2 L. Robert, Epigraphie, in C. Samaran, a cura di, L’histoire et ses méthodes, in Encyclopédie de la Pléiade, v.11, Gallimard, Parigi 1961, p.454. 1

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intuizione museale: ancora oggi viene utilizzato questo espediente, di radici molto lontane, nella maggioranza degli allestimenti. Dal saccellum tombale e templare del teatro, dagli edifici pubblici ai giardini, l’antichità elabora anche un concetto generalizzato di musealizzazione, accentuando l’importanza della costruzione retorica della città attraverso tutte le strumentazioni offerte dall’iconografia, dall’epigrafia, dall’architettura, dalla scenotecnica.

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5. L’arsenale

Un altro archetipo della comunicazione museale, indagato dalle due autrici, riguarda l’attenzione della civiltà classica verso macchinari di ogni genere. In particolare, l’arsenale risulta essere l’esempio più importante della cultura dei machinaria. Spesso nella cultura greca le navi da guerra erano considerate un particolare dono votivo a seguito di una vittoria. Ciò sottolinea l’attenzione, del tutto attuale (si pensi ad esempio al Vittoriale degli Italiani), del popolo classico non soltanto per i capolavori artistici, ma anche per oggetti di altra natura, strumentale, per esempio. L’attenzione per oggetti di questo tipo apre numerose riflessioni rispetto la loro musealizzazione. La grande dimensione portò all’utilizzo di un espediente utilizzato ancora oggi nei musei: la musealizzazione di una sola parte dell’oggetto, della mezza nave in particolare. L’arsenale divenne il luogo deputato ad ospitare questo tipo di esposizione. A pianta longitudinale, suddiviso in tre navate da una doppia fila di colonne, in esso si intrecciavano percorsi pubblici che collegavano due parti della città, e percorsi museali. Anche Roma non sfugge al fascino degli arsenali, lì chiamati navalia. Essi vennero citati per la prima volta nel 332 a.C.. Presentano alcune differenze rispetto il parallelo greco: innanzi tutto nascevano dalla volontà di conservazione delle memorie politico storiche, e non per l’ammirazione del lavoro umano ed esaltazione artigiana; inoltre erano spesso caratterizzati da bacini artificiali appositamente costruiti per esporre le navi da guerra.

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Mi permetto un parallelo: Pergamon Museum, Metropolitan Museum, British Museum, Louvre, sono alcuni esempi in cui l’espediente greco della musealizzazione di una sola parte dell’opera, nei casi in particolare di una parte di una architettura, ha il suo massimo compimento. Qui parti di un insieme architettonico più esteso vengono riprodotti, o trasferiti, in un altro luogo: così da potersi meravigliare della maestosità dell’altare di Pergamo pur trovandosi a Berlino.

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6. Il teatro

La corrispondenza fra museo e teatro, come luoghi in cui si espone qualcosa allo sguardo , è una costante del pensiero cinque-seicentesco. Questa corrispondenza però si inverte nel rapporto tra osservatore e osservato: il teatro presuppone che gli spettatori siano fissi mentre guardano oggetti in movimento; nel museo lo spettatore è in movimento mentre guarda gli oggetti fissi. Alla cultura greca del teatro devono molto non soltanto i musei, ma anche la stessa città greca composta secondo un’organizzazione teatrale. I termini propri della composizione teatrale come scena, sfondo, inscenamento, spettatore, sono spesso ricorrenti nella collocazione museale di opere d’arte. Secondo le autrici: «…è logico concludere che un modello evoluto di museo discende senz’altro da un modello altrettanto evoluto di spazio scenico, quel modello che la Grecia del V secolo aveva perfettamente elaborato […]»1. Le scene teatrali concepite sin dal principio come sfondo delle immagini che gli attori creavano muovendosi sulla scena, erano organizzate su un ordine fondamentale: la columnatio. Intercolunnio che nei templi risulta essere l’elemento ordinatore dei donaria, nelle stoài funziona come struttura ordinatrice di statue e altri oggetti, permettendo anche condizioni di luce ottimali. In ogni forma della comunicazione artistica il colonnato costituisce motivo d’ordine fondamentale. Ma tra tutte le columnationes possibili sono quelle delle scene teatrali a mantenere la

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 98. 1

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giusta misura e a garantire un rapporto statuario fra oggetti da esibire e architettura. Per altri versi con una nuova e più convinta vivacità, queste ambientazioni basate su una presenza forte dell’architettura, torneranno, forse del tutto inconsciamente, anche nel museo moderno, laddove l’allestimento rinuncia all’uso di bacheche e vetrine, per contestualizzare gli oggetti all’interno di ambienti urbani minutamente riprodotti o situazioni architettoniche urbane soltanto vagamente alluse. L’architettura della città, quale che essa sia, ritorna, con espedienti squisitamente teatrali. 2

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 103. 2

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7. Il giardino musaico

È dalle nove Muse figlie di Mnemosine, dea della memoria, e di Zeus, padre degli dei e dio della sapienza, che deriva il termine museo. Esse erano considerate le protettrici delle arti e in quanto figlie di Mnemosine e di Zeus erano anche protettrici della memoria e del sapere. I luoghi in cui esse vivevano, secondo la mitologia, sono molteplici: in grotte mistiche per esempio. Vere e proprie grotte-museo, che assunsero il carattere di antri sapienziali. Ma, visto «[…] l’immenso campo delle attività protette dalle Muse, nella fondamentale ambivalenza dei miti, i luoghi sacri dedicati a queste dee, non possono a loro volta che essere complessi e soprattutto duplici.»1. Di fatti il mito delle Muse viene spesso accomunato alla montagna: dall’originario boschetto, dall’originaria collina, il Mousèion va assumendo le più varie connotazioni di luogo aperto. Altro aspetto fondamentale, riguarda il giardino, che nella cultura della Grecia classica, era il luogo destinato al culto musaico. «Questo tema del giardino paradisiaco, si ritrova ovviamente anche nel Museo di Alessandria […]»2. Ciò che più interessa del giardino musaico è proprio questo stretto legame che, a partire dal V sec. a.C., instaurerà con le tematiche dello studio, attraverso vari sviluppi, giungendo fino al Mousèion alessandrino, assumendo il carattere di vero e proprio giardino sapienziale. Non solo. Per la sua origine sacrale il giardino musaico non

1

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 116. 2 Ivi, p. 117.

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può essere privo di un saccellum, che si trasformerà poi in deposito librario: il museo si fa scuola, strumento di sapere organizzato. Nelle successive istituzioni della Accademia di Platone e del Liceo di Aristotele il giardino sacro dedito al culto delle muse è sempre presente. In diversi scritti classici, analizzati dalle due autrici, si può notare come nelle due istituzioni di Platone e Aristotele, sia costante la presenza di camminamenti coperti, pergolati, portici, o meglio peripàtois. Questi elementi architettonici, che verranno ripresi anche dal mondo romano, introducono un concetto prettamente museale: apprendere passeggiando. Si delinea quell’intrigo fra scienze dello spirito e scienze del reale, fra arti visive e memoria scritta, fra spazi aperti e chiusi, che diventerà il fondamento dell’oratorium e laboratorium, del chiostro medievale, cioè depositario e traghettatore verso la modernità degli autentici prototipi museali del mondo antico. In conclusione il giardino musaico è a tutti gli effetti, secondo le autrici, una particolare summa di tutti i concetti tipici della disciplina museologica: «sottrazione all’uso, creazione di uno spazio a parte attraverso l’accentuazione della componente liminale, la necessità di una comunicazione di tipo simbolico, ma anche multimediale, […]»3

3

M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 130.

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8. La biblioteca

Se negli esempi finora descritti erano le cose a trasmettere conoscenza, l’archetipo della biblioteca risponde ad un altro tipo di sapere, una conoscenza elaborata dall’uomo. Essa è una attrezzatura collaterale ad ogni tipo di musealizzazione, salvo nei casi in cui non sia essa stessa museo. Rintracciare le origini di questo archetipo museale, non è semplice: «…raccolte di documenti esistettero in realtà in molte altre società, alcune delle quali più antiche di quella greca»1. Tuttavia non è l’archivio il vero antenato della biblioteca greco ellenistica. Secondo le autrici bisogna scendere fino al primo millennio per trovare biblioteche nel senso stretto, come quelle di Borsippa e Uruk ancora attive al tempo dei Greci, piuttosto che le raccolte librarie dei templi o l’antecedente egizio. La costituzione di vere biblioteche “pubbliche” viene dilazionata nel tempo da un diverso numero di studiosi, e con essa anche la formazione di un’adeguata tipologia architettonica e di un altrettanto adeguato concetto di conservazione dei libri. Oltre queste incertezze, è bene parlare in questo paragrafo, del più famoso museo dell’antichità, il Mousèion per eccellenza, quello di Alessandria d’Egitto. Il termine Mousèion indicava l’istituzione culturale pubblica creata da Tolomeo da Sotere ad Alessandria d’Egitto nel VI sec. a.C. in stretta correlazione con la celebre biblioteca: un luogo di riunione e di studio per letterati, scienziati, filosofi, tra le cui funzioni non è certo, anche se probabile, vi fosse anche quella di raccogliere ed 1

S. Dahl, Histoire du livre de l’antiquité à nos jours, lamarre, Parigi 1933, p. 53

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esporre opere d’arte. Strabone, primo storiografo del Mousèion, narra come gli ispiratori del museo e della biblioteca furono gli ateniesi Demetrio e Stratone, i quali portarono ad Alessandria d’Egitto i principi che animavano il Liceo di Aristotele e l’Accademia platonica per renderli istituzioni ufficiali: i principi di una comunità totalmente dedita alla ricerca del vero, ossia al culto delle Muse. 2 L’ipotetica integrazione artistica all’oltre mezzo milione di volumi, organizzati per generi, identifica la biblioteca alessandrina come una duplice istituzione: bibliotecaria e museale, entrambe aperte al pubblico. I modelli di riferimento del Mousèion furono il ginnasio e il palazzo. Nonostante l’incertezza su quale dei due fosse quello effettivo, permane in entrambi l’idea di uno spazio centrale che consente al visitatore di mantenere sempre vivo il riferimento ad un centro. Concetto ritrovato «…nella logica dei grandi musei attuali, incentrati sul nucleo della grande hall …»3. Nel caso dei ginnasi o meglio delle annesse palestre, si può prendere a modello l’impianto del santuario di Olimpia del III sec. a.C.. Pianta quadrata, organizzata attorno ad una corte centrale, delimitata da un portico continuo sul quale si affacciano una serie di sale. Tutti gli ambienti perimetrali si affacciano sul portico attraverso colonnati minori consentendo continuità spaziale e visiva. Anche nella tipologia palaziale ellenistica si afferma il modello di grande corte centrale porticata sulla quale si affacciano i vari ambienti. Purtroppo l’assenza di testimonianze archeologiche non permette di chiarire in maniera esaustiva la forma, la tipologia e l’effettivo funzionamento del Mousèion.

Cfr. M. Marzotto Caotorta, Il museo e l’opera d’arte. La riflessione di Quatremère de Quincy, e-book per l’arte, testo edito unicamente come ebook, 2011, pp. 20-22. 3 M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 136. 2

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Rimane supposizione anche l’integrazione di questo impianto architettonico con esibizioni di altra natura. Una sorta di college in cui questi ultimi venivano ospitati al fine di studiare, osservare, ed elaborare dei testi, su opere artistiche, rarità esotiche vegetali e animali, raccolte nell’annesso orto botanico e zoo. Il luogo deputato a questi studiosisacerdoti era l’ oikos: «…è qui che matura quel concetto di museo laboratorio che molti ritengono una esclusiva acquisizione della modernità»4. Anche la tradizione legata al culto non viene meno nel Mousèion: esso era collegato ad un mausoleo che conteneva le spoglie di Alessandro, trasportate nella città da Tolomeo I. È molto importante sottolineare questa fatto per rendere visibile il legame con il culto mortuario egizio e il culto della memoria greco. La tipologia della Biblioteca alessandrina riveste nel mondo antico un’insostituibile ruolo di modello. Non a caso le autrici analizzano nel testo preso in esame altre antiche biblioteche, pervenuteci fino ai giorni nostri, diversamente da quella presa a modello, sicuramente influenzate dall’istituzione alessandrina e in cui la situazione museale si presentifica ulteriormente. La biblioteca dell’Acropoli di Pergamo, il Mousèion di Adriano ad Atene, la biblioteca di Ephesos, la biblioteca annessa all’Atrium Libertatis. In tutti questi esempi si nota un impianto comune, una continua presenza di opere d’arte, e in alcune di esse anche una sicura distinzione fra sale di lettura e sale di deposito, che non è stato possibile riscontrare nella biblioteca di Alessandria d’Egitto. Nella tipologia di biblioteca romana, dell’Atrium Libertatis, è stata riscontrata anche una divisione della biblioteca fra testi greci e testi latini, che caratterizza una raccolta di tipo sistematico. Non solo: anche precisi concetti sulla conservazione e precisa fruizione continuano a svilupparsi a partire dal modello di Alessandria. M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 138. 4

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PARTE II. PERMANENZA DI ORIGINARI ARCHETIPI

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1. Introduzione

Il testo L’idea di museo propone un’interessante panoramica delle radici degli organismi museali. Panoramica che purtroppo non sconfina verso l’approfondimento di questi lasciti antichi alla cultura museale moderna: ciò è quello che mi sono proposta di fare. Purtroppo non è stato possibile affrontare questa analisi per ogni archetipo individuato dalle autrici. Interpreto così questa condizione: solo alcuni archetipi museali del mondo antico sono ancora validi ai nostri giorni, altri non possono trovare più alcun riscontro. Per questo motivo analizzerò la permanenza solo di alcuni archetipi antichi: il tempio, l’arsenale, la biblioteca, il teatro, e in maniera trasversale al modello templare anche la tomba. Vorrei iniziare citando Paul Valery: Non amo troppo i musei. Ve ne sono di ammirevoli, ma nessuno è delizioso. Le idee di classificazione, di conservazione e utilità pubblica, che sono giuste e chiare, hanno pochi rapporti con le delizie […] Mi trovo in un tumulto di creature congelate, ciascuna delle quali esige, senza ottenerla, l’inesistenza di tutte le altre [...] Davanti a me si sviluppa nel silenzio uno strano disordine organizzato. Sono preso da un orrore sacro. Il mio passo si fa religioso. La mia voce cambia, diventa un poco più alta che se fossi in chiesa, ma meno forte di quanto non mi accada nella vita. Presto non so più che cosa sia venuto a fare in queste solitudini cerate, che ricordano il tempio e il salone, il cimitero e la scuola [...] Quale fatica, mi dico, quale barbarie! Tutto ciò è disumano. Non è puro. Questo avvicinamento di meraviglie indipendenti e nemiche, e tanto più nemiche quanto più si assomigliano, è paradossale [...] L’orecchio non sopporterebbe dieci orchestre insieme. Lo spirito non può seguire molte operazioni distinte, non ci sono ragionamenti simultanei. Ma ecco che qui l’occhio [...] nell’istante in cui percepisce, si trova obbligato

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ad ammettere un ritratto e una marina, una cucina e un trionfo, dei personaggi negli stati e posizioni più diversi, e non solo, ma deve accogliere nello stesso sguardo armonie e modi di dipingere incomparabili tra loro, [...] delle produzioni che si divorano tra loro [...] Ma la nostra eredità ci schiaccia. L’uomo moderno, estenuato dall’enormità dei suoi mezzi tecnici, è impoverito dallo stesso eccesso delle sue ricchezze […] Un capitale eccessivo e dunque inutilizzabile. 1

Seguendo l’analisi di Umberto Eco, proposta in occasione di una conferenza tenutasi a Bilbao, Il museo nel Terzo Millennio, Valery coglie del museo tradizionale tre caratteri: «ambiente silenzioso, oscuro, non amichevole; mancanza di contesto per le singole opere; abbondanza di opere e difficoltà a percepirle e memorizzarle tutte»2 Oggi, continua Eco, le prime due affermazioni non sussistono più, ma si è ovviato anche alla terza? Lo scrittore prosegue il suo ragionamento fino a delineare un modello personale di museo, un modello museale incentrato su una sola ed unica opera. Io vorrei fermarmi alle caratteristiche delineate da Eco per lo scritto di Valery per iniziare il mio ragionamento.

P. Valery, “Le problème des musées”, Le Gaulois, 4 aprile 1923, ora in OEuvres, Paris, Pleiade II, pp. 1290 sgg. 2 U. Eco, “Il museo nel Terzo Millennio”, tratto da una conferenza tenuta al Museo Guggenheim di Bilbao il 25 giugno 2001. 1

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2. Ricordando il tempio: dal gusto per l’accumulo al white cube

Il secondo carattere delineato da Umberto Eco nella rilettura di Valery, mancanza di contesto per le singole opere, mi ricorda un archetipo analizzato nella prima sezione di questa ricerca, il tempio. Si era descritto come questa tipologia architettonica subì una cambiamento molto importante: da tesoro-edificio a edificio atto a mostrare. Da edificio costruito per la statua del dio, a edificio ricco, saturo di oggetti, doni votivi, armi, parti anatomiche, statue, incisioni e molto altro. Il tutto disposto, o meglio esposto, in ogni parte del tempio: non più solo all’interno della cella, ma anche nel pronao, sulle pareti del tempio, appesi al soffitto, adagiati a terra, e dove lo spazio mancava al di fuori del tempio stesso. Il modello a quadreria di inizio Novecento tanto criticato da Valery, penso offra un parallelo sorprendente con l’abbondanza delle collezioni templari precedentemente descritte. Quasi spontaneamente ho collegato la “seconda fase templare”, edificio atto a mostrare, con il museo criticato da Valery (si riferiva forse al Louvre?) o meglio, le modalità di esposizione delle opere, cui quel museo si rifaceva. Non solo. Mi sento di ampliare il ragionamento. Giovanni Paolo Pannini, pittore, architetto e scenografo italiano1, propose in alcune sue opere, come Roma antica del 1757 e Galleria di panorami della Roma moderna del 1759, delle immagini di quadrerie assimilabili a quelle di inizio di Novecento. E anche qui il gusto per l’abbondanza risulta essere il tratto caratteristico di quell’ambiente immaginario. Cfr. voce “Giovanni Paolo Pannini”, in Enciclopedia italiana Treccani: enciclopedia, giovanni paolo pannini, www.treccani.it. 1

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Il ragionamento potrebbe essere ulteriormente ampliato. Durante una sua lezione, il professore Pier Federico Caliari, per il corso “Progettazione di grandi mostre e musealizzazioni”, parlò di tre modelli ostensivi della comunicazione: modello dell’assenza, modello dell’effimero e modello della ridondanza. Approfondendo il terzo modello, si soffermò in maniera particolare sul John Soane Museum. L’architetto inglese trasformò la propria casa in un vero e proprio museo, dove ogni singolo pezzo trova il suo giusto ordine nell’”abbondante insieme”. Non è mia intenzione dilungarmi nel caso specifico. Ciò che mi preme esprimere e sottolineare è il ritorno dell’archetipo museale antico: il tempio, come edificio atto a mostrare. Allo stesso modo richiamando l’archetipo templare, non si può ignorare la sua prima fase di edificio-tesoro. I templi nacquero inizialmente come edifici per contenere l’anathema del dio. In questa fase non si ricercava uno spazio autonomo altro attorno al simulacro divino, e la situazione presente era data dal tradizionale rapporto di figura/sfondo. Penso che questo archetipo museale possa avere un collegamento profondo con un modello espositivo tipico dell’arte contemporanea. Leggendo la recensione di Riccardo Venturi del testo Inside the white cube di Brian O’Doherty, emerge che: Il white cube nasce dalla crisi di quel modello espositivo che irritava un Paul Valéry già nel 1923 . La sua sensibilità è pienamente modernista: bisogna spaziare tra loro le opere, restituirgli quell’unicità e quell’isolamento non garantito dall’accumulazione e dall’ambizione enciclopedica di Salone musei. A Valéry mancava la parola, ma quello che cercava somigliava al white cube descritto da O’Doherty . 2

O’Doherty parla del white cube «come grado zero dello spazio», come «momento di svolta in cui la galleria passa da contenitore di oggetti a R. Venturi, “Brian O’Doherty. Inside the white cube”, in: materiali, recensioni, brian o’doherty, insede the white cube, www.doppiozero.com. 2

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oggetto in se».3 Oggetto in se, come a suo tempo lo era il tempio come tesoro-edificio, secondo la lettura di Maria Clara Ruggieri Tricoli e Maria Desirée Vacirca. Ovviamente la lettura di O’Doherty si riferisce al primo white cube diffusosi intorno agli anni Cinquanta, e non generalizzando, alle successive trasformazioni. Approfondendo la lettura di O’Doherty, risulta molto interessante il suo studio sulla centralità dello spazio, verso questa nuova attenzione al contesto in relazione all’arte del Novecento. Dalla pittura a cavalletto al white cube nato attorno agli anni Cinquanta negli states. Come definisce l’autore questo modello espositivo? In sintesi uno spazio asettico e sacralizzante, in cui le pareti dipinte di bianco vengono irradiate da illuminazione zenitale controllata, al fine di avere l’effetto di un ambiente omogeneo. Quello che ho trovato molto stimolante è il parallelo con gli edifici sacri: in particolare O’Doherty propone un parallelo con le chiese medievali e con le stanze funerarie delle piramidi dell’antico Egitto. Afferma che l’obbiettivo di questo tipo di configurazione non sembra essere differente da quello di un edificio sacro: le opere d’arte «non devono essere intaccate dal tempo e dalle sue vicissitudini».4 Le camere funerarie dell’antico Egitto, per esempio, forniscono un parallelo sorprendente perché anch’esse erano concepite per eliminare la consapevolezza del mondo esterno, erano spazi in cui l’illusione di una presenza eterna doveva essere protetta dallo scorrere del tempo. Anch’esse contenevano dipinti e sculture che erano considerati magicamente contigui all’eternità e quindi capaci di consentire l’accesso o il contatto con quella dimensione. Il white cube ha natura essenzialmente religiosa.

B. O’Doherty, Inside the white cube, the ideology of the Gallery Space, University of California press, Los Angeles 1986, trad. it., Inside the white cube, L’ideologia dello spazio espositivo, Johan & Levi editore, Monza 2012, p.17. 4 Ivi, p. 15. 3

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Nonostante questa ambiguità di lettura tra archetipo egizio ed archetipo greco, penso che il white cube possa essere assimilato ad entrambi. Ad ogni modo un’ulteriore prova del protrarsi degli archetipi antichi.

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Immagine 1. S. Morse, La galleria del Louvre, 1831-33, Museo del Louvre.

Immagine 2. J. Hittorf, Allestimento di un tempio classico, (s.a.).

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Immagine 3. D. Judd, Untitled, 1991, David Zwirner Gallery.

Immagine 4. J. Hittorf, senza titolo, ricostruzione del tempio di Zeus ad Olimpia, (s.a.).

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3. Ricordando l’arsenale: l’eco della produzione

Come descritto in precedenza sia nella Grecia che nella Roma antica, si diffusero particolari tipologie di edificio atte a contenere il frutto dell’ingegno e del lavoro umano: arsenale e navalia rispettivamente. Anche se aventi diverse declinazioni, che non conviene ulteriormente presentare, ciò che caratterizzava questi luoghi era l’oggetto contenuto, rispetto il contenitore. La nuova tipologia di questi edifici, progettata appositamente per contenere grandi navi, e che nel caso romano comportava grandiose opere idrauliche per la creazione di bacini artificiali, era oscurata dalla volontà di mostrare i frutti dell’ingegno dell’uomo. Nella prima sezione ho proposto dei paralleli rispetto le tecniche museali che erano nate in questi luoghi: esposizione e allestimento di una sola parte. Ora vorrei proporre un altro collegamento che riguarda gli spazi museali all’interno di ex edifici industriali, vorrei parlare di archeologia industriale. Ciò comporta uno slittamento dal soggetto originario: dal contenuto, frutto della mente umana; al contenitore. Sebbene si debba spostare l’attenzione dal contenuto al contenitore, ciò che li lega è comune: l’eco della produzione. I musei che hanno preso posto all’interno di ex edifici produttivi e militari, espongono sempre, oltre alla “reale collezione”, anche memorie di lavoro, ingegno e studio umano; in questi spazi museali si fa spazio una nuova ricerca verso un’empatia tra contenuto e contenitore. Questi spazi, propri del nostro tempo, hanno introdotto nuove forme d’arte performativa. Il riuso di questi luoghi ha permesso un’innovazione, come innovativi, per ciò che concerne l’oggetto esposto, erano stati i

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grandi arsenali. Sono numerosi i casi che si potrebbero citare. La Tate Modern di Londra la ritengo uno degli esempi più calzanti, ma anche l’arsenale di Venezia o l’Hangar Bicocca di Milano, piuttosto che il Palais de Tokio. Tornando al caso Tate Modern, la possibilità di innovazioni performative è cristallizzata nell’ex sala delle turbine. Mi viene subito alla mente un esempio: Olafur Eliasson con The weather project. Così la produttività umana fa spazio all’arte umana.

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Immagine 1. O. Eliasson, The weather project, 2003, Tate Modern.

Immagine 2. J. S. Morrison, J. F: Coates, Costruzione e riparazione di trireme all’interno di un arsenale, (s.a.).

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4. Ricordando il teatro: dalla teatralizzazione della città alla teatralizzazione dell’opera d’arte

Lo stretto rapporto, presentato dalle autrici de L’idea di museo, tra teatro e museo è ancora oggi presente. Ovviamente esse sottolineavano la ricorrenza di termini teatrali anche nella museografia odierna. Le tematiche presentate nel testo mi hanno fatto riflettere su un ulteriore aspetto: l’inscenamento delle cose, la loro teatralizzazione e drammatizzazione. A questo proposito potrebbe essere interessante parlare della Galleria Continua, in particolare della sede di San Giminiano. Questo spazio espositivo nacque nel 1990 in una ex sala cinematografica degli anni ’50.1 In questo luogo la componente teatrale è molto viva: il pezzo forte della collezione viene sempre posto al centro della vecchia platea cinematografica: si assiste anche qui ad un inversione. Il rapporto tra palco e platea è ora invertito: se lo spettatore è solito stare seduto nella platea per assistere allo spettacolo che si muove nella scena, ora lo spettatore dal palcoscenico contempla l’opera d’arte posizionata nella platea. Da osservatore fisso/spettacolo in movimento a osservatore in movimento/spettacolo (l’opera d’arte) fissa. Questo ribaltamento della funzione palco/platea, crea in questo luogo una forte centralità, e una grande teatralizzazione a mio avviso. Le tende rosse della scena, ancora presenti, enfatizzano questa condizione. La meraviglia che si prova trovandosi in questo spazio è data dall’inscenamento di un nuovo spettacolo inaspettato. Oltre le tende rosse della scena si intravedono gli 1

Autore sconosciuto, Storia Galleria Continua, in: storia, www.galleriacontinua.com.

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altri pezzi della collezione, disposti anche sulle pareti che delimitano la platea. L’arte contemporanea ha qui presentato il suo nuovo spettacolo, senza tralasciare tutta la tradizione teatrale della Grecia classica

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Immagine 1. M. Nasr, The other side of the mirror, 2011, Galleria Continua, San Giminiano.

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5. Ricordando la biblioteca: dai filosofi ai ricercatori

Trattando l’archetipo della biblioteca le autrici parlano di un luogo di riunione e di studio per letterati, scienziati, filosofi, tra le cui funzioni non è certo, anche se probabile, vi fosse anche quella di raccogliere ed esporre opere. Il tratto che potrebbe più interessare nell’ottica di una rilettura odierna è: luogo di studio per scienziati, letterati e filosofi, ovvero di museo laboratorio. A questo proposito vorrei presentare il caso dello Schaulager di Herzog e De Meuron. Il termine che in tedesco significa magazzino per la visione, indica un nuovo centro dedicato all’arte. Non si tratta di un museo, né tantomeno di una tradizionale struttura magazzino. Questo spazio espositivo ibrido è stato concepito soprattutto come magazzino aperto, in grado di garantire ottimali condizioni di conservazione delle opere di arte contemporanea. La collezione principale è quella della fondazione Emmanuel Hoffmann, che costituisce anche il fulcro espositivo. Si potrebbe identificare il progetto come una consapevole combinazione tra museo pubblico, magazzino artistico e istituto di ricerca artistica. Il rapporto con le opere d’arte è del tutto nuovo: partendo dal concetto di conservazione delle stesse le modalità con cui le opere sono esposte o meglio conservate è del tutto diversa dalle gallerie d’arte tradizionale. Ma il tratto più interessante, che mi permette di proporre un parallelo con la biblioteca ellenistica riguarda i suoi fruitori. Lo Schaulager si rivolge prevalentemente ad un pubblico competente, specialisti scientifici,

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ricercatori e docenti, ma vengono organizzati diversi eventi aperti al pubblico, oppure è possibile visitarla su richiesta.1 Trovo in questo luogo un rapporto costante tra conservazione, ricerca, ed esibizione d’arte: rapporto costantemente presente anche nell’archetipo della biblioteca presentato dalle autrici M.C. Ruggieri Tricoli e M.D. Vacirca. Si potrebbe azzardare un parallelo tra i filosofi greci e il pubblico competente di ricercatori e docenti; tra la conservazione e catalogazione di antichi testi e la conservazione di opere d’arte contemporanea; la volontà di mettere in mostra del mondo antico con l’apertura saltuaria al pubblico per mostrare le opere conservate nello Schaulager.

1

J. Herzog, P. de Meuron, Schaulager, in: index, projects, complete-works, schaulager, www.herzogdemeuron.com.

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Figura 1-2. J. Herzog, P. de Meuron, , Schaulager, 2003, M端nchenstein.

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CONCLUSIONI

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Tomba, tempio, teatro, città, arsenale, biblioteca: museo come collezione di tipi funzionali che l’antichità ci consegna. Dal sacellum tombale e templare al teatro, dagli edifici pubblici ai giardini, l’antichità elabora anche un concetto generalizzato di musealizzazione, accentuando l’importanza della costruzione retorica della città attraverso tutte le strumentazioni offerte dall’iconografia, dall’epigrafia, dall’architettura e dalla scenotecnica. Nello stesso tempo l’antichità è stata anche in grado di perfezionare alcune pratiche e idee guida della disciplina museologica: la sottrazione all’uso, la creazione di uno spazio altro, a parte, attraverso l’accentuazione della componente liminale, ma anche la consapevolezza della necessità della commistione di comunicazione epigrafica e immagini. Penso si possa confermare a tutti gli effetti la tesi offerta dalle professoresse Ruggieri Tricoli e Vacirca: oltre duemila anni fa i Greci possedevano molteplici conoscenze della comunicazione museale. Le loro conoscenze sono arrivate fino ai nostri tempi, la nostra società le ha fatte proprie per continuare la costruzione della conoscenza museologica e museografica. Quindi si, le radici dell’organismo museo sono molto più antiche, risalgono ancor prima del V sec. a.C.. Come spero di avere dimostrato, non tutti gli archetipi antichi sono riscontrabili oggi, ma alcuni di loro persistono ancora fortemente nella nostra cultura.

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Siti internet www.doppiozero.it www.galleriacontinua.com

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www.herzogdemeuron.com www.treccati.it

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ELENCO E FONTI DELLE ILLUSTRAZIONI

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FRONTESPIZIO

Copertina del testo M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998.

SEZIONE II Capitolo 2 Immagine 1. S. Morse, La galleria del Louvre, 1831-33. Foto Terra Foundation for American Art, Chicago, in . O’Doherty, Inside the white cube, the ideology of the Gallery Space, University of California press, Los Angeles 1986, trad. it., Inside the white cube, L’ideologia dello spazio espositivo, Johan & Levi editore, Monza 2012, p.24. Immagine 2. J. Hittorf, Allestimento di un tempio classico, ricostruzione del tempio di Selinunte, in M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 52. Immagine 3. D. Judd, Untitled, 1991, David Zwirner gallery, New York, in: artists, Donald Judd, selected works, www.davidzwirner.com. Immagine 4. J. Hittorf, senza titolo, Ricostruzione del tempio di Zeus a Olimpia, in M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 42. Capitolo 3 Immagine 1. O. Eliasson, The weather project, 2003, Tate Modern, Londra, foto personale.

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Immagine 2. J. S. Morrison, J. F: Coates, Costruzione e riparazione di trireme all’interno di un arsenale, in M.C. Ruggieri Tricoli, M.D. Vacirca, L’idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico, Lybra immagine editore, Milano 1998, p. 85. Capitolo 4 Immagine 1. M. Nasr, The other side of the mirror, 2011, Galleria Continua, San Giminiano, in: artisti, Moataz Nasr, www.galleriacontinua.com. Capitolo 5 Immagine 1-2. J. Herzog, P. de Meuron, progetto, Schaulager, 2003, Mßnchenstein, foto di Samuel Ludwing.

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APPENDICE

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Note bio-bibliografiche delle autrici

Maria Clara Ruggieri Tricoli nasce nel 1948. Intraprende la carriera di docente universitario presso la Facoltà di Architettura di Palermo dove riveste il ruolo di professore ordinario di Museografia, fino al Gennaio 2014. L’interesse per la musealizzazione dei siti archeologici e di museografia archeologica è sempre stata una costante della sua carriera. Nel 2011 ha fatto parte del comitato scientifico del Master in Museografia, Architettura e Archeologia dell’Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia I suoi libri: Stabilità e morfogenesi nell’architettura (Novecento, Firenze 1996); Palermo nell' Età del Ferro. Architettura ,Tecnica, Rinnovamento (Linee d’arte Giada, Palermo 1998); L'idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico (Lybra, Milano 1998); I fantasmi e le cose (Lybra, Milano 2000); Costruire Gerusalemme. Il complesso gesuitico della casa professa di Palermo dalla storia al museo (Lybra, Milano 2001); I siti archeologici: dalla definizione del valore alla protezione della materia (Dario Flaccovio editore, Palermo 2004); Luoghi, storie, musei. Percorsi e prospettive dei musei del luogo nell'epoca della globalizzazione (Flaccovio Dario editore, Milano 2005); Il richiamo dell’eden, dal collezionismo naturalistico all’esposizione museale (Vallecchi, Firenze 2004); Musei sulle rovine. Architetture nel contesto archeologico (Lybra,

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Milano 2007); 73 musei, d’arte, archeologici, etnografici, naturalistici, scientifici e tecnologici, religiosi, tematici, aziendali, ecomusei (Lybra, milano 2007); Trauma: musei e memoriali fra tragedia e controversia (Maggioli, Santarcangelo di Romagna 2009). Ha scritto anche interventi per la rivista Riflessi, collana semiotica dell’arte nella sezione Museologia e numerosi articoli per Agathon notiziario del Dottorato di Ricerca dell’Università di Palermo in Recupero e fruizione dei contesti antichi.

Maria Désirée Vacirca intraprende, anch’essa, la carriera di docente universitario di Museologia e Museografia presso il Corso di Laurea in Beni Archeologici dell’Università di Palermo. Spinta dalla passione per la museografia archeologica ha partecipato con interventi propri a vari convegni internazionali su tematiche museografiche, tra i quali: Workshop Palestina La città e il Tempio; Master in Museografia, Architettura e Archeologia dell’Accademia Adrianea di Architettura e Archeologia. Fra i suoi testi si ricordano: L'idea di museo. Archetipi della comunicazione museale nel mondo antico (Lybra, Milano 1998) in collaborazione con Maria Clara Ruggieri Tricoli; Dalla Perigesi di Pausania alla moderna Museografia. Sites-museum in Grecia (Aracne editore, Milano 2012).

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Attribuzione scientifica delle parti del libro L’idea di museo

Il testo L’idea di museo è stato scritto da Maria Clara Ruggieri Tricoli e Maria Desirée Vacirca. Si precisa che esclusivamente il secondo capitolo, Il tempio: dal luogo della tesaurizzazione al luogo della sacralizzazione, è stato scritto in collaborazione da entrambe. Maria Clara Ruggieri Tricoli ha sviluppato i capitoli: 1, La tomba: il collezionismo come fondamento antropologico della musealità; 5, Il teatro: teatralità museale e musealità teatrale; 6, Il giardino musaico: iconologia del museo fra mito e etimo; 8, La sala: note museografiche a margine di un brano del III libro della Rhetorica ad Herennium; 9, La guida: il museo come palinsesto geografico. Maria Desirée Vacirca ha sviluppato i restanti capitoli: 3, La città: macchina retorica e macchina mnemotecnica; 4, L’arsenale: ovvero, del museo senza capolavori; 7, La biblioteca e l’integrazione classica fra memoria eidetica e memoria semantica.

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