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Aises Poca prevenzione, molti disastri

AISES

POCA PREVENZIONE MOLTI DISASTRI

L’Associazione Italiana Segnaletica e Sicurezza lancia l’allarme contro l’assenza di una linea comune per la manutenzione del territorio e la prevenzione del rischio idrogeologico. E punta sul piano strategico del ministero alla Transizione ecologica

di Veronica Monaco

Con 620.808 frane su un’area di 23.700 chilometri quadrati, cioè il 7,9% del territorio nazionale (Fonte Ispra), l’Italia è uno dei Paesi europei più franosi. Una condizione dovuta anche alla mancanza di drenaggio del suolo, che porta a conseguenze sempre più spesso catastrofiche a fronte di eventi dirompenti quali bombe d’acqua e allagamenti, spiega Gabriella Gherardi, presidente di Aises, l’Associazione Italiana Segnaletica e Sicurezza, che mette in guardia contro l’assenza di una linea comune per la manutenzione del territorio e la prevenzione del rischio idrogeologico.

Domanda. Quanto la maggiore inclinazione al rischio frane del territorio italiano è una questione di drenaggio?

Risposta. Ovviamente ci sono anche altre cause, ma il drenaggio ha un ruolo fondamentale in questo fenomeno. La mancanza di drenaggio nel suolo crea una sorta di impermeabilità che fa sì che il terreno, in caso di rovesci, non sia più in grado di smaltire l’acqua in eccesso, che invece di entrare nel suolo, lo percorre anche con violenza, portandosi dietro zolle, rocce e pezzi di terra e causando le frane. Questo è uno dei motivi più ricorrenti.

D. In Italia di solito si fanno i conti dopo i disastri: significa che non c’è sufficiente prevenzione?

R. In Italia non c’è sufficiente prevenzione, non tanto perché mancano i fondi, ma perché non si riesce a spenderli. I motivi sono svariati: sicuramente incide l’eccesso di burocrazia, tanto che anche l’Anci, l’Associazione dei Comuni Italiani ha di recente chiesto di modificare le procedure per lo stanziamento dei fondi a sostegno della prevenzione del rischio idrogeologico in ben dieci punti, perché le norme, così come sono state scritte, non funzionano. Non sappiamo a che punto sia questa contestazione, sta di fatto che i soldi non arrivano. C’è anche da dire che molto spesso i soldi non arrivano perché, pur essendo a bilancio, manca la liquidità. Infine, non da ultimo gli enti locali non conoscono bene la materia e non sono avvezzi a un governo sistemico del territorio.

D. Manca dunque una cultura della gestione delle acque?

R. Esatto. Nei vari anni lo Stato italiano ha destinato 28 miliardi alla gestione del rischio idrogeologico, di questi ne sono stati spesi non più di 5 miliardi, quasi sempre in sinistri per danni e non per azioni di prevenzione. Per dirigere i fondi verso la prevenzione bisognerebbe fare un’operazione trasversale e far sì che lo Stato dichiarasse obbligatoria per legge un’assicurazione per i proprietari di terreni e fabbricati contro i grandi rischi naturali, che per l’Italia riguardano in particolare terremoti, frane e alluvioni. Se anche i singoli cittadini contribuissero alla gestione di questi rischi, probabilmente lo Stato potrebbe concentrarsi meglio su quello che occorre veramente, cioè la prevenzione, la bonifica e il ripristino.

D. E la manutenzione…

R. Certo. Spesso si pensa più a costruire che alla manutenzione, invece si tratta di un’attività molto seria e che eguaglia il costo della costruzione. Sono anche cifre grosse, basti pensare che la manutenzione straordinaria, che si dovrebbe fare in media ogni 20-25 anni, ha un valore medio di circa il 30% del costo di costruzione. La manutenzione è fatta di diverse operazioni: la messa a norma dei manufatti in linea con le leggi vigenti, la manutenzione programmata, ordinaria e straordinaria, la gestione dei rischi ambientali, l’innovazione tecnologica. Quest’ultima ha permesso di fare un grosso passo avanti con il monitoraggio elettronico; purtroppo però anche questi dispositivi si guastano, quindi bisogna continuamente controllare che funzionino correttamente. Insomma c’è tutta una serie di operazioni che vanno sotto la parola gestione, ma in questo paese non si investe su questo fronte.

D. Qual è in tutto questo il ruolo di Aises?

R. Aises si occupa di dotazione e sicurezza della strada e territorio, in particolare del regime delle acque. Il nostro ruolo è quello di promuovere presso le istituzioni leggi che aiutino a tenere sotto controllo il territorio in tutte le sue componenti. Ma non basta: bisogna anche controllare che le norme già in vigore vengano rispettate, segnalando i casi in cui

non sono applicate. Purtroppo è una circostanza piuttosto frequente, più di quanto si pensi, poiché manca qualsiasi tipo di controllo, privato e pubblico. Infine teniamo costantemente aggiornata l’opinione pubblica attraverso campagne d’informazione.

D. Quali sono in questo momento le attività in cui è impegnata l’associazione?

R. Siamo impegnati sul problema dei finanziamenti. Con il Ricovery Plan arriveranno altri fondi, che però non si sommano a quelli già esistenti. C’è stata una sorta di compensazione e sono previsti grossi investimenti sul fronte idrogeologico. Ci auguriamo che venga data una frustata alla burocrazia e finalmente si inizi a spendere questi soldi. Le competenze professionali e industriali non mancano. Le azioni di contrasto al rischio idrogeologico sono moltissime, è un settore immenso, purtroppo manca un collegamento tra gli operatori dei vari settori. Aises è stata costituita proprio per colmare questo vuoto e mettere in comune tutti i settori coinvolti per creare un humus fertile, senza il quale le leggi non potranno trovare chi le attui in maniera appropriata.

D. Quanto costano all’economia frane e allagamenti?

R. Si tratta di un calcolo difficile da fare. L’Italia è un paese disastrato dall’acqua, non solo per colpa dell’uomo, ma semplicemente per la natura orografica. Si viene sempre a sapere dei grandi disastri, ma il costo vero è silente. Ci sono tanti piccoli interventi che devono essere realizzati sul territorio e sono quelli che incidono maggiormente. Non dubito che costituiscano almeno il doppio della stima di costo dei grandi eventi catastrofici.

D. Si parla spesso della necessità di grandi opere, ma è davvero solo una questione di maxi investimenti?

R. Ci sono tanti interventi che non vengono riconosciuti dallo Stato, o che vengono fatti dai Comuni in via amministrativa e non vengono scritti al capitolo disastri idrogeologici. Le statistiche ci dicono poco. Sicuramente in Italia non abbiamo una cultura di gestione preventiva del territorio, mentre questa è la chiave per tenere sotto controllo questo fenomeno terrificante.

D. Il Pnrr contempla anche la sicurezza del territorio?

R. Il Recovery Plan ha stanziato molti soldi per l’ambiente, circa 60 miliardi. Purtroppo la gestione del territorio è assente. Abbiamo inoltrato la nostra reprimenda al ministro del Tesoro su questa questione e ci auguriamo che ne terrà conto.

D. Allo stato attuale esiste un quadro legislativo definitivo?

R. No. Il Governo Conte aveva inaugurato la famosa cabina di regia Benessere Italia, quando aveva visto che la materia era molto dispersa. Questa cabina di regia aveva lo scopo di mettere insieme sia norme che finanziamenti, ma non ha mai funzionato.

D. Quali sono le attività che bisognerebbe mettere in atto?

R. Si dovrebbe avere la forza di scrivere una grande legge quadro sulla gestione del territorio. Occorrerebbe inoltre una maggiore attenzione all’azione degli enti locali e dei privati nel tenere in ordine le loro proprietà.

D. Quindi nella salvaguardia del territorio giocano un ruolo anche i privati…

R. I privati hanno enormi responsabilità nella gestione del territorio. Non solo perché consumano suolo oltremisura, facendone un uso dissennato, ma anche la mancanza di una cultura nella gestione dei rischi. Per esempio, sul fronte dell’emergenza sismica, manca assolutamente la messa a norma dei fabbricati. Così quando capitano i terremoti siamo impreparati, cosa che non succede in altri paesi dal forte rischio sismico, come in Giappone o in California.

D. È stata una buona idea abolire l’agenzia Italia Sicura, la Struttura di missione contro il dissesto idrogeologico?

R. No, è stata una pessima idea. Devo dire che a mio giudizio aveva lavorato anche bene, creando le basi per la cultura di un certo tipo sul territorio. I poteri dell’agenzia sono stati restituiti al ministero dell’Ambiente. Si pensava venisse sostituita con qualche altro tipo di struttura, invece da allora, il 2018, non è stato fatto niente. L’ex ministro Sergio Costa aveva lavorato per più di un anno a una legge quadro sulla questione delle acque, che purtroppo non è arrivata a compimento. Mi auguro che ci ripensino e che l’agenzia venga riattivata.

D. All’interno di Aises avete istituito una filiera grandi rischi: di che cosa si tratta?

R. La filiera riunisce diversi industriali che si occupano di vari settori coinvolti nel contrasto al rischio idrogeologico, con l’obiettivo di creare una linea comune che possa diventare il braccio operativo della legge quadro che auspichiamo.

D. Una sorta di piattaforma di confronto?

R. La federazione Finco, di cui Aises fa parte, coalizza circa 40 categorie specialistiche del mondo delle costruzioni e manutenzione. Tra queste categorie ve ne sono molte che hanno a che fare con la gestione del territorio. Aises le ha riunite per promuove un dialogo e creare un tessuto comune affinché ci sia un coordinamento nell’applicazione delle leggi e nella formulazione delle proposte alle istituzioni competenti.

D. Che cosa vi aspettate nel prossimo futuro?

R. Gli ultimi governi hanno fatto molto in materia ambientale, ma finora gli interventi sono stati separati e sporadici, manca una linea comune. Ci auguriamo che il nuovo ministro alla Transizione ecologica Roberto Cingolani possa veramente dare una svolta. Siamo positivi, ma va individuato al più presto un piano strategico per il territorio, all’interno del quale il tema del rischio idrogeologico e della gestione delle acque sta ai primi posti.

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