Sarajevo 3

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Sarajevo 3 20 11



A Sarajevo, tre non è soltanto il numero di un tram che collega un estremo all’altro della città, correndo sull’asse centrale della Ulica Zmaja od Bosne. In un tempo che ha lasciato tracce profonde sui corpi degli uomini e delle cose, quella strada veniva chiamata con altre parole, riferite a gente ben diversa dallo Zmaj od Bosne, il valoroso “Dragone di Bosnia”. In quel tempo, i tram della linea numero tre non correvano più sul viale dei cecchini. A Sarajevo, tre significa almeno tre. Che siano religioni, etnie, linguaggi o colori, incontrare Sarajevo significa incontrare il molteplice. Una corsa sul tram, dal cuore della città vecchia in Bašcaršija fino a Ilidza, permette di osservarlo, avvicinarlo, attraversarlo. E di riflettere con lo sguardo sulla corsa verso la modernità in cui è impegnata la capitale della Bosnia-Erzegovina. ˆ

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In quanto limite e crocevia, Sarajevo rappresenta uno spessore culturale nel senso descritto da Gilles Clément nel Manifesto del Terzo Paesaggio. Ancora, accettando di forzare un poco il pensiero dell’autore francese, si può sostenere che Sarajevo rappresenta un residuo dell’urbicidio perpetrato dalla guerra e quindi un ambiente di biodiversità urbana estremamente vivace, un luogo dove la vita fiorisce a macchie, sull’asfalto, in modo irregolare. Sarajevo 3 è un viaggio breve in una città che non è soltanto lo specchio dei suoi abitanti, ma è un riflesso di tutti noi, con le nostre sconfitte e le nostre speranze, le nostre contraddizioni. Il tram di Sarajevo percorre una strada che è la metafora di una vita e di una storia. Sarajevo porta addosso ferite visibili dal finestrino del tram, senza nasconderle, ma nemmeno ostentarle. Sarà per questo che, nella sua cromatica complessità, Sarajevo è un luogo potente, è il posto di un’umanità consapevole della sofferenza, ma non abbattuta, di gente che avverte la fragilità delle umane illusioni, eppure cammina per strade strette e piazze lucide di vetrine, quartieri-dormitorio e suggestivi passaggi lungo l’argine della Miljacka, zone verdi e periferie industriali. Come quel tram.


Quanta vita c’è in quella guerra? Quanta morte c’è in questa pace? Margaret Mazzantini, Venuto al mondo, 2008


Stretto fra le costruzioni lungo la strada che esce dal centro storico di Sarajevo, un tram si allontana dalla Bašcaršija per un’altra corsa verso la periferia occidentale della città, Ilidza. ˆ

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Al mercato coperto di Markale un fruttivendolo sembra incoraggiare il tram, con la mano, a proseguire. Lo stesso gesto nasconde – protegge? – il volto di un amico. Alle sue spalle, nomi su un muro. Sono quelli delle vittime della strage del 5 febbraio 1994.


A bordo non ci sono turisti accanto ai pendolari che tornano a casa dopo una giornata di lavoro negli uffici, negozi e cantieri del centro. Mani strette alle barre di sostegno, pensieri altrove.


Il tram procede lungo l’ampia strada dedicata al Maresciallo Tito. In pieno centro a Sarajevo, il comandante della Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia non avrebbe mai immaginato di fermarsi a leggere una copia dell’Oslobodenje davanti alla vetrina di un fast-food americano.


Almeno tre.


C’è un’antica sinagoga, poco distante dai binari del tram. E’ un luogo di culto associato alla comunità sefardita, che portò con sè dalla Spagna lo straordinario libro della Haggadah. Oggi la sinagoga funziona soprattutto come museo e viene utilizzata solo in occasioni speciali dalla piccola comunità di Sarajevo.


Oltre la parte storica della cittĂ , il tram prosegue verso ovest. Le costruzioni si fanno squadrate, spazi di transito e commercio accompagnano il percorso, fra qualche miraggio in cornice.


Le ferite ci sono ancora. Tanti anni dopo stanno ancora lĂŹ, attaccate alle facciate dei palazzi. Ma sotto c’è un tram che corre, corre via.


Dove va, questo tram? Dove mi porta? Io so dove comincia questa strada, so dove passa, so dove finisce. E’ sempre la stessa, questa strada senza curve, eppure in certi tratti mi pare di non riconoscerla.


Qui, per esempio, sembra quasi di non essere qui. Le finestre del palazzo del parlamento si specchiano nell’acqua limpida della fontana, la facciata dell’hotel Holiday Inn splende come un girasole. E’ bella, la mia nuova città.


Più avanti, una scala bianca porta al museo dell’assedio. Si potrebbe sistemare l’ingresso, togliere le erbacce, stuccare i muri. Ma non ce n’è bisogno. Perché quel museo non serve solo a mostrare i segni della guerra, ma anche quelli del tempo che passa e che scava la sua trincea fra ieri e oggi.


C’è una chiesa ortodossa finemente decorata, lungo il tracciato del tram. Fuori, all’aria aperta del mattino, c’è una coppia di custodi, una sedia e un bricco di thè.


India, Egitto, Dubai, Cina, Turchia: il fascino dell’oriente appare d’incanto sulla fiancata di un tram. Dietro, una montagna: Dobrinja.


Avanti e indietro cammina il tram di Sarajevo, col suo passo né lento né veloce, col suo rumore né debole né forte, col suo interno né sporco né pulito. C’è posto.


Più o meno a metà percorso, due moderni minareti bianchi segnano il paesaggio. Appartengono alla moschea dell’indipendenza – istiqlal – donata alla capitale bosniaca dal governo indonesiano.


Pulito. Il tappeto della preghiera.


Che cosa resta di questa giornata, di questo tram che attraversa Sarajevo. Luci che si abbassano e ombre che si allungano. FinchÊ, domani, non saranno le luci ad alzarsi e le ombre a ritirarsi. Per un po’.


Dentro quella bandiera c’è un sogno. Ma questa è una giostra.


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Lunga è la strada, molto più lunga dei dieci chilometri fra Bašcaršija e Ilidza. Ma, un pezzetto alla volta, il prossimo punto di partenza si avvicina.


Tutti che guardano fuori, distratti, stanchi, assorti. E io che guardo te.



YOX Photography Sarajevo 3 (c) 2011


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