Un muro non basta - Parte 1/2

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muri

collana diretta da

Federico Busonero e Andrea Merli



Andrea Merli

un muro non basta

a cura di

Federico Busonero

EdizionidellaMeridiana


Un libro, fatto di tante pagine, riflette un gruppo di tante persone che hanno condiviso il mio percorso lungo il muro e creduto nel senso del progetto. In primo luogo desidero ringraziare l’organizzazione non governativa VIS (Volontariato Internazionale per lo Sviluppo) e Antonio Raimondi, che hanno trasformato le prime immagini del muro in una campagna d’informazione in grado di raggiungere più di trentacinque città in tutta Italia. Questo ringraziamento si estende a tutti coloro che hanno accolto, organizzato, allestito, visitato, apprezzato e criticato la campagna, avviata nel 2005 a San Giovanni Valdarno e approdata nel 2010 a Montevarchi. È grazie al contributo di ciascuna città che il materiale sul muro ha continuato a sollevare domande. L’idea di questo libro è diventata progetto grazie all’entusiasmo di don Mario Cornioli e dell’associazione “Habibti Betlemme” di Montevarchi. Insieme a loro abbiamo trovato nell’editore Andrea Ulivi e nel fotografo Federico Busonero le controparti ideali per elaborare la pubblicazione che avevo in mente. Grazie per la passione e la competenza che avete messo in ogni aspetto del lavoro, oltre che per l’amicizia. In Palestina, desidero ringraziare l’Università di Betlemme e tutti gli amici che, ogni volta, incontro con grande gioia. In particolare, grazie ai Fratelli Andres Bergamini e Lorenzo Ravasini, che mi hanno sempre accolto come uno di casa. Grazie anche al seminario di Beit Jala per l’ospitalità nell’ultima missione fotografica e a Mazin, Jessie e Mousa per l’accompagnamento lungo il muro. In Italia, il mio grazie è per Sara e Giorgio, luci ferme in ogni tempo.

Progetto grafico Andrea Ulivi Andrea Merli Redazione Massimiliano Palloni © 2010 Edizioni della Meridiana, Firenze Prima edizione ottobre 2010 www.edmeridiana.com isbn 978-88-6007-184-2


un guardo escluso di Andrea Ulivi

Un muro non basta. Un muro eretto nel cuore della terra, nel cuore di un popolo. Un muro non basta a risolvere una piaga incancrenita alla radice della nostra civiltà, della nostra storia. Non bastano neppure i sei anni di sguardi che Andrea Merli ha gettato su questo drago che serpeggia attorno al fare quotidiano di milioni di persone, attorno a una storia millenaria contesa da culture che per secoli vi hanno abitato. Un mostro che affonda i suoi artigli in quella stessa unica terra, patria di ognuno di quegli uomini e donne e bambini a cui ideologie o strategie o interessi non permettono di vivere, lavorare, giocare, crescere. Una dieci cento immagini non bastano. Non sono sufficienti a descrivere il peso specifico di un luogo che sta perdendo la propria identità, il suo essere profondo, il suo essere stato sorgente dei luoghi del mondo. Fotografare un muro non basta. Ma proprio per questo ci è apparso essenziale. Ci è sembrato un passo piccolo, forse inadeguato, ma importante, carico di quello che le immagini di più vero portano dentro di sé. La domanda. Una domanda da porre a chi forse qualcosa potrebbe ancora fare, una domanda da porre a questi luoghi così da lungo tempo martoriati, una domanda, non un’accusa, la semplice e sacrosanta domanda che la fotografia è, nel suo stesso essere fotografia. Una fotografia solitamente evoca oppure documenta. La lettura della realtà non sarà mai completamente fedele, la realtà non è riproducibile nella totalità delle forme, ma ha la capacità di evocare poeticamente altro. Oppure è documentazione. Necessariamente parziale, comunque documentazione, quindi lettura del reale, svelamento di un vero. Nessuno può negare la presenza di un muro. Lo sguardo di un uomo in faccia a un muro, quello di Andrea Merli. Uno sguardo sorpreso, indignato, curioso, incredulo, commosso, a volte disperato, sicuramente stupito, abbagliato, assordito dal clangore della lama di cemento che sta tentando di decapitare un popolo, non solo ciò che di violento e barbaro vi può abitare, non solo l’ideologia disumana che muove i fili di quel terrore che contribuisce ad alimentare l’incendio che minaccia di incenerire le civiltà, ma tutto un popolo e la sua voglia di vivere. Un muro che vorrebbe la sua giustificazione nel tentativo legittimo di autodifesa di un altro popolo, o meglio, di un altro Paese che sta cercando di annettere più territorio possibile, per poter vivere e magari vivere nella pace. Ma è questa la soluzione? Una sorta di pace unilaterale? È questa la ricetta per risolvere i problemi 5


di un territorio smembrato, violentato, terrorizzato? La fotografia non lo può sapere. La fotografia domanda. Chiede. Sicuramente un muro non basta. Un muro è un muro. Quanti muri attraversano questo nostro pianeta? E quale senso l’erezione di un muro può avere? Sicuramente la visione del muro non suscita al nostro sguardo quell’evocazione che fu della siepe leopardiana, non apre la visione su «interminati spazi» e «sovrumani silenzi», non rappresenta il limitare del nostro essere qui che cerca di innalzarsi verso un infinito. No. Questo che vediamo è un muro, semplicemente un muro, alto, invalicabile e di cemento. Uno scandalo per la visione.

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al di là del muro, il dolore dello sguardo di Federico Busonero

La photographie est un écran qui nous protège du monde et nous aide à le comprendre. En le découpant en petits morceaux, en le fragmentant, elle le décortique et l’interprète. Dans un mouvement dialectique, elle interroge le monde et l’enrichit du regard de son auteur, elle le donne à voir et le déforme à la fois1. Anne Azanza-Sanciaud

Nell’era dell’informazione elettronica, dove la rappresentazione, in tempo reale, di eventi, luoghi e persone, si è moltiplicata a dismisura per inviarci messaggi nascosti di verità che contraddicono le esperienze di ieri, è più che mai urgente e necessario tornare indietro e fermarsi con una nuova attenzione dinanzi a quello che vediamo. Because of the suspicion that photographs do not always tell the truth, the role of the concerned photographer and the independent skeptical photojournalist is more important than ever. Bearing witness is a difficult, and these days, often a thankless task but there is only one alternative2.

Infatti, si discute oggi se la fotografia di documentazione e di fotogiornalismo abbia creato in noi un senso di abitudine e assuefazione. Chi, si chiede giustamente Urs Stahel nel suo saggio Well, What is Photography?, si commuove e si preoccupa veramente dinanzi alle immagini di bambini denutriti, di africani malati, di soldati che uccidono, di lavoratori in sciopero, dell’ingiustizia quotidiana che affligge il mondo? Non siamo forse sopraffatti da un flusso continuo e ridondante d’immagini di fronte alle quali restiamo passivi e sembriamo indifesi? Paradossalmente, l’eccesso d’informazione ci rende quasi immuni alla visione della sofferenza degli altri, come se quel che guardiamo non avesse presa su di noi o fossimo divenuti all’improvviso ciechi. Il dolore e il lutto, siano essi indifferentemente provocati da azioni consapevoli degli uomini oppure dalla casualità cieca della natura, hanno una durata breve nella nostra coscienza. Eppure, a dispetto delle nostre incertezze e attitudini, abbiamo ancora bisogno della fotografia – così come avremo sempre bisogno dell’arte – per ricercare e cogliere una corrispondenza, se non una comunione, tra noi e l’esistente. L’arte e la fotografia sono un’interrogazione continua, e l’affermazione dell’Essere. Le fotografie di Andrea Merli fanno questo per noi: ci interrogano, ci inseguono, ci obbligano 7


a guardare e a prendere coscienza di un fatto che altrimenti avremmo potuto credere non essere possibile o reale. Non possiamo negare che queste immagini costituiscano un documento potente di una condizione tragica. Esse sono un memento mori, un monito di quel che noi siamo e non dovremmo essere. Nella migliore tradizione della concerned photography, la fotografia umanista, il fotografo vuole essere, con rara efficacia, testimone del suo tempo, affinché quel che è accaduto non sia dimenticato e condannato all’oblio. In questo le immagini di Andrea Merli sono profondamente personali, ma non sentimentali. Esse sono autentiche. E noi questo lo sentiamo e ne diventiamo parte. Ho conosciuto Andrea Merli in Palestina, nell’inverno del 2008. L’Unesco mi aveva dato il compito di fotografare il paesaggio del Territorio palestinese occupato e in quell’occasione lo incontrai. Durante un viaggio che facemmo insieme, a Kur, rimasi colpito dalla naturalezza con cui avvicinava le persone che voleva fotografare, dalla non comune capacità di vedere, di cogliere situazioni e momenti difficili e molto diversi tra loro, frutto della sua personalità e della sua lunga familiarità con la Palestina. Nelle nostre conversazioni mi parlava spesso del muro. Lo vedeva ogni giorno, il muro, lì a Betlemme, dove abitava. Spesso, dopo estenuanti attese ai checkpoint militari, doveva attraversarlo per raggiungere Gerusalemme o altre aree chiuse del Territorio. Sia per necessità sia per scelta, si trovò a convivere con la schizofrenia del muro. In breve tempo, mi diceva Andrea, «fui preso dall’urgenza di fotografarlo e di seguirne passo passo la costruzione». Del muro continuò negli anni a fotografare il procedere inesorabile e devastante dentro la terra e la vita medesima della Palestina, a lui così cara. Nel guardare le sue fotografie, scelte dall’archivio iniziato nel 2004 e portato avanti sino all’estate del 2010, si può solo immaginare la portata e il valore dell’opera, condotta con abnegazione e lucidità in circostanze difficili, talvolta rischiose. La visione d’insieme delle immagini ci rivela non solo la violenza disperante, intollerabile del muro, l’enormità dell’ingiustizia e della devastazione, il dolore di vite spezzate e umiliate, ma anche la complessità e l’efficacia del linguaggio fotografico di Andrea Merli (si guardi bene la forza e l’essenzialità della fotografia che apre il libro: essa contiene e anticipa, non visibile ma nondimeno presente, tutto quello che vedremo in seguito). Molte immagini trascendono l’aspetto di documentazione e spostano la nostra attenzione oltre l’immediatezza del contingente. Ad esempio, una sequenza di fotografie ci mostra l’apertura da parte dei soldati israeliani di una porta per consentire l’entrata dei bambini. Il loro asilo è rimasto di qua dal muro (ai loro genitori era permesso solo di accompagnarli alla porta e consegnarli alle suore che li attendevano dall’altra parte). La sequenza non solo documenta in modo rigoroso e veritiero un fatto che rischia di non ripetersi il prossimo anno, ma, soprattutto, ci trasmette l’assurdità di questa condizione nelle figure delle due suore che attendono, immobili e sole, l’una sulla soglia della porta, l’altra su un terrazzo, accanto al quale è visibile la torretta militare. Non sappiamo cosa stiano guardando e pensando, ma certamente 8


la loro solitudine diventa la nostra solitudine. Essa riguarda ognuno di noi, il nostro esserenel-mondo. L’immagine dell’incrocio stradale di Beituniya sulla strada 443, che dall’aeroporto di Tel Aviv e da Modi’in conduce a Gerusalemme, è invece meno immediata, perché ci parla dell’ambiguità di un luogo. Ritrovo qui la solitudine degli incroci delle città americane fotografati da Lee Friedlander. Anche l’inquadratura è simile. I semafori, i segnali stradali, la disposizione dell’incrocio comunicano un sottile disagio e spaesamento. A un primo sguardo, c’è la sensazione di trovarsi in un luogo di transito uguale a tanti altri in altri Paesi (un non-luogo, secondo la definizione creata da Marc Augé). Il viaggiatore ignaro, che arriva per la prima volta da Israele all’incrocio di Beituniya, non può immaginare che oltre la presenza incongrua della torretta militare e delle mura possa esistere una condizione completamente diversa dall’anonimità familiare della strada che si trova a percorrere. Il visibile ci elude e va decifrato non tanto per quello che guardiamo, ma per quello che di esso sentiamo. La violenza del muro, che nella fotografia dell’incrocio non vediamo, ma possiamo intuire, si manifesta nella sua crudezza in alcune immagini potenti che lasciano attoniti. La donna ripresa di spalle, curva, in cammino lungo il muro e il ragazzo in bicicletta sembrano immobili, quasi ignari della loro reciproca presenza. Ci parlano di un presente fragile, doloroso, ineluttabile. Non c’è futuro in questa immagine. Così come tragica, senza speranza, è la visione dei due ragazzi palestinesi che lavorano ai piedi del muro o delle donne e degli uomini che camminano lungo i piloni del muro che si sta chiudendo su di loro a Qalandiya. Come una tomba. In queste due immagini, come in altre, colpisce il senso di annichilimento degli individui, schiacciati e soppressi. Con forza e al tempo stesso con una grande umanità, il fotografo ci rende partecipi del dramma della vita di un intero popolo. L’immagine allora non appartiene più a lui ma alla nostra coscienza. Rimaniamo sgomenti, in un grido di silenzio. Mi chiedo quale futuro possa io, da queste fotografie, immaginare, quello dei due anziani sposi palestinesi che camminano lentamente, con fatica, verso l’inferno del checkpoint di Qalandiya o quello della giovane coppia israeliana che da una terrazza vicina al Monte Zion guarda felice il paesaggio in lontananza, là dove corre il muro-ghetto di Abu Dis? Quale destino potrà accomunare le donne e gli uomini schiacciati contro il muro di Betlemme nell’attesa del permesso per entrare e pregare sui luoghi di Gerusalemme a loro sacri e le donne e gli uomini ebrei che, dall’altro lato dello stesso muro, camminano, liberi, verso la Tomba di Rachele? Quale giustizia sarà possibile? Bisogna essere grati ad Andrea Merli per aver avuto in questi lunghi sei anni il coraggio e la perseveranza di aver fotografato il muro. Il suo sguardo è andato oltre, nel dolore degli altri, e ci ha consegnato una testimonianza vera e insostituibile. Essere la coscienza scomoda del mondo è il compito ingrato del fotografo. Non esiste altra via.

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note

1 Anne Azanza-Sanciaud, intervento

ai margini della conferenza Une histoire de la photographie de voyage: de la prétendue objectivité à la subjectivité revendiquée, Firenze 2008. «La fotografia è uno schermo che ci protegge dal mondo e ci aiuta a comprenderlo. Nel tagliarlo in piccoli pezzi, nel frammentarlo, lo scortica e lo interpreta. In un movimento dialettico, la fotografia interroga il mondo e l’arricchisce dello sguardo del suo autore, essa lo rivela e lo deforma allo stesso tempo.» 2 Martin Parr - Gerry Badger, The Photobook: A History, vol. i, p. 241, Phaidon Press, Londra 2006. «A causa del sospetto che le fotografie non dicano sempre il vero, il ruolo del fotografo impegnato e del giornalista indipendente e scettico è più importante che mai. Portare il peso di una testimonianza è un compito difficile e, spesso, di questi giorni, ingrato, ma non esiste altra alternativa.»

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fermando la luce che batte sul muro di Andrea Merli

In primo luogo bisogna descrivere l’avvenimento, e non il proprio atteggiamento nei confronti di esso. Quest’ultimo deve essere determinato da tutto il quadro e scaturire dalla sua interezza. È come un mosaico: ogni singola tessera è di un distinto colore uniforme. Ciascuna di esse è azzurra, o bianca, o rossa e sono tutte diverse. Ma poi, quando si guarda all’opera compiuta, si scorge quello che aveva in mente l’autore. Andrej Tarkovskij, Scolpire il tempo

Quando sono arrivato in Israele per la prima volta, nel giugno 2003, sono atterrato in un aeroporto piuttosto piccolo, a quindici chilometri da Tel Aviv. Dopo un breve incontro con gli addetti alla sicurezza – ragazzi e ragazze in pettorina gialla, appostati alla base della scaletta – ho raggiunto la sala degli arrivi, bassa, squadrata, piena di gente e confusione dall’aria mediorientale. Un anno e mezzo più tardi, nel novembre 2004, l’aereo che mi ha riportato in Israele si è agganciato a un braccio mobile del nuovo Terminal 3, uno scalo imponente che aveva trasformato l’aeroporto Ben Gurion in un’opera di architettura d’avanguardia, sormontata da una cupola rovesciata che versava ingegnosi scrosci d’acqua all’interno della sala partenze. Ampie vetrate, aria condizionata, pedane mobili, negozi raffinati e, soprattutto, un’irresistibile atmosfera di Occidente. In quel periodo, a Betlemme si entrava attraverso il checkpoint 300, un posto di blocco abbastanza dimesso, con tettoie di lamiera e blocchi di cemento sulla strada fra Gerusalemme e Hebron, all’altezza dell’Istituto biblico di Tantur. Spezzoni di muro, come denti sgangherati di una mascella deforme, facevano la loro comparsa davanti alle case del campo rifugiati di Aida. Nel novembre 2005, quando il muro intorno a Betlemme aveva praticamente completato il suo percorso, l’ingresso in città fu spostato dal vecchio checkpoint al nuovo terminal di Gilo, collocato qualche centinaio di metri più avanti, all’interno dei Territori occupati. Pochi mesi dopo, nella primavera 2006, il muro entrò in città per circondare un’ampia superficie vicino alla Tomba di Rachele e isolare il santuario dal tessuto urbano circostante. Il paesaggio di Betlemme, mite come il colore della pietra e degli ulivi che lo distinguono, venne stravolto dal cemento delle torri di guardia. Più o meno nello stesso periodo il vecchio checkpoint di Qalandiya, fra Gerusalemme e Ramallah, subiva una trasformazione simile a quella di Betlemme. Anche qui la struttura di un terminal 11


dava alla materia dell’occupazione una forma più moderna e una sostanza più coriacea. Al sole basso del tardo pomeriggio, mi capitava di fermarmi sulla terrazza dell’Università di Betlemme a guardare le profonde trasformazioni del territorio, le sue ferite aperte, in un luogo dove il territorio e la sua gente sono parti ugualmente vive dello stesso organismo. E mentre assistevo alla frammentazione della Palestina, senza alcuna possibilità di fermare un solo movimento della gru che scaricava i blocchi di cemento, ho voluto fermare la luce. Per quanto fosse alto e impenetrabile, quel muro non poteva fermare la luce che ogni giorno, inesorabile, ne mostrava le fattezze. Quella luce era preziosa. Il pensiero di cominciare a raccoglierla, suggerito dalle parole di un vivace graffito che avevo incontrato a Betlemme, è diventato un progetto, un cammino, un’esperienza di interrogazione del mondo, non meno che di scoperta interiore. Ho fermato quella luce perché non scivolasse via con la sera, perché potesse raggiungere gli occhi di altre persone e raccontare quello che stava accadendo. Quello che sta ancora accadendo. Dal punto di vista tecnico, il lavoro non è omogeneo. Oltre all’alternanza di varie macchine fotografiche, le immagini riflettono condizioni di luce estremamente diverse: bianca e abbagliante come la pietra di Palestina, smorzata dal cielo coperto di primavera, indurita dal violento contrasto con le zone d’ombra, obliqua nel tramonto, col sole che scende in un mare irraggiungibile. Di fronte al muro, ho cercato di non abituare lo sguardo alla monotonia del soggetto, scegliendo inquadrature relativamente ampie per mettere in evidenza il suo impatto nel tessuto urbano e nel contesto rurale. La figura umana non domina la scena, eppure la segna con la sua presenza. Nella scelta delle immagini ho cercato un equilibrio tra la necessità di descrivere e l’esigenza di evocare una condizione. Guardando le fotografie, mi piacerebbe che alcune richiamassero un pensiero di Roland Barthes: «In fondo, la Fotografia è sovversiva non quando spaventa, sconvolge o anche solo stigmatizza, ma quando è pensosa»1. È questa la chiave, credo, per aprire gli occhi sul mondo.

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Roland Barthes, La camera chiara - Nota sulla fotografia, p. 39, Einaudi, Torino 2003.

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per decidere chi ha ragione e chi ha torto per tracciare un confine arbitrario per dettare la legge del pi첫 forte un muro non basta. A. M.



1. Ar-Ram, Gerusalemme Est, 2007


2. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2005


3. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2005


4. Ar-Ram, Gerusalemme Est, 2005


5. Ar-Ram, Gerusalemme Est, 2010


6. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2005


7. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2010


8. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2010


9. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2007


10. La Cupola della Roccia, oltre il muro, lontana dal campo sportivo di Abu Dis, Gerusalemme Est, 2010


11. Abu Dis, Gerusalemme Est, 2005


12. Betlemme, 2009


13. Ar-Ram, Gerusalemme Est, 2010


14. Campo rifugiati Aida, Betlemme, 2005


15. Campo rifugiati Aida, Betlemme, 2005 Pagine seguenti: 16. Betlemme, 2005




17. Betlemme, 2009


18. Betlemme, 2009


19. Terminal di Gilo (lato nord), Betlemme, 2005


20. Terminal di Gilo (lato sud), Betlemme, 2007


21. Betlemme, 2010


22. Beit 窶連wwa, 2010


23. Campo rifugiati Aida, Betlemme, 2010 24. Betlemme, 2010


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