IL TRECENTO
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Lezione su Francesco Petrarca
6 FRANCESCO PETRARCA Il primo dei “moderni”
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rancesco Petrarca rappresenta un modello di intellettuale nuovo per la nostra storia letteraria. Anche se a una prima lettura può apparire un autore molto distante dalla nostra sensibilità, soprattutto sotto il profilo formale, in realtà ci è molto più vicino di quanto possa sembrare. Attratto dalla dimensione terrena, incarnata principalmente dalla passione d’amore e dall’aspirazione alla gloria, Petrarca è al tempo stesso consapevole, da uomo del Medioevo, che il suo unico obiettivo dovrebbe essere posto nella lode di Dio. Da queste due opposte tensioni ha origine un conflitto interiore tutto moderno. Petrarca, insomma, sembra aver scoperto la scissione dell’io molti secoli prima della psicanalisi. Egli scandaglia nei suoi versi una coscienza in cui bene e male sono pro- Un conflitto interiore tagonisti di una lotta irri- tutto moderno solta, che gravita attorno a poli opposti e non conosce risoluzione finale: ci pone così di fronte, giovani e adulti, alle nostre contraddizioni, alle nostre inquietudini, a un’interiorità lacerata che sono il segno del suo affacciarsi sulla modernità.
A un giovane che attraversa l’adolescenza chiedendosi chi sia e quale sia il proprio posto nel mondo Petrarca insegna che l’urgenza di risposte è una condizione con cui l’uomo si confronta a qualunque età e con cui deve imparare a convivere, non censurandola, ma coltivando una lucida consapevolezza di sé. Il superamento petrarchesco del Medioevo appare anche nell’assoluta coscienza dei propri limiti, – “peccati”, se intesi in accezione religiosa – e nell’ammissione dell’incapacità di superarli: come spesso accade a noi, Petrarca sa in quale direzione dovrebbe volgersi ma, troppo attratto da quanto lo trascina in senso opposto, non ha le forze per farlo, pur essendone consapevole. A fronte di una tale disposizione interiore, Petrarca inaugura il genere del racconto di sé: ci restituisce i contorni del dissidio interiore nelle pieghe più minute, con infinite, minime variazioni, si scruta, cerca di ricomporsi in un autoritratto ideale da consegnare ai posteri. Apre così la strada a Petrarca inaugura una modalità di autorapil genere presentazione oggi affidadel racconto di sé ta talvolta ossessivamente ai social, in posa o con “ritocchi”, che restituiscono molto spesso un’immagine di sé filtrata, rispondente a quello che vorremmo essere e non a quello che siamo.
x fotolito: scontornare mano
Anche il Petrarca studioso apre una nuova stagione di approccio alla lettura dei testi e alla lezione degli antichi. Attraverso le proprie letture, instaura, come racconta in una lettera a Giovanni Boccaccio, un intimo colloquio con gli autori che di volta in volta ha sottomano, Un intimo colloquio pone loro interrogativi e con gli antichi trova risposte, scopre altri mondi e nuove chiavi di lettura per il proprio, entra in una comunità ideale di scrittori e lettori che è senso di appartenenza. Come dirà secoli dopo lo scrittore statunitense Francis Scott Fitzgerald (1896-1940) con un assunto sempre valido, la letteratura consente di scoprire che i nostri desideri sono universali, che non siamo soli o isolati da nessuno. E anche questo Petrarca ci insegna con grande anticipo. La modernità di Petrarca non sfuggì ai suoi contemporanei, che lo considerarono tra i primi maestri di un nuovo ascolto del mondo classico e di quella concezione secondo cui i testi prodotti nella latinità veicolano di per sé valori umani universalmente condivisibili in qualunque epoca, e come tali vanno letti e fatti nostri: erano gli albori della moderna filologia e, con essa, dell’Umanesimo.
A TU per TU con l’AUTORE
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1
Solo et pensoso i più deserti campi
ANALISI VISUALE
Canzoniere, XXXV
Questo sonetto, tra i più conosciuti di Francesco Petrarca, mette a fuoco il tema della solitudine cercata con insistenza dal poeta nel tentativo di liberarsi dalle sofferenze e dai pensieri d’amore, ingombranti a tal punto da non poter essere mascherati in presenza di altre persone. Tale ricerca si rivela tuttavia vana. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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4
Solo et pensoso i più deserti campi vo mesurando a passi tardi et lenti, et gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigio human1 l’arena2 stampi.
8
Altro schermo3 non trovo che mi scampi4 dal manifesto accorger de le genti5, perché negli atti d’alegrezza spenti di fuor si legge com’io dentro avampi6:
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge7 et fiumi et selve sappian di che tempre8 11 sia la mia vita, ch’è celata altrui.
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge cercar non so ch’Amor non venga sempre 14 ragionando con meco, et io co llui.
(F. Petrarca, Canzoniere, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1964)
1 vestigio human: orma di piede umano. 2 l’arena: il terreno. 3 schermo: riparo. 4 che mi scampi: che mi salvi. 5 dal manifesto… genti: dal fatto che le persone vicine si accorgano chiaramente del mio stato d’animo. 6 avampi: bruci. 7 piagge: pianure. 8 tempre: natura, qualità.
Sandro Botticelli, L’Annunciazione, particolare di un paesaggio fluviale, 1480. Firenze, Galleria degli Uffizi.
PER UN PRIMO INCONTRO CON PETRARCA 1. Di che cosa parla questo sonetto? 2. Riassumi i contenuti del testo con una breve frase per ogni strofa. 3. Come appare il personaggio che parla di sé? 4. Che cosa cerca? Che cosa lo spaventa? Da quali sentimenti è pervaso? 5. Illustra la struttura sintattica del testo (da quanti periodi è costituito, quale rapporto esiste tra struttura metrica e struttura sintattica?). 6. Verifica se nel testo sono presenti degli enjambement, sottolineali e spiega quale effetto intendono creare. 7. Come viene descritta la natura in questo testo? I termini che la indicano sono precisi o generici? Quale ruolo svolge in rapporto allo stato d’animo del poeta? 8. Come ti sembra il ritmo del sonetto? Ti pare che vari di strofa in strofa? 9. Come ti sembrano le scelte lessicali cui si affida il poeta? Appartengono prevalentemente al registro medio o a quello colto della lingua? Come vengono per lo più disposti gli aggettivi? 10. Quale idea ti trasmette questo testo del suo autore?
Francesco Gualtieri, Adorazione dei pastori, particolare, 1530. Riva del Garda, Museo Civico.
Andrea Mantegna, Adorazione dei Pastori, particolare del paesaggio collinare, 1450. New York, Metropolitan Museum of Art.
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Il Trecento
1 La VITA e le OPERE Tra la nascita di Dante e la nascita di Petrarca corrono quarant’anni, ma il contesto storico-culturale in cui si colloca la vita del secondo è profondamente cambiato: l’esperienza dell’età comunale si esaurisce logorata dal conflitto tra le fazioni, che favorisce il passaggio del potere nelle mani delle famiglie signorili; la Chiesa è asservita alla monarchia francese che pone sotto il suo controllo diretto anche la sede della curia papale, trasferita da Roma ad Avignone per circa settant’anni (1305-1377); l’Impero non ha le forze per imporsi come autorità nella politica europea. Da questo quadro di complessa e dolorosa transizione, Petrarca trae la sfiducia nell’azione delle istituzioni pubbliche come garanti di benessere e prosperità, e la progressiva consapevolezza che la vera libertà è quella dello spirito e sta all’individuo conquistarla adattandosi alle condizioni variabili create dalle vicende della vita. L’infanzia e la prima formazione
Il Palazzo dei Papi ad Avignone in una miniatura francese del 1409. Parigi, Bibliothèque Nationale.
Francesco Petrarca nasce ad Arezzo il 20 luglio del 1304 da genitori fiorentini: il padre, ser Petracco di Parenzo, e la madre, Eletta Canigiani, hanno subito una sorte simile a Dante e hanno dovuto lasciare Firenze dopo il colpo di Stato dei guelfi Neri. Il padre, notaio di professione, è un uomo colto, grande ammiratore di Cicerone e della cultura classica tanto da acquistare manoscritti di autori antichi, forse anche la celebre edizione delle opere di Virgilio, ora conservata alla Biblioteca Ambrosiana di Milano, che Francesco terrà tra le cose più care e sui cui margini scriverà le proprie annotazioni per tutta la vita Connessioni, pag. 399 . Nel 1312 ser Petracco si trasferisce con la famiglia in Provenza per lavorare ad Avignone, sede della curia papale dal 1305, anno in cui vi si era trasferito papa Clemente V. La cosiddetta “cattività avignonese” rende la città francese una sorta di nuova Roma, in cui si incontrano intellettuali e artisti provenienti da ogni parte d’Europa e si discutono le sorti della politica del continente. Nonostante la condanna più volte espressa da Petrarca per l’abbandono di Roma da parte del Papato e per la corruzione della curia avignonese, la città francese e soprattutto i suoi dintorni saranno fino al 1353 lo sfondo della sua esistenza, i luoghi dell’amore per Laura, il rifugio dove abbandonarsi alla contemplazione della natura e alla lettura degli autori antichi, il mondo delle relazioni importanti che gli apriranno le porte di tanti luoghi di cultura. La famiglia risiede in una piccola città vicino ad Avignone, Carpentras, dove Petrarca trascorre la fanciullezza dedicandosi all’apprendimento di grammatica, dialettica e retorica; nel 1316 parte per Montpellier per studiarvi quattro anni Legge, assecondando così la volontà paterna. I reali interessi del ragazzo sono però altri: legge infatti con passione i classici di nascosto dal padre che un giorno, secondo quanto raccontato dallo stesso Francesco in una lettera raccolta nelle Seniles (XVI, 1), lo scopre e non esita a dare alle fiamme i preziosi volumi. Davanti al pianto disperato del figlio ser Petracco tuttavia cede e salva dal fuoco una copia di opere virgiliane e un Cicerone. Durante gli anni di Montpellier muore la madre, a cui Petrarca dedica in quest’occasione forse la sua prima poesia, un’elegia in latino in cui ne celebra la grandezza d’animo.
6 Francesco Petrarca ■ 1 La vita e le opere
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Nel 1320 si trasferisce a Bologna in compagnia del fratello minore, Gherardo, a studiare diritto civile nella più antica sede universitaria europea. Il periodo bolognese è di grande importanza non per il futuro uomo di legge, ma per il futuro poeta: quella sede, infatti, era stata laboratorio dello Stilnovo e vi era viva la pratica della poesia in volgare con cui Petrarca entra in contatto. L’incontro con Laura
Si trattiene a Bologna fino al 1326, quando la morte del padre lo induce a rientrare ad Avignone e ad abbandonare definitivamente gli studi di legge. Proprio ad Avignone il 6 aprile 1327, giorno di venerdì santo, nella chiesa di Santa Chiara avviene l’incontro con Laura, la donna che fa nascere in lui quell’innamoramento e quello smarrimento che avrebbero poi ispirato tutta la sua produzione lirica, tra contemplazione estatica e profondi sensi di colpa. Di questa costante dialettica tra amor sacro e amor profano è indice la collocazione, certamente voluta ad arte da Petrarca, dell’incontro con Laura nel giorno della Passione di Cristo, perno della storia e della vita cristiana. Il ritorno ad Avignone è segnato anche dall’inizio dell’attività presso la potente famiglia Colonna: nel 1330 Petrarca entra al servizio del cardinale Giovanni come cappellano di famiglia,
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Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro, pag. 403
Liegi
6
Padova 16 18
15
2
5
Valchiusa
Montpellier
11
Parma
12
Avignone
8
3
Venezia 17
Verona
Milano
OCEANO ATLANTICO
Arquà 19 Bologna
4
Firenze
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Arezzo
1
Roma
7 10 14
MAR MEDITERRANEO Napoli
1 1304 nasce ad Arezzo da famiglia fiorentina. 2 1312-1316 trasferimento ad Avignone con la famiglia. 3 1316-1320 a Montpellier compie studi di diritto. 4 1320-1326 a Bologna studia diritto civile. 5 1326-1337 ritorna ad Avignone lavorando presso la fami-
glia Colonna dal 1330, dopo aver preso gli ordini minori; in questi anni viaggia frequentemente per l’Europa. 6 1333 ritrovamento a Liegi di due orazioni di Cicerone. 7 1337 primo soggiorno a Roma. 8 1337-1353 soggiorna a Valchiusa pur compiendo frequenti viaggi in Italia.
9 1341 a Napoli il re Roberto d’Angiò lo giudica degno dell’incoronazione poetica. 10 1341 a Roma avviene l’incoronazione poetica. 11 1345 a Verona, nella Biblioteca Capitolare, ritrova le lettere di Cicerone ad Attico, al fratello Quinto e a Bruto.
12 1348 a Parma, per un breve soggiorno in missione diplomatica per conto del papa, gli giunge la notizia della morte di Laura. 13 1350 visita Firenze e incontra Boccaccio. 14 1350 soggiorna a Roma in occasione del Giubileo. 15 1353-1361 si trasferisce a Milano e svolge numerose mis-
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sioni diplomatiche per i Visconti. 16 1361 primo trasferimento a Padova per sfuggire alla peste. 17 1362-1367 si trasferisce a Venezia per sfuggire alla peste. 18 1368-1370 si trasferisce a Padova e quindi ad Arquà. 19 1374 muore ad Arquà nella sua villetta.
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Il Trecento Francesco Petrarca in un ritratto di artista anonimo del XVI secolo. Innsbruck, Schloss Ambras.
prendendo gli ordini minori che gli impongono l’obbligo del celibato, ma gli consentono di ottenere le rendite derivanti dai benefici ecclesiastici. La condizione di chierico non gli impedisce tuttavia di avere due figli: nel 1337 nasce Giovanni, con cui avrà un rapporto molto tormentato, e nel 1343 viene alla luce Francesca, che si prenderà cura di lui negli anni della vecchiaia. Il rapporto di lavoro e di amicizia con i Colonna consente a Petrarca di viaggiare per l’Europa, e il prestigio del loro nome gli garantisce l’accesso agli scriptoria e alle biblioteche dei più importanti monasteri. Può così coltivare la passione per il sapere e, in particolare, lo studio degli autori antichi, di cui ricerca con ansia i manoscritti e di cui predispone spesso la copia, mettendo così in circolazione le prime riedizioni ordinate di opere quasi del tutto perdute. La prima grande scoperta avviene a Liegi, nel 1333, quando ritrova due orazioni di Cicerone, tra cui la Pro Archia; la più importante ed emozionante nel 1345 a Verona, nella Biblioteca Capitolare, dove riscopre le lettere di Cicerone ad Attico, al fratello Quinto e a Bruto. Il modello ciceroniano guida Petrarca sin da questi anni alla stesura di un proprio ricchissimo epistolario che, sottoposto a continua revisione fino agli ultimi anni di vita dell’autore, ce ne restituisce un’autobiografia ideale: dell’epistolario petrarchesco fanno parte le Familiares (Lettere ai familiari), le Seniles (Lettere della vecchiaia) e le Variae, raccolte dopo la sua morte da amici e collaboratori. Il 1333 è probabilmente anche l’anno dell’incontro ad Avignone con il monaco agostiniano Dionigi da Borgo San Sepolcro, che lo guida alla scoperta della letteratura cristiana antica, donandogli una copia delle Confessioni di Agostino di Ippona, un autore e un’opera che tanta influenza avranno su Petrarca. Roma e l’incoronazione poetica
Nel 1337 è a Roma per la prima volta, ospite di Giacomo Colonna, fratello di Giovanni: pur avendo davanti agli occhi una città pericolosa e di fatto abbandonata ai conflitti tra le famiglie nobiliari, Petrarca è attonito davanti all’imponenza e alla forza evocativa dei suoi monumenti. Tornato ad Avignone, sente il bisogno di un rifugio lontano dalla città, una sorta di porto tranquillo al riparo dalla folla, e lo trova a Valchiusa, un’amena località provenzale sulle rive del fiume Sorga, dove acquista una casa. Qui inizia la stesura di alcune opere in latino, la lingua con la quale aveva maggiore consuetudine intellettuale e familiarità di pensiero e di espressione. Sul finire del 1337 pone mano al trattato enciclopedico De viris illustribus (Gli uomini illustri), raccolta di biografie di personaggi della romanità, della storia biblica e del mito, e tra il 1338 e il 1339 comincia la stesura del poema epico-storico in esametri Africa. In esso viene celebrata la figura di Scipione l’Africano, vincitore della seconda guerra punica e salvatore della patria contro la minaccia cartaginese pag. 386 . L’attività di studio e di scrittura contribuisce a dargli una fama presto internazionale che avrà come riconoscimento pubblico l’incoronazione poetica, una tradizione classica riportata appositamente in auge. Petrarca ricevette l’alloro poetico dal Senato di Roma nel 1341, dopo essere stato esaminato a Napoli dal re Roberto d’Angiò. Nuovo impulso trovano da questa investitura le opere latine già iniziate, cui si aggiungono a partire dal 1343 i Rerum memorandarum libri, rassegna di aneddoti storici.
T8
Il modello degli antichi, pag. 382
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L’ascesa al monte Ventoso, pag. 355
L2
E.H. Wilkins, L’incoronazione poetica, pag. 373
6 Francesco Petrarca ■ 1 La vita e le opere
345
Il Canzoniere
Risalgono al primo periodo a Valchiusa anche alcune liriche destinate a essere incluse nei Rerum vulgarium fragmenta, la raccolta di rime in volgare nota come Canzoniere, a cui Petrarca dà forma a partire dall’agosto 1342 e che costituisce la sua eredità poe tica più importante pag. 392 . Il lavoro di scelta, ordine, trascrizione, revisione dei testi del Canzoniere proseguirà fino all’anno della morte, il 1374. Ciò rende l’opera non una semplice raccolta di liriche, ma una speciale autobiografia in versi in cui Petrarca ricostruisce la vicenda del suo amore per Laura come una storia di ravvedimento e redenzione personale, dallo smarrimento prodotto dal primo incontro, il 6 aprile del 1327, all’amore segnato da euforia e sensi di colpa troncato dalla morte di Laura, il 6 aprile del 1348, alla meditazione sulla vanità della vita e sulla prospettiva della beatitudine celeste.
Il Secretum
Gli anni successivi sono caratterizzati da un’irrequietudine che è cifra di buona parte della vita del poeta: alterna così soggiorni in varie città italiane con periodi di riposo a Valchiusa, dove forse inizia nel 1345 la stesura del Secretum, un dialogo in latino in cui Francesco si immagina a colloquio con Agostino in presenza della Verità pag. 366 , e lavora ai trattati De vita solitaria (La vita solitaria) e De otio religioso (La quiete della vita religiosa). Le due opere, composte rispettivamente nel 1346 e nel 1347, trattano i temi del raccoglimento letterario e spirituale, celebrando da una parte l’ideale classico dell’otium poetico, dall’altra il primato della vita contemplativa.
Bucolicum carmen
Nell’estate del 1346 Petrarca inizia la stesura di egloghe sul modello virgiliano, che raccoglie più tardi nel Bucolicum carmen. Come vale per quasi tutta la produzione petrarchesca, anche la stesura di quest’opera vedrà fasi successive e si protrarrà fino agli ultimi anni. I dodici componimenti finali, di ambientazione pastorale, vedono la trattazione di argomenti culturali e storici, come l’elogio della poesia, la morte di re Roberto d’Angiò, la tragedia della peste. Anche come osservatore della storia a lui contemporanea, Petrarca è costantemente ispirato dal profondo amore per i valori della classicità romana. È attraverso questa chiave di lettura che egli guarda inizialmente con entusiasmo al colpo di Stato di Cola di Rienzo, che nel 1347 instaura a Roma una repubblica di cui si autoproclama tribuno con l’intento di liberare la città dallo strapotere delle famiglie nobiliari e di riportarla ai fasti di capitale del mondo. Ben presto, tuttavia, la sete di potere e gli eccessi del tribuno trasformano l’entusiasmo del poeta in delusione ed esplicita condanna.
Petrarca polemista
Lo sdegno per la corruzione e per la vuota brama di potere animano alcuni celebri sonetti del Canzoniere, cosiddetti “avignonesi” perché obiettivo polemico è la decaduta curia papale che aveva sede appunto in Avignone. Sempre nel Canzoniere si trova la canzone Italia mia, benché ’l parlar sia indarno, che per la sua straordinaria fortuna presso i posteri è divenuta un passaggio irrinunciabile nello studio della produzione poetica petrarchesca. Del Petrarca polemista vanno ricordati anche due scritti in latino legati a due circostanze particolari della vita del poeta. Nel 1352, informato che al capezzale di papa Clemente VI si alternavano più medici, spesso in disaccordo tra loro, egli in una lettera consiglia al pontefice di affidarsi a uno specialista soltanto, famoso per le doti professionali. Ciò sortisce la reazione di uno dei medici coinvolti, che difende e celebra l’arte della medicina attaccando i poeti. Petrarca risponde con l’Invectiva contra medicum, difesa insieme dei medici seri e della poesia. Nel 1367, in risposta a quattro giovani aristotelici che avevano diffuso a Venezia la voce che Petrarca fosse un brav’uomo, ma ignorante, egli scrive la brillante invettiva De sui ipsius et multorum ignorantia (Sulla propria ignoranza e su quella di molti).
T6
Italia mia, benché ’l parlar sia indarno, pag. 375
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Il Trecento La Nel morte 1348, anno che si ricorda per la terribile epidemia di peste che colpì l’Europa, Pedi Laura trarca si muove in missione per conto del papa tra Verona e Parma, dove gli giunge
notizia della morte di Laura, uccisa dal morbo il 6 aprile. Anche il cardinale Giovanni Colonna e molti amici subiscono la stessa sorte: le ragioni per continuare a vivere ad Avignone si riducono sempre di più, mentre comincia a farsi strada in lui l’idea di trasferirsi in Italia. Il viaggio a Roma in occasione del giubileo del 1350 lo porta a visitare per la prima volta Firenze, la città d’origine della sua famiglia: qui incontra Giovanni Boccaccio, destinato a diventare l’amico più importante della seconda parte della sua vita. A Firenze soggiorna di nuovo nel viaggio di ritorno, poi non ci tornerà mai più, rifiutando l’invito a trasferirsi a vivere in città che gli verrà nel 1353 da Boccaccio e da altri intellettuali fiorentini: la conflittualità della vita comunale, lo spettro della “tirannide di molti” non attraggono chi si è adattato a vivere nell’orbita di uomini di potere garantendosi in questo modo le condizioni ideali per una vita di studio. Probabilmente nello stesso 1353, dopo una lunga gestazione, Petrarca si accinge alla composizione di un trattato latino in due libri, De remediis utriusque fortunae, ispirato alla concezione stoica dell’esercizio della virtù come indispensabile difesa contro l’alternarsi degli eventi.
L1
Boccaccio racconta Petrarca, pag. 369
Il trasferimento in Italia
Maturata la decisione di lasciare la Provenza, anche a causa della salita al soglio pontificio di Innocenzo VI, con cui non intrattiene buoni rapporti, Petrarca elegge a prima sede italiana la Milano dei Visconti, dove rimane dal 1353 al 1361. Questa scelta gli attira molte critiche, in particolare quelle del cardinale Jean de Caraman che lo accusa di essersi messo sotto la protezione di un principato tirannico. A questo biasimo egli reagisce con uno scritto veemente, chiarendo che la signoria dei Visconti non differisce dalle altre e che la sua condizione non è di sottomissione nei loro confronti. Nel corso della sua permanenza in città svolge alcune importanti missioni diplomatiche, come il viaggio a Praga per incontrare l’imperatore Carlo IV, da cui riceve il titolo di conte palatino, e il viaggio a Parigi per rendere omaggio al re
FRANCESCO PETRARCA 1300
LINEA DEL TEMPO
1310
1304 Nasce ad 1305 Arezzo Trasferimento della curia papale ad Avignone
1320
1316 Si trasferisce a Montpellier per studiare legge
1312 Si trasferisce in 1313 Provenza con Nasce la famiglia Boccaccio
1330 1326 Ritorna ad 1327 Avignone Incontra Laura nella chiesa di Santa Chiara
1320 Si trasferisce a Bologna per studiare diritto civile
1330 Prende gli ordini minori ed entra al servizio della famiglia Colonna
1337 Dopo essersi recato in viaggio a Roma si trasferisce a Valchiusa, dove inizia a comporre i Triumphi e il De viris illustribus; dall’anno successivo comincia la stesura dell’Africa
1340
1341 Riceve l’incoronazione poetica a Roma
6 Francesco Petrarca ■ 1 La vita e le opere
Giovanni II, liberato dagli Inglesi dopo una lunga prigionia. La statura assunta da Petrarca presso i contemporanei emerge con evidenza dal prestigio degli incarichi, accompagnati dalle riflessioni e dagli appelli su importanti questioni politiche contenuti nei suoi scritti. Nel 1351 Petrarca si accinge alla stesura dei Triumphi (Trionfi), poema in volgare in terzine dantesche, il cui primo concepimento risale all’epoca del ritorno a Roma nel 1337. Opera più strutturata rispetto al Canzoniere, i Trionfi rappresentano una successione di sei visioni allegoriche in cui, attraverso le personificazioni di Amore, Pudicizia, Morte, Fama, Tempo ed Eternità, si descrivono le principali tappe del cammino dell’uomo fino a Dio, dalla vita mortale a quella eterna pag. 389 . Petrarca lascia Milano nel 1361 per sfuggire a una nuova epidemia di peste che uccide il figlio e si trasferisce prima a Padova, poi a Venezia dove gli viene assegnata dalla Repubblica una casa in Riva degli Schiavoni in cambio della promessa di lasciare alla Serenissima la sua biblioteca: la breve permanenza in città e alcuni contrasti con giovani filosofi veneziani indurranno tuttavia il poeta a considerare nullo il patto. In questi anni si dedica alla sistemazione dell’epistolario, riuscendo tuttavia a concludere, nel 1366, solo i libri delle Familiares. Anche l’epistola Posteritati, ritratto di sé per i posteri, che chiudeva le Seniles, ci è giunta isolata e incompiuta.
347
T2
Posteritati, pag. 350
Gli ultimi anni
Nell’ultima parte della vita il poeta è confortato dalla presenza della figlia e del genero: con loro si stabilisce nel 1368 a Padova, tappa finale del lungo itinerario della sua esistenza, ospite di Francesco da Carrara, che gli dona una villetta ad Arquà, sui Colli Euganei. In questo nuovo rifugio, tanto simile all’ambiente sereno di Valchiusa, coltiva gli affetti familiari, le amicizie – soprattutto quella di Boccaccio –, gli studi e le scritture. Ad Arquà si spegne nella notte fra il 18 e il 19 luglio 1374; le sue spoglie vengono prima tumulate nella chiesa parrocchiale del borgo e poi trasferite in un monumento marmoreo ispirato ai sarcofagi romani sul sagrato dell’edificio.
1350
1345 Ritrova a Verona le lettere di Cicerone, sul cui modello elabora le sue Epistole
1347 Colpo di Stato di Cola di Rienzo
1342 Inizia la composizione del Canzoniere; negli anni successivi inizia i Rerum memorandarum libri, il Secretum, il Bucolicum carmen e i trattati De vita solitaria e De otio religioso
1360
1350 Soggiorna in Italia e incontra Boccaccio a Firenze, poi si reca a Roma per il giubileo 1352 Compone lo scritto 1353 polemico Invectiva Si trasferisce a contra medicum Milano; inizia a comporre il trattato De remediis 1348-1349 utriusque Viaggia a Verona fortunae e Parma per conto del papa; un’epidemia di peste si diffonde in Italia
1370 1361 Si trasferisce a Padova e Venezia per sfuggire alla peste 1367 Compone il De sui ipsius et multorum ignorantia, in risposta a quattro aristotelici
1368 Si trasferisce a Padova e quindi ad Arquà, 1374 Muore ad Arquà
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Il Trecento
LA PRODUZIONE DI FRANCESCO PETRARCA Opera
Anno
Lingua Genere
In Antologia
Epistolario
dal 1345
latino
T2 Posteritati (Seniles, XVIII, 1), pag. 350 T3 L’ascesa al monte Ventoso (Familiares, IV, 1), pag. 355 T8 Il modello degli antichi (Familiares, XXII, 2), pag. 382
Trionfi
dal 1337
volgare poema allegorico
T11 Il Trionfo del tempo, 61-84, pag. 389
De viris illustribus a partire dalla fine del 1337
latino
repertorio di biografie
latino
poema epico
Africa
a partire dal 1338-1339
Rerum vulgarium fragmenta (Canzoniere)
1342 volgare raccolta (prima silloge) di rime
Rerum memorandarum libri
a partire dal 1343
latino
repertorio di aneddoti
Secretum
1345-1353
latino
dialogo
T5 L’accidia, pag. 366
De vita solitaria
a partire dal 1346
latino
trattato
T4 La vita appartata, pag. 363
Bucolicum carmen a partire dal 1346
latino
raccolta di egloghe
De otio religioso
a partire dal 1347
latino
trattato
Epystole
a partire dal 1332
latino
epistole in versi
Invectiva contra medicum
1352
latino
scritto polemico
latino
trattato
latino
scritto polemico
De remediis a partire utriusque fortunae dal 1353 De sui ipsius et multorum ignorantia
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T10 Lamento di Magone morente, VI, pag. 387 T1 Solo et pensoso i più deserti campi, XXXV, pag. 340 T6 Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno, CXXVIII, pag. 375 T7 Fiamma dal ciel su le tue treccie piova, CXXXVI, pag. 380 T9 Quando io movo i sospiri a chiamar voi, V, pag. 385 T12 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, I, pag. 400 T13 Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro, III, pag. 403 T14 Movesi il vecchierel canuto et biancho, XVI, pag. 408 T16 Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno, LXI, pag. 418 T17 Padre del ciel, dopo i perduti giorni, LXII, pag. 419 T18 Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, XC, pag. 421 T19 Chiare, fresche et dolci acque, CXXVI, pag. 424 T20 Pace non trovo, et non ò da far guerra, CXXXIV, pag. 428 T21 O cameretta che già fosti un porto, CCXXXIV, pag. 432 T22 Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo CCLXVII, pag. 437 T23 La vita fugge e non s’arresta un’ora, CCLXXII, pag. 439 T24 Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente, CCXCII, pag. 441 T25 Se lamentar augelli, o verdi fronde, CCLXXIX, pag. 444 T26 Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena, CCCX, pag. 446 T27 Rapido fiume che d’alpestra vena, CCVIII, pag. 448 T28 Vergine bella, che di sol vestita, CCCLXVI, pag. 454
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2 La VICENDA umana attraverso i TESTI Un ideale ritratto di sé LE RACCOLTE EPISTOLARI
Infatti, come mi auguro, unico sarà per me il termine dello scrivere e del vivere. Ma mentre tutte le altre opere o hanno o sperano di avere dei limiti, di quest’opera, che ho cominciato nella prima giovinezza a frammenti e ora, già avanti con l’età, riordino e provvedo a stendere in forma di libro, la cura degli amici con cui sono spinto di continuo a corrispondere, assicura la continuità. (Familiares, I, 1, 44-45)
Vivere è scrivere, per Petrarca, e l’epistolario, frutto di un lungo lavoro di rielaborazione, è destinato a vivere anche dopo la morte del suo autore nelle mani dei tanti interlocutori che ne hanno condiviso confidenze e riflessioni. Tuttavia anche le lettere destinate agli amici non rispondono a un’esigenza di comunicazione immediata e spontanea, ma sono lavorate con arte ed erudizione e sottoposte a una continua rielaborazione, talvolta addirittura scomposte in più testi o fuse tra loro per dare struttura e coesione al suo ritratto di uomo e di intellettuale. Se l’idea della raccolta epistolare nasce in Petrarca dalla forte suggestione del ritrovamento a Verona delle lettere di Cicerone ad Attico e al fratello Quinto, modello ispiratore è anche Seneca con le Epistulae morales ad Lucilium. Nel 1366 Pe-
L’ opera
All’epistolario in latino, come abbiamo visto, Petrarca affida la costruzione di un’immagine ideale di sé, come intellettuale che ama e vive a stretto contatto con l’antichità ed è nello stesso tempo pienamente coinvolto nelle grandi questioni del suo tempo: le lettere costituiscono un’ideale autobiografia, che doveva essere suggellata, nei disegni dell’autore, dall’epistola Posteritati (Ai posteri), ritratto conclusivo e riassuntivo che non gli riuscirà di portare a termine T2, pag. 350 . In apertura della raccolta dei Rerum familiarium libri (Lettere ai familiari ), meglio nota come Familiares, l’unica ordinata interamente da Petrarca, si legge: Taddeo Gaddi, Nicchia con libro, XIV secolo. Firenze, Basilica di Santa Croce. Scala.
trarca conclude la stesura e l’organizzazione delle Familiares, dedicate all’amico Ludwig von Kempen, che comprendono 350 lettere in 24 libri, l’ultimo dei quali contiene testi che hanno come destinatari i grandi dell’antichità, Cicerone innanzitutto, poi Orazio, Virgilio e altri. La seconda raccolta, i Rerum senilium libri (Lettere della vecchiaia), meglio nota come Seniles, dedicata all’amico Francesco Nelli, comprende 125 lettere divise in 17 libri, in cui i temi prevalenti sono la meditazione sull’esistenza e lo scorrere del tempo. Dalle Familiares vengono stralciate, probabilmente intorno al 1350, le Sine nomine (Senza nome), 19 lettere molto polemiche nei confronti della curia avignonese, in cui l’autore preferisce omettere i nomi dei destinatari; chiudono l’epistolario le Variae, 65 lettere non revisionate da Petrarca e riunite da amici e collaboratori dopo la sua morte. L’epistola Posteritati, destinata a chiudere la seconda raccolta, viene esclusa dalle Seniles per decisione degli amici padovani che ne curano la prima edizione. Sui temi delle epistole latine in prosa Petrarca scrive anche 66 lettere in esametri, composte fra il 1333 e il 1354 e divise in 3 libri (Epystole).
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Posteritati Seniles, XVIII, 1
Nel 1345 Petrarca, in fuga da Parma lacerata da scontri intestini, raggiunge Verona e nel viaggio si spezza un braccio. Nella biblioteca capitolare della città ritrova buona parte dell’epistolario ciceroniano; nonostante la frattura, l’entusiasmo della scoperta lo induce a copiarne personalmente i testi. Sull’esempio degli epistolari classici, Petrarca inizia in quel periodo a concepire le Epistolae come un’opera aperta che accompagna l’intera sua vita, restituendoci un cosmo variegato e importante di relazioni e dibattiti. Al modello ciceroniano Petrarca si ispira nell’idea di una sistemazione complessiva delle proprie lettere in base a criteri diversi (i destinatari, l’età di composizione), ma a distinguere l’epistolario petrarchesco è la cura della presentazione di sé, in vista di una possibile pubblicazione. Ne è prova questa lettera, ambiziosamente dedicata ai posteri, che, lungi dall’urgenza di chi scrive per necessità di comunicare, è volta a restituire dell’uomo e dell’intellettuale Petrarca un profilo, ricomposto ad arte, di scrittore libero, amante della solitudine e dedito agli studi. L’epistola, primo esempio nella nostra letteratura di scritto interamente autobiografico, ci è giunta in una versione non definitiva a causa della morte di Petrarca: il primo nucleo risale con ogni probabilità all’inizio degli anni Cinquanta, mentre la stesura principale si colloca intorno al 1370-1371.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU Petrarca L’epistola è tesa a costruire il ritratto ideale di un uomo che ha ricomposto nella vecchiaia le passioni e le intemperanze della giovinezza, ha attraversato la vita con modestia, ha finito per trascurare la poesia in favore delle Sacre Scritture e non ha mai cercato la gloria attraverso il luccicare delle parole. L’uomo Petrarca è tutt’altro: alla poesia e alla cura delle parole ha dedicato l’intera esistenza, l’alta consapevolezza di sé nulla ha a che fare con la modestia, la gloria è stato un obiettivo ostinatamente perseguito. Quanto alle passioni, l’amore fortissimo per Laura, lungi dall’essere puro e confinato nell’età giovanile, lo ha tormentato fino alla maturità. Nella chiave di un ritratto idealizzato va letta anche l’ostentazione di modestia dell’incipit, con il riferimento al povero, oscuro nome e il dubbio che esso possa arrivare lontano nello spazio e nel tempo (rr. 1-2). Eppure, che il poeta non abbia superato i propri affanni, come vuol lasciar intendere, lo conferma la conclusione, con la similitudine dei malati, che cercano di rimediare al disagio cambiando posto (r. 176), evidente spia di una dimensione interiore segnata dall’inquietudine, da un malessere: sono parole in cui rivivono le immagini di Seneca e di Lucrezio (Seneca, De tranquillitate animi, II, 12 e segg.), che Petrarca aveva fatto proprie da uomo moderno, in un colloquio intimo e libero con i suoi modelli. L’epistola è infatti tutta intrisa di suggestioni letterarie. Concorrono a scandire il ritratto che il poeta fa di sé il modello delle biografie del De viris illustribus di Cornelio Nepote (ca. 100-27 a.C.), strutturate per tappe ricorrenti (la nascita, gli studi, le “imprese”), come accade in questa epistola, in cui il poeta passa in rassegna per “paragrafi” gli eventi della propria vita e gli stati d’animo che a essi si sono accompagnati, e il celeberrimo ritratto di Catilina del De coniuratione Catilinae di Sallustio (86-35 a.C.), ripreso nell’iniziale descrizione fisica. Esplicito riferimento si fa infine al De Vita Caesarum di Svetonio (ca. 69-126 d.C.), nel duplice richiamo al ritratto dell’imperatore Augusto.
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Ti verrà1 forse all’orecchio qualcosa di me; sebbene sia dubbio che il mio povero, oscuro nome possa arrivare lontano nello spazio e nel tempo. E forse ti piacerà sapere che uomo fui o quale la sorte delle opere, soprattutto di quelle la cui fama sia giunta sino a te e di cui tu abbia sentito vagamente parlare. Sul primo punto se ne diranno indubbiamente di varie: perché quasi tutti parlano non come vuole la verità, ma come vuole il capriccio; e non c’è misura giusta né per lodare né per biasimare. Sono stato uno della vostra specie, un pover’uomo mortale, di classe sociale né elevata né bassa; di antica famiglia, come dice di se stesso Cesare Augusto2; di tem-
1 Ti verrà: rivolgendosi ai posteri, Petrarca indirizza la propria epistola a un lettore generico, indicato con la seconda persona
singolare. 2 come… Augusto: si tratta dell’imperatore Ottaviano Augusto. La notizia è riferita
da Svetonio, biografo del I sec. d.C., che così riporta nelle sue Vite dei Cesari (II, 2): «Augusto dice semplicemente di venire
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peramento3 per natura né malvagio né senza scrupoli, se non fosse stato guastato dal contatto abituale con esempi contagiosi4. L’adolescenza5 mi illuse, la gioventù mi traviò, ma la vecchiaia mi ha corretto, e con l’esperienza mi ha messo bene in testa che era vero quel che avevo letto tanto tempo prima: che i godimenti dell’adolescenza sono vanità; anzi me lo insegnò Colui che ha creato tutti i secoli e tutti i millenni6, e che di quando in quando permette ai miseri mortali, pieni di presunzione, d’andare fuori strada, perché possano conoscere se stessi, ricordando – sia pure tardi – i propri peccati. Da giovane m’era toccato un corpo non molto forte, ma assai agile. Non mi vanto d’aver avuto una grande bellezza, ma in gioventù potevo piacere: di colore vivo tra bianco e bruno, occhi vivaci e per lungo tempo di una grandissima acutezza, che contro ogni aspettativa mi tradì passati i sessanta, in modo da costringermi a ricorrere con riluttanza all’aiuto delle lenti7. La vecchiaia prese possesso d’un corpo che era stato sempre sanissimo e lo circondò con la solita schiera di acciacchi8. [...] Mi travagliò, quand’ero molto giovane9, un amore fortissimo; ma fu il solo, e fu puro; e più a lungo ne sarei stato travagliato se la morte, crudele ma provvidenziale, non avesse spento definitivamente quella fiamma quand’ormai era languente10. Vorrei davvero poter dire d’essere assolutamente senza libidine11; ma se lo dicessi mentirei. Posso dir questo con certezza: d’aver in cuor mio esecrato12 quella bassezza, quantunque vi fossi spinto dai calori dell’età e del temperamento. Ma tosto che13 fui presso ai quarant’anni, quando ancora avevo parecchia sensibilità e parecchie energie, ripudiai siffattamente non soltanto quell’atto osceno, ma il suo totale ricordo, come se mai avessi visto una donna. E questa la pongo tra le mie principali felicità, ringraziando il Signore d’avermi liberato, ancor sano e vigoroso, da una servitù così bassa e per me sempre odiosa. Ma passiamo ad altro. La superbia l’ho riscontrata negli altri, ma non in me stesso; e sebbene sia stato un piccolo uomo, sempre mi sono giudicato ancor più trascurabile. La mia ira danneggiò assai di frequente me stesso, mai gli altri. Mi vanto francamente – perché so di dire la verità – d’aver un animo molto suscettibile, ma facilissimo a dimenticare le offese, ed al contrario saldissimo nel ricordo dei benefici ricevuti. Fui desiderosissimo delle amicizie oneste e le coltivai con assoluta fedeltà. Ma il supplizio di chi a lungo invecchia è appunto di dover sempre più spesso piangere la morte dei propri cari. Ebbi la fortuna di godere la familiarità dei principi e dei re, e l’amicizia dei nobili, tanto da esserne invidiato. Tuttavia da parecchi di coloro che più amavo mi tenni lontano: fu sì radicato in me l’amore della libertà, da evitare con ogni attenzione coloro che sembravano esserle contrari anche nel nome solo14. I più grandi re del mio tempo15 mi vollero bene e mi onorarono – il perché non lo so; è cosa che riguarda loro – e con certuni ebbi rapporti tali che in certo qual modo erano loro a stare con me; e dalla loro grandezza non ebbi noie, ma molti vantaggi. Fui d’intelligenza equilibrata piuttosto che acuta; adatta ad ogni studio buono e salutare, ma inclinata particolarmente alla filosofia morale ed alla poesia. Quest’ultima con l’andare del tempo l’ho trascurata, preferendo le Sacre Scritture, nelle quali ho avvertito una riposta dolcezza (che un tempo avevo spregiata), mentre riservavo la forma poetica esclusivamen-
da famiglia equestre, antica e agiata, nella quale il primo senatore fu suo padre». 3 temperamento: carattere. 4 esempi contagiosi: cattivi esempi. 5 L’adolescenza: secondo la scansione delle età di Isidoro di Siviglia (VI-VII secolo, Padre della Chiesa), che Petrarca qui segue, fino ai 28 anni. Già nell’antica Roma con il termine adolescentia si indica l’età della vita dell’uomo che va all’incirca dai 17 ai 30 anni. 6 Colui… millenni: Dio. 7 lenti: occhiali. 8 La vecchiaia… acciacchi: fra il 1369 e il
1370 Petrarca contrasse febbri malariche e fu colpito da una sincope. 9 quand’ero… giovane: Petrarca, con l’obiettivo di un ritratto ideale, circoscrive l’esperienza dell’amore per Laura all’età giovanile. In realtà la morte della donna avvenne nel 1348, quando Petrarca aveva 44 anni, e, a quanto si legge nel Canzoniere, non determinò la fine della passione. 10 languente: indebolita. 11 libidine: desiderio sessuale incontrollato. 12 esecrato: detestato, aborrito. 13 tosto che: non appena. Petrarca dichiara
di essersi liberato dalla colpa bassa della libidine, distinta dall’amore puro per Laura, intorno ai quarant’anni, quindi subito dopo la nascita della figlia Francesca (1343). 14 fu sì radicato… solo: la precisazione sembra voler rispondere alle accuse rivolte a Petrarca di essersi trasferito, nel 1353, non a Firenze, ma a Milano, città dominata dai Visconti. 15 I più grandi re… tempo: Roberto d’Angiò re di Napoli, il re di Francia Giovanni II, l’imperatore Carlo IV e diversi pontefici, fra cui Urbano V.
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te per ornamento. Tra le tante attività, mi dedicai singolarmente a conoscere il mondo antico, giacché questa età presente a me è sempre dispiaciuta, tanto che se l’affetto per i miei cari non mi indirizzasse diversamente, sempre avrei preferito d’esser nato in qualunque altra età; e questa mi sono sforzato di dimenticarla, sempre inserendomi spiritualmente in altre. E perciò mi sono piaciuti gli storici; altrettanto deluso, tuttavia, per la loro discordanza, ho seguito nei casi dubbi la versione a cui mi traeva la verisimiglianza dei fatti o l’autorità dello scrittore. Nel parlare, secondo hanno detto alcuni, chiaro ed efficace; ma a mio vedere fiacco ed oscuro. Ed in realtà nella conversazione quotidiana con gli amici e con i familiari non ho mai avuto preoccupazione di parlar forbito16; e mi stupisco che Cesare Augusto l’abbia avuta17. Ma dove l’argomento o la sede o la persona che m’ascoltava parevano richiedere diversamente, mi ci sono provato un poco; con quanta efficacia, non so; l’hanno da giudicare coloro di fronte ai quali parlai. Per mio conto, purché abbia vissuto rettamente, poco mi curo di come abbia parlato: gloria vana è cercare la fama unicamente nel luccicare delle parole. I miei genitori, originari di Firenze, furono persone dabbene, di condizione media, e – per dir la verità – piuttosto poveri. Erano stati cacciati dalla patria e perciò nacqui in esilio, ad Arezzo, nell’anno di Cristo 1304, un lunedì, all’alba del 20 luglio. Il caso e la mia volontà così hanno distribuito il mio tempo fino ad oggi. Il primo anno di vita, e neppure intero, lo passai ad Arezzo, ove la natura mi aveva portato alla luce; i sei anni seguenti18 essendo stata richiamata dall’esilio mia madre, li passai all’Incisa, in una campagna del babbo a 14 miglia sopra Firenze; l’ottavo a Pisa, dal nono in poi nella Gallia Transalpina, sulla riva sinistra del Rodano, nella città di Avignone, dove il pontefice romano ha tenuto a lungo e tiene in vergognoso esilio19 la Chiesa di Cristo, anche se pochi anni fa Urbano V sembrò averla ricondotta alla sua propria sede. Ma la cosa, com’è chiaro, si è risolta in nulla, mentre lui – e questo mi dispiace ancor di più – era ancora vivo e quasi pentito del bene che aveva fatto. Se avesse vissuto più a lungo, avrebbe infallibilmente saputo la mia opinione sulla sua partenza. Avevo già in mano la penna, quand’egli abbandonò all’improvviso e la vita e quella gloriosa intrapresa. Infelice! Come serenamente avrebbe potuto morire innanzi alla tomba di Pietro e nella sua propria dimora! Se i successori fossero rimasti nella loro sede, lui sarebbe stato l’autore di quell’opera felice; se fossero andati via, più luminoso il suo merito ed altrettanto evidente la loro colpa. Ma questa sarebbe una lamentela troppo lunga e qui fuor di luogo. Là dunque, sulla riva del ventosissimo fiume20, passai la fanciullezza sotto la guida dei genitori; e poi l’adolescenza intera sotto la guida dei miei vani piaceri. Non senza stare lontano, tuttavia, per lunghi intervalli: in quel tempo, infatti, una piccola città vicina, a est d’Avignone, Carpentras, m’ebbe per quattr’anni interi. In ambedue le città imparai un po’ di grammatica, di dialettica, di retorica, quanto lo comportava l’età: cioè quanto s’usa insegnare nelle scuole; e quanto poco sia, lo capisci da te, lettore carissimo. Partito per Montpellier a studiare legge, vi passai altri quattro anni; poi a Bologna, e vi spesi tre anni21 a studiare tutto il corpo del diritto civile. Ero un giovanotto che secondo l’opinione di parecchi prometteva grandi cose, se avessi seguitato quella strada; ma io quello studio lo lasciai completamente appena mi lasciò la sorveglianza paterna. Non perché non mi piacesse la maestà del diritto, che indubbiamente è grande e satura di quella romana antichità di cui sono ammiratore, ma perché la malvagità degli uomini lo piega ad uso perfido. E così mi spiacque imparare ciò che non avrei potuto usare onestamente; d’altra parte con onestà sarebbe stato pressoché impossibile, ed il comportamento retto sarebbe stato imputato a imperizia22. E così a ventidue anni tornai a casa. Chiamo «casa» quell’esilio ad Avignone, dove ero stato sin
16 forbito: in modo accurato, elegante. 17 mi stupisco… avuta: anche questo riferimento è tratto da Svetonio. 18 i sei anni seguenti: fra il 1305 e il 1311. 19 vergognoso esilio: Petrarca ribadisce la
propria ostilità all’esilio della corte papale in terra di Francia, fra il 1305 e il 1377, ma interrotto da Urbano V fra l’aprile 1365 e il settembre 1370. 20 ventosissimo fiume: il Rodano.
21 tre anni: in realtà Petrarca vive a Bologna fra il 1320 e il 1326, i tre anni si riferiscono alla durata effettiva degli studi. 22 imperizia: incapacità.
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dalla fine della mia infanzia. L’abitudine ha infatti una forza quasi pari a quella della natura. Già dunque cominciavo ad esservi conosciuto, e cominciava ad esser desiderata da personaggi importanti la dimestichezza con me: il perché ora confesso di non saperlo e me ne meraviglio. Ma allora non mi meravigliavo, perché l’età mi faceva credere più che degno di qualsiasi onore. Fui soprattutto richiesto dai Colonna, una famiglia illustre e nobile, che allora frequentava la curia romana: dirò meglio, la onorava; fui accolto da loro, e tenuto in un conto che non so se oggi, ma allora certo non meritavo. Con l’illustre ed incomparabile Iacopo Colonna, allora vescovo di Lombez23 – non so se ho mai visto e se vedrò mai un altro che gli stia a pari –, passai in Guascogna, sotto i Pirenei, un’estate quasi divina per la grande piacevolezza del padrone di casa e degli ospiti, e sempre la ricordo e la sospiro. Al ritorno stetti sotto suo fratello, il cardinale Giovanni Colonna, per parecchi anni, non come sotto un padrone, ma come sotto un padre; anzi, neppure: come sotto un fratello affettuosissimo e addirittura come in casa mia. In quel tempo la curiosità che è dei giovani m’indusse a percorrere in lungo e in largo la Francia e la Germania, e quantunque altri motivi fossero posti innanzi ufficialmente per giustificare la mia partenza agli occhi dei superiori, tuttavia la ragione vera era il desiderio vivo di vedere tante cose. In quei viaggi visitai prima di tutto Parigi, e mi divertii a verificare cosa c’era di vero e di fantastico in quel che si raccontava di quella città. Tornato di là, andai a Roma, che sin dall’infanzia desideravo ardentemente di vedere; a Roma mi affezionai tanto al magnanimo capo della famiglia Colonna, Stefano, uomo della stessa levatura di qualsivoglia degli antichi, e tanto gli fui accetto, che avresti detto non facesse differenza fra me e i suoi figlioli. L’affettuoso attaccamento di quell’uomo eminente rimase immutato verso di me fino al termine della sua vita, ed in me seguita a vivere, e non cesserà se non quando sarò morto. Tornato anche di là, non riuscivo a sopportare il senso di fastidiosa avversione che provavo per quella disgustosissima Avignone (avversione in me costituzionale per tutte le città, ma particolarmente per quella). Cercavo un rifugio come si cerca un porto, quando trovai una valle piccola ma solitaria ed amena, che si chiama Valchiusa, a quindici miglia da Avignone; e vi nasce la Sorga, regina di tutte le fonti. Incantato dal fascino di quel luogo, mi trasferii lì con tutti i miei libri, quando già avevo trentaquattro anni. [...] Un Venerdì Santo24 camminavo per quelle colline25 quando mi venne l’idea imperiosa di scrivere un poema epico su quel primo Scipione Africano, la cui fama straordinaria mi fu cara sin da quand’ero ragazzo; dal nome del soggetto lo intitolai Africa: poema che per non so quale ventura, se sua o mia, a tanti è stato caro senza che ancora lo conoscessero. Lo cominciai con grande lena26, ma presto distratto da varie occupazioni lo misi in disparte. Soggiornavo in quei luoghi quando – sembra una favola! – mi arrivarono nella medesima giornata27 due lettere, dal senato di Roma e dalla cancelleria dell’università di Parigi, che a gara m’invitavano a ricevere l’alloro di poeta e a Roma e a Parigi. Ero giovane e me ne inorgoglii, stimandomi anche io meritevole di quell’onore di cui m’avevano giudicato degno uomini sì autorevoli, e dando peso non ai miei meriti ma alle asserzioni altrui. Ero tuttavia esitante a chi dare la preferenza, e per lettera ne chiesi consiglio al cardinale Giovanni Colonna: abitava così vicino che avendogli scritto sul tardi, potei ricevere la risposta il giorno dopo prima delle nove. Seguii il suo consiglio e decisi di preferire ad ogni altra cosa la maestà di Roma. Ci sono due mie lettere28 a lui, che chiedono e approvano il suo consiglio. Dunque ci andai; e sebbene – come tutti i giovani – io fossi giudice molto indulgente delle cose mie, tuttavia ebbi vergogna di fidarmi al giudizio che di me stesso davo io, o che ne davano coloro che mi avevano invitato, i quali certo non l’avrebbero fatto se non m’avessero stimato degno dell’onore che mi offrivano. Decisi perciò di recarmi prima di tutto a Napoli, e mi presentai a Roberto, grandissimo re e grandissimo filosofo, non meno illustre per la
23 Lombez: località della Guascogna. 24 Un Venerdì Santo: quello del 1328 o 1329. Si noti come Petrarca, come già era avvenuto per l’incontro con Laura, collochi alcuni degli eventi più salienti della sua vita
nel giorno di venerdì santo. 25 quelle colline: si riferisce a Valchiusa, a cui il poeta è approdato dopo molti viaggi. 26 lena: vigore.
27 nella medesima giornata: l’1 settembre 1340. 28 due mie lettere: Familiares, IV, 4 e 5.
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dottrina che per lo scettro: l’unico re che i nostri tempi abbiano avuto amico e del sapere e della virtù29. Vi andai perché mi giudicasse secondo il suo parere; ed oggi io mi stupisco – e credo che sapendolo anche tu, lettore, ti meraviglierai – pensando a quale gli sembrai ed a come gli fui accetto. Sentita la ragione della mia venuta, se ne rallegrò straordinariamente, pensando alla mia giovanile confidenza, e forse riflettendo che l’onore che gli chiedevo non era senza sua gloria, dal momento che per degno giudice io avevo scelto lui solo fra tutti i mortali. Insomma, dopo infiniti discorsi sopra vari argomenti, e dopo avergli mostrato la mia Africa di cui tanto si compiacque da chiedermi il favore che la dedicassi a lui – e naturalmente non potei né volli rifiutarglielo – mi fissò un giorno preciso per darmi il giudizio per cui ero venuto, e mi trattenne da mezzodì fino a sera. E poiché il tempo risultò inadeguato agli argomenti in continuo aumento, ripeté la cosa anche nei due giorni successivi. Sondata così in tre giorni la mia ignoranza, alla fine del terzo mi proclamò degno dell’alloro. Me l’offriva a Napoli e mi pregava con grande insistenza perché consentissi: l’amore per Roma l’ebbe vinta sulla veneranda30 insistenza d’un tanto re. E così, vedendo che il mio proposito era inflessibile, mi accompagnò con lettere e messi31 al senato romano, per manifestare con grande benevolenza il suo giudizio su di me. [...] Ero pensoso dell’onore che avevo ricevuto, e preoccupato che non apparisse conferito immeritatamente, quando un giorno, salendo una collina, giunsi in un bosco chiamato Selvapiana situato al di là del fiume Enza nel territorio di Reggio. Colpito dalla bellezza del luogo, ripresi l’Africa lasciata interrotta, e, svegliata l’ispirazione che sembrava essersi assopita, quel giorno scrissi qualcosa; e tutti i giorni successivi sempre un poco, finché, ritornato a Parma e trovata un’abitazione appartata e tranquilla (che poi ho comprata ed ancora è mia), in un tempo non lungo condussi a fine quell’opera con tanto entusiasmo, che oggi me ne stupisco io stesso. Di là tornai alla fonte di Sorga ed alla mia solitudine d’Oltralpe32.[...] Avevo già da lungo tempo conquistata la benevolenza di Giacomo da Carrara il Giovane, gentiluomo perfetto e signore quale non so se in questo secolo ce n’è stato uno simile; anzi lo so: non ce n’è stato uno. Con messi e lettere fin oltre le Alpi, quand’ero lì, e per l’Italia ovunque mi trovassi, per parecchi anni mi sollecitò e mi pregò con grande insistenza di entrare in relazione con lui. Da coloro che stanno bene non spero mai nulla; pure decisi di andare da lui e vedere un po’ a che tendeva tutto quell’insistere di un personaggio che era grande e che non conoscevo. E così, sia pure tardi, e dopo aver dimorato a lungo a Parma e a Verona, ovunque, ringraziando Iddio, accarezzato assai più di quanto meritassi, andai a Padova. Vi fui ricevuto da quell’uomo di illustre memoria, non come tra mortali, ma come in cielo vengono accolte le anime dei beati; e fui accolto con tanta gioia e con tanta inestimabile ed affettuosa reverenza, che sono costretto a passarla sotto silenzio, visto che non posso sperare di esprimerla a parole. Tra l’altro, saputo che fin dall’adolescenza ero chierico33, mi fece eleggere canonico di Padova, per legarmi più strettamente, oltre che a se stesso, anche alla sua città. Insomma, se avesse vissuto più a lungo, avrei fatto punto con il mio vagabondare e con tutti i miei viaggi. Ma ahimè, nulla tra i mortali dura, e se ti è toccata una dolcezza, presto ti finisce nell’amaro. Iddio lo portò via, dopo averlo lasciato meno di due anni a me, alla sua patria ed al mondo, che non eravamo degni di lui. Gli succedette il figlio, illustre signore pieno di prudenza, che sulle orme del padre mi ha sempre avuto caro e sempre mi ha onorato: ma, io, incapace di stare fermo, me ne tornai in Francia, non tanto per il desiderio di rivedere ciò che avevo già veduto le mille volte quanto per cercare, come fanno i malati, di rimediare al disagio cambiando posto. (F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, trad. di P.G. Ricci, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955)
29 Roberto… virtù: il parere di Petrarca non coincide con quello di Dante che, nell’ottavo canto del Paradiso (v. 147), lamenta che sul trono di Napoli sieda «un tal ch’è
da sermone», cioè un sovrano capace solo di predicare. 30 veneranda: che merita venerazione. 31 messi: messaggeri.
32 Di là… d’Oltralpe: Petrarca si riferisce al soggiorno a Valchiusa fra il 1345 e il 1347. 33 chierico: Petrarca prende gli ordini minori nel 1330, all’età di 26 anni.
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LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Individua e riporta le informazioni che Petrarca fornisce rispetto a: famiglia, condizione sociale, studi, aspetto fisico, sentimenti, viaggi, gloria. 2. Vengono privilegiati dal poeta gli eventi pubblici della propria biografia o quelli privati? Perché? 3. Quali eventi storici sono richiamati nell’epistola? 4. Quali “luoghi del cuore” puoi individuare in questa lettera? 5. In quali passaggi Petrarca ti pare in modo più evidente attento all’immagine di sé? Attraverso quale modalità ricorrente? 6. Che rapporto istituisce Petrarca fra il diritto e le “lettere”?
SCRIVERE DI SÉ 7. Immagina di voler lasciare un ritratto idealizzato di te ai posteri. Costruiscilo in circa una pagina.
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L’ascesa al monte Ventoso Familiares, IV, 1
Un monte isolato ed elevato al cielo e una pagina di Livio: da queste suggestioni, secondo quanto narra Petrarca, nasce in lui il desiderio della scalata al monte Ventoso, il Mont Ventoux, che si trova nel Sud della Francia, in Provenza. Come compagno di viaggio Francesco sceglie il fratello Gherardo, più giovane di tre anni, futuro monaco certosino. Petrarca colloca precisamente la stesura della lettera nella notte del 26 aprile 1336, al ritorno dalla scalata, anche se certamente essa fu rielaborata molti anni dopo, intorno al 1353. La presenza del fratello durante la faticosa camminata si rivela di fondamentale importanza, perché è proprio il comportamento di Gherardo, quel suo deciso puntare verso l’alto senza indugi, che innesca in Francesco, indeciso sulla via da seguire, e impegnato nella vana ricerca di scorciatoie per rendere la salita più agevole, il passaggio dalle cose corporee, concrete, alle incorporee: il resoconto di un’impresa alpinistica diviene così allegoria della condizione spirituale di un individuo. Petrarca utilizza la sua esperienza personale per un’indagine che parla a ogni uomo. A intervenire nel monologo interiore di Petrarca, interrotto e ripreso più volte, sono gli autori antichi, pagani e cristiani, che gli offrono un aneddoto, un verso, una massima, a suggello delle considerazioni via via dolorosamente elaborate, quasi a garantirgli che i suoi pensieri tormentati hanno già trovato espressione in quella ideale comunità di spiriti magni che egli sente come veri interlocutori. Se molte voci del passato affiorano alla sua mente, è una sola quella che con la potenza di un oracolo coronerà la conquista della vetta e darà senso alla conclusione dell’impresa: le Confessioni di Agostino pag. 361 , opera chiave per la lettura dell’interiorità nella cultura occidentale, gli si aprono davanti nel passo del decimo libro che invita a distogliere lo sguardo dalla bellezza esteriore per concentrarlo su se stessi. Ed ecco che il monte si fa piccolo e alla fatica compiuta per arrivare in cima si sostituisce l’idea del cammino dell’anima verso Dio. Destinatario della lettera è Dionigi da Borgo San Sepolcro, monaco agostiniano, insegnante di Teologia alla Sorbona, conosciuto nel 1333 ad Avignone: la copia delle Confessioni portata in vetta da Petrarca è un suo dono. Joachim Patinir, Paesaggio con tentazioni di sant’Antonio, 1510-1520. Amsterdam, Rijksmuseum.
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CONNESSIONI Le Confessioni di Agostino come archetipo dell’indagine di sé
a guida spirituale di Francesco Petrarca è l’uomo dal “cuore inquieto”, che arriva alla fede dopo un itinerario di irrequieta sofferenza e di progressive conquiste spirituali, e in Dio trova finalmente la pace. Inquietum est cor nostrum, donec requiescat in te (“Il nostro cuore non trova pace fino a quando non riposa in te”): con queste parole si aprono le Confessioni, diario dei fatti di una vita e insieme degli eventi e dell’evoluzione di uno spirito. La vita di Agostino Agostino, nato a Tagaste nel 354 in Numidia, l’attuale Algeria, allora provincia romana, vive una giovinezza di eccessi, da cui si stacca a poco a poco anche sulla scorta di letture illuminanti come quella dell’Hortensius di Cicerone, un dialogo che esorta alla pratica della filosofia, per noi perduto. Divenuto maestro di retorica, si trasferisce a Roma, dove entra in contatto con gli intellettuali pagani grazie ai quali ottiene la possibilità di insegnare a Milano. Qui viene affascinato dalla figura del vescovo Ambrogio, che lo conduce ad abbandonare la vita mondana per servire il Dio dei cristiani: da lui nel 387 riceve il battesimo. Tornato in Numidia, vende le proprietà di famiglia e si ritira nello studio e nell’ascesi; nel 391, tuttavia, accetta di lavorare per la comunità dei fedeli e viene ordinato sacerdote a Ippona, città di cui diventa vescovo cinque anni più tardi. Mentre l’Impero frana sotto le pressioni delle popolazioni barbariche (è del 410 il sacco di Roma a opera dei Visigoti), Agostino concepisce la grandiosa visione, oggetto del De civitate Dei, della città di Dio, fondata sul sommo bene, contrapposta alla città degli uomini, che persegue l’ideale della ricchezza e del potere sulla Terra. Nel 429 l’Africa del Nord viene invasa dai Vandali, che l’anno dopo arrivano a Ippona. Agostino muore nel 430 durante l’assedio della città. La prima autobiografia moderna Le Confessioni risalgono al 397, poco tempo dopo l’elezione a vescovo, quando egli sente più forte l’esigenza di ricostruire, per sé e per gli altri, le tappe e le difficoltà del suo percorso di conversione. Per la loro caratteristica di diario di un’anima, in cui gli eventi del passato vengono selezionati in base ai loro riflessi sul piano dell’interiorità, le Confessioni rappresentano una svolta nel genere dell’autobiografia. Prima di Agostino, infatti, il genere autobiografico era volto
Andrea della Robbia, Sant’Agostino, 1490. Madrid, Museo ThyssenBornemisza.
a celebrare o giustificare le gesta di grandi personaggi. La svolta intimistica data all’opera fa delle Confessioni la prima autobiografia “moderna”. Il titolo allude sia alla confessione del penitente cristiano davanti alla comunità dei fedeli sia alla confessio fidei, la professione delle certezze di fede, sia alla confessio laudis, la lode della misericordia e della grandezza divina. L’opera, quindi, sovrappone il piano della memoria dei fatti e delle colpe antiche alla preghiera e alla lode, in un costante colloquio con Dio, quel Tu a cui Agostino consegna le chiavi della propria vita e del proprio cuore. Altro aspetto di novità nelle Confessioni è la visione del tempo come realtà interiore, che il metro dell’anima scandisce “distendendosi” dal presente ad accogliere il passato o ad anticipare nell’attesa il futuro. A operare il recupero del passato per farlo fluire nel presente è la memoria, facoltà «grandiosa», che ospita i ricordi in “caverne incalcolabili, incalcolabilmente popolate da specie incalcolabili di cose»” (X, 17, 26, trad. di C. Carena). Del passato Agostino non trascura nulla e per la prima volta include nella narrazione autobiografica anche gli eventi dell’infanzia, in cui legge in embrione la manifestazione dei vizi dell’età adulta: celebre il racconto del “furto di pere”, in cui Agostino ricorda di come, bambino, andasse a rubare quei frutti di notte da un albero di un vicino insieme ad altri amici, non certo per fame o per bisogno ma “per la soddisfazione di commettere un furto e di peccare» (II, 9). Un modello esemplare Se le Confessioni trovano posto nella bisaccia di Petrarca che si inerpica sul Ventoso e, una volta giunto in vetta, apre a caso il libro e vi legge un passo che invita a riportare lo sguardo sulle straordinarie bellezze presenti dentro l’uomo, esse forniscono l’archetipo, cioè il modello esemplare, alle grandi autobiografie della letteratura occidentale, come le Confessioni dello scrittore e filosofo francese Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), che riprende il titolo dell’opera agostiniana e, pur orientando la sua narrazione verso altri fini, ne accoglie alcune suggestioni.
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Un ideale di vita DE VITA SOLITARIA
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appassionato tra la vita degli uomini “impegnati”, che ha come sfondo la città, e la vita di chi ha scelto il ritiro nella solitudine campestre e lì conduce un’esistenza serena, curando lo spirito e il corpo e cogliendo il senso profondo delle cose, anche grazie alla meditazione e agli studi T4 . Il secondo libro fornisce esempi di uomini e di donne che hanno cercato la solitudine, anche nelle forme della vita eremitica, in una rassegna di figure della tradizione classica, biblica e cristiana. Dal 1361 l’opera viene ripresa e arricchita con l’inserimento di nuovi personaggi esemplari come il monaco Pier Damiani; solo nel 1365 Petrarca incarica un sacerdote padovano di redigerne una copia e nel 1366 l’opera viene inviata al destinatario Philippe de Cabassoles, che ne sarà entusiasta.
La vita appartata De vita solitaria, I, 2; 6
Del primo libro del De vita solitaria si leggono due passi in cui Petrarca sviluppa il tema del confronto tra gli uomini “indaffarati” e gli spiriti “solitari” e dunque liberi. Nel primo passo, ispirandosi a un analogo passo del De brevitate vitae (La brevità della vita) di Seneca, Petrarca contrappone l’alba dell’indaffarato e insonne abitante della città, che considera merce ogni cosa, compresi gli affetti, finge, è corrotto, instabile e sempre teso a programmare i suoi impegni, al placido risveglio dell’uomo solitario, che loda e invoca il Signore come primo atto della giornata, si commuove per la sua fortuna e attende la luce in amene letture. Allo spuntar del giorno, il primo è incalzato da amici nemici e dalle incombenze della vita associata che gli porteranno noie e affanni, il secondo è libero di organizzare il suo tempo e di esercitare il corpo camminando. Solo in questa condizione di libertà e di raccoglimento, come si legge nel secondo passo, può nascere l’opera d’intelletto, come insegnano sia i filosofi antichi sia i pensatori cristiani, concordi nell’affermare che una vita ascetica, separata dal mondo e dagli affanni materiali, è l’unica condizione affinché possano svilupparsi sia la scienza sia il culto divino.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU Petrarca L’ambiente ideale per gli uomini di studio, descritto da Petrarca, mescola suggestioni letterarie ed esperienza privata e personale: la cornice paesaggistica è quella del locus amoenus, frequentato da intelligenze vive e persone colte, come accadeva ai sacerdoti-matematici o ai sacerdoti-scienziati, e come accade nel rifugio di Valchiusa, che ospita amici cari come il vescovo dedicatario dell’opera. Nel confronto città-campagna Petrarca manifesta la propria avversione alle relazioni formali o d’interesse che costringono l’uomo alla finzione e gli tolgono la libertà necessaria per alimentare lo spirito e la mente; con toni agostiniani, inoltre, lascia intendere che solo la vita appartata consente di coltivare il rapporto con Dio, a cui l’uomo solitario si affida con la dedizione devota del cuore (r. 16).
L’ opera
Il trattato in latino De vita solitaria, dedicato all’amico Philippe de Cabassoles, vescovo di Cavaillon, viene composto a partire dal 1346, anno in cui il prelato trascorre due settimane a Valchiusa ospite di Petrarca. L’occasione fa da spunto al maturare di una riflessione su quell’ideale di vita a contatto con una natura amena, appartata dalla folla, lontana dal caos cittadino e allietata dalla compagnia di pochi amici cari, che lo scritto celebra. La vita solitaria non è infatti isolamento, ma è libertà di condividere con spiriti scelti perché affini la propria esistenza, in una condizione di rinuncia alle attività pubbliche per coltivare l’otium letterario e il sapere in generale. Il primo libro, più direttamente ispirato alle considerazioni di Seneca, propone un confronto
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[2] Si alza nel cuor della notte l’indaffarato, infelice abitante della città, poiché il sonno gli è stato interrotto dalle sue preoccupazioni e dalle voci dei clienti1; spesso anche per paura della luce, spesso atterrito da notturne visioni. Subito si lascia andare su di un triste sgabello e l’animo volge agli inganni: si dà tutto a quelli, e pensa al prezzo da fissare alle merci, o al modo di ingannare il compagno o il pupillo2, di stendere con le parole un velo di giustizia su di un’ingiusta contestazione, di operare infine qualche corruzione in pubblico o in privato. Ora si fa trascinare dall’ira, ora arde di desiderio, ora è agghiacciato dalla disperazione: così quel tristo artefice ordisce prima dell’alba la tela delle occupazioni diurne, in cui avvolgere se stesso e gli altri. Si alza l’uomo solitario e tranquillo, sereno, ristorato da un conveniente riposo, dopo aver non interrotto ma terminato il suo breve sonno, e destato talvolta dal canto del notturno usignolo. Appena sceso dolcemente dal letto e scosso il torpore, incomincia a cantare nelle ore di riposo, e prega il portiere delle sue labbra3 di aprirle devotamente alle lodi mattutine che stanno per uscirne; invoca in suo aiuto il Signore del suo cuore e, non fidandosi affatto delle sue forze, conscio e timoroso dei pericoli che lo sovrastano, lo scongiura di affrettarsi. Non rivolge l’attenzione a meditare frode alcuna; rinnovella invece, non solo ogni giorno, ma ogni ora, la gloria di Dio e le lodi dei santi, con l’opera instancabile della lingua e la dedizione devota del cuore: ché alle volte il ricordo dei doni divini non abbia a cancellarsi dall’animo ingrato. E spesso frattanto – mirabile a dirsi – preso da tranquillo timore e da trepida speranza, memore del passato e presago del futuro, è invaso da un lieto dolore e da lacrime di gioia. Non c’è godimento di uomini indaffarati, non delizia cittadina, non pompa4 regale, che possa uguagliare una tal condizione. Guardando poi il cielo e le stelle, e sospirando con tutta l’anima al signore Dio suo che ha lì sua dimora, e dal luogo del suo esilio pensando alla patria5, si dedica subito a qualche bella e piacevole lettura; e così, nutritosi di cibi deliziosi, attende con una gran pace nell’anima la prima luce che sta per venire. Il giorno è arrivato, con differenti speranze atteso. Quegli ha l’abitazione invasa da amici nemici, viene salutato, chiamato, trascinato, sospinto, biasimato, diffamato. Questi ha sgombro l’ingresso, e, s’intende, ha libertà di rimanersene in casa o di andare dove vuole. Quegli si avvia triste nel Foro, pieno di noie e di affanni, e trae dagli uccelli gli auspici6 per l’inizio del giorno imminente. Questi se ne va di buon passo nel boschetto vicino, tutto calmo e tranquillo, e inizia con gioia e con buoni auspici una giornata serena. [6] […] e chi mai dubiterebbe che questa attività letteraria, con cui immortaliamo il nostro e l’altrui nome, con cui scolpiamo le immagini degli uomini illustri assai più durevolmente che nel bronzo o nel marmo, possa svolgersi nella solitudine meglio e più liberamente che altrove? Di questo, almeno, parlo per esperienza. Io conosco gli stimoli che da essa provengono all’animo, le ali ch’essa appresta all’ingegno, il tempo che concede libero al lavoro: non saprei dove cercare tutte queste cose, se non nella solitudine. L’essere esente o libero come preferisci dagli affari è la sorgente delle lettere e delle arti. Se non vuoi credere a me credi ad Aristotile7, che nel primo libro della sua Metafisica afferma che l’arte della matematica è stata trovata in Egitto, e ne adduce la ragione: che lì la classe dei sacerdoti fu lasciata in piena libertà. Nemmeno Platone8 tacque di questo: trattando lo stesso argomento nel Timeo, scrisse che le persone investite della dignità sacerdotale vivevano separate dal resto del popolo, affinché per un qualche contatto profano non
1 clienti: si tratta di coloro che nell’antica Roma erano protetti dalle grandi famiglie nobiliari. 2 pupillo: nell’antica Roma un giovane affidato a un tutore. 3 il portiere delle sue labbra: Dio. 4 pompa: apparato solenne tipico delle cerimonie. 5 esilio… patria: il luogo dell’esilio per un cri-
stiano è la terra e la patria il cielo. Immagine e concetto ricorrente in tutta la Scrittura e la Patristica, profondamente permeato nella sensibilità medioevale, riprende e sviluppa l’idea espressa nel Vangelo di Giovanni (17, 6-19) secondo cui i cristiani sono “nel mondo” ma non “del mondo”. 6 auspici: si tratta delle pratiche divinatorie degli antichi che traevano indicazioni sul
futuro dal volo degli uccelli. 7 Aristotile: Aristotele, filosofo greco vissuto tra il 384 e il 322 a.C. Tra le sue opere, la Metafisica, studio dei caratteri universali dell’essere, che Petrarca leggeva, come il Timeo di Platone, in traduzione latina. 8 Platone: filosofo greco vissuto tra il 428/427 e il 348/347 a.C. Il Timeo è uno dei suoi dialoghi.
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venisse a macchiarsi la loro castità. Della vita di costoro, come dice uno dei nostri sacerdoti9, «Cheremone stoico, uomo di grande eloquenza, racconta che, lasciate da parte tutte le attività e le cure mondane, vissero sempre nel tempio, e studiarono i fenomeni della natura e le cause e le leggi che governano gli astri; dal tempo in cui cominciarono a dedicarsi al culto divino, non ebbero mai contatti con donne, non videro mai congiunti, né parenti, né figli, e si astennero sempre dalle carni e dal vino.» Aggiunge inoltre che solevano frenare e contenere assai energicamente, con due o tre giorni Francesco Petrarca a Valchiusa in una miniatura di digiuno, gli umori10 del corpo derivanti dal- del XV secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale. la quiete e dall’immobilità, e molti particolari sui loro cibi, sulle loro bevande, sul modo di giacersi. Non ho difficoltà a credere che, seguendo tali abitudini, non sia mancata loro la divina fertilità dell’ingegno. (F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, trad. di A. Bufano, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955)
9 uno dei nostri sacerdoti: si tratta di san Gerolamo, uno dei Padri della Chiesa, a cui si deve la traduzione in latino della Bibbia, vissuto tra il 347 e il 420 d.C. Nello scritto
Adversus Iovinianum egli cita il grammatico e filosofo stoico Cheremone, vissuto nel I sec. d.C. e, secondo la fonte, dedito a pratiche ascetiche.
10 gli umori: i liquidi che tendono a essere trattenuti dal corpo in assenza di movimento.
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Illustra le caratteristiche del sonno del cittadino e di quello dell’“uomo solitario”. 2. Da quali espressioni si evince che la vita del cittadino è profondamente triste? 3. Che cosa teme l’uomo solitario? Come reagisce di fronte alle paure? 4. Che cosa rappresenta la lettura nei primi istanti della giornata dell’uomo solitario? 5. A quale realtà storico-culturale fa riferimento l’autore per tratteggiare la giornata del cittadino? Individua e riporta i passaggi significativi in questo senso. 6. Confronta i due passi: quale ne è la differenza strutturale? 7. Qual è la tesi di Petrarca nel secondo passo? 8. Chiarisci come gli autori antichi citati sostengano la tesi di Petrarca. 9. Si può rintracciare nel secondo passo la consapevolezza da parte del poeta della grandezza della sua opera? 10. Come gli affetti influenzano le opere dell’ingegno?
Interpretazione e scrittura
11. In che cosa giova all’uomo, nel complesso, la vita solitaria? Riassumi il messaggio dei due passi in una decina di righe.
CON LE RISORSE MULTIMEDIALI
Seneca, De brevitate vitae, VII, 3
12. Il filosofo latino Seneca, a cui si ispira Petrarca, riserva una parte del dialogo De brevitate vitae alla rassegna degli uomini tanto “occupati” in varie attività della vita da non riuscire a coglierne il senso. Nell’ebook leggine un estratto e, dopo la lettura, metti in luce consonanze e differenze.
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Una sincera autoanalisi IL SECRETUM
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revisione, che non ne fissò tuttavia la versione definitiva. L’opera non conobbe pubblicazione finché Petrarca fu in vita e la sua esistenza fu nota solo a pochi amici intimi del poeta. Non è detto che ciò sia da addebitarsi alla mancata revisione: in conclusione del breve proemio, sottolinea il critico Ugo Dotti, scrive infatti Petrarca: E perché un colloquio così intimo non andasse perduto, avendo deciso di registrarlo, ho composto questo libretto. Non che intenda aggiungerlo alle altre mie opere o che me ne aspetti fama (penso a lavori di maggior respiro) ma l’ho scritta perché dalla sua lettura possa ancora gustare, quando lo voglia, la stessa dolcezza che gustai, un giorno, dal vivo colloquio e a suffragare l’affermazione indica l’opera come secretum meum (il mio segreto). Se si dà credito a questo passaggio, quindi, il Secretum costituirebbe nell’attività di Petrarca una sorta di diario intimo su cui riflettere. Tale interpretazione sconfesserebbe quella di quanti leggono il dialogo come una delle tappe dell’autobiografia ideale di Petrarca, il quale nella Posteritati T2, pag. 350 attribuisce agli stessi anni in cui è ambientato il Secretum il superamento della passione giovanile. Ma, come si è detto, nel dialogo tale superamento non avviene e l’opera si chiude anzi con questo proposito. Diversi sono i modelli cui Petrarca attinge per quest’opera. La struttura è ricalcata sui dialoghi ciceroniani, come si legge peraltro nella conclusione del proemio, mentre le Confessioni di Agostino costituiscono per il poeta uno spunto di riflessione continuo tanto sul piano morale quanto su quello letterario T3, pag. 355 . Altra opera di riferimento è il De consolatione philosophiae (La consolazione della filosofia) di Severino Boezio (480 ca.-524/526 d.C.), il cui protagonista, in punto di morte, riceve la visita di una bellissima donna, la Filosofia, che lo consola.
5 L’accidia Secretum, II
Nel secondo dei tre libri del Secretum Francesco procede a un lungo esame di coscienza, in particolare attraverso la disamina dei sette peccati capitali: superbia, invidia, avarizia, gola, ira, lussuria, accidia. Agostino, nel suo ruolo di confessore, si concentra sulla vera malattia di Francesco, l’accidia, il fastidio, o peggio l’insofferenza, verso ogni cosa, cui si accompagna l’assenza di volontà.
L’ opera
Il Secretum, il cui titolo completo è De secreto conflictu curarum mearum (L’intimo conflitto dei miei affanni), si configura come un dialogo in tre libri che Petrarca immagina avvenuto tra lui e Agostino nel corso di tre giornate (una per libro) fra il 1342 e il 1343: mentre Francesco è assorto nella riflessione sulla condizione umana, gli appare improvvisamente una bellissima donna, la Verità, in compagnia di un uomo anziano ma di nobile aspetto, Agostino. I due uomini avviano così un dialogo serrato cui la Verità assiste silenziosa. Nel primo libro Agostino accusa Francesco di una mancanza di volontà che gli impedisce di raggiungere i propri obiettivi. Nel secondo libro Francesco si sottopone a un esame di coscienza che passa in particolare attraverso la disamina dei sette peccati capitali della dottrina cristiana (superbia, invidia, avarizia, gola, ira, lussuria, accidia): egli – sottolinea Agostino – pecca soprattutto di accidia, il disgusto e la tristezza del vivere, una «funesta malattia dell’animo» in cui Francesco finisce per crogiolarsi T5 . Infine, nel terzo libro, il dialogo si concentra sulle due maggiori passioni terrene di Francesco che lo distolgono da Dio: la passione per Laura e il desiderio di gloria. La prima, lo rimprovera Agostino, lo ha deviato dall’amore per il Creatore a quello per la creatura. La seconda, la gloria, in realtà non è vera gloria ma fama terrena, una condizione incostante che muta in base alle chiacchiere del volgo. Poiché tuttavia Francesco non riesce a risolversi verso la retta via, Agostino lo invita a provare a cambiare vita almeno per alleviare la vergogna di quanti gli sono vicini. Il proposito della mutatio vitae, cioè di una conversione completa dell’animo, diverrà un tema centrale in tutta la poetica di Petrarca e motivo cardine del Canzoniere. Il Secretum viene composto da Petrarca in fasi diverse, ma la cronologia divide gli studiosi: se ne può stimare la composizione nell’arco di tempo compreso fra il 1345 e il 1353, anno dell’ultima
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Francesco ammette che nell’accidia tutto è aspro, doloroso e orrendo, proprio come in quella che oggi si definisce “depressione”. È uno stato emotivo dai contorni indefiniti, e perciò tanto più dannoso, quello che il poeta restituisce con un’efficace immagine bellica: a ogni attacco della fortuna si sente come circondato da innumerevoli nemici in una sofferta battaglia. Invano Agostino insiste: Francesco sta pessimamente, e non per una sola, ma per infinite ragioni, affetto da quel “dispiacere di tutte le cose” che si chiama accidia. Questa condizione, così caratteristica dell’animo del poeta e definita dagli antichi aegritudo, è una malattia non del corpo ma dello spirito e a nulla vale la forza con cui Francesco prova a opporsi a essa: dopo le prime difficoltà, affrontate impavidamente, la sconfitta sopraggiunge rapida sotto i colpi della congerie di tanti mali, dispiaciuto di tutto e di nulla.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU Petrarca Ci si rivela qui un poeta afflitto da una condizione dello spirito tipica dei nostri tempi, che fa di Petrarca, lacerato nei meandri di un continuo conflitto interiore, il “primo dei moderni”. L’attualità del poeta appare anche nell’indagare le pieghe della propria condizione in una sorta di “autoanalisi”: egli si vede soffrire e soccombere, ma con un’atra voluttà, un piacere oscuro, che sembra precludere qualsiasi possibilità, e volontà, di guarigione. In un contesto che dovrebbe costituire un percorso spirituale, Petrarca si ancora alla condizione terrena descritta con una sorta di autocompiacimento. Ecco perché nel finale appare perfino irritato dagli incalzanti interrogativi di Agostino e lo liquida con insofferenza. Infine, il passo testimonia ancora una volta il colloquio continuo di Petrarca con gli amati classici, i primi a indicare con un termine specifico la sofferenza dello spirito qui indagata.
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Agostino Ti domina una funesta malattia dell’animo, che i moderni hanno chiamato accidia1 e gli antichi aegritudo2. Francesco Il nome solo di essa mi fa inorridire. Agostino Non me ne meraviglio, poiché ne sei tormentato a lungo e gravemente. Francesco È vero; e a ciò s’aggiunge che mentre in tutte quante le passioni da cui sono oppresso è commisto3 un che di dolcezza, sia pur falsa, in questa tristezza invece tutto è aspro, doloroso e orrendo; e c’è aperta sempre la via alla disperazione e a tutto ciò che sospinge le anime infelici alla rovina. Aggiungi che delle altre passioni soffro tanto frequenti quanto brevi e momentanei gli assalti; questo male invece mi prende talvolta così tenacemente, da tormentarmi nelle sue strette giorno e notte; e allora la mia giornata non ha più per me luce né vita, ma è come notte d’inferno e acerbissima4 morte. E tanto di lagrime e di dolori mi pasco5 con non so quale atra voluttà6, che a malincuore (e questo si può ben dire il supremo colmo delle miserie!) me ne stacco. Agostino Conosci benissimo il tuo male; tosto7 ne conoscerai la cagione. Di’ dunque: che è che ti contrista8 tanto? Il trascorrere dei beni temporali, o i dolori fisici o qualche offesa della troppo avversa fortuna9? Francesco Un solo qualsiasi di questi motivi non sarebbe per sé abbastanza valido. Se fossi messo alla prova in un cimento10 singolo, resisterei certamente; ma ora sono travolto da tutto un loro esercito. Agostino Spiega più particolarmente ciò che ti assale. Francesco Ogni volta che mi è inferta qualche ferita dalla fortuna, resisto impavido, ricordando che spesso, benché da essa gravemente colpito, ne uscii vincitore. Se tosto essa raddoppia il
1 accidia: avversione all’agire, accompagnata da noia e indifferenza. Nella dottrina cristiana è uno dei sette vizi capitali. 2 aegritudo: malattia dell’anima. Uno dei libri delle Tusculanae disputationes di Cicerone, opera a carattere filosofico, De aegritudine lenienda, è dedicato a come alleviare
l’animo da tale malattia; di aegritudo si legge anche nel De tranquillitate animi e in una delle Lettere a Lucilio di Seneca. 3 commisto: mescolato. 4 acerbissima: letteralmente, dal sapore assai aspro, qui per estensione molto dolorosa.
5 mi pasco: mi nutro, latinismo da pascor. 6 atra voluttà: oscuro piacere. 7 tosto: presto. 8 contrista: rattrista, affligge. 9 fortuna: da intendersi in senso neutro, sorte, come la vox media latina. 10 cimento: prova, gara.
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colpo, comincio un poco a vacillare; che se alle due percosse ne succedono11 una terza e una quarta, allora sono costretto a ritirarmi – non già con fuga precipitosa ma passo passo – nella rocca della ragione. Ivi12, se avviene che la fortuna mi si accanisca intorno con tutta la sua schiera, e mi lanci addosso per espugnarmi le miserie della umana condizione e la memoria dei passati affanni e il timore dei venturi13, allora finalmente, battuto da ogni parte e atterrito dalla congerie14 di tanti mali, levo lamenti. Di lì sorge quel mio grave dolore: come ad uno che sia circondato da innumerevoli nemici e a cui non si apra alcuno scampo né alcuna speranza di clemenza né alcun conforto, ma ogni cosa lo minacci. Ecco, le macchine sono drizzate, sotto terra i cunicoli sono scavati, già oscillano le torri; le scale sono appoggiate ai bastioni; s’agganciano i ponti alle mura; il fuoco percorre le palizzate. Vedendo d’ogni parte balenare le spade e minacciosi i volti nemici, e prevedendo prossimo l’eccidio, non paventerà15 esso e non piangerà, posto che, se anche cessino questi pericoli, già solo la perdita della libertà è dolorosissima agli uomini fieri16? Agostino Benché tu abbia trascorso17 su tutto ciò un poco confusamente, pure capisco che la causa di tutti i tuoi mali è un’impressione sbagliata che già prostrò e prostrerà infiniti altri. Giudichi tu di star male? Francesco Anzi, pessimamente. Agostino Per qual ragione? Francesco Non per una, certo, ma per infinite. Agostino Tu fai come quelli che per qualsiasi anche lievissima offesa tornano al ricordo dei vecchi contrasti. Francesco Non è in me piaga così antica che abbia ad essere cancellata dalla dimenticanza; le cose che mi tormentano sono tutte recenti. E ancor che col tempo qualche cosa si fosse potuta sanare, la fortuna torna così spesso a percuotere in quel punto, che nessuna cicatrice può mai saldare l’aperta piaga. Aggiungi l’aborrimento18 e il disprezzo dello stato umano; da tutte queste cagioni19 oppresso, non mi riesce di non essere tristissimo. Non do importanza che questa si chiami o aegritudo o accidia o come altrimenti vuoi. Siamo d’accordo sulla sostanza. Agostino Poiché, a quanto veggo20, il male ti si è abbarbicato con profonde radici, non basterà averlo tolto via alla superficie, che rispunterebbe rapidamente: bisogna strapparlo radicalmente; ma sto incerto donde21 incominciare, tante sono le cose che mi trattengono. Ma per agevolare l’effetto dell’opera col ben precisare, percorrerò ogni singolo particolare. Dimmi dunque: quale cosa ritieni per te precipuamente22 molesta? Francesco Tutto quanto primamente vedo, odo ed intendo. Agostino Perbacco, non ti piace nulla di nulla. Francesco O nulla o proprio poche cose. Agostino Speriamo almeno che ti piaccia ciò che è salutare! Ma che ti spiace di più? Rispondimi per favore. Francesco Ti ho già risposto. Agostino Tutto ciò è caratteristico di quella che ho chiamata accidia. Tutte le cose tue ti spiacciono. (F. Petrarca, Prose, a cura di G. Martellotti, P.G. Ricci, E. Carrara, E. Bianchi, trad. di E. Carrara, Milano-Napoli, Ricciardi, 1955)
11 ne succedono: ne seguono. 12 Ivi: lì. 13 venturi: futuri. 14 congerie: grande quantità.
15 paventerà: proverà timore. 16 fieri: valorosi. 17 trascorso: parlato di. 18 aborrimento: repulsione.
19 cagioni: ragioni, motivi. 20 veggo: vedo. 21 donde: da dove. 22 precipuamente: soprattutto.
6 Francesco Petrarca ■ 2 La vicenda umana attraverso i testi
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LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Riassumi il passo in 7-8 righe. 2. In che cosa si differenzia l’accidia dalle altre passioni che turbano Petrarca? 3. Individua i “sintomi” con cui essa si manifesta. 4. Spiega le metafore belliche con cui Petrarca definisce il proprio male. Ti paiono efficaci? 5. Metti a fuoco l’atteggiamento reciproco dei due protagonisti del dialogo. Ti sembra che Francesco assecondi Agostino? Rispondi con adeguati riferimenti al testo. 6. Nella parte iniziale del dialogo alle domande sintetiche di Agostino seguono risposte piuttosto articolate da parte di Petrarca. Nel finale le proporzioni si invertono. Perché? 7. Descrivi con termini diversi da quelli usati nel testo la condizione di Petrarca denunciata nel dialogo. 8. Petrarca dimostra una sorta di autocompiacimento? Rispondi con riferimenti al testo.
SCRIVERE DI SÉ 9. Quale potrebbe essere una condizione di spirito che affligge i giovani d’oggi? Credi che si possa “guarire” o che sia più facile crogiolarvisi? Scrivi un testo di circa una pagina.
Il ritratto di un amico
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Boccaccio racconta Petrarca Vita e costumi del signor Francesco di Petracco da Firenze secondo Giovanni Boccaccio da Certaldo
Il De vita et moribus domini Francisci Petracchi de Florentia di Giovanni Boccaccio inaugura la storia delle biografie petrarchesche. L’opera risale agli anni Quaranta del Trecento, prima dell’incontro tra Boccaccio e Petrarca, avvenuto nel 1350. Le due fonti principali utilizzate da Boccaccio sono le informazioni raccolte a Napoli dal monaco Dionigi da Borgo San Sepolcro, amico di Petrarca dal 1333, e il discorso pronunciato da Petrarca al momento dell’incoronazione, ossia la Collatio laureationis.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU Petrarca Questa pagina mette a fuoco il ritratto di un uomo di eccezione: l’enunciato iniziale rileva che oltre a una cultura “straordinaria” Petrarca splende per limpidi costumi. La descrizione del poeta è ricchissima di particolari inerenti al temperamento, alle abitudini, alle relazioni con i suoi simili e restituisce i dati essenziali dell’aspetto esteriore, sottolineando comunque anche in quest’ambito dei tratti che rivelano la personalità: severo il movimento degli occhi, … quanto mai misurato nei gesti. In un quadro tutto innervato dell’ammirazione e dell’affetto propri di Boccaccio nei confronti dell’amico-maestro, l’unica ombra è una inclinazione alla libidine, di cui in ogni caso vengono attenuati gli effetti anche attraverso il rapido riferimento all’amore ardente per una Lauretta, fonte di ispirazione di rime volgari, composte con rarissima eleganza.
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Questo nostro Francesco, per quanto possa essere straordinario il suo sapere, non certo meno splende per limpidi costumi. Infatti, sebbene tragga diletto dalla solitudine […] è stato nondimeno ed è uomo cortese nei comportamenti e nell’arte della parola: e per di più amichevole, clemente, familiare con chiunque in rapporto alla condizione di ognuno. Di condotta, onestissimo: e per usarne secondo il suo volere in modo affatto completo e opportuno, e riuscir meglio a schivare gli affanni del mondo, scelse vita e abito clericale. Comunque si avvalse di benefici1 pic-
1 benefici: proprietà fondiarie o immobiliari concesse in usufrutto ai chierici come compenso dei loro servizi. I quattro ordini
minori (ostiario, lettore, esorcista, accolito) presi da Petrarca nel 1330 erano al tempo ministeri ecclesiastici con carattere au-
tonomo, servizi cioè che non implicavano l’ordinazione sacerdotale ma che conferivano lo status di chierico.
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coli e modesti, non subordinati alla cura delle anime, anzi declinò da sé persino quelli grandissimi che pur gli venivano offerti dai pontefici, soprattutto le prelature2: ad evitare che, volendo fuggire Scilla con l’indossare l’abito, non finisse con l’incorrere in Cariddi per voler accettare troppe cose3. Alto di statura, di leggiadro aspetto, e piacevole per il viso tondeggiante, sebbene egli non sia anche di color chiaro, comunque neppure bruno: piuttosto con certe punte d’ombra, come ben si addice a un uomo. Severo il movimento degli occhi; felice, e insieme sottile l’intuito per acuta perspicacia; mite nell’aspetto, quanto mai misurato nei gesti: senz’altro disponibile al riso, ma non fu mai visto agitarsi per una risata stupida e scomposta. Controllato nel camminare, sereno e gioioso nell’esporre, parla tuttavia di rado, a meno che non gli siano poste delle domande: ma allora porge delle parole così chiare a chi lo interroga, soppesate con tale serietà, da guadagnare all’ascolto anche i più semplici, tenendoli – per così dire – a lungo avvinti, mentre proferisce senza arrecar noia, piuttosto vari sensi di piacere: tanto che alcuni nel sentirlo danno per vero che le navi dei compagni del duca narizio4 fossero sommerse dal canto delle sirene – sino a quando poi non si accorgano di essere stati fatti prigionieri, in certo senso, dalla soavità della sua parola. [...] E che dire della sua indole? In lui non c’è nulla di ambiguo, nulla di oscuro, ma ogni cosa gli si manifesta come chiara, limpida e aperta; se io dico il vero lo attesteranno gli effetti. Quanto poi alla memoria, credo che lui debba essere ritenuto piuttosto divino che umano: sembra, indubbiamente, conoscere e ricordare qualsiasi cosa, dovunque sia accaduta presso tutti i re principi popoli o genti, quasi fosse stato presente, dalla originaria creazione del primo artefice e sino ai nostri tempi. Come poi abbia appreso e fatto proprie le dottrine morali, naturali e teologiche dei filosofi, ciò ormai lo dimostrano le sue azioni, le sue parole, gli scritti. Fu moderato nel mangiare e nel bere, e infatti fece sempre uso di cose semplici. [...] Sa esser paziente e, ammesso mai che possa adirarsi oltre un certo limite, subito ritorna in sé. Sincero moltissimo e leale; in religione è di schietti sentimenti cristiani, tanto che ciò non può esser creduto se non da chi ne abbia avuta provata conoscenza. Solo dalla libidine fu, non dico del tutto vinto, semmai, molto più esattamente, molestato; però se a volte gli accadde di soccombere, egli almeno seppe – secondo il precetto dell’Apostolo5 – cautamente condurre a termine quanto non poté castamente vivere. Né a ciò contraddice il fatto che in numerose sue rime volgari, composte con rarissima eleganza, abbia mostrato di aver ardentemente amato una certa Lauretta… (G. Boccaccio, Vita di Petrarca, a cura di G. Villani, Roma, Salerno, 2004)
2 prelature: diritti di giurisdizione di determinati territori (godevano di prelature i cardinali, i vescovi, gli abati). 3 ad evitare… troppe cose: a evitare che, volendo allontanare un pericolo (Scilla) con l’indossare l’abito di chierico, non cadesse
poi in un pericolo più grande (Cariddi) accettando troppi beni (dunque peccando di avidità). 4 del duca narizio: di Ulisse. In Itaca Nériton è il monte più alto. L’eroe omerico viene chiamato con questa denominazione da
Ovidio nelle Metamorfosi e da Boezio nel De consolatione philosophiae. 5 Apostolo: san Paolo, che nella lettera ai Romani scrive: «Infatti io non compio il bene che voglio, ma il male che non voglio» (Lettera ai Romani, 7, 19).
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Quali tratti di Petrarca sono presi in considerazione da Boccaccio? Costruisci un tabella prendendo in considerazione l’aspetto fisico, l’indole, le qualità nelle relazioni con il prossimo, l’arte della parola e le qualità intellettive. 2. Su quali aspetti insiste maggiormente Boccaccio nel suo ritratto di Petrarca? 3. Nel testo emerge una debolezza di Petrarca: quale? Le parole con cui Boccaccio ne parla cercano di attenuare l’ombra che potrebbe proiettarsi sul poeta. Spiega come si può intuire questo proposito dal testo. 4. Nel testo l’uso dei verbi al tempo presente si alterna a quello del passato remoto. Perché?
Interpretazione e scrittura
5. Ti sembra che Boccaccio descriva esclusivamente un profilo umano o voglia celebrare anche le qualità dell’artista? Rifletti in uno scritto di circa 10 righe con puntuali riferimenti al testo.
6 Francesco Petrarca ■ 2 La vicenda umana attraverso i testi
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Un evento memorabile
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L’incoronazione poetica Ernest H. Wilkins, Vita del Petrarca
Il passo è tratto dalla Vita del Petrarca dell’inglese Ernest H. Wilkins (1880-1966) e ne racconta un momento fondamentale della biografia, l’incoronazione poetica tanto agognata. Un riconoscimento che a Petrarca viene offerto sia dalla Sorbona di Parigi, una delle più antiche università d’Europa, sia dal Senato di Roma. Ed è proprio a Roma che Petrarca sceglie di recarsi, sulla scia dei grandi valori della latinità da lui profondamente amata e studiata con passione, per ricevere la prestigiosa investitura dopo essersi sottoposto per tre giorni a Napoli all’esame del re Roberto d’Angiò, conosciuto per intercessione dell’amico Dionigi da Borgo San Sepolcro. Al termine dell’esame, Roberto d’Angiò dichiara Petrarca degno dell’alloro e si offre di incoronarlo personalmente, ma il poeta risponde di non poter più respingere l’invito del Senato di Roma. L’incoronazione in Campidoglio non costituisce solo il raggiungimento di un obiettivo personale, conclude il biografo, ma segna anche il ripristino di valori culturali di alto prestigio nell’antica Roma.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU Petrarca Wilkins ci mette a confronto con un poeta estremamente colto, pronto a sostenere tre giorni d’esame, appassionato di poesia, tanto da suscitare il rimpianto di re Roberto di non averla coltivata a sufficienza, e desideroso di essere incoronato a Roma. Il passo mette a fuoco l’ambizione personale di Petrarca, ma soprattutto l’amore per la poesia e la cultura antica.
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Giunto finalmente il giorno designato, a mezzogiorno re Roberto diede inizio all’esame, che continuò fino all’ora del vespro1 e proseguì nei due giorni seguenti con altre due sedute. Del contenuto dell’esame sappiamo soltanto che in una delle sessioni Petrarca parlò dell’arte poetica, dei vari scopi della poesia e delle caratteristiche del lauro. Sappiamo anche che alla fine del discorso del poeta il re affermò che, se l’avesse sentito quand’era giovane, avrebbe dedicato gran parte del tempo a sua disposizione allo studio della poesia. Al termine dell’esame il re dichiarò Petrarca degno di ricevere la corona d’alloro e si offrì di procedere lui stesso all’incoronazione, lì a Napoli; ma Petrarca fece presente che non poteva ormai più respingere l’invito del Senato romano. Prima della partenza per Roma, il re concesse al poeta la nomina a un ufficio di cappellano2, una carica che doveva essere puramente onorifica. Se non fosse stato per la sua età, re Roberto si sarebbe recato personalmente a Roma insieme al poeta, ma, nell’impossibilità di farlo, delegò Giovanni Barrili3 a rappresentarlo e a deporre a nome suo la corona d’alloro sul capo di Petrarca. Fece poi omaggio al poeta di un suo manto4 perché lo indossasse durante la cerimonia, in conformità con una tradizione orientale secondo cui i signori usavano concedere come privilegio un manto da essi indossato, che veniva poi chiamato “manto d’onore”. Egli infine diede a Petrarca una lettera per il Senato romano. Le ultime parole da lui rivolte al poeta furono un invito a tornare presto a Napoli. [...] L’incoronazione, che costituisce l’episodio più spettacolare della vita di Petrarca, ebbe luogo l’8 di aprile, nella sala d’udienza del palazzo del Senato, sul Campidoglio. Riempiva la sala una folla rumorosa di cittadini romani. Petrarca indossava il “manto d’onore” di re Roberto. Ci fu uno squillo di trombe e la folla ammutolì: quindi Petrarca pronunciò la sua orazione; alla fine del paragrafo introduttivo recitò l’Ave Maria e al termine fece formale richiesta di essere incoronato. Orso dell’Anguillara, uno dei due senatori in carica, lesse una lunga dichiarazione, enumeran-
1 vespro: nella liturgia cristiana, la preghiera all’ora del tramonto.
2 ufficio di cappellano: l’incarico di cappellano del re.
3 Giovanni Barrili: uno dei più fedeli funzionari di re Roberto. 4 manto: mantello.
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do gli onori che venivano concessi a Petrarca: 1) il riconoscimento che egli era “magnum poetam et historicum”5; 2) il conferimento del titolo di magister6; 3) il conferimento della corona d’alloro; 4) la nomina a professore di arte poetica e di storia; 5) la concessione del diritto di conferire ad altri la corona poetica; 6) l’approvazione dei suoi scritti presenti e futuri; 7) la concessione di tutti i diritti e i privilegi goduti dai professori delle arti nobili e liberali; 8) il conferimento della cittadinanza romana. Terminata l’enumerazione, Orso si rivolse ai cittadini romani presenti in sala e chiese se approvassero la concessione di quegli onori e l’approvazione fu unanime (possiamo immaginane il comune grido di sic7!). Allora Orso depose la corona d’alloro sul capo del poeta, fra gli applausi dei presenti, e subito dopo (o forse più tardi) consegnò a Petrarca un diploma, noto come il Privilegium lauree domini Francisci Petrarche8 che, con tutta probabilità era identico, per contenuto e formulazione, alla dichiarazione che era stata letta da Orso. […] Ormai Petrarca era diventato un uomo famoso, il più famoso cittadino privato allora vivente. Ma l’incoronazione, nelle intenzioni sue e anche nella realtà dei fatti, fu qualcosa di più che un trionfo personale: fu un tentativo riuscito di riportare certi grandi valori culturali alla posizione di alto prestigio che avevano occupato nell’antica Roma e che avrebbero presto di nuovo occupato, nell’età che si stava allora iniziando, grazie soprattutto agli sforzi dello stesso Petrarca. (E.H. Wilkins, Vita del Petrarca, trad. di R. Ceserani, Milano, Feltrinelli, 2003)
5 magnum poeta et historicum: grande poe ta e storico. 6 magister: maestro.
7 sic: letteralmente, “così”. 8 Privilegium lauree domini Francisci Petrarche: privilegio di laurea del signor Francesco
Petrarca, con “privilegio” da intendere come disposizione per una singola persona.
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Quali argomenti affronta Petrarca durante l’esame? 2. Perché il poeta rifiuta l’offerta di essere incoronato a Napoli? 3. I privilegi assegnati a Petrarca riguardano esclusivamente l’ambito culturale? 4. Quali intenzioni del poeta soddisfa l’incoronazione?
Interpretazione e scrittura
5. Quale valore simbolico ha l’alloro nell’incoronazione poetica? A quale mito attinge questa tradizione? Rispondi in un breve testo scegliendo un’immagine efficace a corredarlo. 6. Ritieni che oggi si possa conferire alla cerimonia di laurea un valore simile a quello che per Petrarca ha l’incoronazione poetica? Perché? Rispondi in un testo di almeno una ventina di righe.
RIEPILOGHIAMO Rispondi alle domande
1. Quali riflessioni induce in Petrarca l’ascesa al monte Ventoso? 2. Quali consuetudini rendono la vita felice secondo Petrarca? 3. Quale ritratto di Petrarca emerge dal Secretum? 4. Quali figure possono essere considerate i riferimenti principali di Petrarca? 5. Per quali vie Petrarca ritiene di poter ottenere la gloria? 6. Quale rapporto ha Petrarca con i potenti?
Preparati a esporre
7. Prepara un intervento sui momenti cruciali della vita di Petrarca da esporre in non più di cinque minuti; potrai avvalerti di una presentazione multimediale.
Scrivi un testo
8. Ricostruisci la figura di Petrarca fra dati biografici e il ritratto ideale che il poeta intende lasciare di sé. Scrivine in due pagine.
6 Francesco Petrarca
3 Il pensiero e la poetica attraverso i testi
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3 Il PENSIERO e la POETICA attraverso i TESTI Si inaugura con Petrarca un profilo di intellettuale che rivendica alla letteratura, coltivata con passione esclusiva sia in dimore appartate e solitarie (Valchiusa, Selvapiana, Arquà) sia presso i potenti della terra, il primato su ogni altra professione. Nato in esilio, vissuto molti anni all’estero e poi ospite di potenti signori in varie città d’Italia, non ha un Comune di riferimento, né si fa coinvolgere nelle vicende storico-politiche di una città particolare. Scrive solo due opere in volgare a fronte di un’estesissima produzione latina, in prosa e in versi, perché il suo pubblico non è più il ceto borghese che nell’età di Dante per mezzo del volgare si apriva alla conoscenza, ma è costituito da intellettuali e potenti, cioè dalla classe dirigente del momento storico in cui vive: papi, imperatori, cardinali, reggitori di signorie, un pubblico d’élite, non municipale, non solo italiano. Autonomo dal punto di vista economico grazie alle rendite garantite dai benefici ecclesiastici, Giusto de’ Menabuoi, I miracoli di Cristo, particolare del il poeta instaura con chi detiene il potere un ritratto di Petrarca, XIV secolo. Padova, Battistero del Duomo. rapporto di scambio: riceve protezione e sostegno, offre competenze, prestigio e lustro culturale che gli ottengono missioni diplomatiche di alto livello. Si tratta di una forma ambivalente di vicinanza al potere e insieme di ostentata indipendenza da esso attestata dalle parole della lettera ai posteri. T2 Petrarca non è tuttavia indifferente alle vicende storiche che segnano il suo tempo. In particolare, Posteritati, pag. 350 nella prima parte della sua vita, data la permanenza ad Avignone e il servizio presso la famiglia Colonna, è coinvolto sul piano personale nella controversa vicenda della presenza della Curia papale nella città francese, cioè della cosiddetta cattività avignonese. Petrarca diventa, tra i contemporanei, una delle voci più autorevoli di denuncia sia del tradimento della storica sede romana sia della corruzione che caratterizza l’ambiente curiale. Testimonianza dell’indignazione del poeta per tale situazione sono in particolare tre sonetti “avignonesi” presenti nel Canzoniere. T7 Il momento di maggiore esposizione politica di Petrarca è tuttavia il 1347, quando il poeta Fiamma dal ciel sostiene con forte convinzione l’iniziativa romana di Cola di Rienzo, appoggio esplicito che su le tue treccie piova, comporta la rottura con la famiglia Colonna. L’azione del tribuno, all’inizio così promettente, pag. 380 ristagna ben presto in derive velleitarie e megalomani, che ne causeranno il fallimento; Petrarca se ne avvede e con profonda amarezza prende atto della necessità di abbandonare Cola al proprio destino. Concepita come omaggio a un’illustre tradizione letteraria, benché innervata di motivi autenT6 tici di denuncia e soprattutto di un sincero desiderio di pace, è infine la celebre canzone politica Italia mia, ’l parlar Italia mia, benché ’l parlar sia indarno, testo tra i più emblematici del nostro canone poetico e benché sia indarno, tra i più conosciuti dell’autore. Scritta in seguito a una delle tante guerre che nei decenni centrali pag. 375
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del XIV secolo opponevano i signori delle terre italiane, essa costituisce un’accorata esortazione a riportare la pace nella penisola. Il rapporto con il latino e con i classici
Petrarca ama profondamente, per tutta la vita, i testi degli autori latini, che restituisce alla lettura scoprendone manoscritti in monasteri e biblioteche. La lingua latina è per Petrarca il mezzo linguistico di elezione, sia per le opere erudite sia per quelle di più intima confessione. Sceglie il latino per il poema epico Africa, cui affida le maggiori aspirazioni di gloria e che gli vale l’incoronazione poetica. Fino alle Prose della volgar lingua di Pietro Bembo, che nel 1525 codifica il Canzoniere come il modello per la lingua poetica italiana, Petrarca è conosciuto ed emulato per tutto il Quattrocento soprattutto come intellettuale latino: il latino dei classici per lui è anche la lingua della quotidianità, degli appunti, delle innumerevoli glosse, note e postille che corredano i suoi codici, cioè i suoi libri. L’incontro in età adulta, nel 1342 e nel 1347, ad Avignone col monaco Barlaam Calabro lo avvia alla conoscenza del greco, ma ciò non basterà a consentirgli di leggere testi in quella lingua, così che, per esempio, conosce Omero attraverso la traduzione di Leonzio Pilato pag. 514 . Già i contemporanei e, nella prima metà del XV secolo, gli umanisti riconoscono in Francesco Petrarca un maestro sia per la passione nel cercare e nello studiare i testi degli autori antichi, sia per l’eleganza dello stile, modellato sulle forme del latino classico. Così si esprime per esempio Giannozzo Manetti (1396-1459) nella sua Vita di Petrarca: «Fu lui a restituirci – frutto della sua singolare diligenza – i tanti libri di Cicerone che per molti secoli erano rimasti sconosciuti agli Italiani, praticamente perduti, e a riordinarne, nei suoi codici, le lettere – fino ad allora sparse per ogni dove così come le vediamo oggi. Inoltre, in virtù del suo eccellente stile, si propose ai posteri quale modello da imitare sia in prosa sia in poesia, mentre prima di lui non sappiamo di nessuno che fosse riuscito a primeggiare in entrambi i generi». Lo stesso Petrarca, sul declinare della vita scrive all’amico Boccaccio: «C’è una lode che non respingo, quella di avere suscitato in Italia, e forse anche fuori d’Italia, questi nostri studi trascurati da molti secoli. Io infatti sono forse il più vecchio di chi, tra di noi, si affatica intorno ad essi» (Seniles, XVII, 2).
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Il Petrarca volgare
A fronte della varietà stilistica e di uso della lingua latina si pone invece il sostanziale unilinguismo, secondo la fortunata formula coniata da Gianfranco Contini, della scrittura in volgare, utilizzata solo per la lirica. Nel Canzoniere in particolare Petrarca sceglie tono e lessico selezionati, lontani dalla lingua parlata e da ogni estremo, nella ricerca di una forma “sospesa”, limpida ed elegantissima ottenuta grazie a un costante lavoro di lima, fino a quell’hoc placet (sostanzialmente, il nostro “va bene”) dei suoi appunti, che attesta la raggiunta soddisfazione. Il controllo sulle forme è espressione, soprattutto nella lirica del Canzoniere, di un’incessante ricerca di dominio razionale della passione: il poeta prende coscienza dei propri sentimenti, delle contraddizioni, dell’intimo conflitto dell’anima, ma non si abbandona mai allo sfogo. L’interiorità è scandagliata, con una sensibilità per altro molto vicina a quella di noi moderni, per necessità di chiarezza e di verità con se stesso. Del vibrare della passione arriva al lettore quanto la razionalità ha elaborato, ricorrendo talvolta a raffinati giochi retorici, di cui è esempio il sonetto Quando io movo i sospiri a chiamar voi.
La vanità delle cose umane
Tutta l’opera di Petrarca è attraversata dalla considerazione della vanità di ogni passione e della sterilità dell’azione umana al cospetto della morte, che tutto ridimensiona: il sentimento dolente del tempo che trasforma implacabile uomini e cose, la consapevolezza dell’illusorietà delle speranze e dell’incertezza della vita dell’uomo si leggono nel passo tratto dall’Africa, in cui è un giovane Cartaginese morente a riflettere sulla caducità della vita, e nei versi tratti dai Trionfi, monito per i giovani a prender atto della fuga del tempo.
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Quando io movo i sospiri a chiamar voi, pag. 385
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Lamento di Magone morente, pag. 387
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Il trionfo del Tempo, pag. 389
6 Francesco Petrarca ■ 3 Il pensiero e la poetica attraverso i testi
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Il pensiero politico
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Italia mia, benché ’l parlar sia indarno Canzoniere, CXXVIII
La canzone è stata composta con ogni probabilità a seguito della guerra che fra il 1344 e il 1345 oppone i Gonzaga di Mantova e gli Este di Ferrara per il controllo di Parma, città in cui Petrarca in quegli anni risiedeva, e si configura come un invito alla pace affidato a pochi uomini di grande animo. Dopo l’iniziale apostrofe all’Italia paragonata a una bella donna ferita da piaghe mortali, Petrarca si rivolge a Dio affinché la aiuti a risollevarsi. Quindi rampogna i signori italici che, per avidità, hanno richiamato sul suolo patrio truppe mercenarie di cui finiranno per perdere il controllo, e trasformato la barriera naturale delle Alpi in una gabbia in cui convivono fiere selvagge di origine straniera e mansüete greggi, le popolazioni del tutto indifese. Eppure un tempo quei barbari germanici furono sconfitti da Mario ad Aquae Sextiae in Provenza nel 102 a.C. e poi da Cesare. Ma ora i signori contano su mercenari pronti solo a garantirsi la paga: dovrebbero invece unirsi al popolo e risollevare le sorti dell’Italia, riflettendo sulla fugacità della vita. La meditazione di Petrarca passa così dal piano politico a quello esistenziale e religioso. Con i toni solenni tipici della canzone, Petrarca si riallaccia in questo componimento a una pluralità di modelli. Viene innanzitutto qui ripreso il poeta latino Orazio, che negli Epodi (7) prorompe in un canto d’angoscia di fronte alla Il nome Ytalia compare per la prima volta rovina della patria, dilaniata da guerre interne. Ma altret- nel particolare di un affresco di Cimabue tanto evidente è la suggestione del VI canto del Purgatorio del 1280. Assisi, Basilica di San Francesco. dantesco, in cui un’aspra invettiva all’Italia T35, pag. 296 è rivolta ai suoi abitanti, accusati di farsi la guerra perfino entro le mura di una stessa città. Tuttavia, se il biasimo di Dante colpisce le lotte intestine, quello di Petrarca condanna l’avidità dei principi, che ha di fatto consegnato l’Italia alle dominazioni straniere. Ritagliando per sé non un ruolo attivo in politica, ma quello di consigliere, Petrarca inaugura un nuovo rapporto tra intellettuali e potere, che l’esperienza dantesca dell’esilio aveva anticipato: tramonta definitivamente l’intellettuale cittadino e nasce quello che diverrà l’intellettuale delle corti europee del Quattro-Cinquecento. Non meno presenti sono le reminiscenze della scuola poetica toscana, in particolare della canzone Ahi lasso, or è stagion de doler tanto di Guittone d’Arezzo, e dello Stilnovo, con cui Petrarca era entrato in contatto durante il periodo bolognese. Nel congedo, il poeta ricorre a un topos della canzone rivolgendosi al proprio componimento e invitandolo ad andare fra la gente, come fa Guido Cavalcanti in Perch’i’ no spero di tornar giammai T5, pag. 109 : ma anche in questo caso la sensibilità è tutta petrarchesca e si traduce in un’accorata richiesta di pace.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU La poetica di Petrarca La canzone testimonia la tensione civile di Petrarca e la sua deprecazione sui destini di un’Italia divisa fra le mire di signori che hanno fatto del suolo patrio un sanguinoso campo di battaglia: egli immagina invece un’Italia finalmente unita, libera dalle lotte intestine che la travagliano. L’ispirazione petrarchesca poggia su modelli antichi e della tradizione italiana: il tema politico è condotto con diversi riferimenti alla storia e agli autori classici con cui Petrarca conduce un ininterrotto dialogo intimo e culmina in un anelito di pace, nel verso finale, che sgorga dall’animo tormentato del poeta e sembra alludere anche a un bisogno interiore, oltre che a una necessità politica.
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Il Trecento METRICA Canzone di sette stanze e un congedo. Ciascuna stanza è costituita da 16 versi (endecasillabi e settenari) con schema AbC, BaC (fronte), cDE, eDdf, GfG (sirma). Il congedo riprende lo schema della sirma.
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Italia mia, benché ’l parlar sia indarno1 a le piaghe mortali che nel bel corpo2 tuo sí spesse3 veggio4, piacemi5 almen che’ miei sospir’ sian quali 6 5 spera ’l Tevero et l’Arno, e ’l Po, dove doglioso et grave or seggio. Rettor del cielo7, io cheggio che la pietà che Ti condusse in terra Ti volga al Tuo dilecto almo8 paese. 10 Vedi, Segnor cortese, di che lievi cagion’ che crudel guerra; e i cor’, che ’ndura et serra Marte9 superbo et fero, apri Tu, Padre, e ’ntenerisci et snoda; 15 ivi fa’ che ’l Tuo vero, qual io mi sia, per la mia lingua s’oda.
20 25
Voi cui Fortuna10 à posto in mano il freno de le belle contrade, di che nulla pietà par che vi stringa, che fan qui tante pellegrine11 spade? Perché ’l verde terreno del barbarico sangue si depinga? Vano error vi lusinga: poco vedete, et parvi veder molto, ché ’n cor venale12 amor cercate o fede. Qual piú gente possede, colui è piú da’ suoi nemici avolto. O diluvio raccolto di che deserti strani
1 indarno: vano, inutile. 2 corpo: suolo, in senso metaforico. La metafora si allaccia a quella della personificazione dell’Italia. 3 spesse: fitte, numerose. 4 veggio: vedo. 5 piacemi: con il pronome personale in posizione atona.
6 spera: il verbo al singolare si riferisce ai tre fiumi che ne costituiscono il soggetto. 7 Rettor del cielo: colui che governa il cielo, cioè Dio. 8 almo: nobile. 9 Marte: dio della guerra e quindi, per metafora, la guerra stessa. 10 Fortuna: la sorte, vox media nell’acce-
zione latina; può avere significato positivo o negativo (buona o cattiva sorte). 11 pellegrine: perché impugnate da mercenari che si spostano a seconda dell’ingaggio. 12 venale: perché i mercenari combattono esclusivamente per la paga.
parafrasi
vv. 1-16 O mia Italia, benché sia inutile parlarne / di fronte alle ferite mortali / che vedo inflitte così numerose nel tuo bel corpo, / desidero almeno che i miei sospiri siano quali / li desiderano il Tevere e l’Arno / e il Po, dove ora mi trovo afflitto da dolore e preoccupato. / Signore, io chiedo / che la pietà che Ti ha condotto sulla terra / Ti rivolga al Tuo nobile amato paese. / Vedi, o Signore, / quale crudele guerra sia nata da ragioni di poco conto; / apri tu, o Padre, e intenerisci e sciogli / i cuori che indurisce e tiene chiusi / Marte superbo e crudele; / lì fa’ in modo che la Tua verità, / qualunque sia il mio valore, si oda attraverso la mia lingua. vv. 17-32 Voi, cui la sorte ha assegnato la guida / di questo bel paese, / per il quale sembrate non provare alcuna pietà, / cosa ci fanno qui così tante spade straniere? / Perché il terreno verde / si colora di rosso del sangue straniero? / Vi illudete di un errore vano: / vedete poco, e vi pare di veder molto, / voi che cercate amore o lealtà in cuore venale. / Chi fra voi ha truppe più numerose, / è circondato da più nemici. / O diluvio (di genti straniere) raccolto / da quali strane terre desolate, /
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per inondar i nostri dolci campi! Se da le proprie mani questo n’avene, or chi fia che ne scampi?
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Ben provide Natura al nostro stato, quando de l’Alpi schermo pose fra noi et la tedesca rabbia13; ma ’l desir cieco, e ’ncontra ’l suo ben fermo, s’è poi tanto ingegnato, ch’al corpo sano à procurato scabbia14. Or dentro ad una gabbia15 fiere selvagge et mansüete gregge s’annidan sí che sempre il miglior geme: et è questo del seme, per piú dolor, del popol senza legge, al qual, come si legge, Mario aperse sí ’l fianco, che memoria de l’opra ancho non langue, quando assetato et stanco non piú bevve del fiume acqua che sangue.
50 55 60
Cesare taccio16 che per ogni piaggia fece l’erbe sanguigne di lor vene, ove ’l nostro ferro17 mise. Or par, non so per che stelle maligne, che ’l cielo in odio n’aggia: vostra mercé18, cui tanto si commise. Vostre voglie divise guastan del mondo la piú bella parte. Qual colpa, qual giudicio o qual destino fastidire il vicino povero, et le fortune afflicte et sparte perseguire, e ’n disparte
13 la tedesca rabbia: la violenza devastatrice delle popolazioni germaniche. 14 scabbia: malattia della pelle. Per metafora, la devastazione prodotta dalla guerra. Anche questa metafora è costruita sullo stesso assunto retorico che vede l’Italia come una persona.
15 gabbia: metafora che indica il suolo italiano. 16 taccio: è la figura retorica della preterizione, con cui si finge di voler omettere un concetto che invece viene così sottolineato. 17 ferro: per metonimia, le armi. 18 mercé: grazia, in senso ironico.
Un cavaliere nel particolare di un affresco di Ambrogio Lorenzetti del 1340. Siena, Palazzo Pubblico.
parafrasi
per inondare i nostri dolci campi! / Se ciò accade per nostra stessa iniziativa, / ora chi ci sarà a poterci salvare? vv. 33-48 La natura ha ben provvisto al nostro stato, / quando le Alpi come schermo / ha posto fra noi e il furore germanico; / ma il desiderio cieco e saldo contro il proprio interesse / si è poi tanto ingegnato / che ha procurato la scabbia a un corpo sano. / Ora dentro a un’unica gabbia si annidano / bestie selvagge e animali domestici, / così che è sempre l’animale più tranquillo a gemere: / e ciò, procurandoci ancora maggior dolore, accade / a causa di un popolo incivile, / al quale, come si legge, / Mario ha procurato ferite tali, / che non è ancora svanito il ricordo dell’impresa, / quando, assetato e stanco, / bevve più sangue che acqua del fiume. vv. 49-64 Non dico di Cesare, che ovunque / rese il terreno rosso di sangue / portò le nostre armi. / Ora sembra, non so per quale influsso negativo di stelle, / che il cielo ci abbia in odio: / grazie a voi, cui affidò una responsabilità tanto grande. / I vostri desideri opposti / rovinano la parte più bella del mondo. / Quale colpa, quale giudizio o quale destino / (è quello di) infastidire il vicino / debole, e nella sorte afflitta e rovinosa / perseguitarlo, e da altre parti /
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Il Trecento
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cercar gente et gradire, che sparga ’l sangue et venda l’alma19 a prezzo? Io parlo per ver dire, non per odio d’altrui, né per disprezzo.
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Né v’accorgete anchor per tante prove del bavarico20 inganno ch’alzando il dito21 colla morte scherza? Peggio è lo strazio, al mio parer, che ’l danno; ma ’l vostro sangue piove22 piú largamente, ch’altr’ira vi sferza. Da la matina a terza23 di voi pensate, et vederete come tien caro altrui che tien sé cosí vile. Latin sangue gentile24, sgombra da te queste dannose some; non far idolo un nome vano senza soggetto: ché ’l furor de lassú, gente ritrosa, vincerne d’intellecto, peccato è nostro, et non natural cosa.
85 90
Non è questo ’l terren ch’i’ toccai pria? Non è questo il mio nido ove nudrito fui sí dolcemente? Non è questa la patria in ch’io mi fido25, madre benigna et pia, che copre l’un et l’altro mio parente26? Perdio, questo la mente talor vi mova, et con pietà guardate le lagrime del popol doloroso, che sol da voi riposo dopo Dio spera; et pur che voi mostriate segno alcun di pietate,
19 alma: anima. 20 bavarico: della Baviera e, per estensione, germanico. 21 alzando il dito: l’antico segno di resa.
22 piove: iperbole. 23 Da la matina a terza: le tre ore fra le 6 e le 9 circa. 24 Latin sangue gentile: nobile sangue di-
scendente dai Latini. 25 mi fido: confido. 26 parente: genitore, alla latina.
parafrasi
cercare gente / e provare soddisfazione / che sparga il sangue e venda l’anima per denaro? / Io parlo per affermare la verità, / non per odio né per disprezzo altrui. vv. 65-80 E non vi accorgete, dopo tante dimostrazioni / della perfidia dei Bavari, / che alzando il dito scherza con la morte? / A mio parere lo strazio è peggiore del danno; / ma il vostro sangue sgorga / più in abbondanza, dal momento che vi sferza ben altra ira. / Pensate a voi dall’alba all’ora terza / e vedrete come / possa avere caro qualcuno chi ha scarsa stima di sé. / O nobile sangue latino, / liberati da questo peso dannoso; / non adorare un nuovo vuoto, / privo di contenuto: / ché se la barbarie della gente incolta di lassù / ci vince in intelligenza / è colpa nostra, non un fattore naturale. vv. 81-96 Non è questo il suolo che io ho toccato prima? / Non è questo il mio nido, / in cui fui nutrito così dolcemente? / Non è questa la patria di cui io mi fido, / madre benevola e devota, / che accoglie le spoglie di entrambi i miei genitori? / Perdio, ciò vi colpisca la mente / una buona volta, e guardate con pietà / le lacrime del popolo afflitto, / che si aspetta sollievo da voi / dopo che da Dio; e, purché voi mostriate / un cenno di pietà, /
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vertú contra furore prenderà l’arme, et fia ’l combatter corto: ché l’antiquo valore ne gli italici cor’ non è anchor morto.
100 105 110
Signor’, mirate come ’l tempo vola, et sí come la vita fugge, et la morte n’è sovra le spalle. Voi siete or qui; pensate a la partita27: ché l’alma ignuda et sola conven ch’arrive a quel dubbioso calle28. Al passar questa valle piacciavi porre giú l’odio et lo sdegno, vènti contrari a la vita serena; et quel che ’n altrui pena tempo si spende, in qualche acto piú degno o di mano o d’ingegno, in qualche bella lode, in qualche honesto studio si converta: cosí qua giú si gode, et la strada del ciel si trova aperta.
115 120
Canzone, io t’ammonisco che tua ragion cortesemente dica, perché fra gente altera ir29 ti convene, et le voglie son piene già de l’usanza pessima et antica, del ver sempre nemica. Proverai tua ventura fra’ magnanimi pochi a chi ’l ben piace. Di’ lor: – Chi m’assicura? I’ vo gridando: Pace, pace, pace –.
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Il Trionfo del tempo in una miniatura del XVI secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale.
(F. Petrarca, Canzoniere, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1964)
27 partita: dipartita, morte. 28 dubbioso calle: passaggio che suscita paura perché non se ne conosce l’esito. 29 ir: ire, cioè andare; latinismo.
parafrasi
la virtù contro il furore, / prenderà le armi e la lotta sarà breve: / dal momento che l’antico valore / nei cuori italici non è ancora morto. vv. 97-112 Signori, guardate come vola il tempo / e come la vita / fugge e la morte ci incalza. / Voi ora siete qui; pensate al momento della dipartita: / dal momento che a quel passaggio l’anima / deve arrivare nuda e sola. / Al congedo dalla vita / vi piaccia abbandonare l’odio e lo sdegno, / venti contrari a una vita serena; / e il tempo che si spende / per far soffrire gli altri, in qualche azione più degna, / o di mano o di intelletto, / o in qualche impresa degna di lode, / o in qualche passione onesta si converta: / così quaggiù si è felici / e la strada verso il cielo si trova aperta. vv. 113-122 Canzone, io ti esorto / a esprimere le tue ragioni cortesemente, / poiché devi andare fra gente superba, / e i desideri sono pieni / dell’uso pessimo e antico, / sempre nemico del vero. / Metterai alla prova la tua sorte / fra i pochi magnanimi che amano il vero bene. / Di’ loro: – Chi mi protegge? / Io vado gridando: Pace, pace, pace –.
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Il Trecento
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Sintetizza il contenuto di ciascuna strofa e assegna loro un titolo. 2. Quale giudizio esprime il poeta sulla situazione dell’Italia a lui contemporanea? 3. Quale invito rivolge Petrarca agli Italiani nel finale della canzone? 4. A quale figura retorica ricorre più volte Petrarca per sottolineare l’opposizione fra Italiani e stranieri? Individuane esempi nel testo e spiegali. 5. Quale figura retorica nel finale del componimento sottolinea la richiesta di pace che il poeta affida alla sua canzone? 6. La canzone per sua natura poggia su uno stile elevato e Petrarca, che predilige solitamente un linguaggio medio, non si sottrae a tale registro. Dimostralo con opportuni riferimenti alla sintassi, al lessico e alle figure retoriche utilizzati dal poeta.
Interpretazione e scrittura
7. Anche in alcuni classici della canzone italiana compaiono apostrofi all’Italia. Ricerca in rete il testo della canzone Viva l’Italia di Francesco De Gregori e analizzane il contenuto, ricavando l’immagine della condizione del Paese e il messaggio che ti sembra voglia comunicare. Scrivi un testo di almeno due colonne di foglio protocollo.
T
7
Fiamma dal ciel su le tue treccie piova Canzoniere, CXXXVI
I sonetti CXXXVI, CXXXVII e CXXXVIII del Canzoniere sono detti “avignonesi” perché trattano il tema della corruzione della curia papale, che aveva allora sede ad Avignone. Presente fin dalla giovinezza nella città francese al seguito del padre, Petrarca frequenta l’ambiente curiale in qualità di ecclesiastico e di segretario del cardinale Giovanni Colonna: per parecchi anni è dunque testimone diretto di quanto avviene in quella corte. Col tempo il poeta dirada la sua presenza sia in curia sia in città e trascorre periodi sempre più lunghi nel luogo di elezione, appartato, in Valchiusa: nei confronti della corte pontificia crescono sentimenti di amarezza, di indignazione e di condanna, gli stessi che animano molti altri contemporanei, come Caterina da Siena, e che già avevano animato Dante. La Chiesa di Avignone è qui metaforicamente rappresentata come una donna lasciva, ricca e potente sulla quale il poeta si augura si riversi una pioggia di fuoco, segno della punizione divina. Il sonetto ha immagini molto forti, plastiche e vivide, sostenute da scelte lessicali particolarmente corpose e crude, proprie del registro comico della lingua, in cui risuona sia la recente tradizione comico-realistica pag. 121 , sia il “parlar aspro” delle dantesche rime petrose pag. 163 . La condanna della Chiesa si fa ancor più severa nel momento in cui si rievocano gli antichi costumi delle origini, informati a povertà e sobrietà, vergognosamente sconfessati dalla condotta, dai costumi e dal tenore di vita del presente: al posto di un cibo frugale, ci sono vini e ricche vivande, e lungi dall’essere nuda al vento e scalza tra i rovi, la Chiesa riesce solo a esalare il puzzo dei propri vizi.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU La poetica di Petrarca Il testo rivela una violenta indignazione per la corruzione dilagante nell’ambiente della curia avignonese. L’intellettuale esprime in questo e negli altri due sonetti dedicati allo stesso tema la condanna nei confronti della Chiesa che, oltre a essersi allontanata dalla sua sede storica per diventare ancella del sovrano francese, ha tradito la missione affidatale da Cristo: i suoi rappresentanti ignorano del tutto l’antica sobrietà dei loro predecessori e si abbandonano ai piaceri della carne. Petrarca, benché alcune sue scelte non risultino del tutto coerenti con il modello di vita da lui celebrato, assume in questo caso le vesti del lucido e severo censore di uno degli scandali più gravi del suo tempo.
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METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDC, DCD.
F
4
Fiamma dal ciel su le tue treccie piova, malvagia, che dal fiume et da le ghiande1 per l’altrui impoverir2 se’ ricca et grande, poi che di mal oprar tanto ti giova3;
8
nido di tradimenti, in cui si cova quanto mal per lo mondo oggi si spande4, de vin serva, di lecti et di vivande, in cui Luxuria5 fa l’ultima prova.
Per le camere tue fanciulle et vecchi vanno trescando6, et Belzebub7 in mezzo 8 11 co’ mantici et col foco et co li specchi.
Già non fustú9 nudrita in piume al rezzo10, ma nuda al vento, et scalza fra gli stecchi: 11 14 or vivi sí ch’a Dio ne venga il lezzo .
(F. Petrarca, Canzoniere, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1964) 1 dal fiume et da le ghiande: da povera che eri, da quando cioè bevevi acqua di fiume e mangiavi ghiande. 2 per… impoverir: rendendo poveri gli altri. 3 poi… ti giova: poiché ti fa così piacere commettere il male. 4 quanto... spande: cfr. il dantesco «Godi, Fiorenza, poi che se’ sì grande / che per
mare e per terra batti l’ali, / e per lo ‘nferno tuo nome si spande!» (Inferno, XXVI, 1-3). 5 Luxuria: il vizio della lussuria; latinismo. 6 vanno trescando: si abbandonano al piacere dei sensi. 7 Belzebub: il diavolo. 8 mantici: strumenti per attizzare il fuoco, evocati come propri del demonio che se ne
Monaci al bagno in una miniatura boema del XVI secolo. Praga, Biblioteca Nazionale. serve per provocare la passione dei sensi, così come gli specchi amplificano gli effetti della lussuria nel momento in cui gli amanti li usano per specchiarvisi. 9 fustú: fosti tu. Forma sincopata abbastanza frequente nel volgare delle origini. 10 al rezzo: al fresco. 11 il lezzo: la puzza dei vizi.
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Che cosa augura che avvenga alla Chiesa avignonese il poeta? 2. A che cosa sono dovute la grandezza e la ricchezza della curia papale? 3. Spiega le metafore presenti nelle due quartine. 4. Petrarca rievoca i costumi della Chiesa del passato facendo ricorso ad alcune immagini molto concrete: quali? In quali parti del testo compaiono? 5. Come vengono descritti i comportamenti degli ecclesiastici di Avignone? 6. Qual è il ruolo del diavolo nell’ambiente della curia avignonese? Distingui tra le azioni reali che il poeta immagina essere compiute dal diavolo e il significato metaforico cui tali azioni alludono. 7. Sottolinea i termini che afferiscono al registro basso della lingua.
parafrasi
vv. 1-8 Una fiamma del cielo possa cadere sul tuo capo, / o malvagia donna (Avignone), che (ora) sei ricca e potente per l’impoverimento degli altri, / dopo aver bevuto l’acqua del fiume e aver mangiato nel passato le ghiande, / dato che trai vantaggio dalle tue corrotte attività; / (tu sei) un nido di tradimenti, in cui trova dimora / tutto il male che oggi si diffonde nel mondo, / (sei) serva del vino, dei letti e del cibo, / quella in cui la lussuria tocca il fondo della corruzione. vv. 9-14 Nelle tue stanze si uniscono fanciulle e vecchi, / e al centro sta il diavolo / con i mantici, il fuoco e gli specchi. / Tu non fosti allevata tra le piume e al fresco, / ma nuda, esposta al vento e scalza tra i rovi: / ora vivi in modo tale che arrivi a Dio la tua puzza.
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Il Trecento
EDUCAZIONE CIVICA 8. Quali aspetti del nostro tempo a tuo giudizio potrebbero essere oggetto di un’invettiva? Scrivi due quartine in cui esprimi al riguardo la tua indignazione facendo ricorso AGENDA a qualche immagine di particolare forza evocativa. 2030
CONFRONTIAMO I TESTI 9. Nel XXVII canto del Paradiso (vv. 22-27) Dante affida alla voce di san Pietro, primo papa e fondatore della Chiesa di Roma, una violenta invettiva contro Bonifacio VIII, responsabile della corruzione in cui versa la Chiesa. Confronta i versi dell’ultima terzina del sonetto di Petrarca con il passo dantesco in un testo di almeno dieci righe.
Dante Alighieri, Paradiso XXVII, 22-27 24
Quelli ch’usurpa in terra il luogo mio, il luogo mio, il luogo mio che vaca ne la presenza del Figliuol di Dio,
Colui che usurpa in terra il mio posto, il mio posto, il mio posto che è vacante al cospetto del figlio di Dio,
27
fatt’ ha del cimitero mio cloaca del sangue e de la puzza; onde ’l perverso che cadde di qua sù, là giù si placa».
ha trasformato il luogo dove sono sepolto in una fogna piena di sangue e di puzza; per cui il malvagio (Lucifero) che cadde da quassù, laggiù si placa».
Il colloquio con i classici
T
8
Il modello degli antichi Familiares, XXII, 2
Durante una visita ricevuta da Boccaccio a Milano fra il marzo e l’aprile del 1359, Petrarca rilegge con lui il Bucolicum carmen cui sta lavorando e gliene consegna una copia. Continuando a rivederne il testo, Petrarca si rende tuttavia conto di voler apportare nuove correzioni, in particolare a un verso che gli sembra ricalcare una reminiscenza classica, per cui attraverso la lettera qui presentata prega Boccaccio di emendare il testo prima di diffonderlo. L’epistola, composta a Pagazzano d’Adda intorno all’8 ottobre 1359, offre a Petrarca anche l’occasione per fare il punto sul rapporto con i testi degli antichi e sulla loro imitazione. Spiriti affini e familiari prima ancora che auctores, i classici non si fissano soltanto nella memoria ma, dice Petrarca, in tutto me stesso. Al punto che, sottolinea il poeta con grande finezza psicologica, gli autori che ricorda con più precisione sono quelli che meno gli somigliano: li distingue meglio perché sono altro da lui; diversamente da quanto vale per i più frequentati, Virgilio, Orazio, Boezio e Cicerone, che si fondono e confondono nel suo animo, diventando un tutt’uno con il suo sentire. È la sorte che tocca in questa lettera a Seneca, da cui viene ripresa, senza citarla qui esplicitamente, la celebre metafora della mellificatio (mellificazione) per descrivere il giusto approccio che si deve tenere con l’imitazione dei modelli: «Dobbiamo, si dice, imitare le api che svolazzano qua e là e suggono i fiori adatti a fare il miele, poi dispongono e distribuiscono nei favi quello che hanno portato e, come scrive il nostro Virgilio, “Accumulano il limpido miele e colmano le celle di dolce nettare”» (Seneca, Lettere a Lucilio, XI, 84). Ancora, dalla stessa lettera di Seneca è ripresa l’idea di un’imitazione non pedissequa, ma personale e originale: «Anche se in te si scorgerà una somiglianza con qualcuno che hai ammirato e che ti è rimasto impresso in maniera piuttosto profonda, vorrei che gli assomigliassi come un figlio, non come un ritratto: il ritratto non ha vita». Questi concetti ritornano in altre lettere sullo stesso tema, nelle quali Petrarca si rifà in modo esplicito ai suoi diretti referenti: «Bisogna, in conclusione, seguire il consiglio di Seneca, già prima dato da Orazio, e cioè scrivere
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come le api fanno il miele, non conservando intatti i fiori ma convertendoli in favi, in modo che da molti e diversi elementi nasca una cosa nuova, diversa e migliore» (Lettera a Giovanni Boccaccio, Familiares, XXIII, 19). Nel concetto di imitazione come ripresa dello “spirito” e non della “lettera” dei modelli risuona l’eco di san Paolo, che sviluppa nella sua teologia l’opposizione tra legge scritta sulla pietra e legge scritta nel cuore dell’uomo (Lettera ai Romani, 2, 29; 2 Corinzi, 3, 2-6). A questa opposizione Agostino, altro imprescindibile riferimento di Petrarca, aveva dedicato lo scritto De spiritu et littera.
CHE COSA CI DICE QUESTO TESTO SU La poetica di Petrarca L’amore di Petrarca per lo studio degli autori antichi, testimoniato in molti passi della sua opera, in questa celebre lettera viene declinato come abitudine a una lettura appassionata e continua. Il poeta pone tuttavia un distinguo tra autori letti velocemente, dei cui testi afferma di aver trattenuto solo pochissimi contenuti, e autori invece amatissimi, assaporati senza sosta e oggetto di lunghe e profonde riflessioni: la confidenza con le opere di questi ultimi è tale che Petrarca confessa di non ricordare talvolta se ciò che ha in mente è davvero suo o piuttosto loro. Quindi esplicita il suo rapporto con l’imitazione: egli intende servirsi dei classici senza rinunciare alla propria originalità, assomigliare a loro e non esserne la copia.
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Ebbi a leggere una volta sola pagine di Ennio1, di Plauto, di Felice Capella, d’Apuleio2, e sempre di fretta e senza indugiarvi mai, quasi mi muovessi su un terreno altrui. Sicché, in questa corsa, m’accadde di vedere molte cose, di fissarne poche e di ritenerne ancor meno, tutte riponendole, come cose ordinarie in luogo aperto e per così dire nel vestibolo della memoria. Ogni qual volta pertanto mi capita di udirle o riferirle, so immediatamente che non sono cosa mia e so perfettamente di chi sono, sicché posso ben dire di possederle come cosa altrui. Ho letto anche quanto si dice in Virgilio, in Orazio, in Boezio e in Cicerone3, e non una volta sola ma mille, e non di passata4 ma riflettendovi e indugiandovi con tutta la tensione possibile della mia mente; mi sono insomma nutrito la mattina di ciò che dovevo digerire la sera e ho consumato da giovane quanto dovevo assorbire in età più avanzata. E tutte quelle loro riflessioni mi sono divenute così familiari, si sono tanto compenetrate non dico nella mia memoria ma in tutto me stesso, si sono fatte a tal punto cosa mia che, se pure non dovessi più rileggerle per tutto il corso della mia vita, resterebbero comunque in me con tutte le loro radici innestate nella parte più intima del mio animo, anche se poi, talora, mi dimentico chi sia il loro autore, e questo appunto perché, dato il lungo uso e il loro continuo possesso, è come se per prescrizione fossero divenute mia proprietà; e d’altra parte esse sono così tante che non mi riesce di ricordare di chi siano o se siano d’altri. Questo dunque intendevo quando ti dicevo che ciò che ci è più familiare più c’inganna. Quelle riflessioni infatti, sempre presenti al pensiero, possono ben tornare alla memoria e avviene allora che l’animo nostro, tutto ardentemente occupato e inteso5 in una sua particolare meditazione, le veda come cose affatto proprie e – cosa questa da destare la meraviglia – come del tutto nuove. Ma perché ho detto che dovresti meravigliartene? Sono infatti certo (e lo spero davvero) che anche tu avrai fatto questa inevitabile esperienza. Nel discernere comunque l’altrui dal mio ti assicuro che faccio molta fatica e in proposito – testimone Apollo6 figlio unico del sommo Giove e testimone Cristo vero Dio della sapienza – ti accerto che io non vado affatto in caccia della preda di chicchessia, esattamente come mi astengo dal depredare le spoglie degli altri, patrimoniali o intellettuali. Se quindi nei miei scritti si trovasse qualcosa di difforme da quanto ora vengo dicendo, per gli autori che non ho letto, ciò dipenderà dalla somiglianza dell’indole spirituale (cosa di cui ti ho parlato nella mia lettera precedente), per gli altri da un infortunio o da dimenticanza, questione di cui ora qui si discute.
1 Ennio: poeta e drammaturgo latino (239169 a.C.) giunto a noi attraverso frammenti. 2 Plauto… Felice Capella… Apuleio: rispettivamente commediografo a cavallo tra III e II secolo a.C., scrittore a cavallo tra IV e V
secolo e romanziere del II secolo d.C. 3 Virgilio… Orazio… Boezio… Cicerone: Virgilio e Orazio sono due poeti latini della seconda metà del I secolo a.C., Boezio filosofo a cavallo fra V e VI secolo, Cicerone un ora-
tore e retore del I secolo a.C. 4 di passata: velocemente. 5 inteso: concentrato. 6 Apollo: divinità del sole, figlio di Zeus.
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Il Trecento
4 Il CANZONIERE Titolo e struttura Il titolo originale del Canzoniere è Francisci Petrarche laureati poete Rerum vulgarium fragmenta, letteralmente Frammenti di cose in volgare di Francesco Petrarca, poeta laureato, che offre, rispetto alla formula sintetica in italiano, diverse suggestioni. Esso esplicita la lingua di composi Petrarca conversa zione: Petrarca abbandona qui il latino per una poesia nel “volgare del sì”, se- con Laura in una miniatura condo la dicitura dantesca. Ma l’aggettivo vulgarium sembra alludere anche del XV secolo. AKG. alla considerazione che l’autore attribuiva ai suoi scritti in volgare, ritenuti inferiori a quelli in latino, tanto che alle sue rime Petrarca si riferisce con il termine catulliano di nugae, “sciocchezze, bazzecole di poco conto”. Il sostantivo fragmenta rimanda invece alla loro iniziale natura di liriche sparse, cioè nate senza un progetto compositivo a priori, accolte solo successivamente nell’assetto unitario del Canzoniere, e riprende l’annuncio dato nella conclusione del Secretum, sparsa anime fragmenta recolligam (raccoglierò i frammenti sparsi della mia anima). Il progetto del Canzoniere si configura quindi come il tentativo di ricomporre in una narrazione organica componimenti scritti in un ampio arco di tempo, che nel loro insieme ripercorrono l’esperienza amorosa e biografica del poeta: si tratta, in questo senso, della prima raccolta di versi a carattere unitario della nostra letteratura. Ciò costituisce un importante elemento di novità: «Il Canzoniere segnala, con la sua fisicità, la fine di un vecchio assetto della poesia lirica», come afferma il critico Marco Santagata, uno dei maggiori studiosi contemporanei di Petrarca. La disposizione Il Canzoniere raccoglie 366 componimenti, disposti in modo da restituire il racconto e il numero che il poeta vuole lasciare della propria esperienza dell’amore per Laura: in esso, il podelle liriche
eta procede a una minuziosa analisi interiore della propria condizione di innamorato non corrisposto, e si sforza di ricostruire una vicenda esemplare di ravvedimento e redenzione, dall’amore terreno all’amore celeste. Petrarca struttura infatti la silloge in nome di una finzione letteraria che intende testimoniare al pubblico un percorso di ravvedimento morale: nella prima parte il poeta ricostruisce la “vicenda” dell’amore infelice per Laura e nei tre testi che la concludono, a partire dalla canzone I’ vo pensando, et nel penser m’assale, annuncia l’inizio della redenzione, affidata alla seconda parte e chiusa dalla canzone alla Vergine, un’accorata richiesta di misericordia e salvezza che testimonia come il sentimento religioso, lungi dall’essere approdo definitivo, sia piuttosto una calda speranza. Alla luce di questo impianto concettuale, l’opera è stata divisa da Petrarca in due parti, che raggrupperebbero, sul modello della Vita nova dantesca pag. 183 , rispettivamente i 263 componimenti scritti “in vita” di Laura, amata dal poeta, a partire dal primo incontro avvenuto il 6 aprile 1327, e i 103 “in morte” della donna, scomparsa il 6 aprile 1348, secondo una nota a margine del codice Virgilio ambrosiano Connessioni, pag. 399 . Tuttavia la suddivisione non appare rigorosa: il primo vero componimento sulla morte dell’amata è il sonetto 267, Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, mentre i tre precedenti annunciano la redenzione ma non fanno cenno alla scomparsa di Laura, e nella prima sezione compaiono testi composti dopo il 1348 e viceversa. A svolgere un ruolo determinante nella sistemazione interna alla silloge giocherebbe anche il valore simbolico dei numeri, in particolare l’insistente occorrenza del 6. Marco Santagata, nel
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Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, pag. 437
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suo saggio I frammenti dell’anima. Storia e racconto nel Canzoniere di Petrarca (Bologna, Il Mulino, 2004), ponendo in relazione il numero complessivo delle liriche del Canzoniere (366) e le date fondamentali del 6 aprile 1327, giorno in cui il poeta colloca il primo incontro con Laura, e del 6 aprile 1348, giorno della morte di Laura, sottolinea la peculiarità nel numero 366, che contiene il 6 due volte, insieme al 3, numero perfetto; la somma delle cifre che compongono il numero 366 è 15, e 1+5 dà nuovamente 6. Il numero 6, oltre a corrispondere alla data dell’innamoramento e a quella della morte della donna amata, corrisponde anche al numero delle lettere del nome latino di Laura, cioè Laurea. D’altra parte, il numero delle liriche del Canzoniere sembrerebbe alludere anche ai giorni dell’anno, con un componimento eccedente (365+1). Se associamo a ciascun componimento del Canzoniere un giorno dell’anno, partendo con la corrispondenza del primo al 6 aprile, momento di inizio dell’esperienza petrarchesca, troviamo che la canzone 264, che è il primo testo delle rime in morte di Laura, corrisponde al 25 dicembre: il giorno della nascita di Cristo corrisponderebbe dunque all’inizio della redenzione del poeta, una redenzione che è da associare alla morte del suo amore terreno. In quest’ottica, l’ultimo componimento, il 366, Vergine bella, che di sol vestita cadrebbe nuovamente nella data del 6 aprile, chiudendo così nella ricca simbologia di questo giorno l’intera opera.
Tempi di composizione Poche certezze ci sono sulla datazione di buona parte delle rime che confluiscono nel Canzoniere. Una prima selezione di testi destinati alla raccolta, secondo lo studioso Ernest H. Wilkins – autore di un’accurata biografia petrarchesca, che ha individuato nove diverse redazioni nel corso di circa quarant’anni – si colloca nel 1336 e include ventitré componimenti, mentre la prima raccolta unitaria scaturisce, nel 1342, nella tranquillità di Valchiusa. Da quel momento il Canzoniere diventa per Petrarca un lavoro incessante, che lo tiene impegnato fino agli ultimi giorni di vita su diversi fronti: la minuziosa revisione stilistica, la composizione di nuove rime a completare l’affresco complessivo della vicenda e la collocazione interna delle rime stesse. Solo nella primavera del 1374, per esempio, Petrarca sposta quattro sonetti (dal 362 al 365) alla fine del libro, subito prima della canzone alla Vergine.
Laura: una donna reale? Molto ha discusso la critica anche sulla reale esistenza di Laura, nel Canzoniere poco più di un nome che non consente di individuare una figura reale: il poeta non restituisce nulla di concreto, se non pochi tratti di maniera, filtrati attraverso la tradizione, e mai “a figura intera” (i capelli biondi come l’oro, gli occhi, la fronte, le belle membra), solo una serie di rimandi che hanno adombrato ben presto interrogativi sulla figura della donna. Già uno dei primi lettori di Petrarca, l’amico Boccaccio, avanza dubbi sull’esistenza reale di Laura: E per quanto nelle sue numerose poesie volgari, per quanto cantò splendidamente, abbia fatto mostra di amare con ardore una certa Lauretta, ciò non fa difficoltà, a mio parere, perché ritengo che quella Lauretta vada intesa allegoricamente per la laurea poetica che egli poi in effetti ottenne.
Ma Petrarca, in una delle Familiares (II, 9) all’amico Giacomo Colonna, che evidentemente avanzava lo stesso sospetto, nega che si possa condurre così a lungo una finzione: Che dici tu dunque? D’aver io inventato il bel nome di Laura per poter parlare di lei e perché molto, grazie a lei, potessero parlare di me; ma che in realtà nessuna Laura mi sta nel cuore; se non forse quel lauro dei poeti, al quale, quant’io aspiri, è testimoniato da un lungo
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Vergine bella, che di sol vestita, pag. 454
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studio e indefesso; e che di questa Laura viva, della cui bellezza fingo di essere preso, tutto è inventato: finti i miei versi, simulati i sospiri… Credimi, nessuno può fingere a lungo.
E alla notizia della morte di Laura, ricevuta il 19 maggio del 1348, Petrarca annota sul suo codice di Virgilio, suffragando la reale esistenza della donna: Laura, illustre per le sue virtù e lungamente celebrata nelle mie poesie, apparve per la prima volta ai miei occhi al principio della mia adolescenza, l’anno del Signore 1327, il sei di aprile nella Chiesa di Santa Chiara in Avignone, di prima mattina; e nella stessa città, nello stesso mese di aprile, nella stessa ora prima (cioè intorno alle sei del mattino, n.d.A.) del giorno sei dell’anno 1348, la luce della sua vita è stata sottratta alla luce del giorno.
Altri critici, come lo spagnolo Francisco Rico, hanno invece sostenuto che dietro al nome di Laura si celi non una donna precisamente identificabile, ma l’insieme delle esperienze amorose del poeta, confluite nella silloge del Canzoniere intorno a questa figura. La tradizione del senhal
Anche il nome Laura, più che un dato reale, sembra ricollegarsi alla tradizione del senhal provenzale e si carica di una fitta polisemia, come spesso avviene nel lessico del Canzoniere. Alla sua origine sta il mito di Apollo e Dafne, che Petrarca legge in Ovidio. Il dio Apollo vuole possedere la bella ninfa, che ha fatto voto di castità a Diana, ma ella sfuggendogli invoca il padre Peneo, divinità fluviale: questi la salva trasformandola in pianta d’alloro, da allora sacra ad Apollo. Nel riferimento mitologico compare un duplice aspetto simbolico dell’“autobiografia” petrarchesca: Dafne come Laura rifiuta l’innamorato, ma nello stesso tempo, trasformandosi in alloro, assurge a simbolo della poesia e di quella gloria poetica cui tanto Petrarca ha in vita aspirato. Il senhal offre una concatenazione di rimandi: oltre al rimando alla poesia (Laura/lauro), l’omofonia Laura/l’aura suggerisce un richiamo alla brezza che agita dolcemente i capelli della donna nel sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, a sua volta ricollegabile al respiro vitale e ai sospiri d’amore, e perfino all’auro (aurum, “oro” in latino), cioè ai beni materiali da cui bisogna distaccarsi.
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Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, pag. 421
Un’autobiografia ideale L’intento di Petrarca è raccontare al lettore la storia esemplare del superamento dell’amore per Laura, giovenile errore, come si legge nel sonetto proemiale dell’opera, Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono. Se nella prima sezione l’amore per Laura travaglia il poeta, la sua morte lo induce a riconsiderare la vicenda: l’assenza della donna apre una nuova prospettiva di rinuncia ai beni terreni, che lasciano il posto al pentimento e alla conversione. Tuttavia, il proposito della mutatio vitae, enunciato nel Secretum pag. 366 , non va interpretato alla lettera, ma letto alla luce di quell’autobiografia ideale che Petrarca va costruendo con un’opera di attenta e continua revisione. Il proposito di conversione e rilettura della propria esperienza alla luce di un disegno unitario rimane peraltro in parte inevaso: le rime restano “sparse” come si legge nel sonetto proemiale e il romanzo ideale di sé cui Petrarca vuole dar forma appare per molti versi ambiguo e incompiuto, come acutamente sottolineava Francesco De Sanctis nel suo Saggio critico sul Petrarca (1869): Questo amore è dunque la prima pagina di un romanzo; ci manca il romanzo e la storia. Perché si ha la storia quando i fatti generano fatti; quando i sentimenti si sviluppano e, giunti all’ultima intensità, si trasformano in sentimenti di altra natura. Qui hai una folla di piccoli accidenti (avvenimenti, n.d.A.), staccati, l’uno fuori dall’altro: i fatti variano, il fondo rimane lo stesso.
E quel fondo è proprio l’“io” del poeta, oggetto di assidua introspezione nel tentativo di coglierne i fragmenta; un animo modernamente scisso, insomma, fra la consapevolezza del dovere e l’attrazione per il piacere.
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Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, pag. 400
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere
I temi Il tema centrale del Canzoniere è il dissidio interiore che travaglia l’animo del poeta, scisso fra la consapevolezza di dover rivolgere il proprio amore a Dio e l’irrimediabile attrazione per le cose terrene, l’amore per la donna e la gloria. In quest’ottica, il Canzoniere petrarchesco ha al suo centro, in posizione di preminenza assoluta, l’io del poeta e si dispiega come una minuziosa analisi interiore condotta attraverso la memoria. L’oscillazione fra il cedimento alla passione e il pentimento, la consapevolezza della precarietà delle cose terrene e le loro lusinghe, l’irresistibile aspirazione alla gloria e la convinzione che il tempo tutto cancella e annulla si traducono in un continuo affondo nelle pieghe del proprio io. La parola poetica diventa così strumento per una sorta di moderna autoanalisi, in cui la poesia stessa riveste un ruolo non meno importante dell’esperienza d’amore. Come scrive con felicissima formula il poeta Ugo Foscolo (1778-1827) nel suo Saggio sopra la poesia del Petrarca a proposito dei continui interventi di revisione testimoniati dall’autografo del Canzoniere: «queste laboriose correzioni fecero pensare, fin da quando il Petrarca viveva, che i suoi versi fossero opera più da poeta che da amante».
La centralità dell’io e il dissidio interiore
Al centro della vicenda del Canzoniere si colloca l’amore per Laura, donna che fa soffrire il poeta con la sua indifferenza e dopo la morte gli indica la via verso la salvezza spirituale. Tuttavia la redenzione di Petrarca non assurge mai a dato definitivo e l’amore per la donna si rivela continua occasione di sofferenza e lacerazione interiore: inappagato e tormentato, esso costringe il poeta a oscillare fra il vaneggiare della passione e la vergogna per quel fero desio cui non riesce a sottrarsi.
L’amore
Petrarca consegna al Canzoniere anche la riflessione sul tempo che già attraversa altre opere minori e che si lega indissolubilmente al tema della memoria, scandito dai componimenti d’anniversario. Il passato del ricordo, il presente della (presunta) consapevolezza dell’errore e la speranza nel futuro si accavallano intorno a una meditazione che attinge al pensiero classico, in particolare allo stoicismo, e al pensiero cristiano. Da Seneca Petrarca ricava l’idea che la vita non sia breve, ma piuttosto sprecata dagli uomini in occupazioni vane, da sant’Agostino la convinzione che il tempo non esiste oggettivamente, ma solo soggettivamente: il presente è la percezione che l’uomo ne ha, il passato quella che non ha più e il futuro quella che attende di avere.
Il tempo
Tiziano, Amor sacro e amor profano, 1514. Roma, Galleria Borghese.
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Il Trecento La politica
Diversi componimenti sono riconducibili anche al tema politico, testimonianza della tensione civile del poeta. Superato il modello dell’intellettuale comunale, il cosmopolita Petrarca guarda non alle lotte che travagliano i Comuni, ma alla situazione dell’Italia, concetto culturale e non geografico: nella canzone Italia mia egli ne depreca la condizione, oggetto delle mire degli stranieri cui l’ha consegnata l’avidità dei signori italiani, ed esprime la speranza in un riscatto memore delle antiche glorie. Al tema politico in senso lato sono riconducibili anche i cosiddetti sonetti “avignonesi”, in cui il poeta si scaglia contro la corruzione della curia papale.
Come lavorava Petrarca Mentre di Dante non è rimasto nessun autografo, Petrarca ha lasciato dietro di sé numerose testimonianze vergate di propria mano. La redazione definitiva del Canzoniere petrarchesco è affidata al Codice Vaticano 3195, in parte autografo e in parte redatto dallo scrivano del poeta, Giovanni Malpaghini, ed è il risultato, secondo quanto ricostruito da studi filologici e critici, di otto redazioni precedenti. Essa è il frutto di un costante lavoro di selezione, revisione e riscrittura che, come si è detto, accompagna Petrarca fino agli ultimi giorni di vita. Nella prima lettera delle Familiares all’amico Ludwig Van Kempen, cui Petrarca assegna lo pseudonimo Socrate, datata 13 gennaio 1350, il poeta racconta di aver messo mano all’enorme quantità di scritti presenti in casa sua, di averne gettati molti nel fuoco e di aver iniziato un lavoro di correzione e riscrittura su altri: anche se manca un esplicito riferimento alle rime in volgare, è probabile che fra quegli scritti ci fossero versi che confluiranno poi nel Canzoniere. Una preziosa testimonianza per i filologi è in questo senso offerta da un altro Codice Vaticano, il 3196, detto “codice degli abbozzi”, anch’esso autografo, che consente di ripercorrere la modalità di lavoro del poeta attraverso lo studio delle “varianti”, ossia delle correzioni. Già Ugo Foscolo annotava nel suo saggio su Petrarca: «Se non si conservassero tuttora tutti i suoi manoscritti, sarebbe impossibile immaginare o credere le indefesse fatiche da lui (cioè da Petrarca, n.d.A.) sostenute nella emendazione de’ suoi versi». Il critico Gianfranco Contini (1912-1990), nel suo Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca in volgare (1943), attraverso il confronto fra gli abbozzi del Canzoniere e le redazioni definitive, ha ricostruito secondo criteri filologici il percorso di quelle «indefesse fatiche», individuando le principali direttive di poetica alla base del minuzioso lavoro di affinamento dell’opera.
La metrica e lo stile La maggior parte dei componimenti del Canzoniere sono sonetti (317), cui si aggiungono ventinove canzoni, nove sestine, sette ballate e quattro madrigali. Rispetto alle strutture metriche tradizionali per la poesia illustre (canzone, sonetto e ballata), sestine e madrigali rappresentano un rilevante elemento di novità introdotto da Petrarca. Anche canzone e sonetto vengono trattati in modo originale rispetto alla tradizione, con l’adozione di uno schema fisso e costante: nella canzone, con un numero stabile di stanze (tre o cinque) e l’adozione dei soli endecasillabo e settenario, nel sonetto con la netta prevalenza della rima incrociata secondo lo schema ABBA ABBA nelle quartine.
Le forme poetiche
La lingua
La lingua di Petrarca è il frutto di un’attenta operazione di selezione e raffinamento rispetto alla tradizione lirica romanza, che ne farà un modello per la nostra letteratura fino al Novecento, con le riprese operate in particolare da Umberto Saba (18831957). Dalla lingua di Petrarca scompaiono i termini più marcatamente locali in favore di latinismi, provenzalismi, parole desunte dai poeti della Scuola siciliana, dagli Stilnovisti e dallo stesso Dante. Sul lessico Petrarca compie un’operazione di continua rarefazione: i filologi hanno
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Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno, pag. 375
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Fiamma dal ciel su le tue treccie piova, pag. 380
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contato in tutto il Canzoniere solamente 3275 vocaboli, di cui però il poeta ricorre a tutte le sfumature di significato. La polisemia compensa così il vocabolario volutamente generico e indeterminato: l’aggettivo vago Il racconto di una parola: Vago, pag. 423 , per esempio, assume a seconda del contesto il significato di “bello”, “desideroso”, “inquieto”, “errante”. Ugualmente il poeta agisce sulla concretezza dei termini, svuotandoli per lo più degli aspetti maggiormente denotativi a favore di suggestioni evocative, come accade con il termine “lauro” utilizzato non in senso proprio, ma per significare la poesia e la gloria che ne consegue. Sul lessico di Petrarca ha scritto parole significative il critico Gianfranco Contini, che lo pone a confronto con la lingua di Dante: mentre lo stile di quest’ultimo è caratterizzato dal plurilinguismo, cioè dall’accoglimento di termini afferenti a registri linguistici diversi, quello di Petrarca è caratterizzato dall’unilinguismo, una “tonalità media”, priva di ogni eccesso, ma non per questo comune. Lo stile
Sotto il profilo stilistico Petrarca fa ampiamente ricorso a figure retoriche di costruzione, creando un costante rimando tra la collocazione delle parole e lo stato d’animo del poeta. È il caso per esempio delle figure di posizione, che ne sottolineano l’inquietudine: la dittologia, cioè l’accostamento binario degli elementi del discorso (Solo et Francesco Petrarca nel suo studio pensoso; passi tardi e lenti; canuto e bianco; Di pensier in pensier, in un affresco del XIV secolo. Padova, Sala dei Giganti. di monte in monte); il chiasmo (Pace non trovo e non ho da far guerra; ridono i prati, e ’l ciel si rasserena); il parallelismo (ò in odio me stesso, et amo altrui; et nulla stringo, et tutto ’l mondo abbraccio). Una funzione analoga riveste anche l’insistito ricorso alle accumulazioni, spesso legate dal polisindeto (monti et piagge et fiumi et selve), riflesso formale degli stati d’animo che si accavallano nell’interiorità del poeta. La sintassi, infine, è prevalentemente paratattica, con una generale preferenza per la coincidenza fra struttura metrica e sintattica, anche se con un frequente uso dell’enjambement a rallentare il ritmo.
La fortuna critica Petrarca esercita una profonda influenza sulla poesia dei secoli a lui successivi. L’Umanesimo ne ammira soprattutto il culto dei classici e la vasta produzione in lingua latina, trascurando l’opera in volgare che acquista invece fama negli ultimi decenni del Quattrocento anche grazie alla raffinata edizione a stampa, la prima di un testo non latino, comprensiva di Canzoniere e Trionfi, uscita nel 1470 a Venezia dalla tipografia di Vindelino da Spira. Entro la fine del secolo vedono la luce 38 edizioni delle rime in volgare, che ne testimoniano il notevole successo. A consacrare il mito di Petrarca è nel 1501 l’edizione a stampa de Le cose volgari di Petrarca curata dall’umanista Pietro Bembo per la tipografia veneziana di Aldo Manuzio. Nel 1525 con le Prose della volgar lingua Bembo individua nelle forme petrarchesche il modello per la lirica volgare: si afferma così un diffuso fenomeno di imitazione, che si estende anche ai temi e alla concezione dell’amore, noto come “petrarchismo”. Sul finire del Cinquecento e per tutto il secolo successivo il modello petrarchesco, fondato su un’armonia di ritmi e di forme, incontra un momentaneo declino: prevale in quei decenni la ricerca di un poetare ornato e ingegnoso, espressione del nuovo gusto barocco. Petrarca ritorna
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in auge tra la fine del Seicento e l’inizio del Settecento tra i lirici dell’Accademia dell’Arcadia come esempio di ritorno alla purezza delle forme classiche in opposizione agli eccessi retorici secenteschi. L’Illuminismo, nel XVIII secolo, si divide tra estimatori delle forme della poesia di Petrarca e critici non tanto del poeta quanto del petrarchismo, considerato un mero esercizio accademico di imitazione. La riflessione ottocentesca su Petrarca si apre con i Saggi sul Petrarca del poeta Ugo Foscolo, pubblicati nell’edizione definitiva nel 1823 a Londra, dove Foscolo viveva esule, che ne indagano sia la finezza dell’analisi psicologica sia gli aspetti formali. L’individualismo e lo scarso coinvolgimento negli eventi del suo tempo rendono Petrarca generalmente poco gradito alla critica romantica, soprattutto agli intellettuali di forte ispirazione patriottica e risorgimentale: Francesco de Sanctis lo dipinge nel Saggio critico Andrea del Sarto, Dama con Petrarchino, sul Petrarca (1869) come l’espressione di un periodo di 1528. Firenze, Galleria degli Uffizi. transizione di cui esprime i sentimenti tipici, cioè la malinconia, la tenerezza, l’abbandono alle fantasie, trasferiti in bell’arte. L’artista in lui, secondo De Sanctis, è superiore all’uomo. Il Novecento e oggi
La critica del primo Novecento inaugura la riflessione sul rapporto tra Petrarca e l’Umanesimo: in quest’ottica egli è riconosciuto come il primo interprete di una nuova sensibilità nei confronti del mondo classico, che supera la visione medievale in base alla quale i valori della classicità assumono significato soltanto se riletti alla luce della verità cristiana. In Petrarca pensiero cristiano e classicità trovano una nuova conciliazione e un nuovo terreno di confronto nell’ascolto libero dei testi e del loro messaggio universalmente umano. Da questa linea interpretativa si sviluppa l’analisi delle tematiche più significative della poetica di Petrarca, a partire dalla sua profonda irrequietezza personale e storica, quel conflitto interiore mai sanato tra amore terreno e amore celeste che, come ha osservato Natalino Sapegno, sempre trova espressione in un dettato perfettamente equilibrato, «in un linguaggio morbido, flessibile, aderente a tutte le pieghe della vita spirituale» (Il Trecento, Milano, Vallardi, 1952). La percezione della brevità della vita che pervade di malinconia ogni evento dell’esistenza è stata oggetto dell’analisi di Attilio Momigliano (Storia della letteratura italiana, Milano, Principato, 1938). Il lavoro di correzione condotto da Petrarca sui testi e i caratteri della sua lingua poetica sono acutamente analizzati nei saggi di Gianfranco Contini (Saggio d’un commento alle correzioni del Petrarca volgare, Firenze, Sansoni, 1943 e La lingua del Petrarca in Il Trecento, Firenze, Sansoni, 1953). Tra i contributi contemporanei più significativi si segnala l’ampia opera di Marco Santagata, curatore dell’edizione del Canzoniere per la collana I Meridiani di Mondadori e autore di saggi come L’amoroso pensiero. Petrarca e il romanzo di Laura (Milano, Mondadori, 2014). La sua lettura sottolinea la centralità dell’“io” del poeta nella raccolta: sulla dimensione relazionale dell’amore si impone la soggettività che sperimenta l’impossibilità di soddisfare il desiderio per i limiti imposti all’esistenza umana. Un’interessante analisi della frequente alterazione del dato biografico nel Canzoniere è condotta nel saggio I venerdì di Petrarca dello spagnolo Francisco Rico, volto a indagare la costruzione di quel ritratto ideale di sé che Petrarca vuole lasciare ai posteri attraverso le sue opere intrecciando eventi reali e immaginario collettivo. I testi del Canzoniere sono tratti dall’edizione a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 1964.
La voce
della critica, M. Santagata Accidia, aegritudo, depressione, pag. 435
La voce
della critica, F. Rico I venerdì di Petrarca, pag. 406
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CONNESSIONI Il Virgilio ambrosiano
ella Biblioteca Ambrosiana di Milano è conservato un prezioso codice, posseduto dal Petrarca, che contiene le opere di Virgilio commentate da Servio insieme ad altri testi di autori latini quali Stazio, Orazio ed Elio Donato. Si tratta di un documento storico-letterario particolarmente importante innanzitutto perché Petrarca lo studiò a lungo, come dimostrano le moltissime annotazioni in latino di pugno dell’autore che lo corredano; in secondo luogo sul foglio di guardia (la prima pagina bianca dopo la copertina) si trova vergata la notizia della morte di Laura, unica testimonianza autografa esterna al Canzoniere relativa alla donna amata dal poeta pag. 342 . In ultimo, ma non certo per importanza, questo codice ha un frontespizio dipinto intorno al 1340 da uno dei maggiori pittori del tempo, il senese Simone Martini (1284-1344). La storia del codice Come ha scritto in uno studio dedicato a questo codice il filologo Giuseppe Billanovich, il Virgilio ambrosiano «costituisce un miglio d’oro nella storia della cultura italiana, anzi europea». Se fin dalla morte di Petrarca il prezioso libro fu considerato alla stregua di una reliquia dagli ammiratori del poeta, è la scoperta della sua avventurosa storia a rendere questo documento ancora più eccezionale. Il prezioso codice non fu, infatti, solamente posseduto ma interamente ideato e allestito da Petrarca intorno alla metà degli anni Venti del Trecento: in questo codice sono contenuti i testi che la nascente sensibilità umanistica del giovane Petrarca andava selezionando, in una sorta di “playlist” del nuovo canone retorico. Sappiamo poi che fu il padre, ser Petracco, a finanziare e commissionare la costosa opera a uno dei migliori copisti di Avignone: insieme, padre e figlio diedero così vita a un’edizione privata tra le più lussuose del tempo. Alla morte del padre, avvenuta nel 1326, il tracollo economico della famiglia costrinse Petrarca a separarsi, dolorosamente, dal suo Virgilio. Solo nel 1338 riuscì, ormai celebre letterato, a rientrarne in possesso. È allora che decide di impreziosire ancor di più questo tesoro ritrovato chiedendo a Simone Martini di miniarlo: «ora sappiamo che Simone discese dai suoi impegni di pittore illustre alle funzioni modeste di miniatore e disegnatore per compiacere l’amico Petrarca» (G. Billanovich, Il Virgilio del giovane Petrarca, in Lectures médié vales de Virgile. Actes du colloque de Rome [25-28 octobre 1982], École Française de Rome, Roma, 1985).
L’Allegoria virgiliana di Simone Martini In realtà, il lavoro di Simone Martini sarà sontuoso: l’immagine del frontespizio del codice, conosciuta come “Allegoria virgiliana”, è ricca di particolari e di rimandi. In alto sulla sinistra il commentatore Servio indica un uomo disteso sull’erba e appoggiato al tronco di un albero, in un ameno boschetto di piante di alloro. Si tratta del poeta Virgilio che, col capo incoronato, è ritratto in un atteggiamento che evoca la ricerca dell’ispirazione. Le altre tre figure umane presenti nella scena rappresentano allegoricamente personaggi delle tre opere principali di Virgilio: l’uomo armato di lancia accanto a Servio allude con ogni probabilità a Enea, quello in basso a sinistra, col falcetto alzato intento a potare una vite, rimanda a un agricola delle Georgiche, il terzo in basso a destra, seduto sull’erba e occupato a mungere una pecora, è un richiamo alla figura del pastore delle Bucoliche. Tutti e tre i personaggi rivolgono lo sguardo a Virgilio. La dedica a Virgilio e a Simone Martini Nel frontespizio sono presenti anche delle scritte di mano di Petrarca, più precisamente due distici su cartigli e un terzo collocato in basso, fuori dai contorni del riquadro illustrato, dedicati rispettivamente a Virgilio, a Servio e a Simone Martini. Di Virgilio si dice che è stato il solo, in una terra italica pur ricca di poeti, a eguagliare le vette dei Greci e dei Latini; i versi dedicati a Servio celebrano la capacità del commentatore di “svelare” (togliere il velo, appunto) gli archana Maronis, ossia i contenuti nascosti nell’opera di Publio Virgilio Marone; di Simone Martini infine si riconosce l’abilità di trasporre con il pennello i significati dei testi virgiliani. Alla morte del poeta, il codice passò a Francesco da Carrara e successivamente alla Biblioteca dei Visconti a Pavia, dove fu oggetto di studio di molti umanisti; fu acquistato nel 1600 dal cardinale Borromeo e da quella data costituisce uno dei testi più preziosi della Biblioteca Ambrosiana di Milano.
Il frontespizio del Commento di Servio a Virgilio miniato da Simone Martini per Francesco Petrarca nel 1340. Milano, Biblioteca Ambrosiana.
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Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono
ANALISI VISUALE
Canzoniere, I
Il primo sonetto del Canzoniere costituisce il proemio dell’intera raccolta. Petrarca, rivolgendosi direttamente al proprio pubblico, introduce l’argomento del libro, come nella più classica delle protasi, e ne indica la chiave di lettura: un bilancio della propria esperienza amorosa, dal giovanile innamoramento, giudicato un errore, fino al raggiungimento, attraverso il pentimento, della consapevolezza che le cose del mondo hanno un valore effimero. Di datazione incerta, ma con ogni probabilità composto fra il 1349 e il 1350, a morte di Laura già avvenuta, il sonetto risale comunque sicuramente a un periodo in cui il poeta ha già ben presente l’architettura complessiva del Canzoniere, ma non ne ha ancora ultimata la stesura. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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Voi1 ch’ascoltate in rime sparse il suono di quei sospiri ond’io nudriva2 ’l core in sul mio primo giovenile errore3 4 4 quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono,
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del vario stile5 in ch’io piango et ragiono fra le vane speranze e ’l van dolore, ove sia chi per prova intenda amore6, spero trovar pietà, nonché perdono.
Ma ben veggio7 or sì come al popol tutto favola8 fui gran tempo, onde sovente 9 11 di me medesmo meco mi vergogno;
et del mio vaneggiar vergogna è ’l frutto, e ’l pentersi10, e ’l conoscer chiaramente 14 che quanto piace al mondo è breve sogno.
1 Voi: con questa apostrofe in apertura di sonetto Petrarca si rivolge direttamente al pubblico degli ascoltatori/lettori. 2 nudriva: nutrivo, è un imperfetto alla latina, come il successivo era al v. 4. 3 giovenile errore: è l’innamoramento giovanile per Laura. Per errore si intende, etimologicamente, lo “sviamento” dalla retta via. 4 in parte: l’espressione allude al fatto che il mutamento non è ancora completamen-
te avvenuto. 5 del vario stile: Petrarca allude qui alla varietà dei registri del Canzoniere. 6 ove… amore: cfr. Dante, Tanto gentile e tanto onesta pare, v. 11: «che ’ntender non la può chi non la prova». 7 veggio: vedo. 8 al popol… favola: oggetto di chiacchiere del popolo. Il motivo della fabula vulgi è sia classico sia cristiano. Cfr. Orazio, Epodi, 11, 7-8: «Heu me, per Urbem – nam pudet
Frontespizio di un’edizione del Canzoniere di Francesco Petrarca del XV secolo. Parigi, Bibliothèque Nationale. tanti mali – / fabula quanta fui!» (Ahimè, qual favola divenni – e di tal danno mi vergogno – in tutta l’Urbe!). Qui Petrarca riprende testualmente anche un passaggio del terzo libro del Secretum: «arrossisci d’essere divenuto da sì lunga stagione favola al volgo». 9 meco: con me, tra me e me; si tratta di un latinismo (mecum). 10 pentersi: pentimento, è infinito sostantivato come il successivo conoscer.
parafrasi
vv. 1-8 Voi che ascoltate in rime frammentate il suono / di quei sospiri con i quali io nutrivo il mio cuore / al tempo del mio traviamento giovanile, / quando ero in parte un uomo diverso da quello che sono ora, / fra quanti conoscano l’amore per averlo provato / spero di trovare pietà nonché perdono / per i toni differenti con cui piango e ragiono, / fra le vane speranze il vano dolore. vv. 9-14 Ma ora comprendo bene come di tutto il popolo / per lungo tempo fui la favola, perciò spesso / mi vergogno fra me e me di me stesso; / e la vergogna è il frutto della mia follia, / e il pentimento, e il sapere chiaramente / che quanto piace al mondo è breve sogno.
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GUIDA ALLA LETTURA Un sonetto proemiale
Il primo sonetto del Canzoniere ha funzione proemiale: indica infatti al lettore l’argomento del libro e ne offre la chiave di interpretazione nell’ottica di un duplice cambiamento, umano e di poetica. Si tratta, dice il poeta, della ricostruzione di un percorso partito dal traviamento giovanile, un innamoramento, come si ricava dalla richiesta di comprensione di poco successiva, passato attraverso la piena consapevolezza e il pentimento per giungere al superamento delle passioni terrene nella certezza, o presunta tale, che quanto piace al mondo è breve sogno (v. 14). Inoltre, il sonetto indica come Petrarca intenda qui convogliare in un progetto unitario le rime sparse (v. 1; rimando al titolo latino dell’opera, Rerum vulgarium fragmenta) che fino all’ideazione del Canzoniere erano circolate singolarmente, in un’architettura che conferisca a esse il valore esemplare della redenzione di un’anima. Il poeta porta così a compimento, e lo esplicita nel proemio, quanto già promesso ad Agostino nel Secretum, ovvero raccogliere gli sparsi frammenti della sua anima. Il poeta chiede inoltre perdono per il vario stile (v. 5), ossia per la varietà di toni che contraddistinguono l’opera, ma anche per l’irregolarità morale del proprio percorso giovanile, che lo conduce a “piangere” e “ragionare” contemporaneamente, in segno di pentimento. L’espressione rievoca le parole di Francesca da Rimini nel V canto dell’Inferno. Alla richiesta di Dante di conoscere la sua vicenda, la donna risponde infatti: «dirò come colui che piange e dice» (Inferno, V, 126).
Un pubblico universale
Il sonetto si apre con una classica captatio benevolentiae, l’apostrofe Voi rivolta al pubblico di ascoltatori/lettori, presso cui Petrarca spera di trovare pietà nonché perdono. Ma in questa formula tradizionale si cela un forte elemento di novità perché, come sottolinea il critico Marco Santagata, il poeta interpella un pubblico universale, «privo di caratterizzazioni sociali o culturali o ideologiche […] non è una cerchia aristocratica né un pubblico borghese, non un gruppo di “scuola”, né una udienza specializzata (le donne o i “fedeli d’amore”)». Una sola caratteristica esso deve tuttavia possedere, conoscere l’amore per averlo provato, condizione fondamentale perché possa comprendere e perdonare le sofferenze del poeta. Il passaggio affonda le radici nel modello dantesco (il primo sonetto della Vita nuova, A ciascun’alma presa, e gentil core pag. 191 , è rivolto appunto a chi sia colpito da amore) e più in generale nella poetica dell’amor cortese e nello Stilnovo, ma qui assume una profonda carica innovativa. Quell’apostrofe agli ascoltatori, infatti, resta sospesa, creando un anacoluto tra le due quartine: a emergere in primo piano è così l’io del poeta, soggetto del verbo spero, che anticipa uno dei tratti fondamentali del Canzoniere, la centralità assoluta dell’io
lirico e dell’intimo colloquio con se stesso, confermata nelle terzine dalla convinzione di essere oggetto di scherno fra il popol tutto (v. 9), e, da quel di me medesmo meco (v. 11), che esclude dalla riflessione qualunque elemento esterno.
Laura
Il Canzoniere, come avverte il sonetto proemiale, è il “diario” di un percorso di rinnovamento e salvazione che scaturisce da un giovenile errore (v. 3). Il termine va inteso nella duplice accezione latina, lingua in cui il verbo errare equivale a “vagare, vagabondare” e il sostantivo error a “pellegrinaggio, vagabondaggio” e, per estensione, appunto, a “sbaglio, errore”, ma ha comunque fondamento nella passione amorosa. Eppure della donna che ha scatenato il traviamento petrarchesco non c’è traccia. Bisogna procedere nella lettura dell’opera per scoprire il nome di Laura, la cui evanescenza è tale nel Canzoniere che in diverse epoche se ne è messa in dubbio l’esistenza. Tuttavia la sua inconsistenza nel sonetto proemiale potrebbe rispondere alla volontà di distanziare l’oggetto della colpa e non scalfire la centralità dell’io del poeta.
Un ritratto ideale in nome della vanità del tutto
Accingendosi a ricostruire la propria vicenda d’amore in una forma poetica strutturata, Petrarca delinea di sé il ritratto di un uomo che ha compreso la propria colpa, si è reso conto che essa lo ha fatto oggetto di pettegolezzi fra il popol tutto, se ne è pentito e ne prende le distanze. L’intento è semanticamente sottolineato da termini che indicano dolore, sofferenza e pentimento, e soprattutto dal ritornare, in figura etimologica, di parole che rimandano alla vanità del percorso terreno: l’aggettivo vano, in iterazione, al verso 6, e il verbo vaneggiar al verso 12, preludio della successiva vergogna. In conclusione, la massima epigrafica che ammonisce sulla vanità del tutto è una citazione biblica con cui si apre il libro dell’Ecclesiaste (vanitas vanitatum, et omnia vanitas, “vanità delle vanità, tutto è vanità”) e intende ribadire la piena presa di coscienza, da parte del poeta, dell’inconsistenza dell’amore terreno e in generale di tutte le cose terrene. Questo mutamento di prospettiva è ribadito e al tempo stesso messo in dubbio dal verso 4, quand’era in parte altr’uom da quel ch’i’ sono: il poeta è un altro uomo rispetto al passato, ma non del tutto. In parte perché anche prima era consapevole della vanità dei beni terreni, in parte perché come prima non riesce a distaccarsene. Petrarca, ancora una volta, restituisce di sé un ritratto che risponde più a un proposito che a una consolidata realtà. L’ipotesi risulta confermata dall’uso dei tempi verbali: gli effetti di quella vergogna che si è inteso inizialmente confinare nel passato si avvertono ancora nel presente e il poeta non riesce ad allontanarla da sé. Nel sonetto proemiale si affaccia già così il dissidio interiore frutto della lacerazione fra l’attrazione per le cose terrene che distol-
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Il Trecento
gono dalla contemplazione di Dio e la consapevolezza della loro vanità, che costituisce la cifra dell’intero Canzoniere.
Lo stile
Il sonetto proemiale è anche una sorta di “manifesto” dello stile petrarchesco, caratterizzato da un assoluto controllo formale: in esso si realizza stilisticamente la perenne tensione alla ricomposizone, nella calibrazione del verso, dell’interiorità tutt’altro che risolta del poeta. Il dettato è infatti caratterizzato da una perfetta eleganza di ritmi e di suoni, con il consueto ricorso alla dittologia (piango et ragiono, v. 5), al parallelismo (vane speranze e ’l van dolore, v. 6), al polisindeto (e ’l pentersi, e ’l conoscer chiaramente, v. 13), alla fitta trama di allitterazioni di sillabe e di singoli fonemi (favola fui; me medesmo meco, vv. 10 e 11). A questa concinnitas,
ossia all’armonioso equilibrio del tessuto fonico e sintattico, si contrappongono però alcune vistose soluzioni di rottura, a cominciare dall’anacoluto presente tra la prima e la seconda quartina, dove il Voi ch’ascoltate con cui si apre il componimento resta sospeso, senza verbo. Nelle terzine, introdotte dall’avversativa Ma in posizione iniziale di rilievo, il polisindeto scandisce la vergogna e il pentimento provati dal poeta. Folgorante è poi il verso di chiusura, che con incisività epigrammatica risolve, anche ritmicamente, la sospensione tonale dell’intero componimento. Da notare inoltre la particolare relazione che si istituisce tra le tre parole in rima suono, sono (prima quartina) e sogno (seconda terzina): la paronomasia che lega i tre vocaboli è forse un invito a leggere in filigrana la connessione tra poesia (suono), identità (sono) e vanità del tutto (sogno).
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. A chi è rivolto il sonetto? 2. A che cosa allude il giovenile errore (v. 3)? 3. Perché Petrarca lo considera tale? 4. Qual è il risultato della riflessione del poeta? 5. Quali termini rimandano all’amore per Laura? Ti sembra che lo connotino in maniera netta o piuttosto vaga e indefinita? 6. Il sostantivo sospiri (v. 2) appartiene al lessico della poesia amorosa. Ricordi altre poesie in cui esso compaia? In situazioni analoghe o differenti? 7. Individua e osserva i tempi verbali. Quale differenza intendono sottolineare? 8. Individua i campi semantici principali del sonetto. A quali temi rimandano? 9. Nella seconda quartina compaiono due parallelismi. Quali? Che cosa intendono sottolineare? 10. Che figure retoriche compaiono al verso 10? 11. Considera le scelte lessicali. Ti sembrano uniformi? Perché? Rispondi con precisi riferimenti testuali. 12. Osserva le parole in sede di rima. Si possono individuare parole chiave? Quali in particolare? Con quale effetto?
Interpretazione e scrittura
13. Riprendi le poesie d’amore della tradizione provenzale, siculo-toscana e stilnovista che conosci e confrontale con il sonetto petrarchesco. Affidane analogie e differenze a uno scritto di circa una pagina, sempre con opportuni riferimenti testuali, ed evidenzia la novità introdotta da Petrarca.
SCRIVERE DI SÉ 14. Immagina di rivolgerti a un gruppo (di coetanei o di amici) per esprimere le emozioni che l’amore suscita in te. Scrivi un testo di almeno una ventina di righe nel quale preciserai l’identità del tuo pubblico.
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Era ‘l giorno ch’al sol si scoloraro Canzoniere, III
In un risguardo del suo prezioso codice contenente le opere di Virgilio, il Virgilio ambrosiano Connes sioni, pag. 399 , Petrarca scrive la data della morte di Laura, 6 aprile 1348, e nella stessa annotazione ricorda di aver visto per la prima volta la donna amata il giorno 6 aprile 1327. Quest’ultima data è confermata in altri luoghi, sia del Canzoniere sia dei Trionfi, come data dell’innamoramento. In questo sonetto e in tutta la sua opera Petrarca ricorda poi come il giorno del primo incontro con Laura coincidesse proprio con il venerdì santo, passione di Cristo. Sappiamo che, storicamente, il venerdì santo dell’anno 1327 cadde il 10 di aprile, ma qui Petrarca si rifà probabilmente a una tradizione che colloca la morte di Cristo nella data esatta del 6 di aprile; in questo modo il poeta riesce a far coincidere la propria simbologia personale con la storia sacra. In questo componimento si racconta infatti di come, nel giorno della passione di Cristo, al poeta non fosse sembrato necessario difendersi da Amore, che così ebbe gioco facile a colpirlo, usando come mezzo i begli occhi della donna. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDE, DCE.
E
Era ’l giorno1 ch’al sol si scoloraro per la pietà del suo Factore2 i rai, quando i’ fui preso, et non me ne guardai, 3 4 ché i be’ vostr’occhi, Donna, mi legaro.
Tempo4 non mi parea da far riparo contra colpi d’Amor; però n’andai secur, senza sospetto5: onde i mei guai6 7 8 nel comune dolor s’incominciaro.
Trovommi Amor del tutto disarmato, et aperta la via per gli occhi al core, 11 che di lagrime son fatti uscio et varco.
Però, al mio parer, non li fu honore ferir me de saetta in quello stato, 8 14 a voi armata non mostrar pur l’arco.
1 Era ‘l giorno: va inteso come la data del 6 aprile, la stessa cui una tradizione medievale faceva risalire la crocifissione di Gesù, e non la data mobile del venerdì santo che nel 1327 cadde il 10 di aprile. 2 Factore: Creatore, cioè Dio. 3 ché: perché.
4 Tempo: inteso come tempo liturgico. Nel caso specifico, il tempo di penitenza legato alla ricorrenza della morte di Cristo. 5 senza sospetto: cfr. Dante, Inferno, V, 129 «soli eravamo e sanza alcun sospetto». In questo sonetto di Petrarca si assiste a un «altro celeberrimo innamoramento per
Cupido tende il suo arco. Statua romana del II secolo d.C. San Pietroburgo, Hermitage Museum.
sorpresa» (Contini). 6 guai: lamenti. Cfr. ancora Dante, Inferno, V, 48 «così vid’io venir, traendo guai». 7 nel comune dolor: nel dolore di tutti i cristiani per la morte di Gesù. 8 non… pur: neppure.
parafrasi
vv. 1-4 Era il giorno in cui si oscurò la luce dei raggi del sole / per la compassione del Creatore, / quando fui catturato e non opposi difesa alcuna, / perché i vostri begli occhi, donna, mi rapirono. vv. 5-8 In tale mesta ricorrenza non mi sembrava fosse necessario opporre / una difesa contro gli attacchi di Amore; perciò procedevo / sicuro, senza sospetto; per cui le mie sofferenze / ebbero inizio in un momento di comune dolore. vv. 9-11 Amore mi sorprese completamente disarmato, / e (trovò) libera la via verso il cuore attraverso gli occhi, / che sono diventati uscio e varco di lacrime. vv. 12-14 Perciò, a mio parere, non fu motivo di onore per lui / ferire me in quello stato con una freccia, / a voi armata (all’opposto) non mostrare neppure l’arco.
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GUIDA ALLA LETTURA Il ricordo del giorno dell’innamoramento
Il terzo sonetto del Canzoniere è il testo in cui Petrarca rievoca il momento dell’innamoramento, presentato con i caratteri di un evento fatale e nello stesso tempo rasente l’empietà. Il poeta infatti afferma di essere stato preso, cioè catturato da Amore, proprio nel giorno in cui Gesù Cristo fu crocifisso, evento rievocato nei primi due versi con il riferimento all’eclissi di sole, riferita dalle narrazioni dei Vangeli, che accompagnò le ultime ore di agonia di Gesù: «Era verso mezzogiorno, quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio» (Vangelo di Luca, 23, 44). La passione di Petrarca per Laura ha dunque inizio nello stesso giorno in cui si piange la morte di Cristo: i lamenti d’amore del poeta si uniscono al pianto per la morte del Redentore. La commistione di questi due piani, amore profano e amore sacro, è fonte di lacerazione per Petrarca, e chiave attraverso la quale leggere tutta la tensione amorosa ed esistenziale del Canzoniere.
Una data simbolo
Il 6 aprile 1348, esattamente 21 anni dopo quel fatale giorno del 1327, è anche la data della morte di Laura. L’intento del poeta sembra dunque quello di collegare le vicende della sua storia privata con quelle della fede cristiana. La data del 6 aprile si carica poi di ulteriori significati: i Padri della Chiesa per esempio affermano che Adamo è stato creato da Dio il sesto giorno del primo mese del mondo, ovvero aprile. In questo, Petrarca si mostra uomo del Medioevo, profondamente permeato da una cultura che rilegge il mondo e la realtà in chiave simbolica e ultraterrena: i numeri sono simboli di una realtà ulteriore, nascosta rispetto a quella visibile e storica, ma proprio per questo più autentica in una dimensione escatologica, ovvero sul piano del disegno divino di salvezza.
Quando i’ fui preso…
L’amore sorprende il poeta in un giorno solenne e sacro, e tutto accade in modo inaspettato e fatale, senza che vi si possa opporre resistenza né difesa. Su questo piano il terzo verso (quando i’ fui preso, et non me ne guardai) dialoga con la ripresa del discorso poetico nella seconda parte del testo, cioè con l’inizio delle terzine (Trovommi Amor del tutto disarmato) e la pregnanza dell’azione “subita”, data dalla forma passiva del verbo, fui preso, è sottolineata dalla vir-
gola e dalla prima forte cesura del componimento. Amore cattura un uomo privo di armi, che andava secur, senza sospetto, non ritenendo fosse quello il tempo da far riparo / contra colpi d’Amor (vv. 5 e 6). Amore è un avversario sleale dunque, così come viene ribadito in chiusura del componimento: al mio parer, non li fu honore / ferir me de saetta in quello stato (vv. 12-13). Il tema costituisce la ripresa di un discorso avviato nel sonetto precedente a questo e a esso speculare, che propone l’immagine di Amore armato di arco e frecce, appostato da tempo in luogo nascosto ad attendere il momento migliore per colpire il poeta («celatamente Amor l’arco riprese, / come uom ch’a nocer luogo e tempo aspetta», Canzoniere, II, 3-4).
Un’elegante operazione di riscrittura
All’inizio del Canzoniere Petrarca mostra di porsi con un proprio originale passo nel solco della lirica d’amore in volgare, dalla poesia provenzale allo Stilnovo: questo sonetto, infatti, presenta immagini e scelte lessicali che richiamano quelle della più recente tradizione, per esempio la centralità degli occhi della donna (v. 4 e v. 10) come via attraverso la quale l’Amore giunge al cuore per “legare” l’uomo è motivo che dal De amore di Andrea Cappellano pag. 18 si estende fino all’incipit di un celebre sonetto cavalcantiano, Voi che per li occhi mi passaste ‘l core pag. 118 . Anche la figura di Amore personificato come arciere rimanda a un topos della lirica d’amore. Pregnante la presenza dantesca, in particolare del canto V dell’Inferno, culmine e insieme superamento di tutta la poetica stilnovista. Tuttavia in questo caso si crea un’asimmetria: a Laura, che è armata della propria bellezza, il dio neppur mostra l’arco, lasciandola del tutto indifferente nei confronti del poeta. Sempre relativamente alle soluzioni formali risulta efficace infine la scelta di rivolgersi direttamente alla donna amata nei due enunciati di apertura e di chiusura del sonetto, nel rispetto di una canonica struttura ad anello: il vocativo Donna, chiuso tra due virgole al verso 4, rende esplicita l’attribuzione dei be’ vostr’occhi che immediatamente lo precedono, conferendo un’intonazione di confidenza intima al discorso del poeta e, nella fattispecie, alla rievocazione del giorno fatale dell’innamoramento; simmetricamente il voi armata dell’ultimo verso suggella col riferimento diretto alla donna amata la consapevolezza della propria resa di fronte alla forza di un sentimento contro cui è vano lottare.
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Quale significato assume per il poeta il fatto di essersi innamorato di Laura il 6 aprile? 2. Perché quel giorno Petrarca ricorda di essere stato sicuro e senza sospetto di fronte all’eventualità dei colpi d’Amore? 3. Come viene giudicato dal poeta il comportamento di Amore? 4. Quali retaggi della tradizione stilnovistica sono presenti in questo sonetto?
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere 5. In corrispondenza di quale affermazione si trovano nel testo due enjambement? Perché a tuo giudizio proprio in quella posizione? 6. L’esperienza dell’innamoramento è assimilata a una guerra ingaggiata da e contro Amore. Indica dove compare la metafora bellica e spiegala individuando parole ed espressioni chiave. 7. Quale tratto dell’aspetto fisico di Laura viene evocato nel sonetto? Quale valore gli viene attribuito?
Interpretazione e scrittura
8. Nel secondo capitolo della Vita nova Dante ricorda il suo primo incontro con Beatrice all’età di nove anni. Quali sono le differenze più evidenti tra quel testo e la rievocazione petrarchesca del momento dell’innamoramento? Ci sono dei punti in comune? Quali?
SCRIVERE DI SÉ 9. Ti sembra che ci si possa “armare” nei confronti di Amore, cioè ci si possa in qualche modo preparare o addirittura difendere nel momento in cui l’amore entra nella nostra vita, o, all’opposto, ritieni che l’amore ci sorprenda sempre e ci visiti quando meno ce l’aspettiamo? Tratta la questione anche sulla base della tua esperienza in uno scritto di una pagina.
CONFRONTIAMO I TESTI 10. Il sonetto contiene due motivi ricorrenti nell’elegia latina di età augustea: l’innamoramento che “passa” attraverso gli occhi e la condizione dell’innamorato che combatte contro Amore. Ti si propongono in traduzione due passi di una celebre elegia del poeta latino Properzio (ca. 47-15 a.C.): individua i motivi topici presenti anche nel sonetto di Petrarca e confronta l’immaginario poetico e ideale dei due testi.
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Cinzia, per prima ha fatto prigioniero me, sventurato, coi suoi occhi, io che mai prima ero stato toccato dalla passione. Da allora Amore mi fece abbassare gli occhi ostinatamente alteri e mi calcò il capo, premendovi sopra i piedi finché m’insegnò, crudele (qual è), a detestare le fanciulle perbene e a condurre una vita senza senno. E già da un anno intero questa follia non m’abbandona, mentre sono costretto ad avere gli dèi avversi. … E voi, amici, che troppo tardi richiamate indietro chi è caduto, cercate dei rimedi per il mio cuore malato. Sopporterò con coraggio sia il bisturi sia le crudeli cauterizzazioni, purché io abbia la libertà di dire ciò che l’ira mi suggerisce. Portatemi fra genti e mari remoti, dove nessuna donna conosca il mio cammino: voi, a cui il dio annuì con orecchio benevolo, restate e siate sempre concordi in amore tranquillo. Quanto a me, la mia Venere agita le mie notti amare, e Amore non mi lascia neppure per un momento. Vi avverto, evitate questo male: ciascuno resti fedele alla propria amata né si allontani dal suo consueto amore. Ché se qualcuno troppo tardi presterà attenzione ai miei ammonimenti, con quanto dolore, ahimé, ricorderà le mie parole!
(Properzio, Elegie, trad. di F. Cerato)
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LA VOCE DELLA CRITICA Analisi e produzione di un testo argomentativo Francisco Rico, I venerdì del Petrarca Il critico spagnolo indaga nel suo saggio la consuetudine tutta petrarchesca di alterare il dato reale in funzione di una biografia ideale, esercitata in Petrarca su un giorno della settimana a lui particolarmente caro, il venerdì.
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Ritengo che cercare di rinvenire nella vita di Petrarca i corrispettivi reali delle famigerate date sia un’impresa disperata. Ciò che invece ho potuto dimostrare è che da nessuna parte, né in latino né in toscano, il poeta abbia mai accennato direttamente al Venerdì Santo, ma soltanto a un venerdì qualunque, senza ulteriori specificazioni. […] Per altro verso, è innegabile che la «maior hebdomada»1 abbia una sua persistenza nel retroscena della fabula2 petrarchesca: il 6 aprile del 1327 era stato il lunedì della Settimana Santa; l’incoronazione si era celebrata, secondo quanto riportato, il venerdì di Pasqua; e i sei allori milanesi erano stati piantati durante il Martedì Santo. Quali fossero i collegamenti che Petrarca individuava fra queste date e quelle del Canzoniere o del Virgilio Ambrosiano, è un qualcosa che probabilmente non saremo mai in grado di definire con sicurezza. Si è sostenuto, ad esempio, che la base su cui poggia l’intera costruzione cronologica potesse essere la morte reale di Laura – la domenica 6 aprile del 1348 – e che a partire da questo dato Petrarca avesse poi collocato l’incontro il 6 aprile del 1327, benché esso avesse avuto in effetti luogo il Venerdì Santo, cioè il 10 di quello stesso mese. Nondimeno i fattori in gioco si lasciano combinare in molteplici modi, e non c’è nulla che dia maggior autenticità alla presunta data del 1348 rispetto a quella non meno presunta del 1327; semmai la certezza è un’altra, ossia che il primo elemento che fece la sua comparsa fu il venerdì dei sonetti III e LXII; il venerdì, sesto giorno della settimana, fu insomma l’arcaico predecessore di quello del 1327, e non è lecito sminuire il valore di tale priorità. Non c’è dubbio che la storia di Laura sia in buona misura elaborata a ritroso: quando lo scrittore, per esempio, asserisce a chiare lettere che gran parte della cronologia dei propri amori coincide puntualmente, dal primo al sedicesimo anno e perfino più oltre, con la cronologia della seconda guerra punica, non potremo che convenire sul fatto che si tratta di una ricostruzione a posteriori. Tuttavia, in assenza di una confessione come questa, rigorosamente corroborata dai testi, è un esercizio futile prendere l’una o l’altra data come punto di partenza e combinare a nostro piacimento fattori che si suppongono reali e fattori che si suppongono fittizi, a fronte del fatto che non possediamo nessun saldo criterio per distinguerli. Né possediamo alcun criterio per decidere che cosa pertenga alla sfera pubblica e che cosa a quella intima del poeta. Si suol ribadire, ad esempio, che la nota obituaria3 di Laura è una «scrittura privata», un «privato documento», in cui Petrarca «non aveva ragione di ingannare se stesso falsificando una data». Io non ne sarei tanto certo. In più di un’occasione mi è capitato d’affermare che forse non scrisse mai una sola riga, né una parola, né un numero senza tener presente che avrebbero potuto cadere sotto lo sguardo curioso di lettori lontani nel
1 «maior hebdomada»: la Settimana Santa, quella cioè che va dalla domenica delle palme al sabato santo incluso. 2 fabula: in questo caso, la narrazione di sé.
3 nota obituaria: annotazione in cui viene registrata la notizia della morte di una persona, assimilabile all’odierno “necrologio”. Nel Medioevo esistevano presso i monasteri, le confraternite e le parrocchie degli
appositi registri, chiamati “obituari”, in cui venivano annotate le date di morte di benefattori e personaggi illustri.
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tempo. La nota di Laura non è troppo dissimile da ciò che Armando Petrucci definirebbe una scrittura esposta4. Petrarca, fra le cui mani passarono tanti manoscritti postillati da personaggi illustri, era perfettamente consapevole del fatto che un codice straordinario come l’Ambrosiano, per di più appartenuto a una figura celebre quale lui era, sarebbe stato conservato con cura e scrutato con la lente d’ingrandimento, a maggior ragione se ospitato in una biblioteca pubblica come quella che progettò per Venezia. I mémoriaux intimes5 – quelli sì che sono del tutto indecifrabili. La nota di Laura, al contrario, è trascritta in bella copia da una minuta e teatralmente collocata in posizione preminente, sicché si può ben supporre che si tratti di un discreto ammiccamento ai pronipoti, posteritati. Disponiamo di ancor meno elementi per appurare che cosa si nasconda dietro al mito di Laura. Personalmente – ma non sono il solo – ho sempre sospettato che l’amata del Canzoniere, zitella a vita o consunta «crebris partubus»6, fonda figure di donne diverse, figure diverse di una stessa donna e, certamente, raffigurazioni diverse della laurea poetica. Si potrebbe pensare a qualcosa di simile per le date che abbiamo sinora ripercorso: che siano modi distinti, utili a far risaltare alcuni elementi in ultima analisi poetici, vale a dire di per sé giustificati dalla loro mera enunciazione all’interno di quell’entità autosufficiente rappresentata per principio da ogni singola poesia lirica. Senza scartare quest’interpretazione che discende schiettamente dalla teoria letteraria, è però nella visione storica, nella diacronia, che si avverte con certezza la presenza di punti focali differenziati. L’esame spassionato di queste date assillanti non conduce a nulla di definitivo. (F. Rico, I venerdì del Petrarca, Milano, Adelphi, 2016)
4 scrittura esposta: una scrittura destinata a essere letta pubblicamente. Armando Petrucci (1932-2018), importante paleografo e medievista, ha coniato la definizione «scrittura esposta» nel contesto di un
più ampio studio sul rapporto tra scrittura e potere, per indicare tutte quelle scritture (come lapidi, epigrafi, targhe) create per essere lette dalla collettività. 5 mémoriaux intimes: memorie private.
6 consunta «crebris partubus»: consumata a causa dei numerosi parti, come si legge di Laura nel secondo libro del Secretum.
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Quale tesi sostiene lo studioso a proposito delle date indicate da Petrarca nella ricostruzione del proprio amore per Laura? 2. Che ruolo ha la Settimana Santa nella narrazione petrarchesca? 3. Quale posizione sostiene invece sulla figura di Laura? 4. Quale grado di attendibilità il critico attribuisce a Petrarca nel racconto delle proprie vicende biografiche? Quale posizione prende sull’obituario del Virgilio ambrosiano? 5. A fronte della lettura del passo spiega il titolo dato da Francisco Rico al suo saggio.
PRODUZIONE 6. Sulla base del passo proposto e della lettura dei sonetti del Canzoniere ricostruisci la figura di Laura in un testo di circa due colonne di foglio protocollo raccogliendo argomenti a favore o contro la reale esistenza della donna.
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Movesi il vecchierel canuto et biancho Canzoniere, XVI
Nel sonetto, che risale forse al 1337, anno del soggiorno a Roma, Petrarca mette in scena la vicenda di un anziano padre di famiglia che decide di andare pellegrino a Roma, in una sorta di ultimo viaggio prima della morte, per vedere la famosa reliquia conosciuta come “Veronica”, la tela su cui secondo la tradizione è impressa la vera effigie del volto di Gesù. Nello stesso modo – svela Petrarca con un’affermazione davvero ardita – egli ricerca con ansia i tratti di Laura sul volto di altre donne. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDE, CDE.
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Movesi il vecchierel canuto et biancho1 del dolce loco2 ov’à sua età fornita et da la famigliuola sbigottita che vede il caro padre venir manco;
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indi trahendo poi l’antiquo fianco per l’extreme giornate di sua vita, quanto piú pò, col buon voler s’aita, rotto dagli anni, et dal camino stanco;
et viene a Roma, seguendo ’l desio, per mirar la sembianza3 di colui4 11 ch’ancor lassú nel ciel vedere spera:
cosí, lasso, talor vo cerchand’io, donna, quanto è possibile, in altrui 5 14 la disïata vostra forma vera .
1 canuto et biancho: dittologia sinonimica, “con i capelli bianchi”. 2 dolce loco: espressione ricorrente in Petrarca e spesso riferita ai luoghi associati a Laura. 3 sembianza: il pellegrinaggio ha come scopo l’omaggio alla reliquia nota come “Veronica”. Il nome deriva per metonimia da quel-
lo della donna che, secondo una tradizione dei Vangeli apocrifi, asciugò il viso di Gesù mentre saliva al Calvario. Va notato che Veronica è anche l’anagramma di “vera icona”, cioè “immagine vera” (del volto di Gesù). Di questa reliquia scrive anche Dante nella Vita nova, sia nel canto XXXI del Paradiso, ai vv. 103-108: «Qual è colui che forse di
Croazia / viene a veder la Veronica nostra, / che per l’antica fame non sen sazia, / ma dice nel pensier, fin che si mostra: / ‘Segnor mio Iesù Cristo, Dio verace, / or fu sì fatta la sembianza vostra?’». 4 colui: Gesù Cristo. 5 forma vera: vera icona, richiama il significato attribuito alla parola “Veronica”.
parafrasi
vv. 1-4 Un vecchio con i capelli bianchi si allontana / dal luogo caro dove ha trascorso tutta la sua vita / e dalla famiglia attonita / che assiste alla partenza del vecchio padre; vv. 5-8 poi, trascinando le membra non più vigorose / in quelle che saranno le ultime giornate della sua vita, / quanto più gli riesce si aiuta con la volontà, / fiaccato dagli anni e stanco per la durata del cammino; vv. 9-11 e arriva a Roma, seguendo il desiderio, / per ammirare in una reliquia il volto di colui / che spera di rivedere in cielo: vv. 12-14 così sfinito, talvolta io ricerco, / donna, quanto posso, le fattezze del vostro volto / tanto desiderato in altri visi.
GUIDA ALLA LETTURA In viaggio per la speranza
Un vecchio (vecchierel) raccoglie le ultime energie di una vita trascorsa senza allontanarsi dal dolce e sicuro luogo dove ha cresciuto una famigliuola amorosa, per un ultimo, estremo progetto, su cui ha taciuto con tutti: il pellegrinaggio a Roma per vedere con i suoi occhi la reliquia su cui è im-
pressa la vera immagine del volto di Cristo. Non sappiamo da dove egli parta, sappiamo che è canuto et biancho, il suo corpo è antiquo e si trascina a fatica nel cammino, ma il voler, la volontà di portare a termine il percorso, è saldo e lo sostiene nelle difficoltà. Il suo viaggio è prefigurazione di un altro viaggio, quello dell’anima, che lo attende di lì a poco.
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere Alla ricerca vana di Laura
La condizione del poeta assomiglia a quella dell’anziano “romeo” (così si definivano i pellegrini in viaggio per Roma, Dal passato al presente, pag. 410 ) in un solo aspetto: la devozione con cui quello aspira a vedere la reliquia cercando in essa i tratti del volto di Cristo è uguale per intensità alla devozione del poeta per Laura, le cui fattezze egli cerca con ansia sul volto di altre donne. Tutto il resto li separa: all’atto di incrollabile fede del pellegrino si contrappone la sottomissione del tutto umana e colpevole di un uomo a una donna, alla tenacia di un vecchio che vince le resistenze di un corpo sfinito si contrappone l’esclamazione smarrita (lasso) di un giovane imprigionato in un amore terreno.
Una partitura in due tempi
Il primo tempo della lirica, il viaggio del pellegrino e l’arrivo a
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Roma, occupa con un ampio movimento sintattico tre strofe: la prima si apre con Movesi, parola chiave per la scena che riguarda il vecchio e anche per lo stato d’animo di Petrarca, che, al contrario, è bloccato nella sua vana ricerca; la seconda e la terza si aprono con congiunzioni coordinanti che scandiscono le tappe del percorso. Il secondo tempo è costretto nella terzina conclusiva che arriva inattesa: il poe ta rovescia l’esempio edificante del vecchio riservando a sé un rapido e desolato mea culpa, spezzato dall’inciso al verso 13, pienamente consapevole dell’audacia insita nel fare di Laura una reliquia. Se ricostruiamo la proporzione, infatti, la Veronica è per il pellegrino quello che Laura è per Petrarca. Questo ardito accostamento di suggestioni religiose e amore terreno è una costante del Canzoniere, dove si assiste alla messa in scena della «storia sacra d’un amore profano», secondo la felice formulazione di Gianfranco Contini.
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Qual è lo stato d’animo del vecchio? 2. Con quale atteggiamento egli si pone di fronte alla reliquia? 3. Perché il desiderio di Petrarca è il rovesciamento del desiderio del vecchio? 4. Completa la nota metrica rilevando gli enjambement. Quali effetti producono a livello del significato? 5. Analizza in particolare la rima colui-altrui (v. 10 - v. 13): si può dire che in questo caso venga ribadito attraverso la rima il tema centrale del testo? Motiva la tua risposta.
CONFRONTIAMO I TESTI 6. Nel Canto notturno di un pastore errante dell’Asia (1829-1830) Giacomo Leopardi riprende le suggestioni del sonetto petrarchesco per esprimere con una metafora il senso dell’esistenza umana nel lungo colloquio tra un pastore e la luna. Confronta i testi in uno scritto di una ventina di righe.
Giacomo Leopardi, Canto notturno di un pastore errante dell’Asia 21-38
Vecchierel bianco, infermo, Mezzo vestito e scalzo, Con gravissimo fascio in su le spalle, Per montagna e per valle, 25 Per sassi acuti, ed alta rena, e fratte, Al vento, alla tempesta, e quando avvampa L’ora, e quando poi gela, Corre via, corre, anela, Varca torrenti e stagni, 30 Cade, risorge, e piú e piú s’affretta, Senza posa o ristoro, Lacero, sanguinoso; infin ch’arriva Colá dove la via E dove il tanto affaticar fu vòlto: 35 Abisso orrido, immenso, Ov’ei precipitando, il tutto obblia. Vergine luna, tale È la vita mortale.
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Un vecchio bianco, malato, con le vesti a brandelli, scalzo, con un pesantissimo fardello sulle spalle, corre attraversando montagne, valli, rocce acuminate, sabbia in cui sprofonda, sterpi, esposto al vento, alla tempesta, nell’ora più calda, al gelo, corre sempre e si affanna, supera torrenti e stagni, cade, si rialza, e si affretta senza riposarsi o ristorarsi, ferito, sanguinante; fino a quando arriva al termine al quale tendevano la via e la fatica: un abisso spaventoso e immenso, dove precipita dimenticando ogni cosa. O luna vergine, così è la vita dei mortali.
(G. Leopardi, Canti, introduzione e note di F. Brioschi, Milano, Rizzoli, 1974)
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DAL PASSATO AL PRESENTE Pellegrini di ieri e di oggi
EDUCAZIONE CIVICA
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a situazione descritta nel sonetto XVI del Canzoniere non era certo inedita nel Medioevo: l’Europa medievale è solcata da vie che trasportano attraverso percorsi noti migliaia di pellegrini in luoghi di culto resi celebri da sepolture o reliquie di santi. Tra le mete più importanti vi sono Roma, la Terrasanta e Santiago di Compostela, in Galizia. Già Dante, nella Vita nova (XL), aveva indicato queste tre principali categorie di genti che vanno al servizio di Dio: coloro che si recano a Gerusalemme sono detti palmieri, perché portano con sé come ricordo da quei luoghi la palma; coloro che si recano in Galizia sono detti pellegrini perché si recano nel luogo più remoto dalla Terrasanta in cui sia sepolto un apostolo; infine, sono detti romei quelli che vanno a Roma. Le vie che conducono alle sedi mag-
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Pellegrini in cammino verso Roma in occasione del giubileo in una miniatura del XIV secolo. Lucca, Archivio di Stato.
giori, in particolare in Spagna, Francia e Italia, sono a loro volta punteggiate da centri di devozione L1 . Anche Petrarca fa parte della schiera dei pellegrini: raggiunge infatti Roma in occasione del giubileo
del 1350 e viene invitato dall’amico Giovanni Mandelli ad accompagnarlo in Terrasanta, ma declina l’offerta adducendo come motivo il mal di mare; prepara tuttavia una guida, nota come Itinerarium Syriacum, per segnalare al
Viaggiare per devozione nel Medioevo Maria Serena Mazzi, In viaggio nel Medioevo
> Saggio
DAL PASSATO AL PRESENTE
Maria Serena Mazzi ha insegnato Storia medievale nelle Università di Firenze e Ferrara ed è autrice di saggi su aspetti della vita sociale nel Medioevo. In viaggio nel Medioevo disegna un’epoca tutt’altro che immobile, in cui fervono gli spostamenti, per motivazioni politiche, commerciali, di studio o di fede, in condizioni talvolta di difficoltà e di pericolo, dando voce a fonti del tempo, che testimoniano le scelte di percorsi e le cure, pratiche e spirituali, intorno all’attività del viaggiare. Il testo che segue unisce più passi in cui l’autrice si concentra sul pellegrinaggio, spostamento per eccellenza del Medioevo cristiano.
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Al di là dei viaggi per lavoro, compiuti da «professionisti» della strada, c’è un tipo di viaggio le cui caratteristiche sono ben decifrabili e abbastanza note: il viaggio a scopo devozionale, il pellegrinaggio religioso. Quest’ultimo incarna la concezione spirituale del viaggio. Esso rappresenta una delle più importanti istituzioni della cultura medievale, anzi, per meglio dire, era parte di un complesso di istituzioni che includeva le crociate, il culto dei santi, la ricerca delle indulgenze1, la venerazione delle reliquie2 e l’implorazione3 del miracolo. Sono motivi spirituali quelli che sostanziano il pellegrinaggio. Si parte per entrare in comunione con la divinità e per ascendere un gradino sulla scala della salvezza. Dunque l’intenzione manifesta del pellegrino è un’intenzione religiosa: un atto di penitenza, un voto di ringraziamento, un gesto di devozione che si ri-
1 indulgenze: nella dottrina della Chiesa Cattolica l’indulgenza consiste nella cancellazione delle pene che un peccatore deve scontare sulla terra o in purgatorio per un peccato che ha già confessato e per il quale ha ricevuto l’assoluzione. L’asso-
luzione infatti cancella la colpa ma non le penitenze che un peccatore dovrà scontare. L’indulgenza può essere concessa solo dal papa e in certi casi da vescovi e cardinali, e può essere “lucrata” dal fedele, cioè acquistata con denaro oppure tramite
determinate azioni, tra cui il pellegrinaggio nei luoghi sacri. 2 reliquie: resti del corpo dei santi o oggetti a loro appartenuti. 3 implorazione: richiesta.
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere
La conchiglia, simbolo del pellegrino di Santiago di Compostela, XV secolo. New York, Metropolitan Museum of Art. Pellegrini in cammino per Santiago e cippo segnaletico con simbolo della conchiglia.
viaggiatore aspetti significativi del percorso pag. 416 . Una particolare suggestione come meta devozionale conserva ancora oggi il santuario di Santiago di Compostela, posto al termine di lunghi cammini che attraversano l’Europa e conducono in terra di Spagna, al luogo dove, nella leggenda, un eremita scoprì la tomba dell’apostolo Giacomo, spin-
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tosi a predicare fino in Galizia, martirizzato al suo ritorno in Palestina e sepolto dai suoi discepoli in quella terra lontana dove aveva portato il Vangelo. Simboli del pellegrino in cammino verso la meta galiziana sono il bordone, ossia il bastone, ma soprattutto la conchiglia della capasanta, la cui adozione si spiega forse con la consuetudine, per i pellegrini già arrivati
al santuario, di recarsi sulla spiaggia di Finisterre, a raccogliere le valve del mollusco come prova dell’effettivo completamento del cammino. A testimonianza dello straordinario fascino conservato da questa esperienza si riportano le pagine conclusive del diario di viaggio dello scrittore Enrico Brizzi, che percorre il cammino da Torino nel 2017 L2 .
tiene significativo nel personale processo di purificazione e di arricchimento morale. La visita ai luoghi santi, la Terrasanta in particolare e Gerusalemme sopra tutti gli altri, per essere illuminati dalla grazia divina, per meglio agire la propria penitenza, per ottenere un ricordo o una reliquia, che proteggeranno nel corso della vita terrena e aiuteranno a preservare dal peccato, è un viaggio speciale, compiuto spesso una sola volta durante un’esistenza, con la ritualità e la sacralità che le intenzioni richiedono. Ma le intenzioni non sono sempre così pure o così limpidamente legate all’afflato religioso. Al pellegrinaggio si può ricorrere per sfuggire alle tasse, ai debiti o ai rigori della legge. La pena stessa, inflitta dopo un giudizio di colpevolezza, può essere commutata nell’obbligo del viaggio edificante, che ha così un fine duplice di redenzione, del peccatore e del colpevole. Il pellegrinaggio dei primi secoli del Medioevo riassume in sé caratteristiche più spiccatamente ascetiche, che lo elevano al di là di ogni concezione comune del tempo e al di là di ogni esigenza o realtà materiale, in un atteggiamento di contemptus mundi4 e di volontario allontanamento dalla società profana. In seguito si verifica un cambiamento profondo nella natura stessa del pellegrinaggio. Pur rimanendo intatte devozione e spiritualità (si presume), si affacciano con maggiore evidenza altri motivi: il desiderio di informazione e di conoscenza, la curiosità per i paesi esotici d’Oriente o per i luoghi della tradizione odeporica5 greca e latina, perfino il gusto del viaggio per vedere cose «strane» perché «straniere» o il senso dell’avventura intervengono a moltiplicare le antiche e più lineari idee ispiratrici. Il pellegrinaggio rimane la meta finale del viaggio, ma il viaggio in sé assume una valenza più mondana, le caratteristiche di un’esplorazione di orizzonti altrimenti sconosciuti. La diffusione del modello provoca l’imitazione, quasi la cre-
4 contemptus mundi: letteralmente “disprezzo del mondo”, concezione secondo la quale le cose terrene non hanno alcun valore, in quanto destinate a perire, e devono perciò essere rifuggite con pratiche di astinenza e ascetismo. Il contemptus
mundi è un atteggiamento già presente nelle filosofie antiche, in particolare ellenistiche, e diventa centrale nella dottrina cristiana. Lotario di Segni (1161-1216), il futuro papa Innocenzo III, fu autore di un’opera molto importante dedicata a
questa dottrina, intitolata De contemptu mundi. 5 tradizione odeporica: tradizione legata al viaggio, dal greco odoiporìa (viaggio).
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azione di una moda: in un momento di esaltazione si pronuncia un voto di pellegrinaggio come una sfida, come una gara. È una concezione aristocratica, questa, del pellegrinaggio, dell’andare cavalleresco verso le terre che hanno visto i crociati in armi, lungo i percorsi dei cavalieri per ricreare il viaggio mistico-avventuroso. Ma un desiderio di cose nuove, diverse si affaccia anche nei pellegrinaggi dei più: l’ispirazione religiosa è affiancata da un’emozione tutta umana fatta di curiosità e di voglia di conoscere. […] Pellegrini, cristiani e non, frequentavano antichi e tradizionali luoghi di culto e centri sviluppatisi nel corso del tempo a seguito del verificarsi di miracoli o del trasferimento di reliquie, con viaggi all’interno della propria regione, in una rete di santuari locali, interregionali o al di fuori del proprio paese, in terre spesso lontanissime. In Oriente, oltre a Costantinopoli e Gerusalemme, si va per visitare san Mena, sulle rive del lago Mareotide, a poca distanza da Alessandria; si raggiunge Antiochia per rendere omaggio a san Babila; si venerano san Cipriano, santo Stefano, santa Crispina rispettivamente a Cartagine, Uzalis e Tebessa6. Alcune di queste mete finiscono per perdere importanza con il tempo, decadono o passano irrimediabilmente nelle mani degli infedeli. Santuari di antica tradizione e di nuova istituzione li sostituiscono in Occidente: Roma e Milano anzitutto, in Italia, e poi Venezia, per la devozione a san Marco, Padova per sant’Antonio, Bari per san Nicola, il Gargano per san Michele e tanti altri luoghi minori la cui fama forse non esce dai confini ristretti della città e del suo contado. Fuori d’Italia si venerano san Martino a Tours, sant’Ilario a Poitiers, san Cassiano ad Autun, san Vittore a Marsiglia, la Vergine a Le Puy, santa Maddalena a Vézelay, san Giacomo a Compostela, i santi Pietro e Marcellino a Selingenstadt, sant’Antonio a Vienne7, per citare solo alcuni dei più nominati nelle testimonianze, ma si potrebbe quasi dire che non vi è paese, regione, città, villaggio senza il proprio santo da venerare o una reliquia da cui impetrare un miracolo anche se le grandi mete della cristianità medievale rimangono sostanzialmente tre: la Terrasanta, Roma e Santiago di Compostela in Galizia. […] Occasione speciale di movimenti di pellegrini sono rappresentate dai giubilei. Qui davvero si perde lo spessore di individualità nella confusione della folla. Da ogni parte della cristianità, una volta che l’anno santo è stato annunciato, masse di persone si preparano a partire. Per il primo, proclamato nel 1300, il cronista fiorentino Giovanni Villani8, che afferma di essere stato presente, parla di una presenza di 200.000 pellegrini. La cifra straordinaria è in parte confermata da una fonte documentaria, un registro di dazi di Bard, in Val d’Aosta, dal quale risulta che nella sola estate di quell’anno transitarono dal passo del Gran San Bernardo 20.000 francesi diretti a Roma. Se questa cifra riguarda un unico periodo dell’anno, un unico passo e un unico paese, è facile supporre che il dato numerico offerto dal cronista non fosse poi esagerato. Indipendentemente dai numeri, l’impressione riferita dai cronisti è quella di un incredibile concorso di gente che raggiunge la città da ogni angolo d’Italia e d’Europa. Uno spettacolo simile si ripropose durante il giubileo del 13509, benché questo fosse turbato dai profondi conflitti che laceravano la cristianità, dagli esiti della feroce epidemia di peste e dall’assenza in Roma della corte pontificia trasferitasi dall’inizio del secolo ad Avignone. La guerra che opponeva Inghilterra e Francia10 pregiudicava il pacifico passaggio dei pellegrini diretti alla volta dell’Italia. Pochi mesi prima dell’apertura ufficiale del giubileo un violento terremoto devastò Roma, distruggendo in parte anche la basilica Lateranense da poco ricostruita dopo gli effetti dell’incendio del 1308. Ciò nonostante si parla di almeno 5000 penitenti che ogni giorno entravano in città. (M.S. Mazzi, In viaggio nel Medioevo, Bologna, Il Mulino, 2019)
6 san Mena… Tebessa: si tratta di località nel nord dell’Africa (il monastero di san Mena, Cartagine, Uzalis, Tebessa) o in Medio Oriente (Antiochia, nell’odierna Turchia). 7 Tours…Vienne: mete di pellegrinaggio in Francia (Tours, Poitiers, Autun, Marsiglia, Le Puy, Vezelay, Vienne), in Germania (Se-
lingenstadt) e in Spagna (Santiago di Compostela). 8 Giovanni Villani: cronista fiorentino nato intorno al 1280 e morto nel 1348. 9 giubileo del 1350: si tratta del giubileo in occasione del quale anche Petrarca si recò a Roma.
10 la guerra… Francia: si tratta della guerra dei Cent’anni che si protrasse, con diverse interruzioni, dal 1337 al 1453.
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PER COMPRENDERE IL TESTO
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Arrivare a Santiago di Compostela Enrico Brizzi, Il sogno del drago. Dodici settimane sul cammino di Santiago da Torino a Finisterre
> Diario di viaggio Enrico Brizzi nasce a Bologna nel 1974. Non ancora ventenne, pubblica il suo primo romanzo, Jack Frusciante è uscito dal gruppo, tradotto in ventiquattro Paesi e da cui nel 1996 è stato tratto un film. Dopo il successo del romanzo d’esordio, Brizzi alterna l’attività di narratore con quella di autore di reportage di viaggi. Nel 2016 affronta il cammino di Santiago mosso da una costante volontà di conoscere terre e uomini, riscoprire se stesso e vincere il drago dell’angoscia e della paura che cova dentro ogni individuo.
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Dopo Sarria1 non si trovano più cittadine, solo paesi più o meno piccoli come Portomarìn, ricostruita a monte del sito originario sommerso dalle acque del fiume Miño una volta che queste sono state imbrigliate da un bacino artificiale. La chiesa venne smontata, le sue pietre numerate a una a una, e la costruzione venne riedificata pezzo per pezzo come un giocattolo destinato ai figli dei giganti. Ciò che resta dell’abitato originale giace diruto2 sul fondo del bacino, o ai suoi margini, pietre vecchie di molti secoli abbandonate nel fango. Ma ai peregrinos che si sono appena messi in strada, come a quelli partiti dai Pirenei o addirittura da più lontano, non importa più trovare paseos3 sfavillanti, città d’arte o borghi ameni. Ormai mancano meno di cento chilometri a Santiago, e lo sguardo è fisso sui cippi che punteggiano i boschi di Galizia: su ognuno di questi è presente una targhetta con la distanza della meta e, laddove i vandali a caccia di souvenir non le hanno strappate, ci si può esaltare con il conto alla rovescia. Prende una strana febbre all’idea che i 110 chilometri che ieri mancavano alla meta stamattina fossero scesi a 90, e ora sono già 10 di meno. Cosa sono sedici o diciassette ore di marcia rispetto a un viaggio che dura un mese o una stagione intera? Nel vaso non resta che l’ultimo sorso di cerveza4; la paura del futuro si è trasformata nel preludio della nostalgia; lo stoppino ha guidato il fuoco a bruciare quasi tutta la candela, e la fiamma ormai bassa danza incerta, sfiora il residuo della cera sciolta e presagisce la fine. Viene voglia di correre e di fermarsi; bisogno di fare penitenza e di anticipare l’ebbrezza della fiesta. Ormai si è tutti pazzi, frenetici e riflessivi, capaci di pensieri sublimi e deboli di nervi, smaniosi di fare l’amore con chi ci regala un attimo di felicità e, insieme, devoti all’idea di essere fedeli per tutta la vita a chi è rimasto a casa ad aspettare e non merita di essere tradito. [...]
1 Sarria: si tratta di una cittadina in Galizia che si trova a circa 100 km da Santiago di Compostela.
2 diruto: in rovina, diroccato, dal latino dirŭĕre. 3 paseos: passeggiate, per metonimia la
parola indica in spagnolo anche i viali principali del passeggio nelle città. 4 vaso… cerveza: boccale e birra in spagnolo.
DAL PASSATO AL PRESENTE
1. Le motivazioni dei pellegrinaggi medievali sono più d’una: ricavane dal testo le tipologie più importanti e riportale. 2. Quali suggestioni culturali ispirano nel corso del tempo i pellegrini? 3. Quali eventi storici rendono nel corso del Medioevo irraggiungibili alcune mete? 4. La partenza del pellegrino per una meta lontana era accompagnata da alcuni atti rituali. Quali? 5. Quali testimonianze vengono citate sul giubileo del 1300? A sostegno di quale tesi? Il giubileo del 1300 è anche un’importante “data letteraria”. Sapresti spiegare il perché? 6. È lecito affermare che il giubileo del 1350 si sia svolto in circostanze straordinarie? Motiva la tua risposta.
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Il ritmo dei tamburi e la melodia saltellante delle gaitas, le cornamuse galiziane, accoglie a Santiago i peregrinos. Ormai non resta che infilare l’arco del Pazo de Xelmirez, e affacciarsi sulla Praca do Obradoiro5; la facciata del Parador nacional6 dedicato ai Re Cattolici è un lampo sulla sinistra, che subito ci si volge dall’altra parte, richiamati ai piedi della cattedrale. Qualcuno si spingerà avanti ancora tre giorni sino a Finisterre7, qualcun altro andrà a Muxia8, la maggior parte rientrerà già l’indomani all’alba, ma il sospiro di soddisfazione che si prova nel disarcionare per l’ultima volta gli zaini è uguale per tutti. Per un momento non esistono più differenze di status, genere, età o culture. Si è tutti ragazzini, sbigottiti e felici di avercela fatta, orgogliosi di avere superato le proprie insicurezze e i propri limiti. Sciamano a decine e centinaia i nuovi arrivi, ed ecco il pugliese Matteo9; ecco Leslie e sua moglie Sandy che trema di emozione; ecco le due ragazze del Garda, incredule di essere arrivate sin qui; improvvisano un balletto, l’una sottobraccio all’altra, come bambine che abbiano vinto un premio, o giovani donne che presagiscono come presto la loro vita sarà occupata in faccende che concederanno poco tempo alla spensieratezza. Ecco Imke e la sua amica australiana, che ruggisce d’orgoglio e sollievo per essere arrivata sin qui nonostante il ginocchio dolorante; ecco i cugini giocatori di freccette Georges e Nicolas; ecco il romano che temeva di tradire sua moglie, per mano a una ragazza dai riccioli corvini; e quello laggiù non è forse il danese che hai incontrato mille volte? Quasi non credi ai tuoi occhi quando vedi arrivare sulla piazza anche il bel volto mediterraneo di Thibaut e la barba veterotestamentaria del suo amico Mosè; li guardi come si possono guardare due superstiti, scampati al naufragio della memoria, e hanno ancora il mandolino, giunto miracolosamente intatto fino a oggi. Affretti il passo per andare loro incontro come faresti con due vecchi amici. Ci si stringe e ci si bacia, si dispongono gli zaini a formare un accampamento e, in mezzo a quella commossa confusione, si cercano notizie di compagni perduti. È un momento che resterà scolpito nella memoria per sempre e, una volta dimenticate le preoccupazioni terrene, si ringrazia il cielo. Visitare la cattedrale, abbracciare da dietro la statua dorata del “Figlio del tuono”10 e pregare di fronte al suo sepolcro; accendere candele per i propri cari; farsi largo nella navata stracolma, cercare un angolo ai piedi d’una colonna; provare a rispondere a tono al celebrante spagnolo della messa, unire la propria voce al coro. È questo che fanno i peregrinos una volta giunti alla meta, ed è quello che fai anche tu, felice per una volta di ritrovarti perso in mezzo a un gregge; ognuno è arrivato qui assecondando una libera scelta e guadagnandosi ogni metro di strada, e in fondo siete riuniti per celebrare una festa. Per oggi l’ego è morto, come si auspicava con la sua canzone il tuo amico Ivan11, ed è bello sentirsi uguali a tutti gli altri, parte d’un tutto, tessere senza nome di un mosaico glorioso. «A volte vale la pena di tornare bambini» spiega il celebrante nella sua omelia. «Bisogna impegnarsi, per riuscirci. Serve levarsi l’armatura che ci aiuta a sopportare le battaglie di tutti i giorni. Ma se riusciamo a sottrarci al cerimoniale sempre identico della vita di città possiamo riscoprire tempi, modi e rituali che precedono l’epoca della razionalità a ogni costo. Serve umiliarsi, cercare, sottoporsi a prove e ancora non basta: per arrivare alla meta dobbiamo trovare sulla nostra strada dimostrazioni, o almeno segni, indizi, frecce in grado di guidarci».
5 Praca do Obradoiro: la piazza antistante la cattedrale. 6 Parador nacional: albergo ospitato in un palazzo del XV secolo. 7 Finisterre: il capo Finisterre, in Galizia, è il punto più estremo della costa europea
occidentale. 8 Muxia: località costiera (più a nord rispetto a Finisterre), in cui è vivo il culto della Virgen de la Barca. 9 Matteo: uno dei pellegrini incontrati sul Cammino, così come gli altri citati.
10 “Figlio del tuono”: è il soprannome dato da Gesù a Giacomo e a suo fratello Giovanni per il loro carattere irruente. 11 Ivan: uno degli amici che accompagna l’autore nei suoi lunghi viaggi.
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(E. Brizzi, Il sogno del drago. Dodici settimane sul cammino di Santiago da Torino a Finisterre, Milano, Ponte alle Grazie, 2017)
PER COMPRENDERE IL TESTO 1. Come cambia l’atteggiamento dei pellegrini verso il paesaggio quando la meta si avvicina? 2. Quali caratteristiche ha oggi la cittadina di Portomarìn? 3. Spiega la similitudine relativa alla chiesa del piccolo centro riedificata come un giocattolo destinato ai figli dei giganti (rr. 4-5). 4. Il comportamento dei pellegrini è sempre descritto in modo positivo nel testo? Motiva la tua risposta. 5. Spiega il significato dell’espressione alla riga 16, relativa allo stato d’animo con cui ci si appresta a raggiungere Santiago di Compostela, la paura del futuro si è trasformata nel preludio della nostalgia. 6. Perché, arrivati quasi al traguardo, viene voglia di correre e di fermarsi (r. 19)? 7. L’incontro con la folla al termine del Cammino suggerisce all’autore un’immagine tratta dalla cultura classica. Quale? Con quale significato? 8. Quali stati d’animo dei pellegrini ormai giunti alla meta ti sembra voler mettere in evidenza l’autore? 9. Quale significato dà al Cammino il celebrante nella sua omelia? Riassumilo con parole tue.
RIFLETTIAMO SUL PERCORSO ■ EDUCAZIONE CIVICA 10. Citando un saggio di Franco Brevini, Alfabeto verticale (Bologna, Il Mulino, 2015), Brizzi oppone un camminare “verticale”, l’andar per montagne sfidando in solitudine i pericoli delle vette, e un camminare “orizzontale”, tipico di un popolo in marcia lungo percorsi antichi, che non mira agli allori del primato, ma alla condivisione di esperienze con gli altri. Rifletti in un testo di una pagina su quali caratteristiche dell’individuo incarnino i due modelli di “cammino”, su quale tu senta più tuo e per quale motivazione. 11. Le parole del sacerdote durante la messa evocano un’unione e una fratellanza tra uomini che sappia superare ogni differenza di lingua, religione, cultura. Quali altre esperienze, oltre a quelle del pellegrinaggio, possono contribuire secondo te a creare e far sentire questo spirito di fratellanza tra esseri umani? Discutine in classe argomentando due diverse posizioni: a. l’esperienza religiosa è ciò che più accomuna e affratella le persone; b. l’esperienza politica e civile è ciò che più unisce le persone tra loro. Commenta inoltre l’articolo 8 della Costituzione italiana sulla libertà di ogni confessione religiosa.
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Sono parole che ti fanno rabbrividire, che ti sembrano dedicate a te, e hai l’impressione che ognuno, dentro la cattedrale stipata, le comprenda come venissero pronunciate nella propria lingua. «Solo così possiamo riscoprire il senso più profondo del nostro viaggio sulla terra, e trovare il coraggio necessario per liberarci dalla zavorra delle cattive abitudini, delle paure e dei pregiudizi». Qualcuno ascolta a bocca aperta, qualcun altro annuisce, le ragazze al tuo fianco hanno il volto rigato di lacrime e intanto sorridono, incantevoli e commosse. «Ogni tanto, nella vita di una persona, serve una stagione speciale, un tempo consacrato a dormire ogni sera sotto un tetto diverso e a sentirsi a casa ovunque. Persi come ci sentiamo dentro un labirinto, abbiamo bisogno tutti quanti di un itinerario sacro da percorrere sino in fondo, senza presunzione e senza inganni. Un percorso sicuro, che ci metta in contatto con chi è vissuto prima di noi, con chi vive la nostra stessa esistenza e con chi ripercorrerà le nostre orme; solo in quella vertigine che traversa i tempi potremo ascoltare la vibrazione di una promessa sublime, quella di una esistenza nuova, da vivere finalmente in pace con gli uomini e con Dio».
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Petrarca rifiuta l’invito a un pellegrinaggio in Terrasanta
Nella primavera del 1358 Petrarca riceve l’invito di Giovanni Mandelli, allora luogotenente di Galeazzo Visconti, signore di Milano, ad accompagnarlo in pellegrinaggio in Terrasanta. Il poeta declina l’invito adducendo come motivo principale il mal di mare che gli avrebbe causato notevoli disagi in un viaggio con un lungo tratto di navigazione. Tuttavia, a parziale compensazione della sua assenza, compone in tre giorni una guida dell’itinerario, sfruttando l’esperienza personale per il percorso fino a Napoli e le informazioni apprese dalle letture di storici e geografi per la parte restante. Nasce così l’Itinerarium breve de Ianua usque ad Ierusalem et Terram Sanctam finalizzato a condurre il pellegrino dall’imbarco a Genova fino ad Alessandria d’Egitto.
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È raro che avvenga ciò che speriamo. Accade piuttosto che ciò che vorremmo ci disilluda e si realizzi quanto non ci aspettiamo e in ciò, invero, non c’è nulla di strano: strano sarebbe che accadesse il contrario. Se è la Ragione a reggere i principi delle cose, è la Fortuna a moderarne gli eventi e non c’è nulla che avversi la Ragione quanto proprio la Fortuna, tanto che spesso quella tela che la Ragione aveva ordito la Fortuna si diverte a spezzare, impetuosamente e anzitempo. E volesse il cielo che tutto questo avesse bisogno di prova e che non ci fossero invece, a provarlo, tutti quegli umani lamenti che rivelano quanto ho detto e ciò caratterizza soprattutto la nostra vita! Ma veniamo a noi. Avevi pensato d’avermi compagno nel tuo viaggio e io l’avrei voluto e persino desiderato. Ce ne è forse uno più augurabile e più santo, e anche più giusto, di quello che conduce al sepolcro di Colui che, con la sua morte temporale, ci ha donate l’immortalità e la vita eterna? Al sepolcro dove, se è lecito dirlo, sono sepolte insieme sia la morte ormai vinta sia la vita vera e vittoriosa? Viaggio davvero felice e in tutto degno d’uno spirito cristiano al quale io purtroppo mi vedo costretto a non partecipare da non so quali ostacoli dei miei peccati. “Una vergogna piena d’impacci” (come scrive Orazio1) m’impedisce di parlare ma, imperiosa, la verità mi comanda di aprir bocca e mi costringe a ubbidirle. Ecco: fra le tante ragioni che mi trattengono ce n’è una che è poi la più forte di tutte: il terrore del mare. Capiscimi: non è che il desiderio di vivere o la paura di morire siano in me maggiori di quelli d’ogni altra persona o che preferisca spirare in terra anziché in mare. So infatti perfettamente che non è un luogo ma che è la nostra interiorità ciò che ci può rendere felici o infelici; così come so che si deve morire dovunque anche se ignoro dove sia meglio. Sicché è inutile cercare d’evitare guerre e mari, o fuggire le fatiche, o cercare di risparmiare questo nostro corpiciattolo: la morte ti coglie anche in mezzo alle più oscure tenebre dei piaceri e, odiosa, non esita a penetrare nelle stesse stanze regali; anzi, sovente accade che fatica ed esercizio riescano a ritardare ciò che proprio anticipano fasto e lussuria. Se dunque una volta o l’altra bisogna morire, come ci è proibito affrettare questa morte, cosi è follia tentare di evitarla, e una vera e propria sciocchezza è cercare di procrastinarla. La vera virtù e il vero dovere di un uomo rimangono pertanto quelli di attenderla con serenità come se stesse per sopraggiungere in qualsiasi luogo e in qualsiasi momento. Quello cui invece sarebbe bene che gli uomini pensassero è di fare ogni sforzo per scampare alla seconda morte; senonché è all’impossibile che noi volgiamo ogni cura. A che tendono tutti? A non morire, non ammalarsi, non penare, non provar dolore, non servire, non trovarsi nel bisogno; ma a non peccare – la causa vera di tutti i mali sopra enunciati – nessuno tende. Qualcuno potrebbe a questo punto dirmi: “Se
1 Citazione da Orazio, Satire, 1, 6, 57.
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dunque non hai paura della morte, di che hai paura?”. Rispondo: “Ho paura di quella lunga agonia che, peggiore della morte, è il mal di mare”. E parlo, bada bene, per esperienza. Più volte, sappilo, ho affrontato questo mostro nella speranza di poterlo addomesticare con l’abitudine, e che profitto ne ho tratto? Non ho diminuito la paura, ma piuttosto, navigando, il supplizio si è raddoppiato. E questo è forse il freno che la natura ha voluto porre al mio spirito sempre in movimento e ai miei occhi che non sanno mai saziarsi di vedere sempre nuovi spettacoli. Concludendo: via via che passa il tempo ho sempre più in orrore l’aver a che fare col mare (forse così non sarebbe se fossi più giovane), ma ciò che in verità mi stupisce è questo: che mentre detesto l’entrarvi, mi dà gioia l’osservarlo. Ecco insomma la paura che mi trattiene ed ecco il motivo per il quale il destino non vuole che ti sia gradito compagno: vincerà mai l’affetto questo mio timore? Ben difficile è poterti rispondere. Andrai dunque senza di me e ammirerai cose la cui memoria, finché avrai vita, ti rinnoverà il piacere. Io frattanto, sino a quel tuo ritorno che mi auguro rapido e felice, rimarrò qui nei confini d’Italia e d’Europa; e tuttavia t’accompagnerò col pensiero e, dato che lo desideri, ti accompagnerò pure con queste pagine che ti fungeranno da breve guida. (F. Petrarca, Guida al viaggio da Genova alla Terra Santa. Itinerarium Syriacum, a cura di U. Dotti, Milano, Feltrinelli, 2018)
1. Il testo proposto a. ha come argomento centrale il rifiuto di Petrarca di seguire Giovanni Mandelli in Terrasanta. b. è un’espressione dell’erudizione di Petrarca che dà sfoggio, pur in un contesto privato, delle sue conoscenze degli autori antichi, come Orazio. c. è una riflessione sulle paure degli uomini e il loro desiderio di tener lontana la morte. d. è un invito a fuggire i piaceri e la lussuria praticando l’esercizio della virtù. 2. Che cosa può aiutare a rimandare la morte? a. Gli affetti e l’amicizia. b. Le attività virtuose. c. L’evitare il rischio. d. La fatica e l’esercizio. 3. Nel testo la Fortuna viene presentata a. come un’avversaria della Ragione che sovverte all’improvviso e prematuramente i progetti degli uomini. b. come un’avversaria della Ragione che ordisce trame per sovvertire i progetti faticosamente formulati. c. come un’avversaria della Ragione che stravolge all’improvviso le conquiste realizzate dagli uomini. d. come un’alleata della Ragione nel definire gli esiti dei piani degli uomini. 4. Dal testo si può ricavare a. che nulla è in grado di vincere in Petrarca la paura del mare. b. che il mal di mare è peggio dell’agonia della morte. c. che gli affetti potrebbero vincere la paura del mare.
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che nulla potrà mai vincere in Petrarca la paura della morte.
5. Individua e riporta la motivazione che Petrarca ipotizza per il suo mal di mare. ……………………………………………………………………..........................… ……………………………………………………………………..........................…
6. Con l’espressione seconda morte (r. 27) si intende a. la morte dell’anima. b. la morte del corpo. c. la morte della speranza. d. la morte della virtù. 7. Petrarca utilizza nel testo a. espressioni sentenziose. b. toni ironici. c. toni satirici. d. toni sarcastici. 8. Quale figura retorica viene utilizzata nell’espressione la morte… non esita a penetrare nelle stesse stanze regali (rr. 20-22)? a. Metonimia. c. Iperbole. b. Sineddoche. d. Personificazione. 9. Il sostantivo corpiciattolo (r. 20) morfologicamente è un a. diminutivo. c. vezzeggiativo. b. accrescitivo. d. peggiorativo. 10. L’espressione procrastinarla (r. 24) si può sostituire con a. affrontarla. c. difenderla. b. rimandarla. d. dimenticarla.
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Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno Canzoniere, LXI
I due sonetti che seguono T16-T17 sono costruiti in opposizione tra loro e possono essere considerati un dittico, termine che in arte designa una coppia di dipinti legati tra loro da una cerniera e richiudibili a libro, molto diffusi nell’antichità e nel Medioevo. I sonetti risultano infatti strettamente collegati fra loro per affinità tematica: in entrambi si celebra la stessa ricorrenza, il giorno dell’innamoramento per Laura, ma con intonazioni di segno opposto. Mentre nel primo il poeta benedice il momento e il luogo dell’incontro con Laura, gli affanni procurati da Amore, le parole pronunciate invocando il nome della donna e le opere prodotte per celebrarla, nel secondo, con un netto rovesciamento antitetico, Petrarca invoca Dio per offrirgli, dopo i perduti giorni, il proprio ritorno ad altra vita e ne chiede la pietà per il non degno affanno che lo ha distolto dalla contemplazione religiosa. METRICA Sonetto con schema di rime ABBA, ABBA, CDC, DCD.
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Benedetto sia ’l giorno, e ’l mese, e l’anno, e la stagione, e ’l tempo, e l’ora, e ’l punto1, e ’l bel paese, e ’l loco ov’io fui giunto da’ duo begli occhi che legato m’hanno;
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e benedetto il primo dolce affanno ch’i’ebbi ad esser con Amor congiunto, e l’arco, e le saette ond’i’ fui punto, e le piaghe che ’nfin al cor mi vanno.
Benedette le voci2 tante ch’io chiamando il nome de mia donna ho sparte3, 11 e i sospiri, e le lagrime, e ’l desio;
e benedette sian tutte le carte4 ov’io fama l’acquisto, e ’l pensier mio, 14 ch’è sol di lei, sì ch’altra non v’ha parte.
Anselm Feuerbach, Il primo incontro tra Laura e Petrarca nella chiesa di Santa Chiara ad Avignone, 1865. Monaco, Sammlung Schack. 1 punto: l’istante, il momento preciso. 2 voci: parole, spesso usato anche con il significato di lamenti.
3 sparte: sparse. Si richiama la dichiarazione di poetica presente nel sonetto proemiale, in cui si fa riferimento alle rime sparse.
4 carte: le opere in cui Petrarca ha parlato di Laura.
parafrasi
vv. 1-8 Benedetti siano il giorno, e il mese e l’anno / e la stagione, e il tempo, e l’ora, e l’istante / e il bel paese, e il luogo in cui io fui avvinto / dai due begli occhi che mi hanno legato; / e sia benedetto il primo dolce affanno / che io provai per essere congiunto con Amore / e l’arco e le frecce da cui io fui colpito / e le ferite che mi trapassano fino al cuore. vv. 9-14 Benedette siano le parole che io ho sparso / invocando il nome della mia donna, / e i sospiri, e le lacrime e il desiderio; / e benedette siano tutte le opere / in cui io le procuro celebrità, e il mio pensiero, / che è solo suo, perché nessun’altra può trovarvi posto.
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IL RACCONTO DI UNA PAROLA
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Vago
Vago errante
che manca di definizione
fascino dell’indeterminato
vagante, vagabondo, per es. clerici vagantes
poco chiaro, per es. un discorso
bellezza sfuggente e non disponibile, da qui “vagheggiare”
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al latino vagus, “errante”, ma anche “instabile e indefinito”, l’aggettivo, che condivide la radice del verbo vagare, errare, qualifica in primis una condizione di mobilità senza sede stabile, la situazione, per esempio, dei medievali clerici vagantes o vagi, ecclesiastici privi di sede stabile e quindi in movimento da una diocesi all’altra. Con la stessa espressione clerici vagantes si individuano anche i chierici che, coltivando interessi culturali, si spostano nel XII-XIII secolo da una sede universitaria all’altra a seguito di grandi maestri, talvolta mostrando insofferenza alla disciplina e desiderio di trasgressione. L’originaria polisemia del termine apre tuttavia a una molteplicità di esiti semantici che sottolineano ora l’erranza ora la mancanza di definizione ora il fascino che nasce dall’indeterminato. Il primo significato ritorna per esempio nello stesso “vagante”, come la mina “vagante”, intesa non come arma esplosiva, ma metaforicamente come una questione irrisolta e che può “scoppiare” da un momento all’altro, o in “vagabondo”, in cui il suffisso “-bondo” precisa e intensifica il significato: il vagabondo è infatti colui che ha fatto del “vagare” uno stile di vita.
Può essere “vago” inoltre un discorso, che sfugge alla precisione e, perciò, risulta poco chiaro e poco utile, o un ricordo, condizionato dall’instabilità della memoria: in entrambi i casi a prevalere è la mancanza di definizione. Come arriva allora Petrarca a scrivere del vago lume, cioè dei begli occhi, di Laura al verso 3 del sonetto Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, o del vago errore, cioè l’elegante muoversi in aria dei fiori al verso 51 della canzone Chiare, fresche et dolci acque? Siamo davanti a una traslazione, a un trasferimento di significato dell’aggettivo, proprio del linguaggio poetico, che inaugura anche una nuova visione della bellezza femminile e naturale, una bellezza non vistosa, sfuggente, non definibile, talvolta perché colta nel ricordo che ne sfuma i contorni, talvolta per la suggestione delle particolari situazioni in cui si manifesta. Nel primo Ottocento Giacomo Leopardi immortala un dolcissimo ricordo dell’infanzia felice nell’attacco della lirica Le Ricordanze rivolgendosi alle Vaghe stelle dell’Orsa, la costellazione che contemplava rapito splendere sul giardino di casa, luminosa, bella ed errante come tutti gli astri. Nell’area semantica della bellezza e del desiderio che essa suscita si colloca anche il verbo “vagheggiare”, guardare con desiderio, quanto abita nei nostri pensieri, sia esso l’idea di un amore o di un futuro diverso e più appagante. Con un ulteriore slittamento di significato infine chi gode gli effetti dell’innamoramento può definirsi nel linguaggio letterario “vago”, sostantivo che connota un amante felicemente corrisposto.
Donato Creti, Osservazioni astronomiche, 1711. Città del Vaticano, Musei Vaticani.
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SUGGESTIONI DI LETTURA La lettura proposta richiama una tematica di rilievo nella poetica di Petrarca, ossia la difficile definizione dell’amore e dei suoi contorni fisici, psicologici e spirituali. Nel romanzo Ciò che inferno non è di Alessandro d’Avenia, il giovane protagonista vive un amore assoluto che, sulla scorta di letture coltivate con grande passione, prende i tratti dell’amore di Petrarca per Laura.
Alessandro D’Avenia, Ciò che inferno non è L’AUTORE Alessandro D’Avenia nasce nel 1977 a Palermo. Dopo la laurea in Lettere classiche a Roma e un dottorato di ricerca presso l’Università di Siena, D’Avenia inizia parallelamente l’attività di insegnante e di scrittore. Il romanzo d’esordio, Bianca come il latte, rossa come il sangue, diventa un successo internazionale. Nel 2011 D’Avenia pubblica il secondo romanzo, Cose che nessuno sa, a cui fa seguito, nel 2014, Ciò che inferno non è. Nel 2016 esce il saggio L’arte di essere fra gili. Come Leopardi può salvarti la vita, da cui è tratto uno spettacolo teatrale che lo stesso autore porta in giro per l’Italia, e nel 2017 il romanzo Ogni storia è una storia d’amore. L’OPERA Ciò che inferno non è è un romanzo di formazione narrato in prima persona da Federico, studente diciassettenne, sullo sfondo del quartiere Brancaccio di Palermo. L’opera è anche un omaggio a un eroe dei nostri giorni, don Pino Puglisi, che D’Avenia conosce negli anni del liceo e ammira per l’impegno nella lotta contro la mafia nel quartiere.
SUGGESTIONI DI LETTURA
IL TESTO Nel brano proposto si racconta il momento in cui si sta consumando il rito del tabellone con gli esiti dell’anno scolastico. Il protagonista riflette sulle tattiche che lo hanno portato a risultati invidiabili e pensa a quello che ancora manca nella sua vita: un amore vero. Se a fornirgli ispirazione per il successo a scuola è Cesare con il suo De bello gallico, per i sentimenti il suo modello è Petrarca.
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Un altro degli appuntamenti irrinunciabili prima delle vacanze sono i tabelloni. Ci si accorda per vedersi fuori da scuola, si entra insieme e si cerca tra mille righe e caselle, nella ridda di numeri che quantificano non certo i voti ma la relazione tra te e il tuo orgoglio, il tuo divano, il tuo televisore… o qualsiasi forma di distrazione di massa. I voti sono solo questo: lo scarto di orgoglio dei superbi o la ratifica dell’accidia degli ignavi. Ci ritroviamo con Gianni, Marcello, Marco, Margherita, Giulia, Agnese. Agnese l’ho detta per ultima non perché sia la meno importante, ma anzi perché, a fasi alterne nella mia vita, diventa la più importante. Le affido il mio nulla e i miei benché e lei riesce a contenerli senza divulgarli. A Gianni affido invece il mio entusiasmo e la mia rabbia, come si fa tra maschi, incapaci di condividere sentimenti di sottrazione, ma solo di sovrabbondanza. La prima casella che va scandagliata è l’ultima, quella che decreta se sei indenne dall’esame di settembre. Puliti, tutti puliti, come narcotrafficanti che superano il confine senza essere scoperti. Nulla come la scuola è capace di farti sentire un delinquente. Il primo urlo all’unisono decreta che la nostra estate è salva. Sulla mia non avevo dubbi. I miei non mi avrebbero mai mandato in Inghilterra se avessi avuto un esame di riparazione a settembre. Prima di tutto la scuola, a casa nostra, il resto è effetto di questa causa, che non può in nessun modo essere persa. Non ho problemi a scuola, sono stato sempre sufficientemente intelligente da andare bene nelle materie che mi piacciono e attrezzarmi con strategie mirate in quelle dove sono meno a mio agio. Tutto me-
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(A. D’Avenia, Ciò che inferno non è, Milano, Mondadori, 2017) 1 liste-ormeggio: nei capitoli precedenti il protagonista ha rivelato la sua abitudine di stilare liste di parole che gli servono «per ormeggiare l’anima in un porto sicuro» (p. 37).
SUGGESTIONI DI LETTURA
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rito del latino, grazie al quale ho imparato a distinguere la strategia dalla tattica, quando traducevamo i passi del De bello gallico di Cesare. Al mio fianco il buon vecchio Castiglioni-Mariotti, unico e vero reduce di una guerra più grande, che unisce le generazioni. Era il vocabolario di mia madre, passato a Manfredi e ora a me, con la copertina ormai ridotta a colabrodo e pagine fitte di declinazioni ed eccezioni crittografate e dislocate con perizia, soprattutto nella parte dall’italiano al latino, che noi non avremmo mai usato. Cesare mi è servito per questo: per imparare come si conquistano gli 8. [...] Avevo tutti 8 (sì, anche in fisica, e non so come fosse successo), tre 9 (italiano, greco e filosofia) e un 7, in matematica. Era una pagella da doppio salto mortale all’indietro. Tutto merito di Cesare. E di mio fratello Manfredi per la matematica. «Sei un secchione. E anche un lecchino. Petrarca di qua, Ariosto di là, Tasso di sopra e Machiavelli di sotto…» commenta Gianni. «Ma che dici?» «Ti pare che uno prenda tre 9 senza aver salivato da qualche parte?» «La mia secchionaggine non è ascrivibile a questa categoria. Lo sai benissimo. A me semplicemente quelle materie piacciono, mi divertono.» «Non peggiorare la situazione, idiota.» «Invece di ringraziarmi per tutte le versioni che ti ho passato, ignorante.» «Il campione delle lingue morte! Ecco perché le ragazze sono tutte ai tuoi piedi: se impari anche i geroglifici forse ti fidanzi con una mummia.» «Vai ai corvi!» Scoppiamo a ridere, ricordando le nostre ricerche di imprecazioni sul Rocci, il vocabolario di greco che ha reso miopi generazioni di adolescenti italiani. In greco per mandare qualcuno a quel paese lo si inviava ai corvi, perché ne divorassero il cadavere. Giulia bacia Gianni, o Gianni bacia Giulia. Ecco, l’anno prossimo posso scordarmi i passaggi in motorino del mio miglior amico, visto che si è appena messo con Giulia. Se dovessi dare una definizione dell’amore adesso direi che non è altro che ciò che si interpone tra te e il tuo migliore amico. Dal punto di vista di Gianni è come l’amicizia ma con in più i baci, le carezze, gli abbracci… una differenza qualitativa, ma direi anche quantitativa, come la quantità ma di chilometri che sarò costretto a fare a piedi o in balia dei casuali mezzi pubblici cittadini. [...] Quasi tutti in classe mia stanno con qualcuno. Io ho avuto un solo bacio in questi lunghi diciassette anni, forse per sbaglio. Sono per l’amore petrarchesco e non l’ho ancora incontrato. Quali sono gli ingredienti? L’ho scritto in una delle mie liste-ormeggio1. Schematicamente. Una donna. Non richiede spiegazioni. Quella giusta. Un nome: quella giusta ha un nome dai molteplici significati metaforici e metafisici. Esempio: Laura. Gentilezza di cuore: qualcosa che ha a che fare con ciò che dice mio fratello. Occhi: tutto l’amore si fa con gli occhi, le cui radici sono nel cuore. Fuoco: il sangue è altamente infiammabile. Pace e guerra: l’ossimoro è la figura retorica prevalente in amore, anche se ignoro cosa questo comporti, se non evidenti contraddizioni. Non so come sanabili. Dolore: nutrimento di ogni vero amore. Si manifesta in pianto. Se ne potessi fare a meno preferirei, ma da Saffo in poi non sembra più possibile separare le due cose. Dolceamaro. Fortuna: quella di incontrare la donna al numero 1 della lista. Parole: tutte quelle che verranno per dirselo. Anche in forma di libri, di racconti, di poesie. Poi, non so perché, mi è uscita una dichiarazione d’amore per Petrarca: i poeti sono gli ospiti d’onore della vita. La qual cosa conferma che ho bisogno di uno specialista.
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ALTRI LINGUAGGI MUSICA
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L’amore e la violenza
di continuità al profilo stilistico del amore e la violenza – Vol. 2 è il Canzoniere. Petrarca, infatti, ricorre decimo album pubblicato dal a figure retoriche di costruzione per gruppo indie-rock Baustelle nel riflettere l’accavallamento caotico marzo 2018. Il sottotitolo “dodici di stati d’animo in contrasto tra loro, nuovi pezzi facili” allude ironicaquando per esempio scrive Pascomi mente alla scelta di un tema già codi dolor, piangendo rido; / egualmendificato in poesia e in musica, l’amote mi spiace morte et vita: / in questo re, e gioca a sminuire il labor limae stato son, donna, per voi. che la band toscana ha svolto sui dodici “racconti” che compongono Per i Baustelle l’amore è negativo / l’ultimo disco. I Baustelle, da semperché la pace un giorno finirà, ampre attenti alla condizione di adotitolo originale: L’amore e la violenza miccando ai nobili modelli della lescenti e giovani adulti impegnati Vol. 2 tradizione lirica a cui anche il poenella ridefinizione continua della ta si rifà per sviluppare il discorso propria identità, ci consegnano la artista: Baustelle intorno al racconto di sé. Ma se gli loro personale visione della relaziopubblicazione: 23 marzo 2018 stilnovisti identificano l’amore con ne sentimentale attraverso canzoni la purezza divina, poiché grazie spogliate dei loro contesti e situadurata: 52:31 all’intervento della donna angelo zioni reali. L’amore è sviscerato in tracce: 12 l’animo umano riesce a sublimarsi, quanto concetto atemporale, naril giovenile errore raccontato nel Canrato quasi con distacco e tratteggenere: Synth pop, Rock elettronico, zoniere accompagna verso una pregiato mediante più o meno velate Rock pop sa di coscienza del tutto moderna, citazioni extra-testuali per ampliare etichetta: Warner Music Italia che la band toscana riassume nella il raggio di riflessione e restituire la massima: l’amore vero ci distruggerà. rappresentazione di una scissione interna, che, come abbiamo avuto modo di apprendere Alle soglie dell’ ”ipermodernismo” teorizzato da Donnain questo capitolo, ha ben altri antecedenti letterari. È rumma, il cuore non è puro, ma sporco e cattivo, e il seninfatti Petrarca a inaugurare il racconto di sé e dei con- timento amoroso non è salvifico, ma causa di un dissidio doloroso, come abbiamo potuto ampiamente riscontraflitti dell’inconscio. re anche nei versi dei componimenti in volgare analizzati Veronica, n. 2 è il brano di apertura di un album in cui si fino a questo momento. celebrano il sentimento amoroso e il senso della mancanza, spesso coincidenti: le relazioni descritte si evol- Gli esiti dei due discorsi poetici sono, però, molto divono in separazioni, in ricordi malinconici o rammarichi, versi. L’intento di realizzare un’autobiografia ideale che fino alla maturazione della volontà di voltare pagina e ri- rappresenti un percorso coerente di ravvedimento mocominciare da capo. Nelle canzoni si delinea fin da subito rale viene meno in L’amore e la violenza – Vol. 2. Il disco una figura femminile di petrarchesca memoria per i tratti è infatti immerso nelle contraddizioni e ambiguità della essenziali e rarefatti, sebbene i topoi della lirica amorosa modernità e non lascia spazio alla dimensione spirituale. a cui l’autore dei testi ricorre per descriverla subiscano Superando quindi qualsiasi forma di religiosità, i Bauun brusco rovesciamento: ai capei d’oro si sostituiscono stelle approdano alla convinzione che il sangue scorre anquelli d’antracite di Giovanna e alle belle membra le sue cora nelle vene nel bene e nel male, ovvero che la scissione mani stanche. Inoltre, la donna amata è presentata come esistenziale è un nodo irrisolto e, dal momento che è la ragione dell’inquietudine che investe l’innamorato, in privo di significato, è vano tentare di scioglierlo. quanto ne provoca la scissione, ma anche come il pretesto per scandagliarne l’interiorità. L’ossessione d’amore che lo ingabbia o è dichiarata esplicitamente, quando Francesco Bianconi canta non posso vivere lontano dall’amore, in Lei malgrado te, o è resa attraverso una trama simmetrica incalzante: compri, spendi, vivi sulle nuvole / sali, scendi, ridi [piangi] che ti piaccia o no? / vivi solo per lei, in A proposito di lei, che si aggancia senza soluzione
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LA VOCE DELLA CRITICA Analisi e produzione di un testo argomentativo
Affrontando il tema della modernità di Petrarca, il critico Marco Santagata (1947-2020) ne pone a confronto la produzione con quella della lirica cortese, strutturata in funzione del pubblico, poi si addentra nella specificità di Petrarca, ponendo l’accento sull’assoluta preminenza dell’io lirico del poeta.
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[…] per quanto riguarda Petrarca, uno sguardo filologico1, che si volga alla sua poesia sorvolando su quanto da essa nei secoli è scaturito e che miri a far luce sulle motivazioni che allora guidarono l’autore, sembra assai più adatto a evidenziarne la modernità. Sono convinto, infatti, che le vere ragioni per cui noi oggi possiamo sentire ancora nostra e coinvolgente la sua poesia coincidano in gran parte con quelle che, in pieno Trecento, ne caratterizzarono la novità rivoluzionaria. Non è su Dante che essa va misurata – perché, semmai, ma il discorso sarebbe lungo, Dante sta dalla parte di Petrarca –, ma sulla tradizione di lirica amorosa che, generalizzando, possiamo chiamare ‘cortese’. Ancora semplificando, possiamo dire che quella tradizione, che dalla Provenza del XII secolo ha impregnato di sé quasi tutto il lirismo2 europeo, e non solo di lingua romanza, aveva come caratteristica principale il concepire e il praticare la poesia come fenomeno eminentemente sociale. La lirica d’amore non era solo un prodotto da consumare in pubblico, attraverso performance e recitazioni, era intimamente strutturata in funzione del pubblico: presupponeva e richiedeva un “tu” o un “voi” ai quali rivolgere il discorso; era dialogica per natura. Dialogico significa anche aperto verso l’esterno: alla cronaca e al quotidiano, al teatro3 della vita associata e ai rituali di classe; significa, soprattutto, che lo stesso pubblico a cui la poesia si rivolge come destinatario empirico4 in grande misura è anche, in un gioco di reciproco rispecchiamento fra testo e uditorio, il vero soggetto del discorso. È noto come attraverso questo dialogo la poesia lirico-amorosa abbia diffuso nella società feudale un codice letterario e, nello stesso tempo, comportamentale, e lo abbia fatto in modo tanto capillare e pervasivo da diventare la principale forma di autocoscienza della classe nobiliare. In sostanza, la lirica, insieme al romanzo, è stato uno dei grandi fattori di formazione dell’ideologia nobiliare europea. Ebbene, la poesia di Petrarca rompe con la dimensione sociale. È solitaria, isolata; non cerca il dialogo con i lettori, rifugge dalla cronaca, dagli eventi esterni. Si chiude dentro al rapporto tra l’io e l’oggetto del suo desiderio. Rispetto a quella contemporanea e precedente, questa poesia, che seleziona, recide, allontana da sé la storia e la realtà esterna, sembrerebbe perdere in ricchezza e vastità di sguardo, se non fosse che essa recupera in verticale tutto lo spazio orizzontale a cui ha rinunciato. A quella sociale, infatti, essa sostituisce una dimensione interiore, ai territori della vita di relazione quelli della soggettività. Questa di Petrarca è una vera rivoluzione copernicana. Se la poesia medievale aveva al suo centro l’amata, tanto che il soggetto altro non era che il destinatario degli effetti, negativi o positivi che fossero, da essa prodotti, il motore della lirica petrarchesca è l’Io del poeta. La specola5 soggettiva fa sì che i temi di fondo della tradizione cortese vengano tradotti da Petrarca in un diverso linguaggio concettuale. Per esempio, il motivo capitale della frustrazione del desiderio, legato nella lirica cortese al rifiuto da parte della dama, e quindi in ultima anali-
1 filologico: che esamina il testo, il suo messaggio e il suo linguaggio, alla luce dei contesti in cui è avvenuta la sua composizione.
2 lirismo: qui inteso come produzione lirica. 3 teatro: qui inteso come forme, convenzioni.
4 empirico: concreto. 5 specola: osservatorio, punto di vista.
LA VOCE DELLA CRITICA
Marco Santagata, Accidia, aegritudo, depressione
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Il Trecento
VERSO L’ESAME Analisi e interpretazione di un testo letterario italiano
T
27
Francesco Petrarca, Rapido fiume che d’alpestra vena Canzoniere, CCVIII
Petrarca, di ritorno ad Avignone dall’Europa del Nord, compie l’ultima parte del viaggio seguendo il corso del Rodano. Il poeta si rivolge al fiume chiedendogli di portare un messaggio d’amore a Laura.
R
4
Rapido fiume che d’alpestra vena1 rodendo intorno, onde ’l tuo nome prendi2, notte et dí meco disïoso scendi3 ov’Amor me, te sol Natura mena4,
8
vattene innanzi: il tuo corso non frena né stanchezza né sonno; et pria che rendi suo dritto al mar5, fiso u’ si mostri attendi l’erba piú verde, et l’aria piú serena6.
Ivi è quel nostro vivo et dolce sole7, ch’addorna e ’nfiora la tua riva manca8: 9 11 forse (o che spero?) e ’l mio tardar le dole .
Basciale ’l piede, o la man bella et bianca; dille, e ’l basciar sie ’nvece10 di parole: 11 14 Lo spirto è pronto, ma la carne è stanca .
1 d’alpestra vena: dalla sorgente alpina. 2 rodendo… prendi: secondo un’etimologia errata diffusa all’epoca di Petrarca, il nome del fiume Rodano deriverebbe dal latino rodere, con riferimento all’erosione delle pareti rocciose a opera del fiume. 3 notte… scendi: scendi notte e giorno insieme a me, che sono pieno di desiderio. 4 mena: conduce.
5 pria… mar: prima che tu restituisca al mare il suo “diritto”, cioè le acque che il fiume riversa nel mare. 6 fiso… serena: guarda fisso dove si mostri l’erba più verde e l’aria più serena. 7 sole: si riferisce a Laura. 8 la tua riva manca: la tua riva sinistra, dove sorge Avignone. 9 forse… le dole: forse (ma cosa oso sperare!)
anche il mio ritardare le dispiace. Il poeta immagina per un attimo che Laura lo attenda. 10 ’l basciar sie ’nvece: il baciare, cioè il lambire Laura con l’acqua, sostituisca le parole. 11 Lo spirto… stanca: l’ultimo verso è la traduzione di un passo del Vangelo di Marco (14, 38) nel quale Gesù Cristo, prima di essere catturato, esorta i discepoli a vegliare: «Lo spirito è pronto, ma la carne è debole».
VERSO L’ESAME
COMPRENSIONE E ANALISI 1. Riassumi il contenuto della lirica distinguendo quartine e terzine. 2. Da quale affermazione si comprende che il poeta sta viaggiando sul fiume? 3. Come è connotato lo spazio in cui è collocata la figura di Laura? 4. Quale figura retorica è utilizzata ai versi 6-7? Con quale funzione?
INTERPRETAZIONE Rifletti sulla presenza di immagini legate all’acqua nei testi del Canzoniere in antologia e confrontane le caratteristiche in rapporto al contesto in cui compaiono.
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere
449
UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE
Umberto Saba, Così passo i miei giorni, i mesi, gli anni LA VITA E LE OPERE Umberto Saba (1883-1957) è una delle voci poetiche più originali della prima metà del Novecento. Nato a Trieste da madre ebrea, è abbandonato dal padre prima della nascita ma decide ugualmente di mantenerne il cognome, Poli, che in seguito cambia in “Saba”, parola che in ebraico significa “pane”. Esordisce presto come poeta, dopo una mediocre carriera di studente, pubblicando nel 1903 in edizione privata Il mio primo libro di poesie. Nel 1921 esce la prima edizione del Canzoniere, dove raccoglie i versi del primo ventennio. La notorietà gli giunge attraverso la rivista «Solaria», con cui pubblica nel 1928 Preludio e fughe. A partire dal 1929, per il riacutizzarsi di una nevrosi che lo affligge fin da ragazzo, Saba inizia una terapia psicanalitica con Edoardo Weiss, allievo di Freud: l’approccio psicanalitico diventa per Saba uno straordinario strumento di introspezione, un modo efficace per meglio conoscere la Umberto Saba. MARKA/Alamy. propria interiorità. Del 1934 è la raccolta poetica Parole. In seguito alla promulgazione delle leggi razziali fasciste nel 1938, Saba è costretto a cedere la libreria antiquaria di cui era proprietario e, dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943, abbandona Trieste per rifugiarsi con la famiglia a Firenze. Nel 1946 esce la raccolta di brevi prose Scorciatoie e raccontini, nel 1948 vede la luce la seconda edizione del Canzoniere, cui Saba lavora da anni; nello stesso anno esce Storia e cronistoria del Can zoniere, una sorta di prezioso autocommento in terza persona. Il poeta si spegne il 25 agosto 1957 in una clinica di Gorizia, pochi mesi dopo l’amata moglie Carolina (Lina) Wölfer. LA POETICA Lontano dalle astrazioni e dalla rarefazione lessicale di molti poeti del suo tempo, Saba opta per quella che, nella prosa Quel che resta da fare ai poeti, inviata nel 1911 alla rivista fiorentina «La Voce» ma rimasta inedita fino alla sua morte, definisce poesia onesta, una poesia cioè
UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE
La poesia di Petrarca costituisce, come si è visto, un modello nei secoli a venire: dal Cinquecento in avanti essa incarna il canone linguistico e stilistico della lirica, divenendo punto di riferimento della tradizione poetica in lingua italiana fino al XX secolo. Il Novecento fu un secolo caratterizzato da grandi e rapidi mutamenti, sul piano della storia come su quello dell’arte e della poesia: innovazione, sperimentalismo, rottura con i canoni del passato, ricerca di nuove cifre e linguaggi, riflessione sul ruolo dell’artista nella società sono alcuni degli aspetti più rilevanti delle poetiche del cosiddetto “secolo breve”. Nel variegato e complesso panorama novecentesco si trova anche la voce di chi, come Umberto Saba, avverte l’esigenza di riaffermare una fedeltà alla tradizione che consenta il superamento di forme poetiche divenute troppo ardue, artefatte o oscure. Saba si rivolge proprio al poeta trecentesco come a un modello e sceglie anche di intitolare Canzoniere la propria raccolta. La poesia di Attilio Bertolucci invece, pienamente novecentesca per struttura metrica, ritorna a Petrarca con il lessico e con l’espressione del dolore dell’assenza, tema centrale nella seconda parte del Canzoniere.
450
Il Trecento dal linguaggio chiaro, che va alla sostanza delle cose, capace anche di offrire dignità a immagini umili e che esprime con perfetta corrispondenza la visione del mondo del poeta. In decenni in cui la poesia ha subito un progressivo e radicale allontanamento dalle forme della tradizione, Umberto Saba ritorna alla struttura del sonetto e all’uso della rima, come afferma in un breve componimento programmatico del 1946, Amai, dichiarazione della sua predilezione per trite parole, per la rima fiore/ amore, la più antica, difficile del mondo. Sensibilità moderna e forme del passato trovano così originale punto di congiunzione nelle sue liriche, che restituiscono le inquietudini e i tormenti di una nuova sensibilità nei modi consolidati della tradizione. METRICA Sonetto con schema di rime ABAB, BABA, CDE, DEC.
C
4
Così passo i miei giorni, i mesi, gli anni. Altro non chiedo in gioventù piacere1 che tessere2 nell’ombra vuoti inganni, care immagini sì, ma menzognere.
8
Solo a volte mi mescolo alle altere3 genti del mondo. E anch’io quei loro affanni provo: non cure4 tacite5 severe, ma le lotte crudeli e l’onte6 e i danni.
Onde7 poi ritornando all’oziosa pace dei sogni miei lunghi e fatali8, 9 11 trovo ancora più dolci i colli aprichi ,
il mar, gl’interminabili viali, ove al rezzo10 dei grandi alberi antichi 11 14 il mio cuore s’addorme e si riposa.
UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE
(U. Saba, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1998) 1 piacere: gioia. 2 tessere: intrecciare, fabbricare, qui per estensione creare. 3 altere: superbe. 4 cure: affanni. 5 tacite: silenziose. 6 onte: vergogne. 7 Onde: da dove.
8 fatali: a cui sono tristemente destinato. Nell’aggettivo “fatale”, oltre al senso di destino (fato) è presente una suggestione che rimanda al destino ultimo, ossia alla morte. 9 aprichi: soleggiati. 10 rezzo: ombra. 11 s’addorme: si addormenta.
Giovanni Lomi, Tramonto alla Rotonda, particolare, 1950. Collezione privata.
GUIDA ALLA LETTURA Il poeta trascorre i giorni, i mesi, gli anni di petrarchesca memoria intessendo per se stesso immagini menzognere, unico piacere di una giovinezza vissuta nell’ombra: la poesia può illudere, ma è l’unica, vera sua compagnia. Egli raramente si mescola con gli altri, con le altere / genti del mondo (vv. 5-6), e quando lo fa ne condivide le sofferenze, così diverse dalle proprie: per questo, quando poi ritorna a tuffarsi nel suo amato paesaggio, all’ombra di antichi alberi, il suo cuore trova finalmente requie. Un ruolo fondamentale assume qui il paesaggio natio, che, insieme ai
sogni, gli offre conforto: i colli soleggiati, il mare, gli interminabili viali e l’ombra degli alberi antichi concedono al suo cuore l’agognato riposo. In questo sonetto, in cui la citazione petrarchesca è evidente nel primo verso, Saba gioca a più riprese con il modello trecentesco non per celebrare l’inizio di una passione d’amore, ma per esprimere la condizione di isolamento della propria gioventù. Il richiamo a Petrarca prosegue anche nei versi successivi: l’immersione nella folla è causa di nuovi dolori e solo il paesaggio può recare conforto allo spirito.
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere
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LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
Interpretazione e scrittura
7. Con l’aiuto delle note, scrivi la parafrasi del sonetto. 8. Come consideri la scelta di Saba di rifarsi a un modello così lontano nel tempo?
Confrontare e riassumere
9. Di seguito ti proponiamo Trieste, poesia che Saba dedica alla sua città. Confrontala con il sonetto analizzato concentrandoti su come il paesaggio diventi riflesso dell’interiorità del poeta.
Umberto Saba, Trieste 5
Ho attraversato tutta la città. Poi ho salita un’erta1, popolosa in principio, in là deserta, chiusa da un muricciolo: un cantuccio2 in cui solo siedo; e mi pare che dove esso termina termini la città.
Trieste ha una scontrosa grazia. Se piace, 10 è come un ragazzaccio aspro e vorace, con gli occhi azzurri e mani troppo grandi per regalare un fiore; come un amore con gelosia. 15 Da quest’erta ogni chiesa, ogni sua via scopro, se mena3 all’ingombrata spiaggia, o alla collina cui, sulla sassosa cima, una casa, l’ultima, s’aggrappa. Intorno 20 circola ad ogni cosa un’aria strana, un’aria tormentosa, l’aria natia. 25
La mia città che in ogni parte è viva, ha il cantuccio a me fatto, alla mia vita pensosa e schiva. (U. Saba, Tutte le poesie, Milano, Mondadori, 1998)
1 erta: salita ripida.
2 cantuccio: angolino.
3 mena: conduce.
SCRIVERE DI SÉ 10. L’emarginazione, il senso di esclusione si accompagnano spesso anche all’età dell’adolescenza. Ti riconosci in questa affermazione? Rispondi in un testo di almeno una pagina.
UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE
1. Che cosa desidera il poeta per la propria giovinezza? Che cosa prova mescolandosi alle altre persone? 2. Quale idea della poesia emerge nel sonetto? 3. Quali passaggi del testo rimandano a Trieste, città natale del poeta? 4. Struttura sintattica e metrica coincidono? Rispondi e spiega. 5. Individua le enumerazioni presenti nel sonetto. Quale effetto generano sul ritmo? 6. Considera il registro del componimento. Quali scelte lessicali prevalgono?
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Il Trecento
Attilio Bertolucci, Assenza, più acuta presenza LA VITA E LE OPERE Nato nel 1911 a San Prospero di Parma, da una famiglia della media borghesia agraria, Attilio Bertolucci compie gli studi liceali a Parma dove nel 1929, appena diciottenne, pubblica la sua prima raccolta di versi, Sirio. Frequenta l’Università a Bologna, prima Giurisprudenza, poi Lettere dove è allievo del noto critico d’arte Roberto Longhi e compagno di studi del futuro romanziere Giorgio Bassani. All’opera di esordio seguono Fuochi in novembre (1934), il poemetto La capanna indiana (1951), Viaggio d’inverno (1971), il romanzo in versi in due volumi La camera da letto (1984 e 1988) e ancora una raccolta di poesie, Verso le sorgenti del Cinghio (1993). Insegnante di Storia dell’arte dal 1938 al 1954, Bertolucci si trasferisce a Roma dopo la Seconda guerra mondiale e nella capitale lavora come giornalista e consulente editoriale: traduce dal francese e dall’inglese, collabora in Rai a vari programmi culturali radiofonici e televisivi, fonda e dirige per l’editore Guanda una collana di poeti stranieri. I suoi due figli, Bernardo e Giuseppe, diventano celebri registi internazionali. Il poeta, la cui vicenda biografica si snoda attraverso tutto il Novecento, muore a Roma nel 2000. Postuma, nel 2011, è uscita una sua raccolta di scritti di argomento artistico, La consolazione della pittura. Scritti sull’arte. LA POETICA La poesia di Bertolucci si caratterizza, almeno nella sua prima stagione – quella cui appartiene il testo proposto –, per scelte formali fondate sulla semplicità del dettato: le liriche sono per lo più brevi ed esprimono un sentimento della natura ricco di risonanze intimistiche, maturato negli anni dell’infanzia e della giovinezza nella campagna emiliana. Il poeta rivela successivamente una propensione sempre più chiara al discorso narrativo in versi, che si consolida nel secondo dopoguerra. A partire dalla raccolta Viaggio d’inverno del 1971 si manifesta una scrittura più mossa e inquieta, espressione di temi drammatici come la malattia e la nevrosi. METRICA Versi liberi, di varia misura, con rima baciata nel primo distico e assonanza nei due versi finali.
UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE
A
Assenza, più acuta presenza.
5
Vago pensiero di te vaghi ricordi turbano l’ora calma e il dolce sole.
Dolente il petto ti porta, come una pietra 10 leggera.
(A. Bertolucci, Viaggio d’inverno, Milano, Garzanti, 2020)
Una donna alla finestra, scatto fotografico di Édouard Boubat del 1971. Gamma-Rapho/Getty Images.
6 Francesco Petrarca ■ 4 Il Canzoniere
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GUIDA ALLA LETTURA trati dalla lezione di un altro grande poeta “petrarchesco” dell’Ottocento, Giacomo Leopardi. La terza e ultima strofa presenta in apertura e in chiusura due aggettivi di valenza opposta, dolente e leggera: dolente, predicativo del soggetto, è l’anima o il cuore, nel testo il petto, perché porta con dolore il ricordo dell’assente, visualizzato dalla similitudine che conclude la poesia, come una pietra leggera. L’ossimoro finale ha una particolare efficacia sia per la forza dell’immagine, capace di esprimere insieme la durezza e la levità del ricordo delle persone assenti dalla nostra vita, sia per l’enjambement che va a isolare l’aggettivo leggera, parola coincidente con l’ultimo verso. Il testo si caratterizza per il linguaggio semplice, ma a livello stilistico e sintattico per un ricco e raffinato, seppur dissimulato, intreccio di figure retoriche.
LAVORARE SUL TESTO Comprensione e analisi
1. Sintetizza in una frase il tema della poesia. 2. Che cosa intende il poeta quando afferma che l’assenza è una forma più acuta di presenza? 3. Perché i ricordi sono definiti vaghi (v. 4)? 4. Quali figure retoriche riconosci nella poesia, oltre a quelle indicate nel commento al testo? 5. Quali sono le parole chiave di questo testo? 6. L’immagine della pietra leggera è connotata in modo fortemente ambivalente. Spiegane il significato.
Interpretazione e scrittura
7. Quali consonanze riscontri tra la sensibilità di Bertolucci e quella di Petrarca nell’esprimere lo stato d’animo di chi soffre per l’assenza di una persona particolarmente cara? 8. Quale emozione ti suggerisce l’immagine della pietra leggera sul cuore? Quali ricordi, persone o esperienze richiama alla tua mente? Raccontalo in un testo di almeno una pagina.
UNO SGUARDO AL NOVECENTO ... e OLTRE
La poesia, brevissima, costituita da appena dieci versi, si apre con una sentenza lapidaria, ellittica del verbo, isolata a formare un distico in cui il paradosso sottolineato dalla rima baciata ha l’effetto di una staffilata improvvisa, lasciata sospesa dallo stacco che la divide dai versi successivi: l’assenza è in realtà una forma di presenza più acuta, vale a dire più pungente, più capace di ferire, quasi uno spigolo acuminato ficcato nel fianco. Il vuoto che lascia accanto a noi chi non c’è, o non c’è più, assume una valenza più potente di qualunque presenza. Il poeta si rivolge quindi a un tu indecifrabile per il lettore (vv. 3 e 8) con un’intonazione più dolce e pacata cui è affidato l’inizio della breve strofa centrale: il pensiero della persona assente si affaccia, vago, alla mente e viene a turbare l’atmosfera altrimenti serena e calda di un momento tranquillo di un giorno di sole. Nell’aggettivo vago risuonano echi petrarcheschi, fil-
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Il Trecento
RIEPILOGHIAMO IL CANZONIERE PER L’INTERROGAZIONE Rispondi alle domande
1. Illustra il significato del titolo Rerum vulgarium fragmenta. 2. Da quale vicenda compositiva scaturisce la redazione finale del Canzoniere? 3. Com’è strutturato il Canzoniere? 4. Come agisce Petrarca sui modelli della lirica d’amore? 5. Si può considerare il Canzoniere una restituzione in versi della vicenda sentimentale di Petrarca per Laura? Motiva la tua risposta. 6. Quali sono i fattori che generano il dissidio interiore del poeta? 7. In quali liriche da te studiate è più evidente il senso di colpa per l’errore amoroso? 8. Quale immagine di sé offre il poeta nel Canzoniere? 9. In quali liriche da te studiate compare la tecnica del senhal? Quali significati simbolici assume?
10. Illustra la trasfigurazione di Laura nelle liriche della seconda parte del Canzoniere. 11. Da quali aspetti è caratterizzato lo stile del Canzoniere? Prepara sul tema una presentazione multimediale di almeno cinque slide citando versi o parti di testi in cui emergano esempi particolarmente significativi. 12. Immagina un tweet in cui Petrarca presenti il Canzoniere.
Preparati a esporre
13. Prepara un intervento da esporre in non più di cinque minuti sul dialogo con la natura come emerge dalle liriche del Canzoniere. 14. Prepara una lezione per i tuoi compagni sugli aspetti fondamentali del Canzoniere. Illustrala in 15 minuti al massimo, eventualmente con l’ausilio di una presentazione multimediale.
PER LA VERIFICA SCRITTA Indica se le affermazioni sul Canzoniere sono vere o false
15. Raccoglie 365 componimenti. V F 16. È diviso in due parti. V F 17. La sua lavorazione occupa Petrarca fino alla morte. V F 18. Non si è conservato nessun autografo. V F 19. La sua sintassi è prevalentemente paratattica. V F
Seleziona l’alternativa corretta
20. Nel titolo Rerum vulgarium fragmenta, l’aggettivo vulgarium si riferisce a. alla scelta di un soggetto non elevato come la passione per Laura. b. all’impiego del volgare italiano. c. allo stile dei componimenti. d. alla presenza di poesie di tono popolare. 21. Il Canzoniere è composto da a. sonetti, canzoni, sestine, madrigali e ballate. b. sonetti e canzoni. c. sonetti, canzoni, sestine e poesie allegoriche. d. sonetti e ballate. 22. Attraverso la struttura dell’opera Petrarca intende presentare ai lettori a. il resoconto cronologico della sua storia d’amore con Laura. b. la storia della sua gioventù. c. un percorso di ravvedimento morale. d. un racconto allegorico sui temi dell’amore e della gloria.
23. Il nome di Laura può essere considerato un esempio di senhal provenzale perché a. serve a mascherare l’identità dell’amata. b. richiama esplicitamente la tradizione dell’amor cortese. c. non si riferisce a una donna realmente esistita. d. è uno pseudonimo che evoca una pluralità di significati. 24. Il tema principale del Canzoniere è a. il dissidio interiore. b. l’amore. c. la gloria. d. il tempo.
Domande a risposta aperta
25. Quale ruolo occupa il numero 6 nella struttura del Canzoniere? Qual è il suo significato simbolico secondo il critico Marco Santagata? 26. In che senso il Canzoniere costituisce un’autobiografia ideale? 27. Qual è la concezione che Petrarca ha del sentimento amoroso? In che cosa si differenzia secondo te dalla visione stilnovista? 28. Sotto il profilo metrico, quali sono le novità introdotte da Petrarca rispetto alla tradizione poetica precedente? 29. Quali sono le caratteristiche della lingua adottata da Petrarca?
6 Francesco Petrarca
A TU per TU con l’AUTORE E ORA RILEGGIAMO Solo et pensoso Alla luce dello studio di Petrarca e della lettura di altri testi del Canzoniere, rileggi il sonetto Solo et pensoso i più deserti campi che ti è stato proposto in apertura, quindi rispondi alle domande. 1. Ti sembra che il sonetto affronti solo il tema della solitudine o che in esso compaiano anche altri temi centrali nel Canzoniere? Se sì, quali? E in quali passaggi? 2. In questo sonetto è particolarmente frequente il ricorso alla figura binaria propria dello stile di Petrarca e che qui è declinata sia nella presenza di numerose dittologie sinonimiche sia nella costruzione bipartita dei periodi sintattici. Commenta a questo proposito la struttura della prima quartina. 3. Ripensando ai testi di Petrarca da te letti confronta l’immagine del paesaggio offerta nel sonetto con quella presente in altri componimenti. 4. A questo punto del tuo percorso sull’opera di Petrarca, ritieni che lo studio dell’autore abbia anche in qualche modo arricchito la tua lettura di questo sonetto? Perché? 5. Alla luce dello studio di Petrarca, scrivi un commento al sonetto Solo et pensoso di circa due colonne di foglio protocollo, che prenda in considerazione sia le tematiche proprie del testo sia la sua contestualizzazione nell’ambito del Canzoniere. 6. Commenta in uno scritto di almeno dieci righe il giudizio che diede De Sanctis del testo: «Difficile trovare un sonetto che con sì poca ostentazione di passione sia più appassionato». 7. Confronta il sonetto Solo et pensoso con O cameretta che già fosti un porto T21, pag. 432 : soffermati in particolare sul tema della solitudine trattato in entrambi e sul rovesciamento della prospettiva iniziale che propone, nell’uno e nell’altro, la terzina finale. 8. Un commentatore del Cinquecento, Alessandro Vellutello, ha individuato come suggestione per l’immagine della prima quartina del sonetto petrarchesco il mito omerico di Bellerofonte, personaggio dell’Iliade che Petrarca conosceva attraverso un passo di Cicerone nelle Tusculanae disputationes: Bellerofonte, a causa della morte dei figli «misero nel dolore errava nei campi di Alesa / consumando il suo cuore, fuggendo le orme degli uomini». Trovi che il mito antico ritorni frequentemente nella poesia e più in generale nell’opera di Petrarca? Rispondi con precisi riferimenti alle pagine lette.
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Il Trecento
RIPASSO FINALE
ascolta Francesco Petrarca in breve La vita e le opere
FRANCESCO PETRARCA (1304-1374) LA VITA
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LA POETICA
■
Nasce nel 1304 ad Arezzo in una famiglia costretta all’esilio per motivi politici. ■ Nel 1312 si trasferisce con la famiglia in Provenza, dove trascorre l’infanzia. ■ Pur coltivando fin dall’infanzia la passione per le lettere, compie studi giuridici a Montpellier e Bologna. ■ Nel 1330, prende gli ordini minori ed entra al servizio della famiglia Colonna, incarico che gli permette di compiere numerosi viaggi in Europa e visitare alcune famose biblioteche, scoprendo importanti manoscritti. ■ Nel 1337 si trasferisce a Valchiusa, dove soggiorna per un lungo periodo alternando momenti di riposo a viaggi in Italia e in Europa. ■ Nel 1341 riceve l’incoronazione poetica. ■ Tra il 1353 e il 1361 soggiorna a Milano. ■ Nel 1361 si trasferisce a Venezia e poi ad Arquà, vicino a Padova, dove trascorre gli ultimi anni in tranquillità, circondato da amicizie e affetti. Figura di transizione tra Medioevo e Umanesimo. Intellettuale di profilo europeo, che esce dalla dimensione comunale. ■ Interesse per il mondo classico e gusto per la ricerca filologica. ■ Tema del dissidio interiore e interesse per il genere del racconto di sé. ■
LE OPERE
Poesia latina Africa ■ Bucolicum carmen ■
Poesia volgare ■
Rerum vulgarium fragmenta, letteralmente “frammenti sparsi scritti in lingua volgare”. ■ Raccolta di 366 componimenti organizzati in due sezioni. ■
Prosa latina Epistole Scritti storici ■ Scritti morali ■ Scritti polemici ■ ■
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Titolo e struttura
Trionfi
CANZONIERE
I grandi temi Il dissidio interiore tra desideri terreni e aspirazioni spirituali. ■ L’amore per Laura. ■ La gloria e l’ambizione letteraria. ■ Lo scorrere del tempo. ■
Metrica e stile Ampliamento delle strutture metriche tradizionali. ■ Codificazione dei generi della canzone e del sonetto. ■ Lessico selezionato e polisemico. ■ Uso di numerose figure retoriche di posizione. ■ Sintassi paratattica. ■
6 Francesco Petrarca
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VERIFICA FINALE Mettiti alla prova con gli esercizi interattivi
LA VITA Seleziona l’alternativa corretta 1. Petrarca nasce a: a. Arezzo. b. Avignone. c. Firenze. d. Carpentras.
8. Il soggetto del Secretum è una conversazione tra Petrarca e a. Dio. c. Laura. b. la Verità. d. Agostino. 9. L’Africa è scritta a. in prosa. b. in ottave.
c. d.
2. L’incontro con Laura avviene a. il giorno della Pentecoste. b. la notte di Natale. c. il venerdì santo. d. il giorno di Pasqua.
10. Petrarca ha scritto in volgare a. il Canzoniere. b. il Canzoniere e i Trionfi. c. l’Africa e il Canzoniere. d. i Trionfi e L’Africa.
3. Nel 1330, dopo essere ritornato ad Avignone, Petrarca a. prende gli ordini minori. b. inizia a esercitare la professione di giurista. c. intraprende la carriera diplomatica. d. entra in monastero.
LA POETICA
4. Nella Biblioteca Capitolare di Verona Petrarca trova il manoscritto a. delle lettere di Cicerone ad Attico, al fratello Quinto e a Bruto. b. della Pro Archia. c. di Virgilio. d. delle Confessioni di Agostino. 5. Nel 1347 Petrarca sostiene il colpo di stato di a. Giovanni Colonna. b. Orso dell’Anguillara. c. Cola di Rienzo. d. Roberto d’Angiò.
LE OPERE Seleziona l’alternativa corretta 6. Il latino di Petrarca è a. modellato su quello dei classici. b. un latino medievale ormai artificioso. c. ispirato al latino di Boccaccio. d. influenzato dal latino ecclesiastico. 7. Le lettere di Petrarca si ispirano alla produzione di a. Virgilio. b. Agostino. c. Cicerone. d. Cicerone e Seneca.
in esametri. in terzine.
Seleziona l’alternativa corretta 11. Petrarca può vivere come un intellettuale autonomo a. grazie al patrimonio familiare. b. grazie alle rendite dei benefici ecclesiastici. c. grazie alle donazioni di amici potenti. d. attraverso le rendite che gli derivano dal suo lavoro di scrittore. 12. Petrarca studia il greco a. sotto la guida del monaco Barlaam Calabro. b. da autodidatta. c. insieme all’amico Boccaccio. d. insieme a Giannozzo Manetti.
Domande a risposta aperta 13. In che senso Petrarca rappresenta un intellettuale nuovo per la nostra letteratura? 14. Qual è il rapporto di Petrarca con la lingua latina? 15. Che cosa intende il critico Gianfranco Contini quando parla di “unilinguismo” petrarchesco?
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Il Trecento
NUCLEI FONDANTI attraverso i testi Nell’antologia di Petrarca ci sono nuclei ricorrenti, che sono emersi via via nei testi. Li riassumiamo qui. Svolgi poi l’esercizio al termine della tabella. NUCLEI FONDANTI
TESTI IN ANTOLOGIA
IL RAPPORTO CON I CLASSICI ■
Gli antichi: modelli letterari ed esempi morali
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Roma e l’Italia: un grande ideale di civiltà
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T4 T6 T8 T10
La vita appartata (De vita solitaria, I, 2, 6) Italia mia, benché ‘l parlar sia indarno, Canzoniere, CXXVIII Il modello degli antichi (Familiares, XXII, 2) Il Lamento di Magone morente (Africa, VI, 885-918)
Un nuovo ascolto dei classici: non più “auctoritates” ma compagni di viaggio Il latino come lingua letteraria e lingua familiare
LA RICERCA DI DIO ■
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La speranza nella mutatio animi (conversione)
T3 L’ascesa al monte Ventoso (Familiares, IV, 1) T5 L’accidia (Secretum, II) T11 Il Trionfo del tempo, 61-84 Dal Canzoniere T7 Fiamma dal ciel su le tue treccie piova, CXXXVI T14 Movesi il vecchierel canuto et biancho, XVI T20 Pace non trovo, et non ò da far guerra, CXXXIV T28 Vergine bella, che di sol vestita, CCCLXVI T15 Petrarca rifiuta l’invito a un pellegrinaggio in Terrasanta
L’aspirazione al superamento delle passioni terrene (amore e gloria) L’ideale di rinnovamento della Chiesa
L’AMORE PER LAURA ■
La passione terrena
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La passione terrena
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Il conflitto interiore
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Il sentimento del tempo
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Dal Canzoniere T1 Solo et pensoso i più deserti campi, XXXV T12 Voi ch’ascoltate in rime sparse il suono, I T13 Era ’l giorno ch’al sol si scoloraro, III T18 Erano i capei d’oro a l’aura sparsi, XC T19 Chiare, fresche et dolci acque, CXXVI T22 Oimè il bel viso, oimè il soave sguardo, CCLXVII T23 La vita fugge, e non s’arresta un’ora, CCLXXII T24 Gli occhi di ch’io parlai sì caldamente, CCXCII T25 Se lamentar augelli, o verdi fronde, CCLXXIX T26 Zefiro torna, e ’l bel tempo rimena, CCCX T27 Rapido fiume che d’alpestra vena, CCVIII
Rerum vulgarium fragmenta: la scelta del volgare per il Canzoniere
LA GLORIA TERRENA ■
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La consapevolezza di sé e la percezione della propria opera La costruzione di un’autobiografia ideale Il rapporto con i contemporanei e con la tradizione letteraria
T2 Posteritati (Seniles, XVIII,1)
6 Francesco Petrarca
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VERSO L’ESAME Per il colloquio interdisciplinare IL PAESAGGIO IN PETRARCA A Partiamo da un documento Osserva questa immagine di Fontaine-de-Vaucluse, luo go particolarmente amato da Petrarca, alle sorgenti del fiume Sorgue in Francia. Puntualizza i collegamenti suggeriti e articolali in un’esposizione orale organica.
B Collegamenti interdisciplinari
Il concetto di “paesaggio” subisce importanti cambiamenti nel Medioevo: il paesaggio europeo è profondamente cambiato dalla rivoluzione agricola dell’anno Mille; la pittura, pur non rendendo ancora protagonista il paesaggio delle opere, lo tratta con maggiore realismo; la letteratura approfondisce ulteriormente il rapporto tra natura esterna e stato d’animo, già ben presente nella tradizione precedente. Letteratura italiana Paesaggio e stato d’animo nei trovatori provenzali Storia Letteratura latina
La rivoluzione dell’anno Mille e gli interventi sul paesaggio
La natura in Lucrezio Educazione civica Storia dell’arte Il paesaggio nell’arte medievale
La tutela del paesaggio
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Il Trecento
Letteratura italiana ❚ I trovatori provenzali approfondiscono il legame tra paesaggio e stato d’animo nelle loro numerose “canzoni di primavera” o “canzoni d’inverno”, in cui la rinascita o la morte della natura circostante rispecchiano la gioia o la delusione legate all’amore. Petrarca riprende da loro il tema e lo dota di una profondità nuova. Letteratura latina ❚ Il proemio del De rerum natura di Lucrezio personifica la natura e la identifica con Venere, dea della generazione e dell’amore, il cui arrivo all’inizio della primavera è salutato con gioia dagli animali, dalle piante e dal cielo. A Venere il poeta chiede la serenità per portare un messaggio nuovo di pace e di speranza, quello dell’epicureismo. Storia ❚ La rivoluzione dell’anno Mille modifica profondamente il paesaggio europeo: soprattutto i monaci, ma anche i proprietari e i mezzadri più intraprendenti promuovono e realizzano bonifiche, dissodamenti e disboscamenti che ampliano di molto la superficie coltivabile. Educazione civica ❚ Oggi il paesaggio è oggetto di definizione giuridica ed è tutelato da leggi dedicate; vi sono poi comportamenti quotidiani che ogni cittadino può attuare per proteggerlo. Storia dell’arte ❚ A partire da Giotto la pittura, pur rimanendo legata ai contenuti religiosi, pratica una raffigurazione più realistica del paesaggio, che gradualmente supera il minimalismo e il simbolismo dell’arte altomedievale.
Giotto, Fuga in Egitto, affresco, 1303-1305. Padova, Cappella degli Scrovegni. Steven Zucker/Flickr. La rappresentazione del mese di Aprile in un affresco attribuito al maestro Venceslao, XIV-XV secolo. Trento, Castello del Buonconsiglio.