LE CARCERI CAPODISTRIANE
Con particolare riferimento ai prigionieri politici nel periodo del governo fascista
Nel 65-esimo anniversario della liberazione dei prigionieri politici nel settembre 1943
Associazione antifascisti, combattenti per i valori della LLN e veterani di Capodistria Settembre 2008
Vlasta BeltramAlcune riflessioni introduttive
Il letterato italiano Silvio Pellico, condannato a morte dalle autorità asburgiche 188 anni fa e successivamente graziato per la sua appartenenza alla Carboneria, trascorse 10 anni della sua vita rinchiuso nella famigerata prigione dello Spielberg. Egli descrisse le sofferenze e le atrocità di questa prigionia nel famoso libro “Le mie prigioni”. Questa trasposizione letteraria della dura vita del carcerato è stata tradotta in molte lingue. Già all’epoca si valutava che il libro fosse per l’Austria molto più dannoso di qualsiasi sconfitta militare ed esso è tuttora una dura condanna della violenza perpetrata sull’essere umano rinchiuso in una cella.
Il lavoro storico di Vlasta Beltram racconta di carceri nostrane, quelle di Capodistria, e non è un lavoro letterario come “Le mie prigioni”, ma è un lavoro molto ben documentato sul carcere con una raccolta di testimonianze di numerosi ex prigionieri - sloveni, croati e italiani antifascisti – che soffrirono nelle sue celle a causa del loro amore per la libertà e del loro spirito ribelle. Si tratta di un resoconto dei tempi passati, ma anche di un monito alle giovani generazioni sul fatto che la libertà non è un qualcosa di scontato, bensì una conquista per la quale molte persone hanno pagato un prezzo altissimo, anche nelle carceri capodistriane. La parte riguardante la storia delle carceri capodistriane è stata divisa dall’autrice in tre periodi. Il primo è quello della monarchia asburgica, in cui il carcere fu costruito, e presenta le dure condizioni imposte allora dallo stato asburgico ai prigionieri, prevalentemente istriani e dalmati. Lo spazio maggiore è riservato al periodo del Regno d’Italia e del terrore fascista, quando i perseguitati politici slavi e gli antifascisti italiani passavano il periodo istruttorio nelle cosiddette “tombe dei vivi” esposti a crudeli torture. Si calcola che nel periodo della Lotta di liberazione nazionale le carceri di Capodistria “accolsero” circa 5.000 prigionieri politici. La crudele storia di questo carcere si concluse nel maggio del 1945, sotto il Governo militare jugoslavo, e ben presto le sue larghe mura divennero una rovina e uno spazio per lo sviluppo della città. La parte più importante della pubblicazione, il capitolo “L’esperienza carcerariatestimonianze individuali”, è però riservato dall’autrice alle testimonianze e alle memorie dei prigionieri politici del periodo tra le due guerre e della seconda guerra mondiale: antifascisti, membri delle organizzazioni di resistenza anche armata dell’anteguerra (TIGR e altre), condannati del Tribunale Speciale per la difesa dello Stato, combattenti della Lotta di liberazione nazionale. Ognuna delle testimonianze è un racconto agghiacciante di torture che avrebbero dovuto stritolare la volontà e la coscienza delle vittime. E “Le nostre prigioni” furono purtroppo vissute da numerosi antifascisti e combattenti della lotta che aprì le porte alla liberazione e all’unione della Primorska e dell’Istria alla patria.
Questa pubblicazione sulle carceri di Capodistria, sulle sofferenze ed i sacrifici dei prigionieri politici e sul loro contributo alla creazione di una Slovenia indipendente e sovrana è un lavoro importante, che ci ricorda quali sono le radici della nostra realtà attuale e ci ammonisce a non sottovalutare, tacere o negare le verità storiche.
Dušan Fortič
LA CASA DI PENA DI CAPODISTRIA
DALLA SUA ISTITUZIONE ALLA SUA DEMOLIZIONE
»/.../ Ricordo ancora l’enorme crocefisso all’ingresso delle carceri di Capodistria, con quella scritta /.../.«
(Alojz Sosič, Opicina, 1915, testimonianza scritta, aprile 1983)
Fin dal loro sorgere, le formazioni sociali provvidero anche alla punizione di chi minava l’ordinamento sociale costituito. Le prime pene consistettero innanzi tutto nell’espulsione dalla comunità dei responsabili di tale condotta, più tardi si fece ricorso alle pene corporali – ad un determinato reato corrispondeva la punizione della parte del corpo che se n’era resa responsabile (ad esempio, il furto era punito con l’amputazione della mano); gli avversari politici ed i responsabili di gravi violazioni delle norme sociali venivano, di regola, condannati alla pena capitale. Con lo sviluppo dello stato di diritto, le pene corporali furono sostituite dalla privazione dei diritti fondamentali dell’uomo e dei beni materiali; il reo era privato della libertà e del patrimonio, un metodo, peraltro, tuttora in vigore. L’applicazione della pena di privazione della libertà richiese il ricorso ad appositi stabilimenti di pena. I loro albori risalgono al medio evo, quando il feudatario, investito dell’autorità giudiziaria, si dotava, a tal fine, nell’ambito del proprio castello, di appositi vani – di celle e di prigioni. Esse erano destinate in primo luogo ai sudditi renitenti alle dazioni obbligatorie, ai cacciatori di frodo, eccetera. Si trattò dei precursori delle carceri moderne, erette al fine di assoggettare tutti
»Lasciate ogni speranza voi che entrate!«
i criminali di una data società ad un controllo.1
Ne furono dotate anche le città, sovente in prossimità delle sedi delle massime autorità cittadine, investite anche della funzione giudiziaria, oppure, a seguito dell’istituzione di appositi tribunali, nei loro pressi.
Nell’Ottocento e nel Novecento comparve un’inedita e massiccia categoria di carcerati – quella dei prigionieri politici. Le carceri furono, beninteso, da sempre colme anche di avversari del principe o del regime di turno, di antesignani e protagonisti dello sviluppo e delle trasformazioni sociali (di innovatori, scienziati, riformatori religiosi), dediti alla demolizione dei modelli sociali esistenti ed unicamente ammessi, ma il più delle volte non vi soggiornarono a lungo, perché costoro venivano di regola condannati alla pena capitale. Il fenomeno raggiunse tuttavia l’apogeo proprio nel corso del Novecento, con l’avvento dei regimi totalitari. I detenuti politici provenivano da tutti i ceti sociali, il loro crimine consisteva nell’azione contro il potere costituito, motivata da divergenze di convinzioni e di interessi politici. Dalle nostre parti, il fenomeno dei detenuti politici, e della persecuzione politica in genere, assunse le più vaste proporzioni durante il regime fascista, quando la popolazione reagì in misura diffusa e con multiformi modalità sia all’azione snazionalizzatrice del regime che all’azione vessatoria del Regno d’Italia nei riguardi delle popolazioni della Venezia Giulia annessa al territorio nazionale.
Le carceri di Capodistria poi, sorte sin dalla prima metà dell’Ottocento, pullularono sempre di detenuti politici – in epoca austro-ungarica ne furono perlopiù vittime gli italiani (carbonari, irredentisti), durante il regime fascista e sotto l’occupazione tedesca ne subirono invece le restrizioni gli sloveni ed i croati della Venezia Giulia come pure gli antifascisti istriani di lingua italiana, un »bacino d’utenza« che nel corso della guerra si allargò anche ai territori jugoslavi occupati ed annessi della Provincia di Lubiana e della Dalmazia.
Ed è precisamente quest’ultima categoria di carcerati ad essere oggetto del presente opuscolo. Vi si affronta la storia delle carceri di Capodistria; di un penitenziario eretto sin dall’epoca della monarchia asburgica, ossia, di uno stabilimento di pena dalle dimensioni tali, da far sì che l’enorme quadrilatero, sovrastato da due torri merlate, marcasse il profilo architettonico della città a guisa di monito intimidatorio rivolto a tutta la popolazione. Scarse sono le fonti archivistiche relative alle carceri, di conseguenza lo schizzo evolutivo non può che mantenersi sulle generali, punteggiato come appare di lacune ed imprecisioni cronologiche. Le sofferenze dei loro detenuti politici durante il regime fascista vi sono invece testimoniate dai brani memorialisti riportati.
La monarchia asburgica
ILe carceri di Capodistria funsero dapprima da penitenziario in cui i condannati dovevano scontare la loro pena. Lo stabilimento penale assunse, nel corso degli anni, diverse denominazioni (Casa di castigo, Penitenziario, Casa di pena, Stabilimento carcerario, Stabilimento penale, Casa di reclusione). Più tardi furono loro attribuite anche le funzioni di carcere giudiziario. La loro gestione fu affidata alle competenze del ministero della giustizia.
Da una lettera del commissario straordinario indirizzata al ministero della giustizia nel 1923 si apprende che lo stabilimento penale capodistriano era stato eretto dalle autorità austriache nel 1850 e precisamente sopra il sedime di un complesso monastico formato da due conventi dismessi – uno più vasto, domenicano, ed uno minore, glagolita, separati l’uno dall’altro da una pubblica via. Sopra il sedime del convento domenicano era stato eretto l’enorme edificio carcerario che racchiudeva dei cortili interni. Esso era dotato di celle carcerarie, d’uffici, di una chiesa, disponeva di un proprio personale
e di tutti i servizi necessari, fra i quali anche un’infermeria. Sull’area dell’ex convento glagolita, lungo l’allora Via Castel Musella, sorgevano invece alcuni edifici minori che ospitavano i detenuti minorenni, diverse officine, mentre il cortile adiacente fungeva da lavanderia e da asciugatoio.2
Vi era una chiesa anche nell’ex convento glagolita, nel quale la liturgia ortodossa era officiata a beneficio dei detenuti provenienti dalla Dalmazia. Di fatto erano stati adibiti a carcere i vani di due conventi che erano stati aboliti dalle autorità francesi nel 1806; un intervento delle autorità austriache che richiese dei rimaneggiamenti e delle integrazioni edili di modesta portata, per far fronte alle nuove esigenze sin dalla prima metà dell’Ottocento, sin dagli anni attor-
no al 1820.3 In una lettera risalente al 1836 le carceri sono indicate come Imperial-regia Casa di castigo.4
L’approvvigionamento idrico delle carceri fu una sfida, alla quale si pose mano con maggior lena solo agli inizi degli anni Sessanta. Nel 1863 fu elaborato un progetto di condotta idrica che avrebbe dovuto convogliarvi l’acqua delle sorgenti in località Campel ai piedi di Pomiano. L’impresa avrebbe dovuto coinvolgere anche le autorità civili di Capodistria, perchè a trarne profitto sarebbe stata la cittadinanza intera.5
L’illuminazione fu inizialmente assicurata da lumi a petrolio, mentre nel 1910 il complesso carcerario si vide allacciato alla rete elettrica.6
I detenuti provenivano dai territori dell’Istria e della Dalmazia, e di conseguenza anche la loro estrazione linguistica appariva quanto mai variegata. Inizialmente vi si utilizzarono i ceppi, sia per gli arti inferiori sia per quelli superiori, le catene ed altri metodi cruenti di restrizione della libertà, che nel corso degli anni Sessanta dell’Ottocento furono aboliti. Spiccava all’epoca l’elevata mortalità fra i detenuti. Pure in seguito all’abolizione degli strumenti di detenzione cruenti le condizioni carcerarie rimasero pessime, al punto da prestare il fianco per ripetuti ammutinamenti. Sin dal 1868 il comune cercò di ovviarvi, ricorrendo ad una guarnigione di 300 soldati.7 Verso la fine di dicembre del 1899 scoppiò fra i carcerati uno sciopero generale che vide i condannati, insofferenti del duro regime carcerario, rifiutare le prestazioni di lavoro inerenti alla gestione diurna ed al funzionamento delle officine interne. L’amministrazione richiese il rinforzo di soldati di stanza a Trieste, mentre il podestà richiese a tal fine lo stabilimento permanente a Capodistria di una guarnigione
3 Slovenska Istra v boju za svobodo (L’Istria slovena nella lotta per la libertà), Koper 1998, edizione aggiornata, pag. 512.
4 Archivio di Stato di Trieste (AST), I.R. Governo del Litorale, Atti Generali (AG), busta (b.) 504.
5 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 73, n. 42.
6 Aldo Cherini, Mezzo secolo di vita a Capodistria / Spoglio di una cronaca giornalistica
1890–1945/, Trieste 1990, pag. 110.
7 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 88, n. 982.
di 80 soldati.8
Verso la fine degli anni Sessanta fu introdotta nelle carceri l’istruzione a beneficio dei detenuti. I giornali locali riportano notizie sugli esami sostenutivi, sugli insegnanti, eccetera, ma soltanto per gli anni Settanta, mentre di vani didattici e del personale docente si fa menzione anche nel 1922.9 Così, ad esempio, si legge che il 21 dicembre 1871 si svolsero, presso le carceri, gli esami per gli allievi dei corsi scolastici, avviati qualche anno prima. Essi furono, infatti, obbligatori dapprima soltanto fino al ventesimo anno di età, dal 1872 in poi, fino al 24° anno d’età.10 Per il 1877 si legge che vi avevano operato due sezioni, ciascuna articolata in due corsi: la sezione italiana vantava 72 allievi, quella slava 129; insegnò presso la prima, Simeone Vascotti, presso la seconda (frequentata perlopiù da contadini dalmati analfabeti), Matteo Cristofich; le materie di studio furono religione, lingua materna, storia e geografia austriache, fisica, aritmetica, canto e disegno; accanto ai due insegnanti citati vi insegnarono due sacerdoti cattolici (Giorgio Zubranich e Biagio Glavina) ed un greco ortodosso, Vladimiro Kordich.11
Relativamente precoce fu anche l’introduzione di provvidenze a favore dei detenuti rilasciati – nel 1861 fu infatti istituito un comitato di assistenza ai reduci dal carcere, domiciliati nel comune di Capodistria.12
I carcerati che scontavano la pena detentiva venivano addetti ai lavori nelle officine del penitenziario, ma erano tenuti a prestazioni lavorative anche nell’ambito di molteplici lavori pubblici esterni.
Furono, ad esempio, così impiegati anche nella costruzione del terrapieno e della strada che collega Capodistria a Semedella, nonché nei lavori di manutenzione della Riva Lunga che collegava Isola a Capodistria.
8 AST, I.R. Luogotenenza del Litorale, Atti Presidiali, b. 230, 1/17.7.
9 AS 1792 (Archivio della Repubblica di Slovenia), Direzione degli Istituti di Pena di Capodistria, Ordini del Giorno del Penitenziario 1922–1923, ordine n. 7.
10 La Provincia, 1. 1. 1872.
11 L’Unione, 25. 12. 1877, št. 6. La dizione »greco-ortodosso« si riferisce di fatto alla liturgia ortodossa.
12 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 65, n. 842 – bozza dello statuto.
Nel marzo del 1915 le autorità austriache evacuarono le carceri; detenuti, impiegati e personale di sorveglianza furono trasferiti a Maribor.13 II
Una prigione funzionò anche in uno degli angoli al pianterreno di Palazzo pretorio. Da una lettera del commissariato distrettuale di Capodistria dell’aprile 1836 si apprende dell’esistenza di tre vani, destinati agli indagati per reati comuni e politici in fase istruttoria, e di due vani (distinti per uomini e donne), destinati a chi doveva scontare pene detentive per infrazioni (debiti insoluti, contrabbando, ecc.). Le condizioni carcerarie insalubri (l’umidità, l’assenza di luce diretta e di ventilazione) generavano un alto tasso di morbosità, perciò si pose mano ad un progetto di ampliamento delle carceri e di miglioramento delle condizioni di vita dei detenuti.14
Il Regno d’Italia
Nel 1919, le autorità italiane provvidero alla riapertura dello stabilimento principale del penitenziario per scopi detentivi (nel 1922 fu inoltre introdotto il Regolamento, vigente nel resto del territorio del Regno); furono invece abbandonati i vani dell’ex convento glagolita. Negli anni 1920–1921 fu demolita gran parte del maggiore dei suoi edifici, mentre il resto del complesso fu destinato alle esigenze dell’11° Reggimento di fanteria.15 Venne inoltre abolita la liturgia ortodossa, per la presunta assenza di detenuti provenienti dalla Dalmazia, mentre sei quadri ed il lampadario della chiesa di San Gregorio sarebbero stati affidati alle cure dell’allora Civico mu-
13 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 396, n. 1541.
14 AST, I.R. Governo del Litorale, AG, b. 504.
15 Ibidem
seo di Storia ed Arte.16
Fino alla fine della guerra operarono nel complesso carcerario diverse officine, al cui fabbisogno di manodopera sopperirono esclusivamente i condannati che vi scontavano pene detentive. Data la penuria di manodopera durante la guerra, i detenuti furono assegnati a diverse imprese esterne.
Le carceri nell’appendice di Palazzo pretorio funsero a quell’epoca da carcere femminile. Durante il primo decennio del regime fascista, tali necessità non dovettero apparire pressanti, se nel 1931 il ministero della giustizia decise di disfarsene, affidandoli al comune, e di ricorrere, all’uopo, alle carceri triestine.17 Più tardi furono riaperti e nel corso della guerra si rivelarono sovraffollati. Funsero allora anche da tappa di transito delle detenute politiche provenienti dai territori jugoslavi occupati dall’esercito italiano e destinate ad istituti di pena dell’interno dell’Italia. Verso la fine del 1942, il ministero chiese al comune di poter utilizzare, a tal fine, altri vani adiacenti ed il cortile stesso.18
Le carceri di Capodistria, dotate dello statuto sia di carcere giudiziario, sia di istituto di pena, accolsero un numero crescente di detenuti politici, persino preponderante, nel corso della guerra. Vi trascorsero periodi più (nel corso delle indagini) o meno lunghi (come in occasione delle paventate celebrazioni clandestine del Primo Maggio, di visite in loco di gerarchi di spicco o di altri eventi politici di rilievo). Altri stabilimenti carcerari operarono, entro un breve raggio, a Trieste (le carceri del Coroneo, quelle Ai Gesuiti), a Gorizia ed a Fiume, ma nelle testimonianze memorialistiche ricorre spesso la considerazione che fu proprio quello di Capodistria a goder della pessima fama. Incutevano terrore le celle d’isolamento disumane, dette »tombe dei vivi«, deputate a rendere gli inquisiti più malleabili alla vigilia degli interrogatori. Prima della guerra gli interrogatori si svolsero presso la questura, oppure, come nel caso degli inquisiti ritenuti più pericolosi, anche presso la stazione dei Carabinieri di
16 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 389, n. 1718.
17 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 474.
18 SI PAK KP 7, Comune di Capodistria, u. t. 680.
Semedella; durante la guerra invece, essi ebbero luogo presso lo stabilimento carcerario stesso. Gli interrogatori furono, il più delle volte, accompagnati da torture proporzionali alla gravità del reato politico imputato. La maggior parte dei detenuti politici era d’origine slava, proveniente da tutta l’area della Venezia Giulia; seguivano, per incidenza, gli antifascisti italiani dell’Istria. La conquista da parte italiana di territori jugoslavi nel corso della seconda guerra mondiale, estese il bacino di provenienza dei carcerati e dei detenuti in stato d’arresto, facendo registrare un afflusso anche dai territori occupati ed annessi della Provincia di Lubiana e della Dalmazia. Lo stabilimento carcerario fu così investito anche di un ruolo inedito – quello di tappa di transito di numerosi detenuti politici (uomini e donne), condannati dinanzi alle corti marziali nei territori occupati e destinati alle carceri all’interno del paese. Essendo disponibili, per le carceri di Capodistria, soltanto modeste fonti d’archivio, sarà probabilmente impossibile giungere mai a dei dati quantitativi conclusivi sul numero dei detenuti politici di qualsiasi nazionalità, transitati attraverso quell’istituto di pena. Dovette tuttavia trattarsi in ogni caso di un numero assai consistente, posto che la sua capienza ufficiale era di 2.100 detenuti e considerando che nel corso della lotta di liberazione vi avrebbero soggiornato fino a 5.000 detenuti.19 In un censimento conservato presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia, si riportano, per il 1943, ben 7.500 posizioni carcerarie per altrettanti detenuti (il dato si riferisce sia alle carceri maschili, sia a quelle femminili).20
Non è difficile immaginarne le condizioni di vita carcerarie.
Trascorsero giorni da incubo nelle carceri di Capodistria, subendovi cruenti interrogatori, anche gli inquisiti, gli imputati ed i condannati ad alcuni processi che ebbero grande risonanza pubblica: fra essi, quello ai partecipanti alla sollevazione di Maresego del 15 maggio 1921 (la spontanea ripulsa, da parte degli inermi abitanti
19 Salvator Žitko, Koprski zapori. (Le carceri di Capodistria, NdT) – In: Bili so zaprti, pregnani, obešeni, ustreljeni, na suženjskem delu, uporni / Vodnik po koncentracijskih taboriščih in zaporih, Ljubljana 1980, pag. 123–125.
20 AS 1792, Carceri giudiziarie, t. e. 3.
di Maresego e delle frazioni del circondario, dell’incursione degli squadristi capodistriani il giorno delle elezioni politiche), nonché quello ai militanti dell’organizzazione clandestina triestina di resistenza nazionale Borba nel settembre del 1930, imputati dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, convocato in via eccezionale a Trieste (fra essi, i quattro condannati alla pena capitale e fucilati al poligono di Basovizza), nonché quello agli antifascisti, di svariata estrazione politica, imputati, ancora una volta a Trieste, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nel dicembre del 1941 (con l’esecuzione di cinque condanne capitali presso il poligono di Opicina). Accanto a loro si snodò, va da sé, una lunga teoria di antifascisti locali, nonché, nel corso della guerra, di attivisti del Fronte di Liberazione del popolo sloveno (Osvobodilna fronta / OF) e di militanti nelle formazioni partigiane.
Nel corso dell’occupazione tedesca, le autorità germaniche misero in funzione, presso l’istituto carcerario, alcune officine, mentre i fascisti capodistriani, al servizio delle autorità militari tedesche, vi rinchiusero gli attivisti ed i partigiani catturati per sottoporli ad interrogatori prima che i tedeschi li assegnassero alle carceri triestine del Coroneo, alla Risiera di San Sabba o li trasferissero ai campi di concentramento nazisti.
La liberazione dei detenuti nel settembre del 1943
L’armistizio, reso pubblico l’8 settembre, accese le speranze di una sollecita liberazione dei detenuti. Esse rimasero tuttavia deluse. Il 9 ed il 10 settembre, i parenti dei detenuti originari dei villaggi circostanti organizzarono delle manifestazioni per rivendicare la liberazione dei carcerati. Contestualmente, i detenuti stessi si ammutinarono, ottenendo la liberazione dei detenuti originari dai villaggi del circondario, mentre quelli di nazionalità italiana erano stati rilasciati in precedenza. In un telegramma dell’11 settembre, indirizzato dal commissario di pubblica sicurezza di Capodistria al Questore di Pola, lo scrivente motivò la decisione di rilasciare i detenuti locali: il giorno prima i militari italiani avevano disertato in massa di fronte all’avanzata dell’esercito germanico, mentre la gente s’appropriava delle armi, delle uniformi e delle vettovaglie abbandonate, ponendo con ciò a serio rischio l’ordine pubblico. Al tempo stesso, congiunti ed amici dei detenuti politici ne rivendicarono la liberazione. Di fronte alla situazione incerta, alla scarsità di forze a sua disposizione ed all’eventualità che la protesta di massa potesse sfociare in una sollevazione generale dei detenuti e nella loro evasione, dispose il rilascio degli arrestati.21
Una sorte ben peggiore spettò ai detenuti originari di altre regioni. L’invasore tedesco ne dispose, da lì a poco, la deportazione. Le donne, che avevano scatenato una rumorosa protesta volta ad ottenere la liberazione, furono trasferite, il 15 settembre, nelle carceri maschili, per venir due giorni dopo avviate alle carceri di Venezia ed altrove in Italia. Il 26 settembre un gran numero di detenuti maschi fu deportato verso i campi di concentramento germanici. Il giorno seguente la popolazione locale dei villaggi del circondario, con la manforte dei partigiani croati (il primo battaglione della 2° brigata croata, che in quel frangente presidiava quel territorio) liberò i detenuti rimasti, e nei giorni che precedettero l’inizio dell’offensiva tedesca, scatenata il 2 ottobre, asportarono dalle carceri un’enorme quantità di materiale che fu dapprima custodito presso
gli edifici scolastici dei villaggi circostanti, per venir quindi inoltrato a Pinguente.
Circa le modalità dell’azione che condusse alla liberazione dei detenuti di Capodistria, uno dei partecipanti, Nazarij Bordon, della frazione di Cesari, conserva il seguente ricordo:
»La sortita avrebbe dovuto svolgersi il 26 settembre. Fu in quel giorno che i combattenti si dettero appuntamento a Pobeghi, alle 8 del mattino. Ci dividemmo per manipoli e ci dirigemmo verso Capodistria. Fui designato a recarmi in avanscoperta sul monte sopra Pobeghi. Ben presto scorsi tre navi, salpate da Trieste alla volta di Capodistria. Corremmo ad avvertire l’unità che intercettammo nei pressi di Prade. Le navi apersero il fuoco in direzione di Bertocchi. Tornai assieme ad uno dei manipoli a Cesari, dove la mattina successiva venne a cercarmi Vincenc Kocjančič (membro del comitato distrettuale del Partito Comunista Sloveno per la
zona dei Brkini e dell’Istria slovena, NdA), perché lo affiancassi nell’operazione volta a liberare i detenuti nelle carceri di Capodistria. Strada facendo aggregammo a noi un gruppo di persone e ci dirigemmo a Capodistria. Assieme al Kocjančič ed a qualche attivista di Bertocchi bussammo alla porta delle carceri di Capodistria. Esigemmo che ci aprissero e ci consegnassero le chiavi delle carceri. Dopo una breve trattativa ottenemmo lo scopo: il custode ci aprì la porta e ci consegnò le chiavi. Dall’una del pomeriggio alle undici di sera si snodò poi un viavai di camion, carichi di materiali sequestrati all’istituto di pena e smistati presso le sedi scolastiche di Monte, Maresego, Cesari, Prade e Sant’Antonio. Caricammo sul camion anche dei fascisti capodistriani: il direttore delle carceri, il maresciallo dei carabinieri, il veterinario, i fratelli Almerigogna, il maestro Zetto. Furono dapprima trasferiti a Maresego, quindi a Pinguente, dove tuttavia i tedeschi provvidero ben presto a rimetterli in libertà.«22
Nel volume Slovenska Istra v boju za svobodo (L’Istria slovena nella lotta per la libertà, NdT) lo svolgimento degli eventi è stato così integrato, sulla scorta di alcune fonti memorialistiche: il medico capodistriano Giovanni Paruta, incaricato anche del servizio medico carcerario, usava nascondere i prigionieri politici sloveni coprendoli con delle lenzuola ed asserendo che si trattava di malati gravi. Nelle ore notturne del 25 settembre i tedeschi trasferirono numerosi detenuti politici, a bordo di una nave, per associarli alle carceri triestine del Coroneo. Ne rimasero circa 200, in attesa di subire una sorte analoga, perciò il comitato distrettuale del PCS per la zona dei Brkini e dell’Istria slovena, dette avvio all’azione volta a liberarli e portata a buon fine dai villici delle frazioni del circondario, coadiuvati dai partigiani croati. Una volta entrati e liberati i detenuti, fecero schierare di fronte ad essi il personale carcerario, per consentire il riconoscimento, in quei ranghi, degli aguzzini più feroci.23
22 Testimonianza scritta, raccolta da Vlasta Beltram nell'agosto del 1980, Archivio del Museo Regionale di Capodistria /Archivio del MRC/.
23 Slovenska Istra v boju za svobodo, op. cit., pag. 356–357.
Il governo militare dell’Armata jugoslava
L’imponente edificio sopravvisse per soli tre anni alla fine della guerra. Nel maggio del 1945 vi erano stati rinchiusi dei prigionieri di guerra tedeschi (vi furono fra loro anche gli appartenenti all’organizzazione di lavoro coatto tedesca TODT di Villa Decani),24 ma non funse più da istituto carcerario. Vi operarono una falegnameria ed un’officina meccanica e, dal novembre 1946, anche una filatura. Vi elessero inoltre sede diverse organizzazioni e piccole imprese che vi perseverarono addirittura qualche anno dopo che nel 1948 ne era stata avviata l’opera di demolizione. Il materiale edile ricavatone fu perlopiù riutilizzato per la costruzione delle sedi cooperative che sorsero, a quel tempo, e si diffusero massicciamente in tutte le frazioni. Sopra l’area nord-orientale del sedime del complesso carcerario fu avviata la costruzione della scuola elementare slovena ed italiana; il 21 luglio 1949 si svolse la cerimonia della posa della prima pietra. Sul resto del sedime sorsero più tardi un grattacielo e la sede degli uffici postali.
L’ESPERIENZA CARCERARIA TESTIMONIANZE INDIVIDUALI
»Fino al 1945, anno della liberazione, qui si ergevano le tetre mura delle carceri di Capodistria. Nelle loro oscure celle numerosi combattenti per la libertà ebbero a sopportare pene strazianti ed anche la morte perché tu, uomo libero in patria libera, possa passare libero per questa via. Ricordati il loro spirito indomito e il loro umano pensiero che distruggevano le prigioni, e difendi libero il cammino della patria tua e del tuo popolo! /.../.«
/Ciril Kosmač, 1959, dedica apposta sull’edificio scolastico, ed eretto sopra il sedime dell’ex complesso carcerario, inaugurato nel 1951 e demolito nel 2008, iscritta su una lapide, custodita attualmente presso il Museo Regionale di Capodistria/
Si ebbero, in passato, diversi tentativi, sia nelle file delle organizzazioni combattentistiche che in collaborazione con il museo di Capodistria, tesi a raccogliere il maggior numero di testimonianze possibile presso gli ex-detenuti politici che avevano saggiato sulla propria pelle i trattamenti inumani loro riservati dal terribile regime carcerario capodistriano, con l’obiettivo di trarne del materiale memorialistico per una pubblicazione autonoma. Fu così che il Museo Regionale di Capodistria assemblò un fascicolo di testimonianze in forma di dichiarazioni scritte. La loro pubblicazione nell’opuscolo che il lettore ha sott’occhi, assolve il debito contratto con tutti i testimoni che si sono presi cura di vergare le proprie memorie, convinti che i posteri avrebbero un giorno potuto leggerle. Le testimonianze coprono un lasso di tempo che assomma il periodo fra le due guerre e quello della seconda guerra mondiale. La loro lettura consente di comporre un quadro piuttosto esauriente sia del complesso carcerario e del suo funzionamento, sia degli stati d’animo dei detenuti e delle torture da loro subite per aver opposto resistenza al fascismo ed alla sua opera di snazionalizzazione.
Avgust Primožič (Cesari, 1914),
antifascista e comunista d’anteguerra, subì a più riprese la detenzione nelle carceri di Capodistria: fu arrestato la prima volta nel luglio del 1932, perché sorpreso a trasportare una macchina dattilografica per le necessità del ciclostile clandestino, allestito a Gabrovica; nel 1938 fu arrestato, perché riconosciuto in una fotografia che ritraeva un gruppo di ragazzi locali che assieme a lui salutava a pugno chiuso; quindi, ancora, in occasione dell’entrata dell’Italia in guerra il 10 giugno 1940 ed in occasione dell’aggressione alla Jugoslavia il 6 aprile 1941 ed inoltre, alcune volte, in concomitanza del Primo Maggio o della visita di alti gerarchi in Istria.
»Sin dalle immagini fotografiche conservatesi è possibile capacitarsi, di quanto fosse enorme il complesso a tre piani delle carceri di Capodistria, che si poteva allora scorgere da imbarcazioni ancora al largo sull’orizzonte. La facciata, costeggiata dal Belvedere, era lunga quasi una settantina di metri, mentre era di poco più stretta verso mezzogiorno. Lungo il versante meridionale vi furono più tardi accostati edifici accessori. Sul versante occidentale avevano sede, a pianterreno ed ai piani superiori, officine tessili e di altro genere, mentre all’angolo meridionale vi erano gli uffici dell’amministrazione e l’entrata principale. Un’altra entrata, destinata probabilmente al passaggio dei carichi di vettovaglie, si trovava sul lato settentrionale.
Le ali del complesso racchiudevano al loro interno il cortile per ‘l’aria’ dei detenuti, compartimentato da pareti. Sul lato meridionale sorgeva la chiesa, ed accanto ad essa, all’interno, l’infermeria con l’astanteria per i detenuti. Sul versante sudorientale fu più tardi eretto un edificio a due piani di dimensioni più ridotte, in cui furono allestite le celle d’isolamento. Se ne potevano contare circa 18; sotto, invece, il corridoio sfociava in una cappella. Dal piccolo cortile, destinato all’aria dei detenuti in cella d’isolamento, si potevano scorgere l’ingresso alla chiesa e la facciata dell’astanteria.
Varcata la soglia d’entrata principale, un corridoio costeggiava i vani della cucina. Da segnalare inoltre, che i corridoi comunicavano fra di loro lungo tutta la circonferenza del complesso. Interessante era anche la veduta che dal corridoio al pianoterra si apriva sul versante orientale, sui sotterranei delle cellule d’isolamento, strumento delle pene detentive più severe. Ve n’erano forse una decina. Ciascuna era dotata di un breve corridoio a forma di lettera L, la quale impediva al detenuto la visuale del passaggio, nonostante la porta della cella fosse dotata di uno spioncino sbarrata da una grata. Nelle celle un lumino era costantemente acceso e dalle pareti pendevano, murati, degli anelli di ferro. Lungo quel corridoio gli indagati erano condotti agli interrogatori presso i vani al pianterreno del lato orientale.
In queste carceri, destinate soprattutto a quanti dovevano scontare le pene detentive più lunghe, compresi gli ergastolani, vi
erano pure detenuti politici, ma soltanto per il periodo in cui si svolgevano le indagini a loro carico. I detenuti veri e propri erano soprattutto criminali comuni. I carcerati erano distribuiti in grandi cameroni che ne potevano contare una dozzina e più. Durante la giornata venivano assegnati ai lavori.
Per ragioni di sicurezza, il personale di sorveglianza perlustrava i reparti la mattina e la sera, munito di una scala a pioli, retta da un detenuto, cella per cella, saggiando con una barra di ferro le inferriate delle finestre, alla ricerca di eventuali segni di manomissione. Questa rumorosa verifica aveva luogo simultaneamente in tutti i reparti, sollevando un frastuono che sembrava amplificare un ferrigno gracchiare di rane.
Notammo fra i custodi due soli sloveni del posto (Križman di Sant’Antonio e Kocjančič da Truscolo), per il resto si trattava di italiani. La mia descrizione si riferisce al periodo 1930–1940.«25
Dall’articolo:
La vita dei nostri arrestati nelle carceri italiane
»/…/ Anche il carcere di Capodistria, un vecchio castello riadattato (recte: un ex-convento, NdA), piuttosto idoneo all’uopo, ma non per i detenuti politici. Questi vengono di solito gettati nelle cosiddette celle di rigore che sono completamente interrate, prive di finestre, mai illuminate da un solo raggio di sole perché le celle sono separate dal lato esterno dell’edificio da lunghi corridoi. Queste celle sono terribili e soltanto chi le ha sperimentate riesce a farsene un’idea. Sono larghe non più di un metro e mezzo e lunghe quel tanto che consente ad una persona di media statura di compiere tre passi e mezzo dopo aver appreso a far correttamente dietro-front, altrimenti cade preda di vertigini che si manifestano dopo soli pochi passi. Soltanto in una nicchia sopra l’uscio di ferro luccica giorno
e notte un lume. I detenuti spesso non sanno se sia notte o giorno e si orientano nel tempo soltanto grazie alla razione che viene servita attorno a mezzogiorno, poiché in quelle tane non giunge neppure il suono del campanello né quello delle campane. /…/«26
Ernest Vatovec - Amedej (Cesari, 1902),comunista d’anteguerra (dal 1925), dal settembre 1943 fino alla fine della guerra fu attivista distrettuale e circondariale dell’OF nell’Istria slovena e nella circoscrizione del Litorale meridionale; fu condannato a complessivi 16 anni di detenzione, dei quali 9 scontati in carcere e 3 al confino.
»/…/ I primi giorni di febbraio del 1929 fui arrestato e rinchiuso nelle carceri di Capodistria. Sin dal primo giorno fui tradotto in cella d’isolamento. Patii un freddo cane, ovunque una grande umidità, unico foro – una piccola feritoia, attraverso la quale ci veniva passata la razione di cibo. Vi rimasi una settantina di giorni. Dopo settanta giorni iniziai uno sciopero della fame e per due giorni mi rifiutai di mangiare. Dopo un colloquio con il sorvegliante Steffè, un capodistriano, fui trasferito in un’altra cella, più asciutta, ma zeppa di cimici. Trascorsi in carcere sette mesi; tutta la fase delle indagini. Il cibo era misero ma sufficiente. Ce ne portavano anche i parenti, consegnandolo al sorvegliante, poiché ogni contatto con i famigliari era vietato. Il giudice che mi interrogò venne appositamente da Roma. Personalmente non subii, a differenza di molti altri carcerati, interrogatori notturni. Né subii percosse od altri maltrattamenti. Dopo l’interrogatorio, al quale negai ogni addebito, fui tradotto a Roma. Fu lì che mi condannarono, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, a quattro anni di detenzione, scontati a Firenze ed a Civitavecchia /…/«.27
26 Istra, glasilo Zveze jugoslovanskih emigrantov iz Julijske krajine (Istra, organo della Lega degli emigrati jugoslavi dalla Venezia Giulia, NdT), 28/10/1932, n. 44, pag. 4.
27 Testimonianza scritta, aprile 1984, Archivio del MRC.
Jože Vergan (Popetre 1904),
antifascista d’anteguerra, comunista, combattente di Spagna. Fu arrestato per la prima volta il 17 maggio 1921 per aver partecipato, il 15 maggio di quell’anno, nel giorno delle elezioni parlamentari, alla sollevazione dei villici di Maresego contro la violenza fascista accanitasi contro il seggio elettorale di Maresego.
»Il primo marzo del 1929 fui arrestato e condotto alle carceri di Capodistria, assieme ad una settantina di compagni provenienti dall’Istria slovena; in tredici dovemmo sostenere il giudizio dinanzi al Tribunale Speciale a Roma.
Quella terribile prigione era suddivisa in tre parti: la prima comprendeva i vani comuni e le officine, la seconda le celle d’isolamento, la terza infine le celle sotterranee – le celle della tortura, delle sofferenze e della morte. Tutti i carcerati, fossero essi in stato d’arresto o detenuti che scontavano la pena, le chiamavano le celle della morte.
Per tre giorni ed altrettante notti subii, nella sede della questura di Capodistria, incessanti interrogatori e sevizie. Le percosse ed i calci ricevuti mi fecero più volte perdere la conoscenza; con dei ceri mi bruciarono le unghie delle mani e dei piedi, ecc. Quando ne ebbero abbastanza, i fascisti mi scortarono alle carceri. Fui affidato ad un direttore, incaricato di compiti speciali. Mi fecero di nuovo perdere i sensi e mi rinchiusero in una delle famigerate celle sotterranee, nella quale trascorsi sei mesi. La cella era lunga un metro e mezzo, larga uno e venti. Era un vano interrato e quindi privo di finestre od altra fonte luminosa, mentre l’acqua non cessava di gocciolarmi sulla testa, sugli indumenti, sulla coperta e sul pagliericcio. Ovunque acqua ed umidità. Mi fu negato ogni diritto, pur previsto dal regime carcerario – le cure sanitarie, la corrispondenza con i famigliari, le visite, l’acquisto di generi alimentari. Più volte accadde che i secondini portassero quella brodaglia nera, per versarla poi semplicemente a terra, incapaci, in quelle tenebre, di
distinguere la ciotola che tendevo. Loro poco importava; se ne andavano, mentre io rimanevo a raccattare da terra il recuperabile, perché ero attanagliato dalla fame.«28
Vekoslav Španger (Prosecco, 1906),
membro dell’organizzazione clandestina triestina Borba, condannato al primo dei due megaprocessi triestini del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nel settembre del 1930, a trent’anni di carcere.
»Rimasi nelle carceri di Capodistria dal 4 aprile al primo maggio del 1930. Fui rinchiuso nella cella numero 1, l’ultima, al pianterreno. Dopo due interrogatori condotti da un giudice speciale dell’OVRA,29 fui condotto, la notte dal 16 al 17 aprile, ammanettato e bendato, alla stazione dei carabinieri di Semedella. M’inflissero un sacco di percosse ed il supplizio del pediluvio in acqua bollente. Il mattino successivo fui ricondotto alle carceri di Capodistria, dove rimasi fino al primo maggio. Soggiornarono in quel periodo, nelle carceri di Capodistria, fra gli altri, anche Franjo Marušič, Zvonimir Miloš e Lojze Valenčič, essi pure torturati presso la stazione dei carabinieri di Semedella, più tardi condannati a morte, al primo dei due megaprocessi triestini dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, e fucilati, il 6 settembre 1930, al poligono di Basovizza /…/.«30
Vladimir Štoka (Contovello, 1910),
militante dell’organizzazione clandestina Borba, condannato al primo dei due megaprocessi triestini dinanzi al Tribunale Speciale per
28 Testimonianza scritta, 3/10/1959, Archivio del MRC.
29 OVRA – Organizzazione Vigilanza Repressione Antifascismo.
30 Testimonianza scritta, 1959, Archivio del MRC.
la Difesa dello Stato, nel settembre del 1930, a vent’anni di carcere; grazie all’amnistia, fu rilasciato nel 1939, il che gli consentì di riparare a Maribor e, nel corso della guerra, a Zagabria, dove fu arrestato, condotto dapprima alle carceri romane, ed infine a quelle triestine del Coroneo; rilasciato il 10 settembre 1943, raggiunse senza indugi le file partigiane, per cadere, due giorni più tardi, nei pressi di Comeno, colpito da una scheggia di granata.31
Fu rinchiuso, assieme a Vekoslav Španger ed ai quattro compagni, in seguito fucilati al poligono di Basovizza, nel corso delle indagini che prelusero al primo dei due megaprocessi triestini dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, nelle carceri di Capodistria, e torturato presso la stazione dei carabinieri di Semedella. A proposito delle torture subite a Semedella, egli depose, nelle note autobiografiche, la seguente testimonianza.
»Sulla soglia d’ingresso delle carceri m’attendeva un’automobile, la stessa, se ben ricordo, che mi aveva condotto a Capodistria. Fui trattenuto sulla soglia di una stanza, mentre qualcuno della scorta bussò – l’uscio si aprì di colpo – e io vi fui scaraventato. Ebbi appena il tempo di rendermi conto del buio pesto che vi regnava, che mi ritrovai in men che non si dica gli occhi bendati da un asciugamano ben stretto sulla nuca ed i polsi ammanettati sulla schiena. Mi calarono sul capo un impermeabile e senza proferir parola fui spinto a bordo dell’automobile che, percorse alcune vie di Capodistria, raggiunse la strada principale. /…/ Pensai che m’avrebbero scortato a qualche stazione ferroviaria per quindi tradurmi a Roma, facendo scomparire ogni traccia di me. Chi avrà occasione di leggere queste memorie, potrà forse pensare che quanto sto dicendo sia il mero frutto di una fertile immaginazione. Non auguro a nessuno di dover provare di persona queste verità. Vi assicuro che non invento, né esagero nulla. Chi ha avuto esperienza dei trattamenti di polizia, non avrà difficoltà a credere, chi invece non ha avuto questo triste onore, sia grato alla propria sorte.
Dopo un percorso durato alcuni minuti, la vettura s’arrestò, alcuni scesero e li sentii confabulare. Non capii nulla. Qualcuno, tuttavia, continuava a sedemi accanto. Chiesi che mi fosse allentato il bendaggio perché potessi respirare meglio. /…/ Inoltre, un crampo m’aveva attanagliato la mano sinistra a causa del laccio troppo stretto. Non gli permisero né di togliermi la benda né di sciogliermi i polsi. Dovetti tuttavia fargli pena, perché si prese la cura di sciogliermi il crampo al muscolo del braccio che mi procurava un dolore lancinante. Intanto sopraggiunse una motocicletta che si arrestò accanto a noi. Sentii le seguenti parole: ‘Sono partiti anche loro, fra dieci minuti saranno qui. Bene. Procediamo. Guidaci tu, con calma.’ Avanzammo di alcune centinaia di metri per poi fermarci. Dopo aver sentito quel breve scambio di battute, mutai d’avviso sull’esito di quell’escursione notturna. Non ebbi difficoltà a capire che non eravamo diretti a Roma. Ne ebbi conferma anche da alcune parole sibilatemi da qualcuno che mi aveva aiutato a scendere dalla vettura: ‘Spicciati, brigante. Non star lì a poltrire!’ Varcata una soglia, mi furono liberati i polsi, ma non gli occhi. Dinanzi a me s’aprì una porta, entrai, o meglio, vi fui sospinto, per cadere in braccio ad un energumeno che in un attimo mi acciuffò per i capelli e mi chiese: ‘Sai cosa ha fatto Miloš?’ ‘Io non so nulla.’ ‘Bene, ci penseremo noi a rinfrescarti la memoria, maledetto dinamitardo sloveno!’
Quella fu quindi la scena d’esordio di quel fatale 15 aprile 1930, perché ritengo che doveva esser ormai passata mezzanotte. Non mi attarderò a descrivere per filo e per segno tutti i dettagli di quella fatidica notte. Basti dire che pretesero da me e da Španger dichiarazioni precise a proposito di quanto andava sostenendo la signora Frančeškin.32 Per raggiungere lo scopo, ricorsero a sistematiche percosse e torture. Io fui dapprima denudato fino alla cintola, due di loro mi stirarono le braccia, mentre altri due mi colpirono con i pugni sul dorso e sul petto. Non si contarono i man-
rovesci, gli strappi di capelli e di orecchie, gli sputi, eccetera. Lo stadio successivo prevedeva il ricorso all’acqua bollente. Fui fatto entrare a piedi nudi in una bacinella d’acqua bollente. Balzatone fuori per il dolore, si misero a percuotermi i piedi ustionati con delle verghe, fino a renderli completamente tumefatti. Poi, altra acqua bollente, seguita dal dolore insopportabile provocato dalle scudisciate di una verga sottile. Il tutto si susseguì ad intervalli più o meno brevi, poiché io e lo Španger ci avvicendammo in quel supplizio che durò fino alle cinque del mattino. Poi smisero. Conseguenza di quelle percosse fu l’ammissione, mia e dello Španger, di appartenenza all’organizzazione, accompagnata alla negazione di ogni addebito in relazione all’attentato alla redazione del ‘Popolo’. Io fui rinchiuso in una cella adiacente al vano nel quale eravamo stati torturati. A mattino ormai inoltrato, saranno state le nove o più tardi ancora, udii Marušič urlare dal dolore. Era giunto il suo turno. Ebbi l’impressione che non fosse rimasto a lungo sulla graticola, perché da lì a poco lo sentii proclamare ad alta voce, nel corridoio, la propria innocenza. Buon segno! Non aveva cantato. Chiamarono qualcun altro. Cercai di ovviare ai dolori fisici, accovacciandomi sul tavolaccio in maniera da poter udire, con l’orecchio appiccicato alla parete, cosa succedeva nella stanza accanto. Sentii distinte le grida dell’inquirente, lo stesso che aveva interrogato me, e il rumore dei colpi, nessun grido, il trambusto delle sedie. Poi di nuovo silenzio. Non avendo udito, di chi dei nostri fosse giunto il turno, ne dedussi che l’interrogato doveva aver perso i sensi e che stessero brigando per farglieli riprendere.«33
33 Tratto dall'opuscolo Srečanje / Utrinki iz fašističnih ječ in taborišč smrti (Incontro, Ricordi dalle carceri fasciste e dai campi della morte, NdT), Koper - Capodistria 1970, pag. 14–16.
Zorko Jelinčič (Log pod Mangartom, 1900),
pubblicista, formatosi negli ambienti dei giovani liberali, fu dirigente ed iniziatore dell’organizzazione clandestina TIGR – da lui fondata nel 1927, sul monte Nanos, in collaborazione con Albert Rejec. Arrestato nel 1930, subì una condanna da parte del Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato a vent’anni di carcere (pena scontata a Civitavecchia, San Gimignano ed a Siena); amnistiato, fece ritorno a casa dopo nove anni. All’entrata dell’Italia in guerra, nel giugno del 1940, fu nuovamente arrestato, internato ad Isernia, donde, a seguito dell’armistizio, fuggì per raggiungere, dopo varie vicissitudini, Bari, dove verso la fine di marzo del 1944 aderì al movimento partigiano jugoslavo.
»Fui arrestato il 15 marzo 1930 e tradotto, il giorno successivo, alle carceri di Capodistria, dove rimasi, in regime di severo isolamento, fino al 19 aprile. Fui immediatamente condotto in alto, credo al terzo o al quarto piano, in uno spazioso salone /…/. Rimasi là fino alla fine del mese circa, senza poter mai uscire dalla stanza. Persino l’unica finestra, sbarrata ovviamente da un’inferriata, era stata otturata con assi inchiodate. Una ciotola di minestra ed un pezzo di pane furono l’unico alimento che ricevetti in quel carcere. A spese proprie potei poi acquistare qualcosina allo spaccio soltanto negli ultimi giorni di permanenza. Mi fu, beninteso, impedito
di scrivere, leggere o ricevere lettere. Soltanto dopo circa un mese ricevetti da mia moglie, Fanica Obid, un foglio, trasmessomi per il tramite della questura, con il quale mi comunicava di non saper neppure dove mi trovassi e se fossi ancora in vita. Mi fu dato un pezzo di carta perché potessi fornire a mia moglie, per quello stesso tramite, qualche notizia su di me.
Fu ai primi di aprile che venni condotto in una cella a pianterreno, pressoché del tutto buia, deputata, credo, a cella di rigore, proprio sul fondo di uno stretto corridoio, cui soltanto un remoto angolino forniva un barlume di luce. La cella era lunga quanto il pagliericcio, che giaceva su un pavimento in cemento e lasciava appena lo spazio sufficiente, presso l’uscio, per il bugliolo, era larga appena una spanna più del pagliericcio ed aveva il soffitto ad altezza d’uomo. Al posto della porta, c’era un’inferriata che si apriva ad anta verso la parete del corridoio, distante circa un metro, sul suo fondo oscuro. Lungo tutto il corridoio che affiancava la serie di una decina di celle, non vi era anima viva. Rimasi in quella cella per due settimane. Gli ultimi giorni - doveva evidentemente trattarsi dei preliminari dell’interrogatorio - ebbi per la prima volta dal mio arrivo in carcere, la possibilità di radermi, e fui condotto da qualche parte al pianterreno per sostenervi l’interrogatorio. Mi fu chiesto soltanto cosa avessi fatto gli ultimi anni. Raccontai in lungo ed in largo l’attività culturale da me profusa presso la Lega delle associazioni culturali, della quale ero segretario. Dopo qualche ora ne ebbero abbastanza e fui ricondotto in cella. Non un solo cenno lasciava intuire se qualcun’altro fosse stato arrestato e se avessero avuto sentore dell’organizzazione clandestina.
Il giorno successivo fui condotto ad una cella minuscola ma luminosa, da qualche parte al primo o al secondo piano. Credo fosse una di quelle riservate agli ammalati ed ai convalescenti, munita di un’ampia finestra che mi consentì di riassuefarmi alla luce. Ma dopo due giorni fui riassegnato ad una sala, analoga a quella che avevo conosciuto i primi giorni, dalla finestra analogamente barrata, ma vi rimasi solo qualche giorno. Il 19 aprile, due cara-
binieri mi scortarono ammanettato, per direttissima, ovviamente, a Roma, a bordo di uno speciale scompartimento ferroviario. Pernottammo in una stazione ferroviaria isolata, sopra gli Appennini, in quello stesso vagone ferroviario, io, per quel che mi concerne, ammanettato.
Durante tutta la mia permanenza nelle carceri di Capodistria, scorsi soltanto personale di sorveglianza ed il giudice istruttore. Fu soltanto nel salone grande che udii a volte fischiettare o canticchiare le canzoni patriottiche dei Sokol, soltanto il loro incipit, beninteso, per evitare di essere sorpresi dai secondini di guardia lungo il corridoio. Rispondevo facendo loro il verso. Ne dedussi che erano stati incarcerati anche altri compagni, presumibilmente aderenti all’organizzazione clandestina.
Fu quello - va da sé - soltanto l’inizio del mio calvario. Trascorsi a Roma, a Regina Coeli, quasi due anni, sempre in rigoroso isolamento, in attesa del processo. Fui condannato a vent’anni di carcere, nove soltanto dei quali scontati, in virtù d’un’amnestia – fino al 15 marzo 1939. Seguirono naturalmente altri tre anni di vigilanza di polizia, una specie di internamento a domicilio, durata tuttavia solo fino al 10 giugno 1940 – ossia sino all’inizio della Guerra /…/.«34
Ivo Marinčič (Zagorje nei pressi di Pivka / San Pietro del Carso, 1907),
membro dell’organizzazione clandestina TIGR, arrestato nel 1931 e condannato l’anno successivo, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, a 7 anni di carcere, rilasciato per intervenuta amnistia, nel 1934; nel 1938 fu espulso in Jugoslavia mediante foglio di via obbligatorio, senza quindi possibilità di rimpatrio. Dopo l’aprile del 1941 pose mano, a Lubiana, assieme a Lavo Čermelj ed altri, alla 34
resistenza organizzata, fu arrestato nel giugno 1941 ed infine assegnato al confino ad Isernia; nel novembre del 1943 assunse un incarico presso il Governo Militare Alleato con il compito di rintracciare gli ex-internati e convogliarli al campo di raccolta di Bari. Nel giugno del 1945 fece ritorno a Trieste, dove operò dapprima presso il Comitato di Liberazione Nazionale per il Litorale Sloveno (Pokrajinski narodnoosvobodilni odbor za Slovensko primorje - PNOO), nel servizio scolastico, dal settembre 1946 prestò poi servizio, in veste di giornalista, soprattutto nella redazione del Primorski dnevnik.
Dal 1928 operò nell’organizzazione clandestina TIGR assieme ad Alojz Valenčič ed a Jože Vadnjal. Dopo l’arresto del Valenčič (uno dei quattro fucilati al poligono di Basovizza) e la fuga di Vadnjal in Jugoslavia, ne assunse la direzione, curando, per il tramite di Jože Kukec, attivo a Postumia, il collegamento con i militanti rifugiati in Jugoslavia. Agli inizi di settembre del 1930 i fascisti soppressero il Kukec e trovarono fra le sue cose un quaderno d’appunti che riportava anche il nome del Marinčič, il quale fu pertanto arrestato il 19 aprile 1931, a Zagorje. Egli annotò la propria esperienza carceraria e giudiziaria in forma rigorosamente sintetica su un quaderno d’appunti. Si riportano di seguito gli eventi legati al carcere di Capodistria.
»/…/ 19/4/1931. Arresto a Zagorje alle ore 13. Prelevato e scortato da un carabiniere. Il commissario presso la stazione dei carabinieri. Primo interrogatorio. Perquisizione domiciliare. Commiato dalla sorella Mila. Notte in Caserma ad Ilirska Bistrica. Coperta lacera. Nuovo interrogatorio – tenente e commissario.
20/4. Torpedone. Fiume – questura – sotterranei. Stanza: 4 spanne per 13. Primo digiuno fino a martedì. Una settimana di soggiorno. Impronte, foto, verbale.
25/4. Arrivo alle carceri giudiziarie. Tre anziani, fetore, immondizie sulla branda. Stanza no. 5. Prima domenica in carcere.
27/4. Prelevato da due carabinieri. Per la prima volta in ceppi. Presa stretta, dolori. Trieste, furgone, vaporetto. Le nostre donne del latte e loro commiserazione. Arrivo a Capodistria a mezzodì.
Perquisizioni. Primo incontro con il comandante. Cella no. 6 sopra.
15/5. Primo interrogatorio. Numerosi questurini. Lungo intervento del commissario. Esortazione a confessare la colpa. Professione d’innocenza. Scaraventato in cella d’isolamento /4/. Sette giorni a pane ed acqua e tavolaccio rigido.
25/5. Lungo interrogatorio. Tre ore. Minacce di morte. Percosse – dente, poi sei giorni di digiuno. / Nel frattempo il comandante – levate notturne, lusinghe, tentazioni./
5/6. Terzo interrogatorio, varie violenze, continuazione cella d’isolamento no 4. Sull’uscio sin dall’inizio la scritta ‘Grande sorveglianza’.
15/6. Quarto interrogatorio. Minacce di arresto ed annientamento di tutta la famiglia. Lusinghe di rilascio in libertà in cambio di delazioni che portino altri in carcere. Ancora cella d’isolamento.
20/6. Arrivo del padre e del fratello / arresto /. Incontro in cortile. Scortato a forza in cella. Messaggio tramite spazzino.
1/7. Quinto interrogatorio. Assunta su di me tutta la responsabilità per scagionare gli altri due.
2/7. Fine della carcerazionie in cella d’isolamento. Arrivo alla cella no. 5 / I. Cimici, calura.
19/7. Trasferimento a no. 3/I. Le loro storie. Sopra 6/II un seguace del Radić a corto di tabacco, 3/II Benso il Rosso da Genova. Secondini. Tundo con gli occhiali, Kocjančič, Križman / Collutazione con Janko/. Vellenich in escandescenze. Altro italiano in escandescenze. Regime carcerario. Abluzioni, nutrizione speciale, libri, finalmente i settimanali.
Prima posta dopo due mesi, solo in italiano. Ricevuta solo ogni seconda o terza lettera. Prime notizie sulla gente di Kal di Canale.
Passeggiata sotto le finestre. Intravvisto il fratello. Consegnato un fazzoletto. Scambio di battute in assenza di secondini.
24/9. Sesto interrogatorio. Gli appunti di Kukec. Mio padre rilasciato / saputo dal secondino /.
31/10. Partenza da Capodistria. Trieste – gesuiti. Pittoresca combriccola in cella. Solo criminali comuni. Istriani diretti alle isole /…/.«35
Nell’ottobre del 1959 descrisse poi di proprio pugno quel periodo con le seguenti parole:
»/…/ Domenica, 19/4/1931, giunse a Zagorje la volante da Ilirska Bistrica. Fui convocato alla caserma dei carabinieri, dove fui ammanettato ed accompagnato, in un furgone di polizia, sotto nutrita scorta, ad Ilirska Bistrica, ed il giorno seguente alle carceri di polizia di Fiume. Quì fui gettato in una cella sotterranea e fui lasciato due giorni a digiuno. Più tardi fui trasferito alle carceri giudiziarie e da lì, senza aver subito interrogatorio alcuno, via
35 La trascrizione degli appunti ed i dati sono stati forniti dalla moglie Angela Marinčič nel dicembre del 1983, Archivio del MRC.
Trieste, a Capodistria, dove giunsi il 27/4/1931. A Capodistria venni dapprima rinchiuso in una cella d’isolamento del reparto detenuti politici, dove rimasi fino al primo interrogatorio, avvenuto il 15 maggio. Seppi allora di essere imputato di tutte le azioni antifasciste che avevano avuto luogo negli ultimi anni a Pivka ( San Pietro del Carso). Il commissario che mi interrogò, voleva da me i nomi degli altri militanti antifascisti ancora a piede libero, ed in cambio mi offriva la libertà. Avendo l’interrogatorio avuto esito negativo, fui gettato nella cella d’isolamento sotterranea no. 4, priva di porte e finestre, dove rimasi isolato, ad acqua e pane, per due mesi. Di giorno rimanevo al buio, mentre di notte ero illuminato da una fonte luminosa che m’impediva di addormentarmi, fosse pure sul nudo pavimento. In quel lasso di tempo dimagrii notevolmente, tanto è vero che scesi di peso dai 67 ai 49 chilogrammi. Seguirono altri interrogatori, durante i quali mi inflissero percosse a sangue, senza ottenere da me alcuna ammissione. Il 20 giugno condussero in carcere mio padre e lo trattennero per oltre tre mesi, nonostante soffrisse di gravi dolori allo stomaco. Quello stesso giorno condussero al carcere anche mio fratello Franc e lo trattennero per 100 giorni. Rimasero a casa soltanto le sorelle minori con il nonno ottantottenne.
Io fui poi più volte interrogato e guardato sotto stretta sorveglianza in una cella d’isolamento. I primi tre mesi non mi fu consegnata alcuna corrispondenza da casa, più tardi poi, solo di rado, qualche lettera rigorosamente censurata. Nessuno dei congiunti poteva rendermi visita. Come seppi più tardi, anche mio fratello fu più volte interrogato e rinchiuso per un periodo in cella d’isolamento. Il 31/10/1931 fui infine tradotto da Capodistria sotto una nutrita scorta di carabinieri. Dopo nove giorni di peregrinazioni di carcere in carcere, che non mi risparmiarono il tanfo, le cimici ed il digiuno delle tappe carcerarie di transito in diverse città, giunsi infine a Roma, dove fui rinchiuso nel famigerato reparto delle carceri di Regina Coeli, anche quì, ovviamente, in cella d’isolamento.
A Roma ripresero gli interrogatori, che tuttavia non consentirono, come già non avevano consentito a Capodistria, di associare chic-
chessia ai miei capi d’imputazione. Fu così che il 9/3/1932 giunsi solo dinanzi al Tribunale Speciale. Nell’udienza a porte chiuse venni condannato a 7 anni di carcere di rigore, a tre anni di vigilanza di polizia ed all’interdizione perpetua dai diritti civili. Scontai la pena nei penitenziari di Volterra e Civitavecchia, in compagnia di altri antifascisti sloveni ed italiani.«36
Angel Segulin (Slope, 1906),comunista d’anteguerra, al rientro dal confino fu attivista dell’OF nel distretto del Litorale Meridionale.
»Era lunedì, il 7 settembre 1940, quando alle due del mattino l’uscio di casa fu scosso da un tale fracasso che balzai dal letto alla finestra e chiesi: ‘Chi è?’. Di rimando ebbi una brusca risposta: ‘Aprite! Polizia!’ A quella risposta mi svegliai del tutto. Notai diverse ombre aggirarsi per il cortile e le udii confabulare. Risuonarono altri colpi alla porta e sentii nuovamente intimare ‘Aprite!’, perciò scesi di corsa le scale, aprii la porta, e prima ancora che mi avvedessi di cosa stesse in realtà succedendo, due agenti in civile mi avevano ormai ammanettato e mi sospingevano in cucina verso la luce, mentre alle mie spalle premevano altri agenti dell’OVRA, in divisa o in civile, che affollarono per bene la cucina. Alla richiesta di potermi lavare, mi sciolsero un braccio e mi permisero di sciacquarmi il viso. Nel frattempo vi condussero anche i miei due fratelli, Ivan e Franc, oggi ormai defunto, ammanettati l’uno all’altro. Quindi si misero a perquisire con puntiglio la casa dalla stalla alla soffitta, rovesciando il rovesciabile e rovistando ogni minima fessura, costringendomi ad assistere al tutto. Terminata la perquisizione, fummo scortati in silenzio ai piedi del villaggio, dove avevano lasciato le automobili per sé, ed un furgone per noi. La scorta sedette fra di noi nel furgone e fummo condotti alle car-
ceri di Capodistria. In carcere intravvidi altri cinque compaesani che erano stati arrestati quella stessa notte. Assegnarono a ciascuno la propria cella e non li vidi più fino all’aprile del 1941, quando fummo trasferiti alle carceri triestine del Coroneo. Le carceri di Capodistria erano un vero luogo di supplizio, per meglio dire, un’autentica tomba per sepolti vivi. Le celle avevano dei finestrini che davano sul cortile, ma erano talmene alti, da non consentire neppure la vista del cielo. Più volte al mese ci trasferirono di cella in cella. Se ti capitava di salire da una cella d’angolo al pianterreno in una ai piani superiori, venivi assalito da un senso di gioioso sollievo per la luce della quale si poteva godere e per l’assenza di umidità. Questa fu almeno la mia esperienza di quel cambiamento, dopo che avevo dovuto penare per tutto l’inverno in quelle celle al pianterreno, intirizzito dal freddo, vestito com’ero di indumenti estivi, e dotato di una sola coperta, per di più del tutto consunta. Mi sembrava di essere in frigorifero e non cessavo di tremare dal freddo, sia di giorno che di notte. Risentirono del freddo e dell’umidità – il pavimento era infatti inondato per lo spessore di una suola – anche le mie mani, talmente gonfie, da non poterle infilare in tasca. Mi capitò di peggio, quando fui colpito da un forte attacco d’influenza. Due secondini mi scortarono fino al medico carcerario, il quale, ridendo, mi disse che non aveva, per me, alcun rimedio: ‘Non possiedo un farmaco che faccia per lei; è stato lei a scegliersi la sorte, ora se la goda.’ Fu così che si risolse la mia visita medica. Giacqui pertanto in cella, con la febbre alta, ma riuscii a superare indenne il punto critico della malattia. Una tosse persistente mi accompagnò però per tutto l’inverno /…/ I nostri carcerieri si dettero invece un gran daffare per evitare malanni al nostro apparato digerente. Ci nutrirono perci, non più di una volta al giorno, di un po’ d’acqua calda nella quale poteva capitare di pescare qualche foglia di verdura o persino un pezzetto di patata /…/. Insomma ci nutrirono talmente ‘bene’ che, io perlomeno, non fui più in grado, grazie a quell’alimentazione, di distinguere il giorno dalla notte, perché non facevo che sbarrare in continuazione gli occhi sulle tenebre. Ignoravo quale fosse il
mio aspetto, non essendo il carcere provvisto di un solo specchio. Potei intuirlo appena nel mese d’aprile del 1941, quando fui trasferito al Coroneo e mi imbattei, in cortile, in miei fratelli. A quella vista scoppiarono a piangere come dei bambini, commiserandoci a vicenda: ‘Ma come sei ridotto, ma come sei ridotto!’. Compresi allora che dovevo presentare un aspetto poco rassicurante, poiché scorgevo negli occhi degli altri lo stupore che si prova di fronte ad un fantasma.
Le carceri del Coroneo mi apparvero – in confronto a quelle di Capodistria – un vero e proprio albergo. A Trieste potei udire il chiacchiericcio di persone libere salire dalla strada sia di giorno che di notte, mentre a Capodistria non ero riuscito ad intercettare dall’ambiente circostante il minimo segno di vita /…/ e mi sentii pertanto ancor di più un murato vivo. Tanto più, avendo passato, nella fase degli interrogatori, quaranta giorni in cella d’isolamento, senza poter scorgere anima viva, fatta eccezione per il secondino ed il famigerato commissario Perla ed i suoi due agenti che assistevano all’interrogatorio.
I miei interrogatori iniziavano circa alle dieci di sera e si concludevano sempre ad un’ora tarda che volgeva ormai al mattino, per quanto riesco a ricordare. Oltre ad una descrizione particolareggiata di una serie di dettagli, all’esatta biografia di tutti i membri della famiglia, il commissario Perla pretendeva che confessassi i contatti con Pino Tomažič, il quale era stato effettivamente varie volte a casa nostra, nel corso degli anni 1939 e 1940. Non avendo ottenuto da me tale confessione, gli ultimi due interrogatori si conclusero, per me, con la perdita dei sensi. Circa otto giorni più tardi fui chiamato a firmare il verbale che Perla mi avrebbe letto. Fatte salve alcune imprecisioni di poco conto, il verbale riportava quanto avevo dichiarato. Mi sentii un po’ sollevato e tranquillizzato ma senza poter sperare nella liberazione /…/«.37
Franc Vatovec (Famlje, 1917),
comunista d’anteguerra dal 1936, arrestato nel 1940 durante il servizio militare, rinchiuso dapprima nelle carceri triestine del Coroneo, quindi in quelle di Capodistria, ritradotto, nel marzo del 1941, alle carceri del Coroneo e da lì richiamato nuovamente alle armi.
»/…/ A Trieste rimasi per 14 giorni in cella d’isolamento, e subii per sei giorni interrogatori conditi di ricatti e sevizie. Fui quindi trasferito alle carceri di Capodsitria e precisamente nella cella no 6, nella quale scontavano la pena a 25– 30 anni di carcere dei condannati per reati comuni, nonostante io fossi un detenuto politico. Dopo un mese fui trasferito alla cella no 7, condivisa con sei detenuti politici: Jože Hreščak da Škoflje, Franc Kavs da Čezsoča in quel di Caporetto, Sosič, uno studente di Opicina, Janez da Vipava e Ukmar da Miramare alle porte di Trieste.
In carcere non si doveva parlare ad alta voce. Il pasto veniva distribuito una volta al giorno (della minestra e del pane). Qui non subimmo percosse e sevizie, ma fummo sottoposti costantemente ad una stretta vigilanza. I detenuti in attesa di giudizio erano separati dai detenuti che scontavano condanne. I detenuti che scontavano la pena si distinguevano da noi per il fatto di dover fornire prestazioni lavorative all’officina carceraria, mentre noi non potevamo uscire di cella, se non per la quotidiana ora d’aria. Nel marzo del 1941 fui riassociato, per insufficienza di prove, alle carceri del Coroneo a Trieste /…/«.38
Karel Prihavec (Famlje, 1916),
antifascista d’anteguerra, arrestato nell’agosto del 1940, durante il servizio militare a Cuneo, e tradotto in una cella d’isolamento delle carceri triestine. 38 Testimonianza scritta, ottobre 1978, Archivio del MRC.
»Subii ogni giorno interrogatori che durarono, ciascuno, da quattro a cinque ore, sevizie, volevano sapere se conoscessi il Dujc, il Gašperšič e gli altri. /…/ Venivo svegliato la notte e mi si impediva di dormire. Alle continue angherie si accompagnava una nutrizione misera e disgustosa.
Il 14/8/1940 fummo tradotti collettivamente alle carceri di Capodistria. A me fu assegnata la cella no. 3. Vi rimasi isolato per due giorni, poi vi condussero altri due detenuti politici (Silvo da Santa Croce di Trieste e Franc da Aurisina, dei quali purtroppo non ricordo più i cognomi). Rimanemmo assieme per due mesi, quindi fummo trasferiti alla cella no. 10. La condividemmo in undici – sei detenuti per reati comuni e cinque detenuti politici, fra i quali Ivan Ivančič da Bovec ed Ivan Vadnjal da Žeje nei pressi di Postumia. Gli ultimi due erano stati torturati e percossi; lo si capiva dalle piaghe alle mani ed al viso. Al secondo dei due processi triestini dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, l’Ivančič fu più tardi condannato alla pena capitale.
In carcere vigeva una rigorosa disciplina e gli agenti ci angariavano. Due volte al giorno venivano controllate le inferriate alle finestre. Si perquisivano anche le pareti adiacenti alle brande, ed in quelle occasioni ciascuno doveva assistere ritto accanto alla propria branda. Spesso osservavano le nostre mosse. Il cibo era pessimo, distribuito una volta al giorno. Le stesse condizioni igieniche erano deplorevoli, un pagliericcio per letto, le pareti sudice, pullulanti di cimici.
Il 17/1/1941 fui ricondotto alle carceri di Trieste, dove rimasi per altri due giorni. Fui quindi condotto, sotto scorta, a Roma, e da lì in Sardegna, dove fui assegnato ad un battaglione speciale del 59° Reggimento di fanteria, di stanza a Tempio Pausania.«
Semedella – durante il Regno d’Italia, nell’edificio che aveva ospitato in precedenza una pensione, vi era, sulla destra, la stazione dei carabinieri, nella quale furono torturati gli imputati al primo megaprocesso triestino dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, fra essi i quattro fucilati al poligono di Basovizza del 1930.
Roman Pahor (Trieste, 1903),
organizzatore del movimento giovanile sloveno a Trieste; nel 1928 subì un primo provvedimento di confino per cinque anni sull’isola di Ponza, nel 1936 un secondo, durato un anno abbondante; fu nuovamente arrestato nel giugno del 1940 ed internato ad Istoni Marino (Chieti), donde fu trasferito, nel settembre del 1940, dapprima alle carceri di Capodistria, poi a quelle di Trieste; nel dicembre del 1941 fu condannato, al secondo dei due megaprocessi triestini dinanzi al Tribunale Speicale per la Difesa dello Stato, a 12 anni di detenzione (che iniziò a scontare a San Gimignano); nel febbraio del 1944 fu
rilasciato, su intercessione della Croce Rossa.40
Sua figlia, Sonja Pahor Tomović, annotò dei ricordi personali sulla visita che, lei ancor una bambina di soli sei anni, prestò, accompagnata dalla zia, al padre, detenuto presso le carceri di Capodistria.
»Ripercorro con la memoria quella ormai remota e fredda giornata d’inverno, spazzata da impetuose raffiche di bora, quando a bordo di un vaporetto cullato da brusche ondate salpammo da Trieste alla volta di Capodistria. All’epoca non vi erano collegamenti autoviari di linea fra Trieste e Capodistria. La gioia che mi animò durante il viaggio, al pensiero di poter presto rivedere mio padre, fu più grande e più potente di tutte quelle ondate spumeggianti che si schiantavano senza posa sullo scafo. Avevo ingenuamente deciso che avrei cantato a mio padre la canzoncina ‘Barčica po morju plava’ che a casa tanto amava sentire dalla mia bocca. Dopo un’ora abbondante di viaggio disagevole sbarcammo finalmente a Capodistria. Udii lo sferragliare delle chiavi nell’atrio delle carceri di Capodistria. Comparve, fra gli stipiti, una figura alta e capii che con la zia saremmo dovute ritornare più tardi. Vagammo per le calli cittadine, cercando riparo dalla bora. Faceva freddo. Quando avrei potuto rivedere mio padre? Ci ripresentammo sulla soglia del carcere di Capodistria e quella volta fummo ammesse all’atrio e da lì in un vano più piccolo, una specie di saletta d’attesa. Le pareti grigie e nude incutevano una strana sensazione di gelo. Entrò un secondino. ‘Come ti chiami?’ mi chiese in italiano.
Risposi: ‘Sonja’. Guardò esterrefatto prima me, poi la carta che reggeva in mano, ed avvertii d’un tratto il dolore di uno schiaffo sulla guancia. ‘Il tuo nome è Sofia, piccola sciava, ignori persino il tuo nome!’ tuonò la sua voce nella stanza. Nel frattempo s’era aperta un’altra porta, e sulla sua soglia scorsi mio padre che mi rivolgeva uno sguardo al tempo stesso mesto e severo. Rimasi sorpresa, alla vista della sua uniforme a strisce e degli zoccoli grossolani
che calzava. Sentii scorrere le lacrime sulla guancia, arsa dallo schiaffo. Capii che non avrei potuto cantargli ‘Barčica po morju plava’ perché avrei dovuto farlo in una lingua che all’epoca non si doveva parlare, se non fra le pareti domestiche. La visita durò soltanto 10 o forse 15 minuti; papà me ne dedicò la metà. Mi risuonano ancora nelle orecchie le parole con le quali cercò di consolarmi, rassicurandomi che non dovevo temere nulla e che un giorno tutto si sarebbe risolto per il meglio. ‘Che cosa fai qua?’ gli chiesi, ‘c’e qualcuno con te?’. ‘Sai, ogni giorno viene a farmi visita un topolino. Ormai siamo diventati amici e l’ho addestrato a starsene tranquillo in un angolino. A volte facciamo persino la colazione assieme – quando trovo un fagiolo nella minestra, glieglo porgo.’ Quel racconto mi parve allora una favola. Fu in realtà l’amara favola del soggiorno in una cella d’isolamento delle carceri di Capodistria, conclusosi con il secondo dei due processi triestini dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, quello del dicembre del 1941, per sfociare, più tardi, in quella, più amara di un calice d’assenzio, della detenzione nelle carceri di San Gimignano. Son questi i miei ricordi sulle carceri di Capodistria.
Aggiungo che negli anni 1940/1941, a mio padre era stato attribuito, nelle carceri di Capodistria, il numero di matricola 4865.«41
Franc Dobrinja (Lopar, 1908),
comunista d’anteguerra, ripetutamente incarcerato per manifestazione di sentimenti antifascisti – la prima volta nel 1928, infine il 2/8/1941, assieme agli altri compaesani arrestati nel suo villaggio ed in quello vicino.
» /…/ In carcere facemmo conoscenza con persone di svariata provenienza geografica (dall’Istria, dalla zona di Fiume, dalla Slo-
venia). Quattro provenivano dalle carceri di Trieste, uno di essi si chiamava Bobek; più tardi furono ritrasferiti a Trieste, condannati a morte e fucilati al poligono di Opicina. Da quelle carceri transitarono detenuti allo stremo delle loro forze, mentre noi, originari del luogo, disponevamo almeno del cibo che le donne ci portavano due volte alla settimana. Condividemmo le nostre provviste con loro. Nella nostra cella eravamo in venti, in corridoio in 18. C’incontravamo durante l’aria oppure nello scrittoio, intenti a comporre lettere ai congiunti.
In carcere subimmo vessazioni e non ci fu concesso di prender sonno. Dormivamo sulla paglia, il pasto, immangiabile, un vero avanzo di cucina, veniva distribuito una volta al giorno. Pullulavano inoltre i pidocchi. Da casa le donne ci portavano, una volta la settimana, della biancheria pulita, e si riprendevano quella infestata dai pidocchi.
Alla caduta del fascismo mi detti alla pazza gioia. Perciò fui convocato dal direttore del carcere. Mi investì di contumelie e mi sbatté per tre giorni in cella di rigore. /…/
Dopo 13 mesi fummo trasferiti, il 23/8/1943, al campo di Cairo Montenotte. Vi giunsero, assieme a me: mio fratello Jože, Ivan Dobrinja, Ivan Kodarin, Franc Jerman, Jože Lovrečič, Roko Kocjančič, Franc Babič, Ivan Vergan - Očas, Avgust Štemberger, Franc Glavina, Ivan Petruci e Matej Pribac. Vi trovammo i compagni: Franc Oblak e Renato Kocjančič da Risano, Lazar Purger da Gabrovica e Mario Pobega - Ždron da Pobeghi. /…/«.42
Il Dobrinja fu deportato dai tedeschi, assieme agli altri internati, l’8/10/1943, al campo di concentramento tedesco di Mauthausen, dove sopravvisse agli orrori concentrazionari e donde, a guerra finita, fece ritorno a casa.
Ivan Gašperčič (Salcano, 1913),
appartenente ad una famiglia di commercianti, aderì, da liceale, all’organizzazione clandestina »Črni bratje« (»I Fratelli neri«, NdT), subì perciò, nel 1930, carcerazione e sevizie, nel 1940 evitò un nuovo arresto, riparando a Maribor, ma fu, al ritorno, immediatamente arrestato ed associato, dapprima, alle carceri goriziane, quindi, a quelle di Capodistria. Da lì fu assegnato ad un battaglione speciale, dove a seguito dell’armistizio fu fatto prigioniero dai tedeschi e deportato a Dachau. Sua figlia, Tatjana Malec, ha così ricostruito e pubblicato la vicenda paterna, sulla scorta dei racconti del padre nonché di fonti d’archivio ed orali.
»
/…/ Nel corso di alcuni mesi di detenzione mio padre aveva limato le barre dell’inferriata, deciso ad evadere dal carcere (di Gorizia, NdR), ma fu scoperto dal sorvegliante nel corso di un controllo con la barra di ferro e mio padre fu punito, dopo trenta giorni di cella d’isolamento a pane ed acqua, con il trasferimento alle carceri di Capodistria, dove vigeva un regime carcerario ancor più severo, aggravato da condizioni ambientali peggiori di quelle nel carcere goriziano. Mio padre s’era sentito tremendamente mortificato nel carcere Goriziano, quasi fosse stato murato per l’eternità dietro ad un’enorme porta di ferro che non lasciava trapelare il minimo raggio di speranza. Assolveva come fosse un automa, le incombenze quotidiane di ogni carcerato, quella cioè di deporre sul corridoio il bugliolo in presenza del secondino e di spazzare la cella condivisa assieme agli altri detenuti. In carcere avrebbe fatto conoscenza anche con lo scrittore France Bevk, cui confidò le imprese della confraternita clandestina dei ‘Fratelli neri’, che più tardi il Bevk intrecciò in un racconto per ragazzi. A causa di quei precedenti, mio padre si sentiva ancor più bollato a fuoco, persuaso che i fascisti non gliela avrebbero fatta passar liscia. Era conscio di dover pagare anche per tutto quanto la questura aveva registrato sul suo conto, quando, non ancora maggiorenne, aveva agito da ‘fratello nero’. /…/
In carcere cercarono di estorcere a mio padre l’ammissione di aver collaborato all’imbrattamento di una targa fascista e fu pertanto sottoposto a torture a causa dei suoi precedenti da ‘fratello nero’. Nonostante professasse la propria innocenza e si dicesse del tutto ignaro del fatto addebitatogli, fu trattenuto in carcere per un tempo irragionevolmente lungo, senza che venisse condannato in base delle prove. /…/ Mio padre fu tradotto dalle carceri goriziane a quelle di Capodistria. Fu condotto al Belvedere, al luogo in cui sorgeva, al posto dell’odierna scuola elementare e degli uffici postali, un enorme penitenziario. Fu scortato attraverso un cortile, oltre una soglia sbarrata da un grande portone di ferro. All’ingresso del carcere scorse sulla parete il Crocefisso e fu d’un tratto assalito dal pensiero che dio lo avesse abbandonato. Entrò quindi nel penitenziario, attraversato da un lungo corridoio che costeggiava celle prive di finestre. Aria e luce penetravano in cella dal corridoio oscuro, attraverso le feritoie delle porte. Al primo piano si trovavano le celle d’isolamento. Poiché mio padre era stato trasferito al carcere di Capodistria con l’imputazione di tentata evasione, vi fu sistemato in una buia cella d’isolamento, nella quale rimase per trenta giorni a pane ed acqua. Fu sistemato in una cella d’isolamento al pianterreno, un vano di piccole dimensioni, più sorvegliata ancora di quelle al primo piano. La cella era protetta da una fitta inferriata. Dal lato esterno aveva uno spioncino sbarrato da un battente. Dalla cella s’udivano in lontananza, di tanto in tanto, i versi degli asinelli istriani che la mattina tiravano i carri con i quali le contadine del circondario giungevano in città. Mio padre giaceva in cella su una branda di ferro, su di un tavolaccio. Essa era fissata alla parete mediante una catena e fermata da un lucchetto. I detenuti politici erano sottoposti in carcere anche a sevizie. Più di qualcuno non le resse e preferì togliersi la vita. Le condizioni carcerarie di quel penitenziario erano insopportabili. Ai piedi della branda vi era, murata nella parete, una mensola, per deporvi la ciotola ed il recipiente dell’acqua, simili in ciò al carcere di Gorizia. Nell’angolo sotto la finestra, il detenuto dispo-
neva, per i bisogni corporali, del bugliolo e di una ramazza. Sul lato destro, quello in cui fu rinchiuso mio padre, c’erano sei celle. Sul lato sinistro vi era invece l’obitorio con una finestrella protetta da una grata. I cadaveri di quanti soccombevano alle torture o al suicidio, erano deposti in quest’obitorio. Il decesso clinico non era certificato da un medico, bensì, per grossolana esclusione, mediante un campanello appeso ad una cordicella tesa dagli arti inferiori del cadavere attraverso la finestra. Se il corpo, muovendosi, dava segni di vita, il campanello segnalava che il detenuto, giacente ormai in obitorio, era in realtà ancora in vita. Un metodo di cui può recar vivida testimonianza chiunque sia passato attraverso le carceri fasciste di Capodistria, poiché tutti temevano di dover subire, a seguito delle sevizie, quella sorte. Se il detenuto martoriato
riprendeva i sensi, veniva riportato dall’obitorio, affranto da uno spavento mortale, alla cella d’origine. In conseguenza delle sevizie subite alcuni persero il senno, al punto che, ritornati in cella, ruggivano ed urlavano facendosi sentire in un vasto raggio. Mio padre non riusciva a prender sonno. Vagava su e giù per la cella. Per impedirgli di limare le barre e preparare un’evasione, come già aveva fatto nelle carceri di Capodistria, egli era sottoposto ad una sorveglianza rafforzata. Il personale di vigilanza provvedeva, per così dire, a ‘svagare’ i detenuti, facendo rintronare le barre delle inferriate, incastonate negli stipiti in pietra. Mio padre chiese al secondino, se poteva procurargli qualche libro. Un secondino gentile gli portò un dizionario italiano-inglese, e fu così che mio padre imparò in carcere l’inglese piuttosto bene. Sempre in carcere usava modellare dei manichini con la mollica del pane. Ciò però era vietato ed un secondino lo ammonì. Mio padre però se ne fece un’abitudine, al punto che anche in seguito continuò a strofinare fra i polpastrelli delle dita dei fusi o delle pallottole di mollica per trarne dei manichini. Dopo diversi mesi, a mio padre fu concessa l’aria. I suoi passi in cortile furono malfermi anche per le vertigini di cui soffriva, essendo in carcere notevolmente dimagrito a causa della pessima alimentazione. Mi raccontò che il peggio avveniva la notte, quando il tempo non voleva saperne di trascorrere per lasciare il passo al mattino. Aveva con sé la mia immagine in fotografia, quella di una bimba di quattro anni, che ricopriva di baci. Conservo ancora quella fotografia a ricordo di quella vicenda, nonostante sia ormai davvero logora. Me la consegnò nel 1960, quando lo rividi a Roma per la prima volta dalla sua partenza da casa, e mi confidò che essa lo aveva confortato nei frangenti più difficili della vita, infondendogli la speranza di ritornare alla famiglia.
Mio padre riceveva lettere da casa, ogni lettera però, che inviava a casa, veniva censurata e quindi non era in grado di comunicare a casa come si sentisse davvero. Il cibo era misero, l’acqua tiepida, stantia e disgustosa; specie durante i mesi estivi era impossibile dissetarsi con quel liquame. /…/
Alcuni detenuti politici furono trasferiti da Capodistria ad altre carceri italiane, i carcerati politici di una certa levatura direttamente alle carceri romane di Regina Coeli, per scontarvi condanne a lunghi anni di carcere.
A seguito della capitolazione dell’Italia mio padre fu deportato al campo di concentramento di Dachau, dove fece da cavia umana per esperimenti medici. Rientrato a casa, subì vessazioni da parte dei servizi di sicurezza partigiani; riparò in Italia, dove fu sottoposto a sei anni e mezzo di terapia presso l’ospedale militare di Roma. Morì nel 1969 a Roma all’età di 56 anni ed è lì che è sepolto.«43
Alojz Smrdelj (Trnje nei pressi di Pivka / San Pietro del Carso, 1904),
antifascista, attivista dell’Osvobodilna Fronta:
»Nel marzo del 1942 il compagno Branko (Anton Dolgan, NdR) mi ordinò di recarmi a San Pietro del Carso (oggi Pivka, NdR) ad un incontro in cui avremmo dovuto negoziare con un sottufficiale italiano la consegna di una considerevole partita di armi (fucili, pistole, munizioni, bombe). Non era nuovo a quel genere d’affari. Le armi sarebbero dovute essere fornite quella notte stessa alla compagnia di partigiani sull’altipiano dei Brkini. Quella notte stessa tuttavia ci fu tesa un’imboscata e fummo arrestati: Franc Kavčič da Slovenska vas, Karlo Puš, Vinko Brozina, Anton Frank ed io. Dopo quattro mesi di carcere giudiziario a Fiume fui trasferito, nel mese di giugno, assieme al gruppo dei detenuti politici, alle carceri di Capodistria. Fummo sparpagliati in diverse celle in modo da impedire ogni contatto fra i coimputati. Fui assegnato ad una cella popolata da soli condannati per reati comuni. Soggetto
a regime d’isolamento, non mi fu concesso alcun colloquio con i famigliari. Anche per l’uscita all’aria ci assegnavano delle apposite aree, una volta al giorno, per un quarto d’ora. La posta dei famigliari doveva passare al setaccio della censura a Roma, per cui la ricevevo con un mese, un mese e mezzo di ritardo. Dopo sei mesi ebbe anche per me termine il regime di carcerazione giudiziaria e mi fu concesso il primo colloquio con i famigliari. Interrogato dal giudice inquirente, negai ogni ammissione estortami dalla questura. Egli si limitò ad osservare che per i capobanda della mia risma disponevano di piombo sufficiente a Roma. Assieme a tredici compagni fui da lì trasferito, nel mese di ottobre del 1942, a Roma, dove subii, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, una condanna a 30 anni di detenzione e fui deportato sull’isola d’Elba.«44
Franc Kavčič (Slovenska vas nei pressi di Pivka / San Pietro del Carso, 1916),
attivista dell’Osvobodilna Fronta dal 1941 (insignito dell’onorificenza riservata ai resistenti della prima ora »Spomenica 1941«).
»Iniziai a lavorare per il Movimento Nazionale di Liberazione il 10/8/1941 in qualità di attivista clandestino sul territorio. Il 25/3/1842 partecipai ad un incontro di attivisti e di partigiani in cui concertammo l’assalto alla caserma dei carabinieri a San Pietro del Carso. Più tardi comprendemmo che eravamo rimasti vittima della delazione di un italiano (Ercole Cosmina da Genova) il quale ci aveva, in precedenza, fornito armi e munizioni. Quello stesso giorno la questura italiana aveva arrestato Alojz Smrdelj da Trnje nei pressi di Pivka, Ivan Simčič da Matulje, Vinko Brozina da Jelšane ed altri 18 compagni. Fummo tradotti al carcere triestino
sotto la questura nei pressi di San Giacomo. Vi rimasi 9 giorni e per tutto quel tempo subii percosse e torture atroci. Fui quindi condotto a Fiume alle carceri della questura e sottoposto nuovamente ad interrogatori e sevizie perché negavo ogni addebito. Il 25/5/1942 fui trasferito alle carceri di Capodistria; vi rimasi fino al 3 novembre, quando fui tradotto a Roma, dove in capo ad una settimana fui condannato, dinanzi al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato, a 30 anni di carcere. Trascorsi la carcerazionie a Capodistria in un’apposita cella d’isolamento, completamente solo. Anche gli altri che erano stati arrestati assieme a me si trovavano in quel penitenziario, ma non potei allacciare con loro alcun contatto. Gli interrogatori che vi si svolsero di notte e di giorno furono particolarmente feroci, le percosse assai dolorose, ed un colpo infertomi con il calcio della pistola mi estirpò i denti.«45
Roza Gombač – Špela (Trieste, 1915),
aderì all’OF nell’inverno del 1941/1942 a Lubiana, fu membro del comitato dell’OF per il quartiere cittadino di Rožna dolina; nella primavera del 1943 si recò a Zagabria presso la sorella dove fu arrestata, tradotta alle carceri di polizia a Lubiana e condannata, al processo tenutosi verso la fine di agosto del 1943, a 10 anni di carcere; il 4 settembre fu associata ad un convoglio di deportande in Italia.
»Quel giorno (il 4/9/1943, NdR) fummo tradotte in treno, scortate dai carabinieri, fino a Trieste e da lì con un battello a Capodistria. Durante il tragitto dalla stazione ferroviaria al porto di Trieste fummo bersaglio di contumelie e di sputi, quasi fossimo le più feroci fra le delinquenti. Ricordo, fra le sorveglianti nelle carceri di Capodistria, una donna in età piuttosto avanzata, in abito civile. Dopo che ci fu sottratto ogni bagaglio, ci sistemarono in qualche modo. Giungemmo così in un ‘camerone’ al pian terreno con le in-