Memorie del servizio di leva, guerra e prigionia - dal 5 marzo 1938 al 26 febbraio 1946

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Memorie del servizio di leva, guerra e prigionia Dal 5 marzo 1938 al 26 febbraio 1946

Siro VIGNOLINI 1


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Immagini del campo di prigionia di Zonderwater

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Memorie del servizio di leva, guerra e prigionia

Dal 5 marzo 1938 al 26 febbraio 1946.

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Radio Telegrafista Caporal Maggiore Vignolini Siro

Io, Vignolini Siro nato a Barberino di Mugello il 27/02/1917 residente a Prato via Ferrara 30, fui chiamato il 5 marzo 1938 dal distretto militare di Firenze, per il servizio di leva e inviato al 2° contraerei di Napoli alla caserma detta “I Granili”. Era un casermone vecchio e trascurato, si accedeva ai piani superiori percorrendo rampe lastricate senza scalini, tant’è che per salire e scendere, dato gli scarponi chiodati che calzavamo era impossibile stare in piedi. Dopo un mese di addestramento, o poco più, fra passi di marcia, di corsa e riposo, tutti noi militari qui convenuti fummo destinati al 21° Corpo d’Armata, Reggimento Artiglieria Contraerei 75-28, di stanza a Bengasi in Libia. Il giorno della Pasqua del 1938, al completo dell’equipaggiamento, con la nave “Tuscania” attraversammo il Mediterraneo. Giunti nel Porto di Bengasi, vi erano pronti dei camion militari che ci portarono alla Caserma Moccagatta. Anche questa, una costruzione antiquata e mal tenuta, ci accolse facendoci presagire una situazione assai scomoda. I superiori ci consolarono dicendo che era in costruzione una nuova caserma a pochi chilometri dalla città. Era vero! Però, per godersela, tanti di noi dovettero faticare assai, aiutando i muratori e manovali nella costruzione. Giovanni Bandini, Brachi e Siro

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Una prima impressione della terra libica: sembrava di essere schiacciati dalla volta celeste, come veder l’orizzonte e perdersi nel vuoto infinito. La seconda impressione fu la diarrea; ci colpì tutti indistintamente, causa l’acqua purgativa di quel luogo. Io, per ovviarla, dopo ogni rancio bevevo una gazzosa al posto dell’acqua (l’acqua minerale ancora non esisteva). In più l’Esercito ci fornì una pancera di lana, pena la prigione se non l’avessimo indossata. R.T. Vignolini Siro

Io, insieme ad una ventina di soldati, fui scelto per la scuola

radiotelegrafisti, perciò tante fatiche che subirono i miei commilitoni le scansai. Sotto la guida del Serg. Magg. Istruttore Rosolen, dovevamo imparare l’alfabeto Morse e, con apposito tasto, saper trasmettere i suoi punti e linea. Poi per le stazioni in fonia, saperlo tarare, parlare bene l’italiano, e trovare la lunghezza d’onda che ogni giorno ci veniva assegnata. Siccome questa scuola ci veniva fatta in uno stanzone chiamata “Sala Radio”, dove vi erano appena tre o quattro panche, una cassa vuota capovolta e una sedia per l’insegnante. Io e un compagno di nome Graziani di Roseto degli Abruzzi, decidemmo di fare una specie di cattedra. Con un martello, un segaccio e altri pochi arnesi incominciammo a fargli lo scheletro, poi con delle assicelle io lo rivestii e l’altro, Graziani, che sapeva fare il finto legno, fece le venature e il colore mogano che sembrava interamente vero. Non so da chi fummo notati, ma fummo chiamati dal colonnello e premiati con cinquanta lire ciascuno. In quel periodo per una cena ci volevano 5 lire. Dopo qualche settimana di scuola cominciammo ad uscire con le batterie del Alfabeto Morse

Reggimento, quando verso Sud nel deserto, quando ad

Est, dove il terreno era frastagliato da piccole sporgenze (uadi), oppure verso Nord dentro il mare. Noi radiotelegrafisti, con l’addetto ufficiale osservatore, dovevamo essere abbastanza lontano dal poligono di tiro e trasmettere ciò che l’ufficiale ci suggeriva quando questo poligono –si- o –no- era sgombro. Non dimenticherò mai quando su di un barcone traballante, per il mare assai tempestoso, fui annesso con la radio 3 in fonia a fare questo servizio.

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Mi prese un vomito cosi persistente che non finiva mai; e mai potrò capire da dove venisse quel vomito, se dallo stomaco o da ancora più giù. Era di un colore verdastro e maleodorante tanto che dovetti far parlare l’ufficiale per annunciare questo servizio. Erano passati poco più di due mesi, quando un bel Ada, Siro, Guglielmo e le figlie Maide e Elsa, nel bosco del Littorio Settembre 1938

mattino mi vennero a trovare due paesani: Guglielmo Ricci e sua sorella Ada, emigrati qui a Bengasi alcuni anni

addietro, e dopo i saluti di rallegramento e dopo aver saputo le notizie più importanti mi dissero: “Ora si va dal tenente della tua compagnia a stipulare, se possibile, questo contratto: Tutte le domeniche dovrebbe farti il permesso per stare con noi “. Il tenente lo accontentò; ed io ogni sabato sera mi recavo dal furiere a ritirare questo permesso per la domenica seguente. Ora avvenne che un certo sabato, nel ritirare il permesso, il mio non era firmato; al furiere domandai il perché di questa dimenticanza, lui mi rispose che non ne sapeva niente. Pertanto la domenica seguente rimasi in caserma e, alle ore 11 pronto in fila per il rancio mi sento chiamare dall’altoparlante e di presentarmi subito alla porta. Con grande meraviglia vidi il marito di Ada, Nino Nelva, che discuteva con l’Ufficiale di picchetto. Mentre stavo per dirgli il motivo della mia assenza, lui additandomi disse: “E’ lui! Ora viene con me!”. “Aspetta”, risposi a Nino, “ora vado in caserma a mettermi il vestito della festa e le scarpe lucide, altrimenti non mi fanno uscire”. Non dimenticherò mai la generosità di questa famiglia. Abitavano in una bella casetta nel centro di Bengasi, con la madre di Guglielmo e di Ada, sposata con Nino Nelva con le due figlie, Maide ed Elsa (mentre alla fine dell’anno ebbero pure Gabriella). Guglielmo, celibe, faceva il calzolaio, tranciatore di tomaia (tagliava la parte superiore delle scarpe) Nino Nelva, in società con un livornese, aveva un’officina al porto adatta alle riparazioni delle navi. Questa generosità che avevano con me, penso, che fu in parte ricambiata, quando per un bombardamento su Bengasi furono costretti a tornare in Italia e a Barberino furono accolti in casa di mio padre. Nel momento del bombardamento di Bengasi, Guglielmo, dopo avermi scritto una lettera, era uscito per imbucarla e, proprio in quel frangente, una bomba aveva distrutto la loro casa. Questo lo seppi dopo sette mesi, in Sud Africa, quando ormai erano già sfollati in casa di mio padre.

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Fu un caso molto fortunato che anche sua sorella marito e figlie erano fuori casa. Penso che fosse l’estate del 1938 quando la mamma di Ada e Guglielmo cessò di vivere. Al funerale, io, nel vederla seppellire in questa terra lontana, in mezzo a tutti quei nomi arabeschi, mi venne una stretta al cuore che ancora amaramente ricordo. Pure Nino Nelva e Ada sono deceduti come le loro figlie Maide e Gabriella, mentre Elsa oggi è ammalata, ed Anna, l’ultima, è nata e vive a Barberino, che ora cordialmente saluto. A tutti loro dopo un lungo travaglio persecutore, rivolgo una calda preghiera consolatrice per un sereno eterno riposo. Vorrei pertanto rivederli tutti. “quella voce gentil di vostra madre / e a quel cordiale accento piemontese / Che era di quell’amabil vostro padre / e dello zio il sorriso ampio e cortese” -

Chi semina non spera di avere i frutti? -

Eravamo all’ultima quindicina del mese di dicembre 1938, quando con Grementieri, Zaccaro ed io, tre radio telegrafisti armati e riforniti di zaini, tascapane, bandoliera e moschetto, fummo inviati al 7° Genio di Firenze per il corso di radio montatore. Questo corso durò due mesi. Pure questo trasloco risultò un vero sollievo poiché tutte le settimana, la Domenica, potevo passarla a casa mia. Dopo la libera uscita del sabato sera, ritornavo in caserma la domenica successiva alle ore ventidue e nessuno se ne accorgeva perché la camerata non era completamente occupata, ma vi erano anche brande vuote, bastava mettere la valigia sopra a quella di un amico e il materasso nel ripostiglio, dove ve ne erano tanti ammassati, perché tutto l’armamentario e suppellettili lo avevamo lasciato in casa di Grementieri, che abitava a Firenze. Nella primavera del 1939 ci fu una prima grande manovra in Tripolitania; attraversammo tutto il deserto Sirtico e arrivammo fino ai confini della Tunisia. Lungo il transito del deserto, il caldo fu veramente torrido: fino a cinquanta gradi. Poiché lo stare sotto le tende era impossibile, come impossibile era fare ogni movimento, ci rifugiavamo sotto i camion con un asciugamano bagnato sulla faccia. Per me non fu un problema, poiché io soffro il freddo e non il caldo né la sete, difatti, se una quindicina di militari della mia compagnia rimanevano in piedi, io ero tra questi. In autunno, poiché la Germania era in guerra, e Mussolini suo alleato (perciò in odore di guerra) tutta la classe del 1917, dopo diciotto mesi, invece di essere congedata fu trattenuta. In questo periodo furono assegnate a famiglie italiane, nella regione Cirenaica, qui in Libia, nuove case coloniche con annesso terreno. Arrivate a Bengasi, dovevano essere trasportate a Barce in Cirenaica, dove erano appunto queste case coloniche, con i mezzi di trasporto del 21° Reggimento, e di altri, Reggimenti furono messi a loro disposizione. Anche noi telegrafisti fummo adibiti al 9


collegamento e la buona riuscita di questo grande trasloco. Ricordo la grande festa che fu fatta in serata, balli e canti che durarono fino a notte tarda. Erano famiglie, per lo più, provenienti dal Veneto. Nei primi mesi del 1940 potei usufruire di una gradita Libia

Cirenaica

licenza. Saputo di questa licenza l’amico

Guglielmo, il calzolaio, mi chiese se potevo fargli un favore; se in una mesticheria a Barberino ci fossero delle bullette per scarpe grosse e di prenderne quante più te ne danno.” “Va benissimo” gli risposi. Arrivato a Barberino, subito mi recai alla mesticheria Cianti. Ne aveva una decina di chili in cassetta, ed un pacco da venti chili da sciogliere. “Le prendo tutte” gli dissi. “Non posso” mi rispose, “posso darti quel pacco integro”. “Va bene” gli risposi, e pagatolo, andai subito alla posta a fare la spedizione. In quel periodo l’Italia era sotto sanzioni da parte di molti stati europei perciò le bullette non arrivavano più in Libia. In primavera del 1940 ci fu una seconda grande manovra: questa volta ai confini dell’Egitto, in Cirenaica, anche questa durò più di un mese. In Autunno poi con l’entrata in guerra dell’Italia a fianco della Germania fummo inviati sul fronte egiziano contro gli Inglesi. Quel giorno, fu come “un ribollir di cannonate a non finire”. Terminato questo cannoneggiamento cominciammo a entrare nel suolo egiziano. Durante questa prima avanzata trovammo ciò che gli arabi chiamano la “sebeha” un terreno che apparentemente sembrava praticabile per il passaggio dei nostri camion, invece in esso affondavano le ruote come nelle sabbie mobili; per uscirne dovevamo scendere dai camion e togliere la sabbia davanti alle ruote e, con appositi graticci e avanzare lentamente cercando il terreno più solido. Il giorno dopo arrivammo a Marsa Matruk. Qui, ci fecero piantare le nostre tende, ed io con la stazione radio trasmittente, Radio Allocchio Bacchini Radio A.1, feci innalzare l’antenna e mi misi in contatto con il Quartier Generale. La trasmissione avveniva inviando numeri in codice che ogni giorno venivano cambiati. Tutto sembrava tranquillo, quando un aereo nemico da ricognizione lanciò diversi “spezzoni”, e alcune di queste schegge colpirono l’antenna della radio, e una dove ero seduto mi feri la mano destra, per cui non potendo più adoperarla Attestato della Croce di Guerra

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fui costretto trasmettere con la mano sinistra fin quando il giorno seguente fui sostituito. Per questo motivo mi fu conferita la medaglia al valor militare e la promozione da Caporal Maggiore a Sergente. In quel momento fu ferito, molto seriamente Bigagli, anch’esso di Prato, che era l’autista del Colonnello e che fu poi rimpatriato. A notte fonda di questo giorno, altri aerei nemici gettarono candelotti illuminanti, provocando una luce abbagliante come fosse pieno giorno; fecero impaurire tutti. Contemporaneamente dal mare partivano cannonate tremende, sparavano proiettili di calibro 381, enormi come un grosso maiale. Per fortuna non cadevano su di noi. Li trovammo poi semisepolti nella sabbia al momento del ritiro. Mentre fui ricoverato al più vicino ospedale da campo, con mia grande meraviglia vidi il Capitano dott. Poli, medico di Barberino di Mugello e, parlando con lui, mi propose di rimanere in quell’ospedale come scrivano, per trascrivere tutte le cartelle cliniche dei militari ricoverati in quell’ospedale. Non accettai. Poiché era troppa l’amicizia che lasciavo, sia con Grementieri Rolando di Firenze, e con Mario Fedele di Penne in provincia di Pescara, anche loro Caporal Maggiore come me; tanto più che avrei messo in difficoltà le comunicazioni dei reparti R.T. Dopo pochi giorni fui dimesso e ritornai alla compagnia. In questo momento aspettavamo i rifornimenti necessari per andare avanti, ma questi rifornimenti non arrivavano mai. Invece arrivò un ordine perentorio: “Prepararsi per la ritirata”. I camion, che erano adibiti per il trasporto della truppa, furono fatti partire vuoti per non essere presi dal nemico e, a noi, di gettare tutte le cose superflue, e spaccare con dei picconi tutte le radio trasmittenti in fonia, poiché la Radio A. 1 l’avevamo già caricata in un camion il giorno prima. Tra le mie cose superflue, gettai pure le scarpe vecchie, mettendomi quelle nuove. Non l’avessi mai fatto! Siccome mi erano un po’ strette dopo un’ora di marcia non camminavo più, me le dovetti togliere e camminare a piedi nudi per tre giorni e tre notti fino alla “Ridotta Capuzzo”, nostro confine Libico. Camminavamo sempre vicini al mare per non perderci nel deserto. Gli inglesi non si erano accorti della nostra partenza, così il primo giorno della ritirata ci andò bene ma, il secondo cominciarono a inseguirci con gli aerei e a bombardarci. Per nostra fortuna ci venne in aiuto il Ghibli: il vento del deserto che oscura di sabbia il cielo, come una fitta nebbia. Tant’è che giungemmo quasi indenni alla Ridotta Capuzzo, bombardata dagli Inglesi. Qualcuno che ci aveva qui preceduto, pensò di aggiungere due parole al nome del fortino, “Come 6” per formare la frase “Come sei Ridotta Capuzzo”. Un cumolo di macerie.

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Qui trovai mio cugino Italo di Gattabigia, carabiniere in servizio per noi militari sbandati in ritirata: 0mi rifocillò con una bottiglia di anice. Ma il nostro calvario non era terminato; messi in postazione di combattimento nei pressi di Bardia, dopo pochi giorni fummo accerchiati, e per tutto il mese di dicembre resi inoffensivi. In questo periodo il rancio giornaliero fu ridotto della metà. Fu pure ridotta l’evacuazione, una volta la settimana (l’avevo contate). Durante questo mese dell’accerchiamento con la Radio A. 1, anche senza l’antenna potevamo ricevere Radio Londra e il giornale radio dall’Italia. Poiché noi radiotelegrafisti ascoltavamo le notizie che l’EIAR diffondeva (come pure quelle di Radio Londra), il comandante della nostra compagnia nominò il caporal maggiore, Rolando Grementieri, che tutte le sere, dopo aver ascoltato il giornale radio, di recarsi alla mensa ufficiali per riferirgli le notizie di ciò che avveniva sui vari fronti di guerra. Però Il 3 gennaio 1941, una massiccia incursione nemica ci fece tutti prigionieri (si diceva fossimo quasi 40.000). Incolonnati e afflitti, dovemmo rifare la solita strada dell’andata. Sostavamo nelle piazzole dove forse gli inglesi avevano sostato. Lungo la strada incontravamo una grande quantità di rifornimenti, e qua e là dei pezzi di pane. Uno di noi credendo di potersene appropriare usci dall’incolonnamento ma, un colpo di pistola mise fine alla sua fame: lo stese a terra per sempre in quell’arida terra; mentre noi -oltre al dolore provato- un penoso l’avvenire ci invase. Giunse poi la Befana, il 6 Gennaio, erano tre giorni che non mangiavamo, ci fu fornito il primo pasto: una gallettina e una scatola di tonno ogni quattro prigionieri e senza acqua. Molti non mangiarono neppure quel poco, perché, causa la sete, non avevano più salivazione, non riuscivano a inghiottirlo. Il giorno dopo: un gavettino di acqua e nient’altro. Passammo tre o quattro giorni di peregrinazione, tra fame e freddo della notte. Mentre io che soffro il freddo, non potendo dormire, me ne stavo aggirando fra quei dormienti, quando vidi uno coperto da una mantellina, capiente e spessa. Pensai di levargliela di dosso e, con il proverbio “mors tua vita mea” pian piano me ne appropriai, ritornando poi a giacermi nel gruppo dei miei compagni. Finalmente sentimmo la sirena di una nave. Incolonnati verso l’imbarco, rasentavamo una catasta di balle di zucchero alle quali qualcuno pensò bene di fargli un pertugio e, al nostro passaggio, ognuno di noi cercava di metterlo nella gavetta. Ci andò bene poiché i nostri guardiani erano posti uno al principio della colonna e l’altro all’entrata della nave (non si accorsero di niente). 12


Un vero miracolo avvenne su questa nave che doveva portarci ad Alessandria: una catasta di scatoloni pieni di gallette erano poste nella stiva. Ognuno di noi, facendo finta di andare al gabinetto, approfittavamo di quella grazia di Dio. Per me forse fu troppa, perché il giorno seguente, tutta quella roba ingoiata, senza bere neanche un goccio d’acqua, fece una muraglia nel mio intestino, non c’era modo di evacuarla. Io credo che nessuna donna partoriente abbia patito quanto me. Pensai che sarebbe stata la fine: nessuno poteva aiutarmi, non c’erano né medici né infermieri, finché dopo infiniti sforzi, aiutandomi con un dito, riuscii a liberarmene. Sbarcati ad Alessandria fummo condotti alla stazione ferroviaria e partimmo per Ismalia, dove ci attendeva un campo pieno di enormi tendoni dove ci trascorremmo tre mesi davvero –penitentitre cucchiai da tavola di riso stracotto ed un’arancia ad ogni pasto. La vista cominciava a vacillare, le unghie delle mani diventarono paonazze, i pidocchi che avevamo indosso aumentavano, poiché fino questo momento non avevamo fatto nessuna disinfestazione. Si scavava tra la sabbia nella speranza di trovare qualche buccia secca d’arancia lasciata da altri più fortunati di noi. Finalmente una nave scozzese, poiché uomini in gonnellino, ci fece salire dicendoci che saremmo sbarcati in Sud Africa. Ci accorgemmo, quando il caldo si fece veramente sentire, che l’equatore era sotto i nostri piedi e il sole era perpendicolare. Quando venivamo chiamati per il pasto era il peggior momento della giornata, andavamo a prendere il rancio in mutande e con un asciugamano bagnato. Non ricordo quanto ci mettemmo a arrivare a Durban. Il rancio sulla nave era assai meglio, ma mai abbastanza poiché in passato fu troppa l’astinenza. Ricordo bene la massa di gente che ci accolse. Fra queste anche degli italiani, che vedendoci cosi malconci ci gridavano: “Non ve lo davano da mangiare!... Quaggiù vedrete che starete bene!” Alla stazione ferroviaria un treno ci accolse, e dopo duemila chilometri si fermò a Zonderwater (Zona d’acqua) e un accampamento di tende accolse. In ogni tenda ci stavamo in otto prigionieri; per dormire, un pagliericcio riempito di fieno. Era già qualcosa di buono perché ormai erano trascorsi già sei mesi che dormivano per terra. La fortuna mi sorrise anche qui. Cercavano cinque o sei prigionieri che sapevano scrivere bene in stampatello, io fui il primo di questi e, Nel refettorio pronti a immatricolare tutti i prigionieri, -presenti e futuri- in triplice copia. Una per la Croce Rossa, una per l’Italia e una per lo stato Sud Africano, ma… quel che contava di più era Dove si trova Zonderwater

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che mangiavo in cucina con i cucinieri. Ora la fame era superata ma il problema da risolvere era come liberarsi dai pidocchi, poiché le docce ancora non erano pronte e nessuna disinfestazione era stata ancora eseguita. Allora noi decidemmo; (poiché nel blocco n. 2 al campo n. 6, dove eravamo stati assegnati, erano libere altre tre cucine) pensammo di andarci a bollire i nostri panni pieni di pidocchi. Cosi, anche se già tanti ne avevamo fatti fuori, poiché ogni mattina mentre ci portavano nel piazzale per farci la conta, e aspettavamo Il capitano del campo, che veniva sempre in ritardo di due ore facevamo come fanno le scimmie: ci spidocchiavamo. Ognuno di noi ne schiacciava almeno una trentina al giorno. Finito la conta ognuno andava a eseguire il compito assegnato. Oltre questi molesti inquilini ospitavamo anche le pulci. I loro punzecchiamenti erano più fastidiosi di quelli dei pidocchi; erano imprendibili, lasciavano il segno, sia nelle mutande che su di noi. Pitturavano le nostre mutande con migliaia di puntini rossi, sembravano una pittura di avanguardia. Però questo succedeva quando sostavamo nelle piazzole dove vi erano stati i militari indigeni Libici, gli Ascari! Finito di schedare tutti i prigionieri dovevo pensare come fare per rimanere ancora in cucina. Ideai un sistema per affettare le fette di pane tutte uguali. Ogni pane che era cotto in cassette, (come il pane per i toast) da questi filoni dovevano essere tagliate diciotto fette tutte uguali, tre fette al giorno per ogni prigioniero. Io, con una tavoletta di legno e un filetto di ferro abbastanza grosso, feci un attrezzo per tagliare questi pani in fette tutte uguali, (il pane veniva appoggiato nella tavoletta, e accostandolo al fermo, con la coltella Il filone di pane, n 3, veniva posto nella cassetta accanto al battente, n.2, e con il coltello, n. 1, veniva tagliato rasentando il ferro, n. 4.

rasentando il ferro si tagliava. Non si poteva sbagliare le fette venivano tagliate tutte uguali). Per questo attrezzo fui annesso

a questo lavoro insieme allo staff dei cucinieri. Poi siccome molti prigionieri erano analfabeti fui lo scrivano (chi lo desiderava), postino della compagnia e aiutante furiere. Quando il camion della posta non arrivava ero io che dovevo andare all’ufficio postale a ritirarla, poiché quest’ufficio era posto al di fuori di ogni blocco;. Per questo motivo mi diedero un pass speciale. Poiché ogni blocco era separato dagli altri blocchi da tre file di filo spinato, non potevamo sapere chi ci fosse negli altri blocchi, e in uno di questi c’era pure Azzo Aiazzi, un amico di Barberino, che avendo anche lui un pass speciale poteva circolare liberamente. Informato dai suoi familiari che pure io mi trovavo a Zonderwater, un giorno mi venne a trovare e, dopo avermi raccontato la sua odissea mi disse che pure lui fu davvero fortunato: un italiano residente in Sud 14


Africa, Il Capitano Tosi, lo faceva uscire dal campo di prigionia e lo portò nel suo laboratorio come aiutante norcino, cioè per la trasformazione di suini macellati in prosciutti e vari insaccati. Lo pagava molto bene, e poiché gli mancavano dei denti, ed altri avariati, se li rimise tutti d’oro. In seguito mi riforniva di spaghetti e macinato per fare il sugo. Questo avvenne dal primo gennaio del 1945. In quel periodo, chi lo voleva, poteva firmare per la “cooperazione delle nazioni alleate “ pagandoci in data della firma, 3 penny al giorno. Io firmai, come quasi tutti i prigionieri, il valore era poco ma, 12 penny uno scellino, 20 scellini una sterlina. Così con il guadagno di un anno, al momento del rimpatrio, sempre da Azzo che poteva uscire dal campo e andare nel paese, mi feci comprare un orologio, un anello d’oro e un taglio di vestito da uomo di pura lana inglese. Tante altre cose ci sarebbero da raccontare. Il mercato che si faceva

nel

blocco; tutte le sere in un punto stabilito,

chi

vendeva,

chi

Una scena del conte di Lussemburgo

comprava, chi scambiava oggetti. Addirittura alcuni volevano gettare del materiale da un blocco all’altro ma, poiché ogni blocco era diviso da tre fili di filo Attestato di cooperazione con gli inglesi

spinato più dallo spazio in mezzo, così molti oggetti rimanevo tra i due blocchi senza che nessuno li potesse prendere. Poi, la coperta, forse fu una burla, si diceva che per soddisfare il proprio bisogno libidinoso qualcuno metteva una coperta addosso a chi andava al gabinetto di notte. Ricordo la paura di Giovanni Toccafondi, anche lui di Barberino, teneva un barattolo vuoto per non uscire a far pipì. Furono a allestite poi delle recite teatrali: Cincillà 50 repliche, Il paese dei campanelli e tante altre, voi non ci crederete, lo sfarzo e la bellezza di laggiù, messe a confronto con quelle che ho veduto fare al teatro Metastasio di Prato, anni ’60 e ’70, sia pur da attori bravi e rinomati, non era che una misera cosa, e tutta questa lamentela io la esternai a due vicini di sedia, i quali aggiunsero: “Allora è vero quello che ci diceva il Galli!”, (un prigioniero anch’esso di Zonderwater, che anch'io conosco). Altrimenti come si spiegherebbe che questi attori prigionieri fossero portati a recitare in un teatro pubblico Sud Africano dove le persone affluivano pure da Johannesburg. Venivano fatte pure partite di calcio e incontri di pugilato. 15


Riguardo al teatro, io e un compagno napoletano che si chiamava Generale, fummo i precursori, poiché lui con la sua comicità e io con i monologhi “Il contadino al teatro” e “La fattoressa” di Ginanni, la sera nel refettorio cominciammo a far ridere i prigionieri la sera nel refettorio. Però lui ebbe più fortuna di me poiché di toscani vi eravamo veramente pochi, molti invece dei meridionali il novanta per cento. Al blocco n. 2 arrivavano prigionieri che poi venivano mandati in altri blocchi e, addirittura anche in Scozia, come successe ad un barberinese, Jelpi di Cantalupo. Dalla lunghezza dei capelli si capiva che il barbiere per lui non esisteva. Per cui gli dissi: “Non hai trovato nessuno che ti acconciasse i capelli? Eppure qui da noi ci abbiamo i barbieri che fanno questo lavoro. Ora a te ci penso io”. Presi le forbici, il pettine e il panchetto che avevo per comodino e gli feci la sfumatura come fanno i

Veduta panoramica del campo di Zonderwater

barbieri. Anche questo lavoro lo avevo visto fare quando andavo dal parrucchiere a farmi i capelli e che lo misi in atto proprio qui tra i compagni prigionieri. Poi i veri parrucchieri si prodigarono in questo lavoro, prima gratuitamente, poi con qualche sigaretta (ci venivano assegnate cinque sigarette al giorno). Mi ricordo le parole di un suo compagno c he andandosene via, gli disse: “Ma quello è veramente uno del mestiere, eh!” C’era anche un campo di punizione detto la “Casa rossa”. Ci venivano portati quei prigionieri che avevano commesso un’infrazione assai grave. Per punizione dovevano trasportare con una cariola un ammasso di terra da una parte all’altra del campo, e all’ora di pranzo dovevano mangiare in piedi, con il piatto 16


di ferro pieno di minestra bollente. Tutto questo per sentito dire, poiché nel blocco 2 a nessun prigioniero fu data questa punizione. Eravamo diventati una città di 80.000 prigionieri divisi da noi stessi dal mondo da migliaia di metri di filo spinato. Una città di legno chiamata baraccopoli. Poiché dopo due anni passati sotto le tende ci costruirono baracche in legno. In ogni baracca ci stavano venti prigionieri ed era pure munita di un parafulmine (qui in questa zona, i fulmini erano violenti e numerosi poiché il suolo è ricco di minerali, ferro, oro e diamanti. Tanto che qui a Cullinan, zona vicino a noi prigionieri, il 26 gennaio 1905, fu trovato il più grosso diamante del mondo, il quale poi fu donato alla Regina d’Inghilterra). Pure una trentina di prigionieri hanno avuto la sfortuna di trovare la morte per causa fulmini in questa lontana terra. Ora, ritornando a parlare delle baracche, esse, ci diedero certamente molto sollievo. Però dormivamo sempre per terra sul pagliericcio di fieno. Siccome nel costruire le baracche vi era un grande ammasso di legname di scarto, ci fu dato il permesso di costruire a tal uopo, una specie di branda, tanto da sollevarci un poco da terra. Vi immaginate voi, io, e tanti altri del mestiere quante ne abbiamo costruite? Tante altre cose ci sarebbero da raccontare per esempio: l’insegnamento della libertà da parte di un ufficiale inglese; esso ci diceva; consiste di non dover patire delle necessità, ossia se hai una sterlina sei un po’ libero, se ne hai centinaia di migliaia sei liberissimo. Chissà se gli americani, agli iracheni, la spiegano cosi? Ci spiegava pure come la politica sta con la democrazia; si compongono i partiti, sinistra, centro e destra, poi si nomina il più adatto e si fanno le elezioni; chi vince compone il governo. Caso strano, noi prigionieri non sapevamo cosa succedeva in Italia, poiché tra noi prigionieri (fatte le votazioni) i risultati furono come quello che trovai poi al ritorno in Italia: il partito di sinistra veniva votato dai prigionieri provenienti dal centro Italia, Il partito monarchico votato dai campani e meridionali, quello della Democrazia votato particolarmente dai veneti, mentre il partito di destra, non venne votato poiché le camice nere, e quelli che si proclamavano fascisti, furono separati e messi isolati in un blocco a parte poiché erano successe varie risse e tafferugli. 17


Dal

mese

di

Gennaio

1946

incominciò il rimpatrio; chiamavano per ordine alfabetico. Arrivato a Durban una nave, con il suo carico di tanti reduci d’Africa, prese la rotta per il Nord, un brusco primo impatto fu al Canale di Suez, La casa natia "Il Vignolino"

un ammasso di ferraglie contorte di

navi bruciate lungo tutto il suo percorso. All’imbocco del Mediterraneo ci accolsero onde furiose e motose, torbide insomma, come io non avevo mai veduto. Impossibile stare in piedi, tuttavia eravamo nel Mare Nostrum e Napoli era ormai vicina. Giunti al porto di Napoli credevamo di prendere subito il treno, invece, molti giorni ancora dovemmo aspettare per essere schedati e pagati. Per me 23 mila lire fu il tutto. Arrivato a Firenze, domandai dell’autobus per Barberino: non esisteva più mi risposero. Come fare? Allora ad un tassi che era li presente gli chiesi quanto mi avrebbe preso per andare a Barberino. “3000 lire” mi disse. “Meno male, esclamai, che mi hanno pagato!” Fare 32 chilometri a piedi non me la sentivo davvero! E con la valigia di legno che avevo costruito a Zonderwater, piena di piccole grandi cose, tra sonetti e speranze buone future. Presi quel taxi che mi portò a riveder le stelle come disse Dante uscito dall’inferno. Dopo otto anni meno una settimana, il 26 febbraio 1946 mi ricongiunsi con la mia famiglia a Barberino di Mugello. Ed ora che ho 92 anni (quando il piede traballa e il dir non osa) mi son preso la briga di scrivere questi ricordi pieni di frasi sgrammaticate e sconclusionate:

“Mentre sto perdendo l’uso / della parola, e l’udito non sente / il parlottar della mia cara gente / ed ai miei piedi gran dolor accuso / e l’occhio vede un pallor soffuso / e intruppo e inciampo come un non vedente / che cosa mi riman, io dico niente / nel grande forno dovrei essere fuso! / No!!! Mai accetterò un eterna notte / ma, tra le chiari e scintillanti stelle / nei loro nidi voglio li abitare! E andar con la cometa a fianco; e a frotte / veder le nebulose procreare / tante buone fantastiche novelle!”

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Chiudo questa mia lunga trafila vissuta in Africa con un sonetto scritto nel 2003, in occasione della manifestazione contro la guerra in Iraq, nella speranza che le generazioni future non abbiano a passare una gioventù cosi malconcia e travagliata come tanti di noi l’abbiamo vissuta.

Al tempo della mia luna calante, Quando il piede traballa e dir non osa, Come povero ignaro mendicante, Io vo chiedendo sol piccola cosa. O voi che oggi vorreste esser garante Di una pace serena e dignitosa, La voce vostra unite ad altre tante Contro la guerra criminale odiosa! Nel tepor dell’amena giovinezza Subì la vita mia tragico oltraggio: Viver otto anni col mese Agosto Pertanto io vorrei ad ogni costo Ciò che per me fur triboli e amarezza Fosse per voi sempre radioso Maggio.

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Ciao

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P.S.: Nel 1946 in Italia ci furono le elezioni, esse rispecchiavano quelle che avevamo fatto fra i prigionieri in Sud Africa. A Barberino la sinistra vinse per il 90%. Nel Consiglio Comunale nessuno voleva prendere l’onere e l’onore di fare l’assessore alla pubblica istruzione (in quel tempo si chiamava così). Il segretario mi aveva già contattato varie volte, e poiché arrivavano in Comune a mio nome vari giornali inglesi e quello stampato dai prigionieri di Zonderwater, “Tra i reticolati”, volle sapere il perché. Io lo informai che in prigionia facevo parte dello staff e degli incarichi speciali che mi erano stati assegnati, e che ho già raccontato in questo diario. Fu così che avvenne la mia elezione. Siccome io cercavo un lavoro per una sistemazione futura, chiesi se fosse possibile avere un posto alle dipendenze del comune di Barberino di Mugello ma per il momento questo non c’era. Allora passati sei mesi emigrai a Prato, dove questa possibilità non veniva respinta. Anzi vi era una carenza di lavoratori. Devo ringraziare la ditta Galli e Capponcelli che mi assunse. In questa ditta lavoravamo a cottimo, si poteva fare gli straordinari e lavorare pure la domenica, tanto che, partendo da zero, sposarmi e farmi una casa non fu un problema difficile. Peccato, che al momento della mia pensione (a 60 anni di età) dopo 29 anni di lavoro tutti questi straordinari non abbiano fatto parte del cumulo assicurativo! Altrimenti ora io sarei stato il Signor Signore Signor Siro. Però non mi lamento, la mia pur misera pensione che è quella di un semplice operaio, messa insieme a quella di mia moglie ci consente di tirare avanti sia pure nella semplicità più assoluta. Potranno raggiungere i nostri nipoti una simile condizione? A voi la risposta e, a loro, il più fervido augurio.

A proposito; anch’io sono un patito della Divina Commedia, e di Roberto Benigni. Quando avevo 11 anni, usciva un canto la settimana; io lo compravo e lo imparavo quasi tutti a memoria. Immaginate quando Roberto trasmise quei canti alla televisione? Appena egli recitava un verso io sapevo già il seguente. Ora, poiché io a Benigni, qualche anno fa, tramite la preside, sig.ra Giannoni, che sapeva il suo indirizzo, gli inviò trenta sonetti delle mie centinaia scritti. Ancora aspetto un suo riscontro. Certamente non gli avrà ricevuti, sia pure telefonando alla sig.ra Beatrice (sorella di Franco l’amico fidato di Prato) chiesi se era possibile avere una sua risposta. Per ora niente, chissà a 92 anni quali pensieri avrei potuto procurargli! Nonostante saluti tutti con cordialità.

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