TRA GLI ORRORI DELLA GUERRA IN ISTRIA

Page 1

Don Rodolfo Toncetti TRA GLI ORRORI DELLA GUERRA IN ISTRIA



3 Don Rodolfo Toncetti TRA GLI ORRORI DELLA GUERRA IN ISTRIA


4

CIP – Katalogizacija u publikaciji Sveučilišna knjižnica u Puli UDK

262.143:94(497.5-3 Istra)»1943/1947» 94(497.5-3 Istra)»1943/1947»: 262.143 Tončetić, R.

TRA gli orrori della guerra in Istria : memorie di don Rodolfo Toncetti degli anni 1943-1947 / a cura di Marijan Jelenić, per l’edizione italiana Walter Arzaretti. – Dignano : Parrocchia di San Biagio, 2007. Bilješke uz tekst. ISBN 978-953-99630-5-5 1. Jelenić, M.

Editore: Parrocchia di San Biagio, Dignano d’Istria Per l’editore: Don Marijan Jelenić Impaginazione: Mod Pula - Pola Stampa: Tipografia Tiskara Nova Tiratura: 700 copie


5

TRA GLI ORRORI DELLA GUERRA IN ISTRIA Memorie di don Rodolfo Toncetti degli anni 1943 - 1947 a cura di Marijan Jelenić per l’edizione italiana Walter Arzaretti

Vodnjan – Dignano d’Istria, anno 2007


6

“Dignano è delle belle e popolate Terre della Polesana, d’aria perfetta posta nel piano in un Territorio fertile e cresciuta da un secolo in quá con continuata popolazione di gente e di case... Ha un fertilissimo Territorio... ha campi fecondissimi... Consiste la Terra in 400 fuochi in circa et eccede il numero di tre mila anime. Vi sono molte ricche famiglie e un Trafico universale, di tutte le cose... Stipendiano Medico fisico... Tengono diversi Chirurghi. ...Qui pure risiede un Capitano di cernide col suo sargente, et ha sotto la sua insegna mille fanti. Consta il Capitolo della Collegiata d’un Pievano e tre Canonici”. Prospero Petronio – mons. G. F. Tomasini, Memorie sacre e profane dell’Istria MDCLXXXI, Trieste 1968, pagg. 294-298.


7

Introduzione La seconda guerra mondiale fu una tragedia senza precedenti per tutta l’umanità. Nulla rimase come prima e per l’Istria fu la più grande tragedia della sua storia. Lo stravolgimento etnico nell’immediato dopoguerra è rimasto insanato, mutando il sostrato culturale ed etnico da secoli ben radicato nella penisola. La mobilitazione militare attuata dal regime fascista agli inizi degli anni Quaranta e la partecipazione alla lotta antifascista dopo la capitolazione dell’Italia dell’8 settembre 1943 spogliarono l’Istria delle sue forze migliori tanto che il prefetto di Pola già all’inizio del maggio 1941 lamentava la carenza di manodopera per un totale di venticinquemila lavoratori per le industrie della città. La situazione in Istria precipitò in seguito alla gigantesca offensiva del generale Rommel a capo di cinquantamila soldati tedeschi nell’intento di spazzare dal territorio gli insorti antifascisti. Durante i combattimenti perirono circa cinquemila combattenti dei ventinovemila di cui disponevano le organizzazioni antifasciste.


8


9 Morirono pure 5800 civili. Furono bruciate 5565 abitazioni e numerosi altri edifici pubblici e privati. I deportati nei lager nazisti furono più di ventunomila, dei quali cinquemila non fecero ritorno: scomparvero nei lager - vere fabbriche di morte - in seguito a maltrattamenti, denutrizione, torture e massacrante lavoro. Inoltre dalle dodici alle tredicimila persone furono infoibate. In tale raccapricciante contesto a regnare sovrane erano l’insicurezza, la paura e l’ansia in costante ascesa, con apici nelle ore notturne. Molto esposti al pericolo erano in particolare i sacerdoti, per la natura stessa della loro missione: sempre a disposizione di tutti, venivano sospettati di connivenze con il nemico tanto dai reggitori del regime quanto dai loro oppositori. Non ci è dato di sapere quanto abbiano patito, ma ci sono noti alcuni episodi emblematici che possono aiutarci a comprendere meglio la situazione. Ne riporto uno che mi è stato raccontato dal protagonista, don Clemente Barković parroco di Kašćerga, Padova in italiano. Un giorno, tornando da una visita alle chiesette del territorio, trovò tutti i maschi del paese Il Duomo di Dignano


10 schierati sulla piazza antistante la chiesa. Erano pronti per essere fucilati in quanto i tedeschi, in seguito all’uccisione di un loro soldato, volevano per rappresaglia ripagare il torto subito. Don Clemente, venuto a sapere di ciò che stava accadendo, si rivolse in tedesco all’ufficiale che guidava l’operazione e disse: «Pure io sono maschio! Esigo pertanto di condividere la sorte degli altri ostaggi!». Al che l’ufficiale, sorpreso, rispose: «Ma cosa sono per lei questi uomini!». Don Milivoj rispose: «Io sono il loro pastore e padre spirituale. A me sono state affidate non solo le loro anime, ma pure i loro corpi». E, avvicinandosi ulteriormente all’ufficiale, soggiunse: «Si ricordi quanto le disse sua madre quando partì da casa!». L’ufficiale, visto il coraggio del sacerdote nella ferma difesa dei suoi parrocchiani e ricordandosi della madre, si commosse e ordinò ai suoi soldati di proseguire. Rimasto con l’aiutante, ordinò a questi di alzare la canna della mitragliatrice verso l’alto e di sparare. I soldati, ormai lontani, udita la raffica, si convinsero dell’avvenuta esecuzione e della morte di tutti gli ostaggi che invece, grazie all’intervento tempestivo e coraggioso del loro parroco, poterono fare ritorno ai propri cari. In questo clima di violenze e brutalità si


11 trovò ad agire don Rodolfo Toncetti il quale ci ha lasciato le sue Memorie sugli avvenimenti accaduti a Dignano e in Istria nel periodo bellico e nell’immediato dopoguerra. Di proposito abbiamo lasciato quasi inalterato il testo che non ha mai avuto pretese letterarie, ma solo di testimoniare quanto è avvenuto in quel burrascoso periodo della nostra recente storia. Grazie a don Toncetti siamo in possesso di un’importante e diretta testimonianza dei fatti avvenuti, particolarmente a Dignano, negli anni cruciali della seconda guerra mondiale; abbiamo un prezioso tassello della nostra storia. Auspichiamo che queste Memorie di don Rodolfo Toncetti siano di monito affinché mai più si ripetano mai più le mostruosità accadute e ci aiutino a costruire solidi rapporti umani e familiari, anche tra etnie diverse.

Marijan Jelenić parroco di Vodnjan - Dignano d’Istria


12


13 Dati biografici Don Rodolfo Toncetti (1) nacque a Pola, nella borgata di Bussoler (2), il 6 maggio 1917. Fu ordinato sacerdote il 2 giugno 1940 a Parenzo dal vescovo diocesano Trifone Pederzolli. Iniziò il servizio sacerdotale come cooperatore a Gallesano, frazione del Comune di Pola (1940-41). Passò poi a Parenzo dove, oltre al servizio sacerdotale nella parrocchia della cattedrale, svolse mansioni nell’Ufficio Amministrativo della Curia diocesana ed ebbe in cura le anime di diverse borgate del circondario (1941-42). Fu cooperatore della parrocchia di Dignano d’Istria dal novembre 1942 ed ebbe la cura di Roveria dal settembre 1943 a tutto il 1946. Alla fine di tale anno, iniziato l’esodo forzato degli italiani (clero compreso), divenne economo 1. Figlio di Giovanni Toncetich e di Maria Scichich, nato il 6 maggio 1917, iscritto nel libro dei battezzati come Toncetich Rodolphus Franciscus. Con il decreto fascista 24 giugno 1931 n. 158 T il cognome ‘Toncetich’ fu cambiato in ‘Toncetti’ (v. Ufficio Anagrafe del comune di Pola, libro XVII, p. 424, n. 94). 2. Bussoler è alla periferia nord-ovest di Pola. Don Rodolfo Toncetti


14 spirituale di Dignano e assunse la cura d’anime anche delle parrocchie di Gallesano e, per breve tempo, di Valle d’Istria: ciò fino al 5 giugno 1947 quando, dopo la processione del Corpus Domini, con la fuga in bicicletta fino a Trieste, riuscì a mettere in salvo la propria vita. Accolto esule nella diocesi di Concordia, per cinquant’anni fu preposto alla piccola parrocchia di Toppo, comune di Travesio, provincia di Pordenone: prima in qualità di vicario sostituto (dal 2 agosto 1947), quindi – con l’incardinazione fra il clero concordiese (15 gennaio 1968) – di arciprete parroco fino al 1996 (3). Ebbe pure la responsabilità dell’Ufficio Assistenza Sociale del Clero presso la Curia vescovile a Pordenone dal 1971 al 1977. Fatto parroco emerito e anche cittadino onorario del comune di Travesio (1996), visse ancora alcuni anni a Toppo per essere quindi ricoverato, causa infermità, nella Casa del Clero di San Vito al Tagliamento (Pordenone) nel gennaio 2000. Qui si spense serenamente, all’età di 88 anni, il 21 giugno 2005. E’ sepolto nel cimitero di Toppo. Quando don Grah (4) gli fece visita il 20 ottobre 1994, don Toncetti raccontò episodi della sua vita del periodo bellico e dell’immediato dopoguerra che don Grah poi redasse e pubblicò


15 sul mensile diocesano di Parenzo-Pola, Ladonja. Don Rodolfo, in seguito, tradusse in italiano gli episodi stampati, aggiungendone altri e completando le Memorie nel testo che viene qui pubblicato (5).

3. Toppo è una piccola parrocchia, attualmente di 400 abitanti, intitolata a San Lorenzo diacono e martire. 4. Don Ivan Grah è sacerdote della diocesi di ParenzoPola, parroco di Lisignano, studioso e archivista. Ha molto approfondito la vita della Chiesa dell’Istria durante la seconda guerra mondiale. Su questo periodo ha pubblicato il libro Istarska Crkva u ratnom vihoru (1943 -1945), IKD Juraj Dobrila Pazin 1998. A tale scopo visitò don Rodolfo Toncetti nel 1994 5. Don Toncetti mandò a don Grah una fotocopia del dattiloscritto; la sorella di don Rodolfo, Maria, da Londra inviò a Dignano, per l’Archivio parrocchiale, dopo la morte del fratello nel 2005, un’altra fotocopia. Le siamo riconoscenti: da poco anche lei trovasi nella casa del Padre. Le Memorie di don Rodolfo suscitarono interesse anche a Pordenone. Così il 3 luglio 2006 faceva visita a Dignano d’Istria era il comitato per la beatificazione del Venerabile Egidio Bullesi: in quella occasione veniva consegnato alla parrocchia di San Biagio di Dignano il dattiloscritto copiato al computer. Nell’introduzione don Vittorino Zanette, il 29 giugno 2006, scriveva: “Con pazienza ho ordinato questi fogli dattiloscritti. Fu per me una gioia e un piacere computizzare questi preziosi documenti dove è contenuta una pagina eroica e gloriosa di questo sacerdote e della chiesa istriana”.


16

«Piccola libertà» Mi riferisco al periodo che va dalla capitolazione dell’Italia dell’8 settembre 1943 fino all’occupazione tedesca dell’Istria. Con la caduta dell’Italia il potere in Istria passò ai partigiani che subito iniziarono la pulizia etnica di molti italiani e di alcuni croati. Centinaia finirono nelle foibe. Fra i sacerdoti, vittima fu il parroco di Villa di Rovigno don Angelo Tarticchio (6). Avuta la notizia del suo arresto, subito informai il vescovo monsignor Radossi (7) il quale dalla sede di Parenzo andò immediatamente a Pisino e lì ebbe la notizia che don Tarticchio non era più vivo. Era stato gettato in una cava di bauxite dopo essere stato violentato. La sua salma fu portata a Gallesano e lì sepolta. 6. Don Angelo Tarticchio nacque il 25 marzo 1906 a Gallesano e fu ordinato il 1° maggio 1943 . Fu infoibato il 19 settembre 1943 nel territorio di Lindaro (vedi Ivan Grah, op. cit. p. 67). 7. Per comprendere meglio i fatti, è bene riportare dei cenni biografici del vescovo Raffaele Radossi, ossia Radoslović. Figlio di Domenico e Antonietta Purić, nacque a Cherso il 3 giugno 1887. A undici anni entrò nel seminario dei


17

Mons. Rafaele Radossi vescovo della diocesi di Parenzo e Pola Frati Minori Conventuali. Nel 1903 emise a Cherso la professione semplice e nel 1907 quella solenne che lo legò per sempre all’Ordine Francescano. Studiò in Svizzera e a Friburgo fu ordinato sacerdote il 28 novembre 1909. Fu di convento a Padova e Camposampiero come insegnante di scienze naturali, fisica e matematica ed educatore nei seminari, a Roma profugo, di nuovo al Santo di Padova quale officiatore. A Pirano ricoprì l’ufficio di segretario della sua provincia conventuale e a Cherso, per sei anni, di guardiano e rettore della chiesa dei frati. Quindi a Roma resse il collegio internazionale dell’ordine. Ritornò quindi in Istria, a Cherso e Pola, dove fu guardiano del convento di San Francesco. Dal 1930 al 1941 fu poi a Venezia: rettore del Collegio Teologico, coadiutore e quindi guardiano e parroco della Basilica di Santa Maria Gloriosa dei Frari. Qui si distinse ancora come direttore d’anime e soprattutto come valente predicatore oltre che per la prudenza, l’attività pastorale, lo spirito di organizzazione, la sana dottrina,


18 la carità ai poveri. Apprezzando le sue doti e il suo zelo, Papa Pio XII lo nominò vescovo delle diocesi di Parenzo e Pola il 28 novembre 1941, ufficio che egli assunse per obbedienza, sentendosi e dichiarandosi sempre frate. Fu consacrato nella Basilica dei Frari il 25 gennaio 1942. A Parenzo si insediò il seguente 1° marzo: tutta la città era in piedi ad accoglierlo. E qui visse le tragedie della guerra. Nulla lo trattenne dal compiere il suo dovere di pastore: non i bombardamenti aerei, non i pericoli, i trabocchetti di cui a volte fu vittima soprattutto negli anni della lotta tra fazioni opposte o l’ostilità di chi vedeva in lui la condanna dei metodi inumani e spietati. Visitò tutte le foibe, facendo il possibile per identificare le vittime e dare a esse una degna sepoltura. Fu lui stesso a deporre nella fossa il parroco don Zelco impiccato a Canfanaro. Pubblicamente espresse la sua contrarietà ai tedeschi e per questo diventò persona a loro non gradita. Subì anche un attentato non riuscito. Vicino a San Quirino, presso Dignano, finì con l’automobile in una fossa precedentemente scavata: la prima a porgergli aiuto fu la signora Maria Banković, madre del futuro sacerdote Vjekoslav Banković. Fu imprigionato a Dignano per tre giorni: gli fu consentito di celebrare messa, ma sorvegliato da soldati armati. Durante l’interrogatorio nell’Ufficio affari interni fu umiliato come un ladro e spogliato nudo. Quando i tedeschi gli sequestrarono l’automobile, cominciò a girare in bicicletta. Il vescovo Radossi non respinse mai alcun povero e fu consolatore e luce di speranza per le famiglie duramente colpite prima dal conflitto e poi dall’odio di parte che prese il sopravvento in Istria: allora si erse a intrepido difensore dei perseguitati e a energico fustigatore dei persecutori. Fu per questo minacciato di morte, per cui si rifugiò a Pola, dove erano gli alleati. Da Pola viaggiava egualmente per tutta l’Istria con il fedele autista Mario Zago. Agli alleati chiese di riparare le case bombardate: «Chi trema per il freddo non chiede finezze», diceva. Pregò inoltre


19 le autorità jugoslave di consentire l’importazione di viveri e di legna per il riscaldamento. Nel 1947 dovette assistere all’esodo degli italiani dall’Istria. Fu qui che la grandezza d’animo del vescovo raggiunse mete impensate. La nave Toscana prelevava a ogni viaggio duemila persone da Pola: una tristezza indefinibile. Monsignor Radossi era ogni volta presente, per consolare e benedire gli esuli partenti, che egli continuò ad accompagnare, confortare, amare. Pensava di partire con gli ultimi, invece dovette lasciare la città con il penultimo trasbordo della motonave Pola. La pagina di carità che il vescovo di Parenzo e Pola allora scrisse fu in seguito così riassunta da Papa Giovanni XXIII: «Dimostrasti di essere il vigile tutore dei diritti di Dio e della Chiesa, proprio come deve fare il vescovo che non teme i pericoli terreni. Tu stesso sopportasti molte sofferenze e portasti aiuti e conforti di ogni genere ai perseguitati e ai profughi, mostrando chiaramente un così profondo senso della carità da essere amareggiato per non poter seguire ‘tutti’ i poveri e gli afflitti». Fu nominato quindi arcivescovo di Spoleto il 7 luglio 1948 e rimase in quella sede per diciannove anni, fino alla quiescenza nel 1967: venticinque anni di episcopato che riscossero l’unanime consenso di clero e fedeli delle sue diocesi, grazie alla benevolenza, comprensione, affettuosa semplicità e profonda paternità di Monsignor Radossi che raccomandava spesso ai suoi preti questo programma di vita e apostolato: «Lavorate, siate ottimisti, fatevi santi». Lasciò tutto ai poveri e si ritirò nell’amato convento dei Frari a Venezia. Negli ultimi tempi, causa grave infermità, fu trasferito nella casa dei frati a Montericco di Monselice. Si spense a Padova il 27 settembre 1972. E’ sepolto nel cimitero cittadino dell’Arcella (vedi Bollettino della Provincia Patavina dei Conventuali, settembre-dicembre 1972; Antonietta Corsi, Ricordo del vescovo Monsignor Raffaele Radossi, Unione degli Istriani, Trieste, s.a.)


20 A Pisino il vescovo trovò il parroco di Sissano. Stava per essere gettato in foiba. Fu liberato e subito portato a Pola. Si chiamava don Camillo Ammirati. Era nato a Napoli. Là ritornò e morì dopo breve tempo anche a causa delle atrocità subite durante l’arresto. Riuscii a salvare don Angelo Leonardelli già parroco di Valle d’Istria. Subito dopo la guerra, in maggio (1945), fu arrestato dai partigiani. Lo feci liberare, a condizione che lasciasse l’Istria. E così avvenne. Fu accolto nella diocesi di Concordia. Fu parroco a Sant’Andrea di Pasiano e ora si trova a Torino. Ora facciamo un passo indietro. Nel settembre del 1943 i partigiani, come stavano facendo con tutte le cittadine dell’Istria, arrivarono anche a Valle dove era parroco don Angelo Leonardelli. Questi non fu arrestato, ma dovette lasciare la parrocchia. Si rifugiò a Gallesano, frazione del comune di Pola, dove già erano arrivati i tedeschi. Io, una domenica di settembre, dopo i vesperi presi la bicicletta e decisi di andare a vedere come erano le cose a Valle, dove quella domenica non era stata celebrata alcuna santa messa.


21 Don Grah (8) ha riportato questo avvenimento con alcune inesattezze che devo rettificare per far capire i miei rapporti con i partigiani di tutta l’Istria. Le cose andarono così. Mi avvicinavo a Valle, dieci chilometri da Dignano, leggendo come mio uso il breviario in bicicletta (9). Sentii improvvisamente un ‘Alt’. Vidi un giovane partigiano. Credo avesse circa sedici anni. Teneva il fucile puntato verso di me. Scesi dalla bicicletta. Mi fermai. Mi chiese dove andavo in un italiano incerto. Gli dissi di parlare pure in croato. Alle mie parole depose il fucile. Volle sapere dove ero diretto. Gli dissi di portarmi davanti al suo comandante, al quale avrei spiegato tutto. Accettò.

8. Vedi: Ladonja, mensile della diocesi di Parenzo e Pola no 10 / 94. e no 1./ 95. 9. Don Toncetti era un uomo abile. Spesso leggeva il breviario

e i giornali pedalando in bicicletta. Ancora oggi sono in molti a ricordarlo. Lo chiamavano ‘la freccia nera’. E proprio come una freccia si poteva trovarlo improvvisamente dappertutto. Così testimonia il maestro di musica Luigi Donorà che fu suo chierichetto, servendo spesso messa nelle chiese succursali della parrocchia di Dignano. La testimonianza è stata resa a Dignano il 15 febbraio 2006.


22 Alla curva della strada per Trieste due uomini chiesero il fucile al giovane per fucilarmi. Egli non lo cedette. Protestai per tale comportamento dei due comunisti italiani. Il giovane mi accompagnò verso alcuni partigiani e ordinò loro di portarmi davanti al comandante. Mi prese però la bicicletta. Obbedirono e, arrivati davanti al municipio di Valle, trovammo il comandante seduto con davanti un mitra. Sulla piazzetta, in un grande disordine, erano tutte le carte e i documenti che si trovavano in municipio (10). Mi avvicinai al comandante. Parlava in italiano: non era di Sanvincenti, ma di Pola e abitava in Grega, una borgata sulla via Sissano, vicino alla centrale elettrica. Mi disse che sua mamma vendeva fiori al mercato di Pola. Si instaurò subito un colloquio amichevole. Mentre parlavamo, venne un tale il quale mi accusò di essere una spia. Allora una simile accusa implicava la morte e quindi la foiba. Chiesi al comandante se credeva a una simile cosa e rilevai certi metodi di accusa e condanna. Sorrise e mi disse di stare tranquillo (11). 10. I nuovi padroni distrussero purtroppo tutti i segni del passato. 11. Il dialogo non viene posto tra virgolette. Abbiamo lasciato inalterato il modo di scrivere di don Rodolfo.

Don Rodolfo sulla sua famosa bicicletta


23


24 Gli dissi che ero venuto a vedere come era la situazione religiosa a Valle, ma aggiunsi che non ritenevo giusto il discutere io in piedi e lui su una sedia sulla piazzetta in un grosso disordine. Allora si alzò e mi invitò ad entrare in un ufficio. Entrati, feci osservare che io quella sera dovevo fare dieci chilometri per rientrare a Dignano e, avendomi il giovane partigiano sequestrato la bicicletta, sarei stato costretto a rientrare a piedi. Il comandante ordinò subito di portare la mia bicicletta. La misero fuori della porta, ma io pretesi e ottenni che fosse portata vicino a me, in ufficio. Poi parlammo di molte cose, ma soprattutto io rilevai la situazione religiosa: in quel giorno - era domenica - nessuno aveva celebrato la messa. Chiesi di provvedere per il futuro dando la libertà a un sacerdote di sostituire don Leonardelli. Propose a me di venire. Accettai, ma dissi che prima dovevo informare il vescovo e chiesi di avere una completa libertà di movimento. Allora egli scrisse su un biglietto queste parole: «Si permette al compagno don Rodolfo Toncetti di girare tutta l’Istria». Osservai la parola «compagno»: se il biglietto


25 fosse caduto in mano dei tedeschi o fascisti mi avrebbe messo in grave pericolo. Egli rispose che ormai aveva scritto e non volle cambiare. Presi il biglietto e lo nascosi in uno speciale taschino dei calzoni. Nessuno mai lo trovò. Concludemmo il colloquio. Uscii con la bicicletta in mano passando fra due righe di partigiani che mi salutarono con il pugno alzato. Per fortuna non c’erano fotografi. Grazie a quel lasciapassare potei muovermi indisturbato per tutta l’Istria.


26

Ricerca del dottor Diana Cito un episodio verificatosi qualche giorno dopo, due giorni prima dell’attacco dei partigiani contro Dignano (12). Era stato sequestrato, con la moglie, il dottor Diana. Si era recato nella zona di Juršići per visitare alcuni ammalati. Non vedendolo ritornare a casa (aveva lasciato la mamma di oltre ottant’anni), il fratello, direttore didattico di Dignano e circondario, venne da me per vedere cosa si potesse fare. Venne anche il tenente dei carabinieri (13). Decisi che a cercare il dottore sarei andato io. Per loro sarebbe stato pericoloso muoversi. Andai il giorno dopo. Vicino a Juršići mi fermarono tre partigiani posti a guardia sulla strada. Si era vicini a San Quirino, alla fine della salita. Dissi che dovevo andare da don Vincenzo Pereša (14). Mi risposero che non era possibile. 12. Secondo Antonio Frlin, residente a Dignano in via Dolinska 52, era il 1° maggio 1945. Da villa Krnjaloža vide le granate lanciate dai tedeschi contro la chiesa e il campanile: i partigiani non erano più di centocinquanta. 13. I carabinieri erano presenti in ogni località. 14. Don Vinko Pereša era amministratore parrocchiale a Roveria-Juršići e dal 1947 fino al 1975 fu parroco e decano di Dignano. Morì a 59 anni per infarto il 28 gennaio 1975. È sepolto a Dignano.


27 Allora decisi di ritornare indietro, a casa. Dissero che non era permesso. Restammo lì sulla strada a discutere più di un’ora. Sentendo i rumori di camions o altro simile, scapparono nel bosco. Alla fine decisi di tirare fuori dal nascondiglio il lasciapassare datomi a Valle. Appena lo videro, mi domandarono perché non lo avessi mostrato prima. Dissi che non mi fidavo, non sapendo se essi erano veramente partigiani o fascisti camuffati. Vista la carta mi lasciarono proseguire. Andai da don Pereša. Il dottore non lo trovai né lui sapeva dove poteva trovarsi. Più tardi seppi che era nella zona di Gimino. Lì fu trovato dai tedeschi durante il rastrellamento di ottobre. Spiegò il suo caso. Sua moglie sapeva bene il tedesco e si salvarono dalla minacciata fucilazione. Due giorni dopo compresi meglio il motivo del blocco stradale: nessuno poteva entrare o uscire. Io invece ritornai tranquillo a Dignano. Per strada, sulla via detta della Calnova, verso sera incontrai il tenente dei carabinieri. Voleva sapere subito qualche cosa. Gli dissi sotto voce che sarei venuto da lui in caserma verso sera.


28


29 La caserma confinava con la mia casa (15). Alla sera, con molte precauzioni, dopo essermi accertato che nessuno controllasse chi entrava e usciva dalla caserma dei carabinieri, entrai. Con mia sorpresa, oltre al tenente, trovai anche il capo della Gestapo venuto da Pola (16). Dapprima esposi al tenente il risultato della visita alla parrocchia (allora era cappellania). Poi intervenne il capo della Gestapo e a un certo punto mi domandò se avessi incontrato dei partigiani. Dovetti calibrare bene la risposta, perché se avessi raccontato i particolari dell’incontro con i tre partigiani, del blocco impostomi per un’ora, egli avrebbe potuto trarre chissà quali deduzioni e magari quella, che io sospettavo, cioè dell’occupazione di Dignano, come era già avvenuto con tante altre cittadine italiane dell’Istria, con deportazioni e susseguenti infoibamenti. Risposi con una breve frase in tedesco e cioè: sulla strada ho visto alcuni uomini. Nulla dissi del blocco e aggiunsi che io non sapevo se erano o no partigiani. Il colloquio cambiò argomento e 15. La caserma era nell’odierna via Antonio Smareglia al numero 47. Nella casa al numero 45 abitava don Rodolfo. 16. Gestapo, polizia segreta tedesca. Il dottor Mario Diana


30 tutto finì senza conseguenze o danni, né per me né per quella zona, che avrebbe potuto subire, magari il giorno dopo, un rastrellamento. Avvenne invece quello che sospettavo si stesse preparando. Due giorni dopo fui svegliato da una violenta sparatoria. Dignano era stata circondata da circa millecinquecento partigiani. I sette carabinieri si erano appostati e asserragliati in un macello abbandonato. A un certo punto venne da me il comandante, il cui nome non ricordo. Aveva con sé la moglie e quattro piccoli bambini. Mi chiese che cosa doveva fare. Io risposi: resistere. Arrendersi voleva dire finire in foiba. E non solo loro, ma circa centocinquanta dignanesi, che pure sarebbero finiti nelle foibe. Gli dissi: «Mi consegni la moglie e i bambini, e vada a combattere con gli altri sette carabinieri». Mi disse che erano troppo pochi e male armati. Gli dissi: «C’è chi può difendere voi e tutta Dignano: i tedeschi, che potete chiamare da Pola in aiuto». Non sapevano come chiamarli. Dissi che c’era il modo: la radio ricetrasmittente, che io sapevo avevano in caserma, perché, quando dopo l’8 settembre la caserma era stata per poco


31 tempo abbandonata, io l’avevo visitata tutta e avevo visto la radio. Io avevo predisposto un nascondiglio in caserma nel caso ci fosse stato un pericolo per me: sarei andato a nascondermi proprio nella caserma confinante con la mia casa. Il comandante chiamò i tedeschi. Arrivarono circa dopo venti minuti con quarantaquattro soldati e una mitragliera a quattro canne. Purtroppo il comandante ai tedeschi aveva detto che i partigiani erano a Dignano. I tedeschi videro un uomo e un ragazzo su una finestra: spararono e li uccisero. In campanile c’erano due o tre finanzieri e spararono anche a loro: si salvarono dietro i muri della cella campanaria. E poi diedero l’assalto ai partigiani, che fuggirono in massa abbandonando sul terreno parecchia della loro roba. E Dignano fu salva. Fra me e il comandante dei carabinieri - salvi anche loro - rimase per sempre segreto il suggerimento da me datogli. In quel momento non c’era un’altra soluzione, e fu bene così. Anche un partigiano era stato ucciso. Aveva attorno alla pancia due o tre bombe a mano. Non sapevo come tirarle giù. Chiamai un esperto.


32 Lo liberò e io poi lo misi sul carro, lo portai in cimitero e gli diedi cristiana sepoltura. A proposito di morti: la colonna tedesca, giunta da Trieste verso la fine di settembre a sud di Dignano, fucilò, mi pare, quattordici partigiani e non, presi nel centro dell’Istria. Io, dopo averne registrati i nomi - e questo lo facevo sempre - li seppellii con la partecipazione di altri due sacerdoti di Dignano nel cimitero della parrocchia. Sul carro normalmente li caricavamo io e il sacrestano. Ne raccolsi e seppellii nei cimiteri circa centocinquanta.


33

Liberazione di arrestati e condannati Negli anni della guerra svolsi il servizio pastorale non solo a Dignano, ma anche a Valle, JuršićiRoveria, Filippano, Marzana e altrove. Nel passare in bicicletta incontravo i soldati fascisti, i tedeschi come anche partigiani armati. Tutti mi conoscevano e non intralciavano il mio lavoro sacerdotale. Ero molto comunicativo e con tutti scambiavo qualche parola. Giocavo a scacchi con i soldati tedeschi, che occupavano la casa dei Sansa a Dignano. Quando la partita alla sera si prolungava fino al coprifuoco, essi stessi mi accompagnavano fino a casa. I fascisti sospettavano di me, i partigiani rispettavano il mio lasciapassare. Dopo gli scontri, senza paura raccoglievo nei paesi e nei boschi le vittime innocenti dell’occupatore. Con i carri dei contadini portavo i corpi nei cimiteri, li identificavo segnando i loro nomi e li seppellivo. Salvavo tutti quelli che potevo. Salvai più di cento arrestati di Dignano e Juršići (Roveria). Al comando tedesco delle SS era occupata come interprete, da me bene conosciuta, Lidia S. Ella


34 mi avvertiva e aiutava, intervenendo presso il comando per salvare i parrocchiani arrestati. Quando i partigiani, dopo la guerra, la incarcerarono e si accingevano a giudicarla per la sua collaborazione con l’occupatore, preparai la lista dei salvati di Dignano e Roveria e la consegnai a Osman, capo dell’OZNA, in croato «Odjel za zaštitu naroda», in italiano «Dipartimento della difesa del popolo» (17) (Osman, nome di battaglia, in realtà si chiamava Janez Žirovnik), e a un certo Radošević da Medolino. Così riuscii a salvarla. Quando i tedeschi scoprirono il deposito di armi nascosto a Juršići-Roveria nel magazzino della canonica, per rappresaglia arrestarono alcuni uomini e il parroco Vincenzo Pereša. Don Pereša fu immediatamente condannato all’impiccagione. Per fortuna il tenente dei carabinieri arrivò quando don Pereša era già sotto un albero con la corda al collo. Questi intervenne presso i tedeschi, sostenendo che il parroco aveva dovuto cedere il magazzino vuoto ai partigiani e non era quindi colpevole. Riuscì a salvarlo. Io informai immediatamente il vescovo a Parenzo. 17. OZNA - Odjel za zaštitu naroda, cioè Dipartimento della Difesa del Popolo - in realtà era la polizia segreta partigiana. La chiesa parrocchiale di Valle d’Istria


35


36

Don Vincenzo Pereša

Don Kazimir Paić

Il giorno dopo il vescovo arrivò a Pola e riuscì a liberare don Vincenzo Pereša e don Casimiro Paić, parroco di San Giovanni di Sterna, che alcuni giorni prima era stato arrestato dai tedeschi. Il comandante tedesco concordò col vescovo la loro liberazione a patto che fossero espulsi dall’Istria. Da quella volta fui incaricato del servizio pastorale di Juršići (Roveria) pur risiedendo a Dignano come cappellano. Per andare a Juršići e nel circondario mi servivo sempre della bicicletta. All’inizio del mese di luglio 1944, il reverendo Vladislav Premate, parroco a San Martino di Albona, tenne un discorso alla conferenza della gioventù del distretto di Albona e qualcuno lo


37

Mons. Vladislav Premate

Mons. Antonio Angeli

denunziò al comando tedesco ad Albona, allegando una fotografia nell’atto di benedire la bandiera partigiana (io, don Rodolfo, ho visto quella fotografia). La polizia tedesca lo arrestò e portò nel carcere di Pola. Da un informatore riservato seppi dell’arresto e con la bicicletta, percorrendo cento chilometri tra andata e ritorno, andai ad avvertire del fatto il vescovo Radossi a Parenzo. Il vescovo il giorno dopo era già a Pola. Accompagnato da monsignor Angeli (18), parroco di Pola, buon conoscitore del tedesco, chiese e ottenne un colloquio con il comandante delle SS e, dopo una difficile discussione, riuscì a liberare il suo 18. Il dottor don Antonio Angeli fu parroco e decano a Dignano dal 1932 fino al 1934 e quindi parroco a Pola.


38 sacerdote dalla deportazione in un campo di concentramento, ma dovette spostarlo nella zona di Parenzo. Finita la guerra, don Premate (19) divenne parroco del duomo di Pola e canonico della cattedrale. Ha 84 anni e vive in riposo a Pola. Ecco alcuni particolari attinenti il sacerdote Mirko Camlić (si legge Zamlić) (20). Era parroco a Filippano. Oggi vive a Gorizia nella casa di cura dei Fatebenefratelli (21). Lo bastonarono i fascisti e i partigiani. A causa di un funerale di due partigiani caduti, al quale non aveva potuto essere presente nella sua parrocchia, fu accusato di non averlo voluto fare perché partigiani. Non era vero. Lo minacciarono di morte. Spaventato, si rifugiò a Dignano e fu ospitato per alcuni 19. Monsignor Vladislav Premate è morto poi a Pola nel 1999. 20. Don Enrico Camlić (Zamelli) era nato a Barbana d’Istria il 12 aprile 1913, era stato ordinato il 25 giugno 1939 a Pola. Morì a Gorizia il 24 ottobre 1996. Poiché don Toncetti non data il suo dattiloscritto, dal contesto possiamo far risalire la prima parte di queste Memorie fra il 1994 (incontro con don Grah) e il 1996. La loro redazione fu poi ripresa e completata negli anni 1998-1999. 21. I Fatebenefratelli sono un ordine religioso fondato da San Giovanni di Dio (+1550).


39

Il Servo di Dio Miro Bulešić

Don Mirco Zamelli - Camlić

giorni nella mia casa. Era mio compagno di classe e perciò lo accolsi con particolare affetto. Dopo qualche giorno andai con la solita bicicletta nella sua parrocchia di Filippano. Fatte le adeguate indagini, accertai che non correva più alcun pericolo e quindi lo convinsi a ritornare nella sua canonica. Lo accompagnai a casa. Viveva però sempre nel terrore che i partigiani sarebbero venuti a prenderlo per ucciderlo. Quando nell’agosto del 1947 a Lanischie, nell’Istria del nord, fu ucciso sgozzato alla gola un giovane sacerdote (22), fu colto da 22. A Lanischie-Lanišće, il 24 agosto 1947, fu ucciso per odio nei confronti della fede don Miroslav Bulešić, vicerettore e professore nel Seminario di Pisino. Era nato nella parrocchia di Sanvincenti, nel villaggio Čabrunići, il 19 marzo 1919.


40 molta paura e si rifugiò in Italia nella diocesi di Gorizia. I suoi nervi ressero per poco. Dovette essere ricoverato in Istria prima in un ospedale psichiatrico e oggi, per lo stesso motivo, accolto nell’ospedale San Giusto dei Fatebenefratelli a Gorizia. La sua mente è ancora sconvolta. Era il più anziano della nostra classe e per questo gli avevamo dato il soprannome di Nestore. Era ed è molto buono. Nemmeno monsignor Angeli, parroco della cattedrale di Pola, poté più sopportare le ingiustizie e gli attacchi dell’invasore tedesco a Pola e nel circondario e nelle prediche attaccò tale comportamento. La Polizia lo mise in prigione a Pola. Appena io appresi la notizia dell’arresto e dell’ordine imminente del trasferimento nel campo di concentramento di Dachau in Baviera, vicino a Monaco, per mezzo di un telefono segretissimo potei avvertire il vescovo di Trieste monsignor Santin, grande amico di monsignor Angeli e compagno di classe al Seminario di Capodistria. Il vescovo di Parenzo e Pola monsignor Radossi era a Venezia. Fu subito avvertito. Da notare che in seguito all’uccisione, durante un rastrellamento, e nell’occasione


41 dell’impiccagione di don Zelco (23), parroco di Canfanaro, il vescovo Radossi aveva concordato con il Gauleiter (24) che non si sarebbe potuto procedere contro i sacerdoti senza informare il vescovo. Evidentemente il comandante delle SS sapeva che il vescovo era assente e arrestò monsignor Angeli. Una sera io venni a sapere che era imminente il trasferimento di monsignor Angeli a Dachau. Allora, la mattina dopo, partii in bicicletta per Trieste, distante centoventi chilometri. Vi giunsi nel pomeriggio e subito andai dal vescovo Santin. Egli avvertì il Gauleiter che organizzò una guardia di vigilanza all’arrivo di alcune navi provenienti da Pola. Intanto arrivò a Trieste il vescovo Radossi e, dopo aver celebrato 23. Don Zelco nacque a Visignano il 21 febbraio 1893. Svolse il suo ministero a Sanvincenti, Labinzi, Castelliere e Canfanaro. Furono i tedeschi a impiccarlo a Canfanaro il 10 febbraio 1943. I motivi addotti sono diversi. 24. Gauleiter, comando supremo tedesco costituito il 5 ottobre 1943 per l’Adriatisches Kuenstland, il Litorale adriatico suddiviso in sei regioni: Trieste, Gorizia, Udine, Lubiana, Pola e Fiume. Esso aveva potere assoluto - civile, giuridico e militare - sotto il comando del dottor Friedrich Reiner e del generale delle SS Odillo Lotario Globočnik, fedele a Eihmann e Himler nello sterminio degli Ebrei in Polonia.


42 la messa al mattino presto, decise di partire per Pola in automobile. Era in corso un allarme aereo: quarantaquattro fortezze volanti stavano dirigendosi verso Udine. A quel punto il vescovo uscì dal rifugio e con me e con l’autista Mario decise di partire. Trieste era deserta. Erano tutti nei rifugi, ma tutto andò bene fino alla raffineria dell’Aquila, dove bucammo una gomma. Il posto era assai pericoloso. Si sentivano rombare gli aerei. Scendemmo tutti e tre dall’automobile. Collaborò alla sostituzione della gomma anche il vescovo. Tutto andò bene. Nota bene: la mia bicicletta era legata sul tetto dell’auto. Partimmo senza essere disturbati o fermati lungo la strada. Al pomeriggio arrivammo a Pola. Il vescovo si recò subito al comando delle SS e riuscì a liberare monsignor Angeli. Questi rimase a Pola fino a quando, con l’esodo (25), dovette, come migliaia di altri, lasciare la città e l’Istria. Morì a Oderzo, dopo essersi dedicato in gran parte alla predicazione e all’insegnamento nel collegio di Oderzo (26). 25. Con l’esodo dovettero abbandonare l’Istria il vescovo, 56 sacerdoti e circa 150 mila persone. 26. Oderzo è una cittadina in provincia di Treviso e diocesi di Vittorio Veneto. Monsignor Angeli nacque a Pirano il 18 dicembre 1894, morì il 2 ottobre 1971.


43

La strage di Gaiano Non ricordo con precisione le date. Descrivo i fatti. Il paese si trova a destra della strada che va da Dignano a Valle e vicino alla chiesa della Madonna della Salute. Era composto di due gruppi di case: il piĂš vecchio a nord e il piĂš recente a sud. Qui successe il primo fatto, che sto per descrivere. Io abitavo una casa con la vista sulla strada Pola-Trieste. Mi pare nel 1944 (27) si sparge improvvisa la voce che qualche cosa di grave era successo a Gaiano. Dopo qualche tempo, dalla 27. Gaiano fu bruciato il 27 gennaio 1944 alle tre del mattino con un attacco alle sentinelle del villaggio. I sopravvissuti fuggirono nella notte fredda con indumenti inadeguati, a piedi nudi. Quanti non riuscirono a fuggire si abbandonarono al destino. I nazifascisti, dopo il primo attacco della notte, ne fecero un secondo all’alba. Tutti gli abitanti - donne, bambini, vecchi - furono costretti a schierarsi in ďŹ la su un prato. Il comandante estrasse dalla tasca la lista di quelli che sarebbero stati passati per le armi. A segnalare i nomi erano state delle spie del villaggio. Gli uomini della lista furono separati e costretti a portare la paglia nelle case che i nazifascisti avevano derubato; quindi le incendiarono. I quindici che furono rinchiusi in una stalla furono fucilati e poi bruciati, senza che gli altri abitanti del villaggio sapessero


44 cosa fosse successo. La maggioranza di questi ultimi furono quindi incarcerati a Pola dove subirono interrogatori, senza peraltro rispondere. Furono poi portati al carcere del Coroneo a Trieste e inviati nel lager di Auschwitz dove in quindici morirono. Nella guerra popolare per la liberazione il paese ebbe nove caduti, mentre diciassette erano state le vittime del terrore fascista. Sul monumento a Gaiano sono scolpiti i nomi di quarantadue. A Gallesano furono ventuno le vittime, a Peroj undici, a Filippano trentotto; nelle borgate di Sanvincenti: a Boccordi trentaquattro, a Zabroni nove, a Foli diciassette, a Juršići trentasette (vedi Abram Morožin-Miro Rojnić, Spomenici govore, UABH Pula, Pula 2004 pp. 194, 198, 201, 33-335 e 472). Tra gli altri c’era qui Miho Kutić che si salvò dalla deportazione ad Auschwitz, pur patendo inenarrabili sofferenze. Morì a Dignano il 12 luglio 1996. *Don Rodolfo fece di tutto per le vittime della strage. Le parole a lui attribuite: «Buttate questi nella fossa; non hanno diritto a una umana sepoltura», suonano perciò incredibili. Gli autori del libro citato non rivelano il nome del testimone che disse di avere udito le parole del parroco; perciò possiamo serenamente concludere che si tratta di falsità concepite per screditare la chiesa e i suoi ministri. Allo stesso modo venne accusato pure il parroco di Filippano don Mirko Zamlić: di non avere voluto seppellire i caduti. Egli si trovava in realtà dal dentista a Pola.

finestra vedo passare i tedeschi e i repubblichini (28) che si portano appresso una fila di bestie: buoi, vacche, pecore. Si viene a sapere che provengono da Gaiano. Più tardi arriva la 28. Repubblichini, nomignolo dato ai sostenitori della Repubblica Sociale di Salò. Gaiano, il monumento ai caduti


45


46 spiegazione. La parte sud era stata data alle fiamme. Si parla anche di morti, e tanti. Notizie precise non ci sono. Si diffonde il terrore per quanto è successo, ma nessuno sa specificarlo. Il paese dista da Dignano circa tre chilometri. Prendo la bicicletta e vado da solo a vedere sul posto come stanno le cose. Mi addentro in mezzo ai boschi di querce. Arrivo alla prima casa, piuttosto piccola: non è bruciata. Attorno c’è un grande silenzio. Mi avvicino alla casa: chiamo e si affaccia una donna piangente (nessun uomo). Ha con sé numerosi bambini. Come può e per quanto sa mi dice che nella zona più abitata è tutto distrutto. Ci devono essere parecchi morti. Lei e i bambini nella notte della strage sono rimasti chiusi in casa senza mangiare. Do’ a loro un aiuto in denaro. Poi vado verso le case e vedo tutto bruciato. Sono solo. Scorgo dei cani. Per prudenza salto su un muro e osservo la situazione. Vedo due cani con in bocca delle ossa. Mi accorgo che sono ossa umane: sembrano costole. Li caccio con alcuni sassi. Per fortuna si allontanano tranquilli: forse si erano saziati di carne umana. Allontanatisi i cani, scendo dal mio rifugio e comincio a ispezionare la zona. Trovo per prima una donna uccisa: mi


47 si disse poi che era una capa partigiana (29). Più tardi mi viene riferito che c’era stata in quella zona una riunione di partigiani: qualcuno aveva informato i tedeschi. Poi, dato uno sguardo attorno, vedo la stalla delle pecore intatta. Da una finestrella do’ un’occhiata. Vedo qualche cosa nella semioscurità che assomiglia a un morto. Entro ed effettivamente c’è il pastore, che era stato fucilato. Mi fermo a dire una preghiera, quando improvvisamente, da dietro il morto, salta fuori qualche cosa, che al primo momento non capisco cosa sia. Sono un po’ spaventato, ma dopo mi torna la calma: è un gatto. Uscito, vado nelle case bruciate. Sono in piedi i muri, il resto è tutto crollato. Cadaveri non se ne vedono. Cerco attentamente e mi accorgo che dove erano crollate le macerie del tetto ci sono come delle gobbe. Con un bastone rimuovo le tegole, la malta e le macerie. Appare il primo cadavere. Poi con lo stesso metodo ne trovo un altro. Capisco allora che bisogna 29. La donna uccisa si chiamava Mira Ban Raduna ed era membro della segreteria dello SKOJ, Comitato di distretto dell’assemblea dei giovani jugoslavi, nonché segretaria del Comitato distrettuale per l’assemblea dei giovani di Pola (vedi Maružin-Rojnić, op.cit. p.104).


48 ritornare a Dignano e domandare l’intervento di altra gente. Faccio venire anche un carro per caricare i cadaveri. Sono in tutto sedici. Sono tutti bruciati, le gambe non ci sono più, così pure le braccia, e la testa bruciata ridotta a un terzo. Dopo aver individuato certe cose che avevano addosso e con l’aiuto di chi li conosceva, riesco a riconoscerli tutti. Li carichiamo sul carro e li portiamo in cimitero. Vengono altri due sacerdoti e, dopo aver fatta scavare una grande fossa, li seppelliamo con una cerimonia religiosa, pregando per tante povere vittime. Sparsasi la voce che qualcuno aveva informato i tedeschi della riunione, mi aspettavo una vendetta; e così, dopo qualche mese, avvenne. Ci fu per un certo tempo uno stillicidio di morti e infine un’altra strage. Il 31 ottobre 1944 arrivarono i partigiani nella parte a nord del paese e massacrarono sei persone adulte di due famiglie. Il giorno 2 novembre 1944 io, il sacrestano e altri dal fondo di una dolina portammo verso il carro i cadaveri e, caricatili, li portammo in cimitero, dove li seppellimmo alla presenza di tre sacerdoti. Da notare: io,


49 che lavoravo senza guanti, per tirare fuori da un cespuglio spinoso il corpo di una ragazza piuttosto pesante mi ferii le mani. Mi disinfettai con un limone e per fortuna non seguì nessuna infezione. Nel 1946, nella ricorrenza del primo massacro, venne da me un partigiano e mi chiese di celebrare sul posto una santa messa. Gli dissi che per il momento non gli potevo dare una risposta: volevo interpellare al riguardo il vescovo, che avrei incontrato dopo un’ora. Questi mi diede il consenso per la celebrazione, che allora era necessario. Quel signore non ritornò più. Io, la domenica, celebrai sul posto una santa messa con particolare solennità e come era possibile allora. Intanto quel signore andò alla redazione di un giornale croato e il giovedì successivo quel quotidiano pubblicò un articolo contro di me, dicendo che mi ero rifiutato di celebrare la santa messa per i caduti di quel paese. Chiesi una smentita al giornale, che naturalmente non venne pubblicata. Così si usava allora. Servivano, per denigrazione dei sacerdoti, anche le


50 notizie false, che nessuno poteva smentire, perché la stampa era tutta soggetta al partito comunista. E così, dopo qualche tempo, avvenne che un gruppo di scalmanati, passando alla periferia di Pola, gettarono dei sassi contro le finestre della casa dei miei genitori gridando: «Abbasso i preti che non vogliono celebrare la messa per i nostri morti». Così si alimentavano la propaganda e l’odio contro i sacerdoti. Gli atei al governo avevano la stampa come strumento di propaganda e io potei, con un certo coraggio, servirmi di due prediche a Dignano e a Roveria per smentire quanto il giornale bugiardamente aveva scritto; ma la mia voce non arrivò dappertutto come il giornale. Seppi poi che anche le mie prediche me le avrebbero fatte pagare: venne il momento quando poterono organizzare un processo popolare sul sagrato della chiesa di Roveria o Juršići, il giorno 8 dicembre 1946.


51

Processo popolare E qui ora descrivo il processo popolare, che avrebbe dovuto terminare con un linciaggio. Ecco ora qui di seguito la sua descrizione in riassunto, perché tutto durò da mezzogiorno alle due pomeridiane all’aperto e al freddo. Il giorno 8 dicembre 1946 dovevo celebrare due sante messe: una in una chiesetta detta dei Tre Confini, dedicata alla Madonna, e una a Roveria. Per non so quale motivo, la prima messa non fu celebrata e la gente venne alla messa a Roveria. Finita la celebrazione, fuori della chiesa trovai l’ingresso, posto fra due muri, bloccato (l’ingresso era uguale a quello che ho a Toppo). Osservai e vidi fra la gente gli esponenti del partito comunista, unico al potere, e i capi della polizia con potere di vita e di morte anche immediata (30). Avevano già iniziato a parlare di questioni politiche nazionali e internazionali. Mentre si 30. Stanko Velikanja, con la moglie Maria, si trovava in quel momento nella canonica. Vedendo dalla finestra tanta gente, osservò: «Oggi sarà qui una polenta» (massacro, n.d.c.). Questa testimonianza mi è stata data dalla vedova in occasione della benedizione delle case il 16 dicembre 2005.


52 svolgeva la discussione politica, un energumeno, da me non conosciuto, ogni tanto inveiva contro sacerdoti e vescovi, minacciandoli anche di morte. Eravamo vicini. Lo lasciavo gridare e minacciare in attesa di una spiegazione. Lo scopo vero di quel comizio era un altro: io non lo conoscevo né sapevo che a Dignano si era già diffusa la voce che a Roveria ci sarebbe stato un processo popolare contro di me, seguito sembra - da immediata condanna (31) (i processi popolari come quello organizzato contro di me finivano sempre con la condanna a morte). Terminata la discussione, che doveva essere solo un preambolo, quell’energumeno saltò sul muro di destra guardando alla chiesa. Allora io saltai su quello di sinistra. Quel tale, vedendo il mio gesto, restò interdetto: tacque senza sapere se continuare l’accusa contro di me o no. Guardò nella direzione dei suoi capi come per chiedere se continuare o no. Prima che venisse da qualche parte una risposta alla sua muta interrogazione gli dissi: «Come mai non parli più?». Poi mi 31. È interessante notare come nessuno avesse detto al sacerdote quale pericolo corresse. Tutti continuavano a rivolgersi a lui in ogni circostanza. Ciò conferma come nel popolo regnasse il terrore. Ancora oggi, dopo tanti anni, la gente non osa parlare di certi fatti.


53 rivolsi al popolo presente, chiedendo se si poteva parlare. Dissero di sì. Però subito aggiunsi se dopo di lui avrei potuto parlare anch’io, dato che il comizio e processo era cominciato con le tradizionali parole: «Morte al fascismo, libertà al popolo». Il popolo in massa gridò che avevo diritto di parlare anch’io. Lui riprese il discorso e così appresi l’accusa che mi si rivolgeva. Ero andato a fare una lezione di catechismo nella scuola croata. La maestra, che pare avesse fatto solo le elementari e forse meno, mi aveva accettato. Mi era sembrata ben disposta verso di me. Prima della lezione dissi ai bambini di pregare con me il Padre nostro e di alzarsi. Vidi allora proprio davanti a me un ragazzo piuttosto grandetto per essere nella scuola elementare. Teneva in testa, anche durante la preghiera, un berretto con la stella rossa. Lo invitai a toglierselo. Si rifiutò. Capii la provocazione organizzata. Non cedetti e, visto che non lo toglieva, glielo tolsi io e la preghiera riprese fino alla conclusione. Feci la mia lezione ed essendo l’ultima ora ci preparammo a uscire. Avvicinandomi alla porta, la maestra invitò gli scolari a salutarmi. Lo fecero. Ma il ragazzo al quale avevo tolto il berretto dalla testa si avvicinò e mi salutò con


54 il pugno chiuso dicendomi: «Salve compagno!» (32). Io non accettai quel tipo di saluto. Gli dissi che non mi ritenevo suo compagno. Questi due episodi vennero fuori come atto di accusa nei miei riguardi durante il processo popolare. La prima versione riguardava la storia del berretto, che io avevo tolto dalla testa del ragazzo e posata sul banco della scuola. Fui accusato di averlo tolto dalla sua testa dandogli contemporaneamente uno schiaffo. Negai il fatto dello schiaffo e chiesi la conferma della verità di quanto affermavo ai bambini di quella classe eventualmente presenti. Si alzò una voce di una bambina che gridò: «Il Signore - questo era il titolo con il quale veniva chiamato il parroco, in croato ‘gospodin’ - dice la verità e il ragazzo dice la bugia». Subito dopo una donna gridò che se suo figlio si comportasse così avrebbe saputo come metterlo a posto (33). Cominciò poi un coro di voci a mio favore. 32. Nell’euforia rivoluzionaria furono cancellati i bei saluti «Buon giorno», «Dio daghi la fortuna», «Sia lodato Gesù Cristo e Maria Santissima». Quando il presidente di un comune dell’Istria andò a fare gli auguri a un vecchio per il suo centesimo compleanno, il vecchio rispose: «Se Dio darà la salute». E il presidente replicò: «Io non credo a Dio». 33. Con una dichiarazione del genere la donna avrebbe potuto in quel tempo rischiare la libertà: avrebbe potuto infatti essere qualificata come un elemento controrivoluzionario e condannata


55 Venne fuori la storia del saluto con il pugno e la mia definizione di ‘gospodin’, sempre in uso anche al tempo dei comunisti: il parroco rimaneva sempre ‘gospodin’ e così veniva chiamato. Io dissi che quel tipo di saluto del ragazzo, fatto con chiaro intendimento di negarmi il dovuto rispetto, non lo avevo potuto accettare. Feci un confronto con Tito dicendo: «Se al posto mio ci fosse stato lui e avesse chiesto di deporre il berretto per la preghiera, il ragazzo avrebbe fatto ciò senza discutere; e per salutarlo lo avrebbe chiamato con il nome di maresciallo e con tutto il possibile rispetto». Questo con me il ragazzo non lo aveva fatto. Avrebbe potuto usare un ‘dobar dan - buon giorno’ o un ‘doviđenja - arrivederci’. Il ‘salve’ e ‘compagno’ si usa con altri intendimenti. «Anche sotto il fascismo - dissi - nessuno mi ha mai chiamato ‘camerata’, ma ‘signor parroco’». Il mio accusatore non seppe cosa rispondere e tirò fuori altri argomenti, che qui sarebbe lungo elencare perché si andò avanti per quasi un’ora. In poche parole dimostrai, con l’approvazione della popolazione, l’infondatezza delle sue sciocche accuse e ottenni l’approvazione del popolo, che mi conosceva, mentre di lui nulla


56 sapevano - e lo dissero chiaramente in risposta a una mia domanda - mentre io ero stato sempre vicino a loro nel bisogno. Il processo finì con il completo mio scagionamento da ogni responsabilità e accusa. Si aprì il varco dell’ingresso alla chiesa fino allora rimasto bloccato, presi la mia bicicletta e me ne andai a casa. Trovai mia sorella in forte ansia; erano le due e mezzo del pomeriggio. Le voci messe in giro erano piuttosto tragiche. Ritornò il sereno anche per quella volta. Essendo allora il digiuno per celebrare la messa obbligatorio dalla mezzanotte, ognuno può immaginare la mia fame e l’appetito con il quale mangiai. Continuai ancora per circa un mese il servizio in quella parrocchia. Però, temendo qualche agguato per la sconfitta da loro subita, facevo almeno quattro tragitti diversi: strada, ferrovia, boschi e strade di campagna. Tutto andò sempre bene. Nel gennaio 1947 fui incaricato di assumere il servizio pastorale a Dignano, che aveva circa cinquemila abitanti. Ero solo. Gli altri sacerdoti erano partiti. Termino con il racconto di un episodio. Qualche tempo dopo il processo fui segretamente avvisato da una


57 giovane, che conoscevo. Questa aveva urgente bisogno di parlare con me. Concordai l’incontro, con tutte le precauzioni che il caso richiedeva. Ci incontrammo per pochi minuti e mi disse che i capi partigiani, che avevano organizzato il processo cosiddetto popolare, le avevano detto: «Il parroco ha vinto per questa volta, ma gliela faremo in breve tempo pagare». Ma ormai io, in quella zona, non ci dovevo più andare. Ed essendo diventato responsabile di Dignano, città piuttosto importante, consigliai a chi meditava vendetta di cambiare idea.


58

Telefono segreto Fra Pola e Trieste, e quindi per tutta l’Istria, ogni possibilità di comunicare per telefono era interrotta (34). Eppure io ebbi la possibilità di mantenere il collegamento fra Pola e Trieste, e fra Pola e Caroiba, una cittadina nel centro dell’Istria sede di una centrale elettrica. Era attraverso le centrali elettriche di Trieste, Caroiba e Pola che io, a mezzo delle onde corte convogliate, potevo rimanere collegato. Cosa erano queste onde convogliate io non lo sapevo. Seppi solo della loro esistenza, avvicinai il direttore responsabile - un trentino che aveva sposato una dignanese - e da lui mi fu concesso di poter servirmi di quel segreto mezzo di comunicazione. Me ne servivo mettendolo a disposizione del vescovo di Pola quando poteva avere urgente necessità di comunicare con il vescovo di Trieste. Quando gli rivelai l’esistenza di questo mezzo in presenza di un caso in cui era urgente e necessario avere le informazioni di prima mano di monsignor Santin, il vescovo restò altamente meravigliato di quanto gli mettevo a disposizione, perché 34. Nella grande euforia, i partigiani avevano tagliato tutte le linee elettriche e telefoniche.


59 neanche lui aveva mai avuto notizia di esso. I due vescovi poterono, quella prima volta, parlare per circa mezz’ora. Poi naturalmente se ne servirono molto frequentemente. Ricordo in particolare un fatto successo nei primi giorni del mese di maggio 1945 quando i titini procedettero ai primi arresti di un centinaio di persone. Si trattava di salvare uno che essi non avevano trovato durante l’irruzione in casa. Per incarico di un dirigente del Dipartimento per l’agricoltura, era andato a Trieste con tutti i permessi in regola per provvedere un prodotto per combattere la peronospera delle viti. Alla mattina presto venne da me la moglie per narrarmi quanto era successo durante la notte: una perquisizione di ore, essendo il marito un commerciante all’ingrosso. Egli era fra l’altro il cognato del signore trentino sunnominato, direttore della SADE (35). Con il telefono segreto organizzai collegamenti con Trieste e con la centrale a Caroiba al centro dell’Istria, dovendo egli quel giorno fare ritorno a casa. Quelli di Caroiba posero sulla strada delle guardie fidate che riuscirono ad avvertirlo sul grave pericolo 35. SADE: Società Autonoma Distribuzione Elettrica (in Italia).


60 che correva e lo fecero ritornare a Trieste: così fu salvo da un sicuro infoibamento. Si pensi che, non avendolo trovato a casa, la moglie mi disse che a un certo punto aveva visto un poliziotto mettere qualche cosa in armadio. Andai subito in casa a vedere che cosa era. Si trattava di tre caricatori di mitra pieni di pallottole. Non potevo portarli via, perché, uscendo, avrei potuto essere perquisito. Cercai di farli sparire e trovai su una terrazza esterna lo scarico di una grondaia: vidi che era profondo e gettai in esso i tre caricatori, che ancora oggi sono là. I caricatori sarebbero altrimenti stati trovati in una successiva perquisizione e sarebbero diventati elemento di accusa e motivo di arresto e infoibamento. Dopo la prima settimana di presa del potere, gli arresti furono centinaia. Dopo occupata l’Istria, Pola compresa, cominciarono le manifestazioni di giubilo. Si cominciò con un grande corteo di popolo, galvanizzato dalle grandi promesse: di croati venuti dal contado e molti italiani di Dignano. Mi trovai ad assistere al passaggio di una moltitudine di gente. La guardavo con commiserazione, notando in particolare i tanti dignanesi. Vicino a me avevo il direttore


61 dell’esattoria locale. Osservai: «Di tutta questa gente, specialmente degli italiani, molti fra non molto tempo cominceranno ad andarsene, se saranno ancora vivi. Lei - gli dissi - stia all’erta, magari dormendo fuori di casa. Il suo lavoro sarà sotto inchiesta e sarà accusato di aver fatto un lavoro di sfruttamento del popolo». Passarono circa quaranta giorni. Nel frattempo gli avevano messo a fianco un collaboratore che, del lavoro da compiere, nulla capiva. Il compito di questi era in realtà quello di riferire quanto avveniva e di cosa si parlava quando arrivava qualcuno. Dopo circa quaranta giorni, il direttore dell’esattoria mi venne a dire: «Oggi è venuto nel mio ufficio uno che non conosco. Mi ha ordinato di preparare un resoconto del mio lavoro». Era una mattina. Gli dissi: «Non dica niente a nessuno, prenda la sua bicicletta e vada subito a Pola». La città era lontana circa dieci chilometri; il posto di blocco era a circa sette chilometri (36), a Pola erano già arrivati gli alleati. La richiesta fattagli era stata solo un pretesto per metterlo sotto inchiesta con accuse 36. Pola, occupata dagli alleati, era zona A. Il posto di blocco era situato alla curva, circa 250 metri prima della strada che dal Monte Grande conduce a Fasana.


62 già pronte che avrebbero sicuramente portato al suo arresto, forse a una farsa di processo e anche niente, ma con la sua deportazione senza ritorno a casa e, magari, con infoibamento come nemico del popolo. Fece quanto gli dissi e si salvò. Il suo lavoro era considerato sfruttamento. Quello che poi essi fecero era invece per il bene dello stesso popolo, ma le tasse le fecero pagare anche loro. Già fin dai primi giorni della presa del potere, oltre alla manifestazione di cui scrivo sopra, per parecchie sere fino a mezzanotte si cantavano normalmente canzoni inneggianti a Tito con le parole ‘ljubičice bijela – bianca violetta’. Finite le feste, una notte cominciarono gli arresti. Ne fui informato al mattino presto dalle mogli, che chiedevano il mio aiuto per la liberazione dei mariti o dei figli. Si noti che io ero già intervenuto, suggerendo in gran segreto a parecchi di scappare: in un convegno, di cui scriverò più avanti, avevo saputo che erano indiziati come nemici del popolo e quindi passibili di arresto e inevitabile condanna. Fra questi era il podestà di Dignano che, ritenendo di non aver fatto nulla di male e di non correre pericoli, rimase. Fu arrestato in quella notte e portato a Fiume. Ivi subì uno dei processi farsa,


63 fu condannato a morte per collaborazionismo e fucilato. Non gli giovò nemmeno il fatto di aver liberato dalla fucilazione venti ostaggi condannati dai tedeschi per rappresaglia. Durante la prima notte centinaia di cosiddetti nemici del popolo finirono in prigione. Passai un giorno sotto la finestra del carcere e del simile ambiente della pretura: mi videro e supplicarono il mio aiuto. Erano ammassati quasi uno sopra l’altro, con poco cibo e poca acqua. Fra quelli c’erano alcuni che conoscevo. Alcuni erano anche di idee comuniste e avevano partecipato al grande corteo dei primi giorni. La propaganda comunista era penetrata anche nella loro testa, che vedeva il comunismo come liberatore del popolo e fonte di ogni benessere. Per anni, durante la lotta partigiana, si erano illusi che il marxismo sarebbe stato vera morte per il fascismo e libertà per i popoli. Inoltre, per quanto riguardava la situazione istriana, non avevano capito che il nazionalismo croato sarebbe stato sfruttato contro chi non accettava di veder passare l’Istria sotto la sovranità jugoslava. Si trattava del medesimo nazionalismo che ha scatenato poi le stragi e la lotta fratricida per quattro anni nella recente guerra in Bosnia e altrove


64 (37). Costoro, che quasi disperatamente si rivolgevano a me dalla finestra del carcere, troppo tardi avevano capito come stavano veramente le cose. Non ci fu solo questo rastrellamento in massa dei cosiddetti nemici del popolo. Altri ne seguirono in applicazione della teoria comunista per la quale tutto deve essere del popolo e quindi dello stato. Cito un caso. Dopo alcuni mesi si cominciarono a nazionalizzare le proprietà private e in modo particolare le terre e i commercianti. Per coltivare la prima, i braccianti, ormai divenuti tali, venivano mandati a gruppi nelle varie campagne. Successe che, non essendo i nuovi contadini interessati a raggiungere un buon raccolto, non lavoravano e stavano a riposare all’ombra degli alberi. Così la produzione dei beni agricoli si ridusse di molto: questo specialmente riguardo i vigneti e gli oliveti, che coprivano il territorio costiero dal mare fino a circa sei-sette chilometri. Ancora oggi a chi va in certe zone dell’Istria, specialmente quelle abbandonate dai proprietari per andarsene in Italia, tutto appare trascurato. 37 E’ da ricordare che don Toncetti scrive negli anni 19941997. La guerra scoppiò coll’aggressione della Serbia alla Croazia nel 1991


65 Si crearono le cosiddette ‘zadruge’, in italiano ‘cooperative’. In realtà di cooperazione ce n’era ben poca. Venne per fortuna più tardi il turismo, che occupò anche molti ex contadini. Oggi però, a causa della guerra fratricida e di un altro rincaro dei prezzi con paghe basse, il valore di acquisto rende molto difficile l’economia. Dopo pochi mesi, i commercianti si videro arrivare in casa, in piena notte, i cosiddetti poteri popolari. Questi radunarono in un’unica stanza quanti vi abitavano; alcuni capifamiglia furono portati via dopo lunga perquisizione. Il negozio o quanto era oggetto del commercio passò in mano dello stato senza alcun indennizzo. E così, da quella notte, cessò ogni attività commerciale privata. Avvenne invece che il lavoro agricolo finì col produrre molto poco: le cooperative rimasero, ma i terreni furono riaffidati ai vecchi proprietari. Però il prodotto doveva essere portato comunque alla cooperativa, che pagava con un prezzo molto basso; oppure il prodotto veniva scambiato con altro in vendita alla cooperativa. Per capire cosa guadagnava un contadino faccio un esempio. Una mia zia aveva un vitello da vendere: lo dovette portare alla cooperativa e le dettero in cambio un paio di calzoni da lavoro. Quando arrivarono in


66 massa i turisti, avvenne il fenomeno che questi, invece di andare a comperare nella cooperativa quanto a loro occorreva, andavano a comperare direttamente dai contadini. Si instaurò così una specie di borsa nera. Come in tutte le vicende umane, le cose per necessità migliorarono, ma sempre molto precariamente. In tutto questo marasma di dolorose novità misi in opera una certa amicizia, che mi ero costruita durante il periodo 1943-1945, con i capi dell’OZNA: Osman e soprattutto il vice Radoslović. Questi era di Medolino, vicino Pola, e spesso veniva a casa mia. Si parlava a lungo di tutto. Mi concesse addirittura di portare da Pola un centinaio di copie del settimanale di Trieste Vita Nuova. Gli mostrai un numero, che non aveva nessun articolo contro i comunisti o contro i nuovi poteri popolari dell’Istria: lo apprezzò anche per alcuni articoli positivi, secondo lui. Gli chiesi anche, dato che la posta non funzionava, di poter andare a prendere a Pola i numeri settimanali. Me lo concesse e così, con grande meraviglia della direzione di Trieste, ogni sabato andavo a Pola a ritirare il pacco. Qualche problema lo avevo a volte al posto di blocco: mai però mi fermarono o sequestrarono


67 il pacco. Quanti però ricevevano il giornale distribuito a mano cominciarono a temere qualche danno per loro, anche perché su ogni copia c’era l’indirizzo del destinatario. E così, per prudenza, dovetti smettere, anche perché Vita Nuova aveva iniziato a pubblicare articoli di fuoco contro il nuovo governo dell’Istria. Radoslović era comunista, era vice dell’OZNA, ma nel suo modo di pensare manifestava residui profondi della fede che probabilmente aveva ricevuto da giovane, tanto che, avendo una fidanzata, parlammo parecchie volte del matrimonio che desiderava celebrare e, alla mia proposta, accettò di celebrarlo in chiesa. Esso fu celebrato nella chiesa parrocchiale di Dignano.


68

I segni delle torture Quanto descritto sopra mi dava facile accesso alla sede dell’OZNA, dove venivo accolto, finché le cose non si guastarono: specialmente dopo il processo popolare a Roveria e il disaccordo alle adunanze dei sacerdoti a Pisino. Di questo scriverò più avanti. Nella sede dell’OZNA avevo anche una certa libertà di movimento. Un giorno però entrai in una stanza e immediatamente fui fermato; ebbi solo il tempo di dare un’occhiata all’interno. La stanza era vuota: vidi però sul pavimento delle macchie rosse tendenti al grigio scuro. Era sangue, proveniente dai prigionieri arrestati e torturati fino allo spargimento del sangue. La tortura avveniva normalmente di notte e durava ore e ore, finché il torturato si decideva a confessare colpe proprie, magari inesistenti, e quelle di altri, che egli era costretto ad accusare per fatti che non conosceva affatto: questi poi diventavano prove contro il torturato e contro altri ed elementi di accusa e inevitabile condanna. Tutto, naturalmente, avveniva senza processi: bastavano le autoaccuse e le accuse verso altri.


69 Ricordo quanto mi raccontava la famiglia Marchesi (38), che abitava una villa da dove era stata cacciata e, da allora, in una specie di magazzino vicino: cioè che, durante la notte, sentiva rombare tre moto con lo scappamento aperto. Non riuscii in quel momento a capire il perché. Comprai però un giorno, quando ero già via, a Toppo, il libro intitolato “Ho scelto la libertà” di un certo Kravchenko. Costui era un altissimo personaggio russo, diventato dirigente di un dipartimento economico sovietico fino ad avere dei contatti con Stalin (cosa riservata a pochi). In una pagina, egli descrive le torture fatte anche in Russia, di notte, verso i prigionieri. E anche lì, essendoci delle case vicine, perché non si sentissero i lamenti, i pianti e le urla del dolore dei torturati, avevano, come nella sede dell’OZNA di Dignano, tre motociclette con lo scappamento aperto. Ciò dimostra che certi metodi della polizia comunista russa erano i medesimi nei luoghi dove i rossi erano arrivati al potere. 38. Della famiglia Marchesi merita essere ricordato Pietro Marchesi (1862-1929), innovatore agrotecnico e industriale e pittore autodidatta. I suoi dipinti sono stati restaurati ed è stato pubblicato il bel libro La pittura e il tempo dell’istriano Pietro Marchesi 1865-1929, Società Istriana di Archeologia e Storia Patria, Provincia di Trieste, 2000. La villa dei Marchesi era divenuta la sede dell’OZNA.


70 In quella casa ebbi, per un certo periodo di tempo, la possibilità di entrare, portandovi anche il vescovo monsignor Radossi, allorché egli desiderava trattare con loro argomenti particolarmente importanti. Né lui né io ci illudevamo di concludere qualche cosa di buono. I colloqui fatti in croato - e io facevo l’interprete - servivano, ma limitatamente, a porre rimedio a certe animosità e controversie che nelle varie parti della diocesi erano sorte. Ogni volta che il vescovo si doveva allora muovere nella diocesi, io in bicicletta gli facevo da scorta e lui si muoveva con l’automobile e con la bandiera bianca. Passando così, mai fummo fermati. Vicino al posto di blocco, infatti, motivi burocratici rendevano ogni tanto difficile il passaggio nella zona A alleata (Dignano era in zona B): ma io sono sempre riuscito a superare gli ostacoli. Una notte il vescovo rimase praticamente prigioniero in casa mia, vigilato da due guardie armate. Verso la sera del giorno dopo dovette recarsi nella sede del comune. Io lo accompagnai alla porta: non potei entrare con lui. Dopo circa mezz’ora di colloquio, fu liberato e tutto ritornò tranquillo, almeno per qualche tempo. Infatti, nell’anno 1947 la situazione si aggravò senza rimedio.


71 Le visite al confine diventavano sempre più difficili e lunghe. Qualche volta si svolgevano sulla strada, perché il vescovo era obbligato ad assistere anche per tre ore ai controlli, mentre la bora soffiava fino a cento chilometri orari. Allora egli fu costretto a fermarsi a Pola fino al 15 settembre, giorno in cui anche Pola passò sotto il dominio jugoslavo. Quando ci fu la grossa retata notturna, con la quale si diede inizio alla pulizia etnica, sfruttai la mia possibilità di intervento presso l’OZNA per tentare di liberare alcuni arrestati. Non riuscii con il podestà: con i partigiani certi fatti accaduti diventavano, qualche volta, doppio motivo di condanna, perché anche la collaborazione esercitata a fin di bene veniva considerata frutto dell’appoggio dato ai tedeschi. Altri (in pericolo), che avevo avvertito sempre per interposte persone, ascoltarono il mio messaggio e si salvarono partendo per l’Italia. Certo, mi rendevo conto che i miei avvisi, se fossero venuti a conoscenza dell’OZNA, sarebbero stati per me motivi di sicuro arresto e di condanna a morte, forse con l’infoibamento. Per fortuna gli istriani sapevano mantenere il segreto e tutto andò bene, per gli avvisati e per me.


72

Tre casi Racconto ora tre casi, che sfruttai efficacemente. Il primo riguarda colui che comandò per un certo tempo i militari della Repubblica di Salò che avevano la sede nell’ex caserma confinante con la mia casa. Ormai da un anno non comandava il distaccamento, tuttavia fu arrestato e portato nella sede della pretura. Lo conoscevo bene. E intervenni presso l’OZNA, servendomi anche del vice capo Radoslović. Gli raccontai le vicende dell’arrestato, che volevo fosse liberato. Era vero che quel capitano aveva comandato il gruppo di repubblichini, ma mi aveva detto non essergli piaciuto il comportamento nei rastrellamenti dei suoi dipendenti. Avrebbe voluto metodi meno violenti, senza fare del male alla popolazione croata. Era insomma un uomo buono, che intendeva applicare la sua bontà anche verso dei nemici. Avendo visto che non ci riusciva, un anno prima della fine della guerra aveva deciso di ritirarsi a vita privata. Fu ugualmente arrestato. Esposi questo comportamento al capo Osman e al vice Radoslović. Dapprincipio le mie argomentazioni non furono ritenute valide, ma tanto insistetti


73 e me lo liberarono. Però, dopo tre giorni, egli venne tutto preoccupato a casa mia, dicendomi che l’avevano invitato ad andare alla polizia. Compresi il grave pericolo che stava correndo. Gli consigliai di non andare e di rifugiarsi subito a Pola senza nemmeno avvertire la sua famiglia. A Pola comandavano i partigiani (non erano ancora arrivati gli alleati), ma era più facile nascondersi in attesa della venuta degli inglesi e americani. Gli raccomandai di non uscire dal suo nascondiglio per nessun motivo. Verso i primi di giugno arrivarono le truppe alleate e poté tornare alla luce del sole. Dopo alcuni anni lo incontrai per caso a Trieste in centro città. Mi abbracciò a lungo con grande meraviglia, riconoscente per la salvezza ottenutagli. Il secondo caso riguarda un sacerdote ancora vivo, che oggi è prete a Belluno. Mi pare sia cappellano delle carceri. Quando avvenne il disastro della diga del Vajont era parroco di Casso. Il giorno dopo il triste avvenimento andai a trovarlo: stava aiutando la popolazione a salire su un elicottero americano intervenuto per sgomberare tutti gli abitanti della parrocchia. Si chiama don Carlo Onorini. Da giovane era in seminario a Capodistria. Per motivi di salute


74 dovette lasciare lo studio. Più tardi rientrò e si ammalò di nuovo: ritornò a casa. Era di Dignano. Compì altri studi. Era la guerra: fu arruolato nella guardia repubblichina con sede a Dignano. Rimase sempre a lavorare come impiegato. Non partecipò mai ai rastrellamenti. Era buono e mite, incapace di fare del male. Come prevedibile, lo arrestarono: intervenni presso l’OZNA, raccontai ai capi le vicende della sua vita e ottenni la sua liberazione. Ritornò di nuovo in seminario e divenne un buon e bravo sacerdote. Aveva un fratello professore di lettere: non si occupava di politica; anche lui era buono. Fu arrestato. Tentai di liberare anche lui. Non ci riuscii. Non ritornò a casa e nessuno seppe più nulla di lui: finì con tantissimi altri in qualche foiba. Noto a tale proposito: le vittime delle Fosse Ardeatine furono 335. Fra loro, mi pare, 75 ebrei. Vengono ricordati più volte l’anno con solenni cerimonie: è giusto che sia così. Gli infoibati furono migliaia: si parla da dodici a sedicimila. Nessuno è stato condannato o messo sotto processo per questi misfatti. Un certo Motica, istriano, nel settembre del 1943 ne spediva in foiba ogni notte un’autocorriera


75 piena. Con la venuta dei tedeschi si rese possibile la loro riesumazione, o almeno di una parte. Coraggiosi vigili del fuoco di Pola, comandati dal maresciallo Harzarich, si calarono, legati a corde, fino a centosessanta metri di profondità e molti ne furono riportati alla superficie. Non però tutti. Le foibe sono moltissime in Istria e nemmeno oggi si conosce il numero di quante fossero quelle che accolsero gli infoibati. Il terzo caso riguarda l’intervento di un croato a favore di un repubblichino. Era anziano. Lo conoscevo bene: venne a me dichiarandomi di voler testimoniare a favore di un soldato repubblichino che non so di dove fosse, se non che era di sede a Dignano e italiano. Mi raccontò di essere stato arrestato dai tedeschi e che, mentre era in carcere a Dignano, era stato più volte torturato al braccio. Volevano che rivelasse cose che lui non conosceva: la tortura gli aveva provocato uno slogamento e conseguenti forti dolori. Il giovane soldato aveva avuto compassione di lui e di nascosto lo aveva aiutato a lenire i dolori: aveva trovato anche un unguento per massaggiarlo. L’anziano signore era stato liberato in seguito dai tedeschi, perché non era a conoscenza di quanto essi volevano


76 sapere. Quando il giovane repubblichino che lo aveva aiutato fu messo in carcere, venne da me e mi disse che lo portassi all’OZNA perché voleva raccontare a quel comando il bene fattogli da quel giovane. All’OZNA andai e raccontai, per ottenere la liberazione del giovane soldato, il bene fatto a quell’anziano. Si informarono, ascoltarono la testimonianza del torturato e dell’anziano uomo, credettero e lo liberarono. Ho raccontato questi tre fatti, oltre a quello già riferito riguardante Lidia S. Sfruttai tanti altri casi, più o meno simili a questi, per liberare chi altrimenti (dopo il trasferimento da Dignano) sarebbe stato forse portato verso destinazione ignota e (come i tanti altri del convoglio di cui parlerò fra poco) mai sarebbe tornato a casa.


77

Tragedia dei tedeschi Verso la fine di aprile e l’inizio del maggio 1945 i partigiani di Tito occuparono tutta l’Istria eccetto una piccola parte di Pola, dove i tedeschi si asserragliarono in un forte detto Musil, posto all’imboccatura del porto. Credo fossero circa trecento fra soldati e ufficiali. Il forte lo conoscevo bene: era tutto scavato nella roccia per quattro-cinque piani e gallerie in ogni senso. Lo conoscevo perché, quando dentro erano dislocati i marinai italiani, io ci ero andato con altri sacerdoti per compiere il nostro ministero. I tedeschi avrebbero potuto starci tranquilli fino all’arrivo degli alleati per consegnarsi prigionieri a loro. Ricordo che un giorno, essendo rimasti senza viveri, erano usciti armati per andarsi a prendere quanto loro occorreva. Io per caso assistetti a questa incursione. Di fronte al loro attacco i partigiani si diedero alla fuga fino alla periferia di Pola. I tedeschi si presero quanto loro occorreva per vivere. Non trovarono alcuna resistenza e tornarono tranquilli nel forte. Si parlava di trattative fra nuova Jugoslavia e alleati.


78 I giorni passavano e nulla di nuovo accadeva. Un giorno un gruppo di militari tedeschi decise di formare un piccolo convoglio, attraversare l’Istria per raggiungere Trieste. A Dignano caddero in un’imboscata partigiana e lasciarono sul terreno ventuno morti (il combattimento si svolse alla periferia di Dignano vicino alle prime case). Questo fatto provocò un bombardamento di Dignano con cannoni di 210 millimetri: iniziò verso le 22 e si protrasse per circa cinque ore. Le nostre case non erano adatte a sopportare un simile bombardamento. Quando capii da dove provenivano le cannonate, diedi l’allarme alla gente. Cominciò una fuga generale nella campagna circostante. Io e mia sorella ci rifugiammo in campagna, usufruendo a nostra difesa di una grande grotta (39) naturale che si riempì ben presto di qualche centinaio di persone. Quando il bombardamento cessò, verso le tre del mattino, dissi alla popolazione ivi rifugiata di non muoversi e andai io a vedere che 39. Non si conoscono grotte naturali vicino Dignano. Josip Tomišin, un esploratore della natura, dice che si trattava di una valle abbandonata.


79 cosa era successo in seguito al bombardamento. Quando arrivai a casa trovai la vicina caserma in fiamme. Il giorno prima erano partiti i repubblichini. Si disse che la loro colonna era stata attaccata dai partigiani e che il capitano e altri soldati erano morti o rimasti feriti. Un giorno però, dopo alcuni anni, andai a visitare i profughi a Torino e fra loro trovai vivo e vegeto il capitano dato per morto. Mi disse che la colonna era passata indenne fino a Trieste. Quindi le notizie sparse non erano vere. Essi, prima di partire, avevano raccolto tutte le munizioni in una stanza a pian terreno dando loro fuoco. Non avevamo mezzi particolari per spegnere l’incendio e avvicinarsi era pericoloso perché le munizioni, a contatto del fuoco, esplodevano e qualche proiettile usciva fuori della finestra: tuttavia decisi di tentare di spegnerlo. Dissi alla gente, che da una certa distanza di sicurezza assisteva all’incendio e al continuo scoppiare dei proiettili, di portarmi secchi d’acqua. Presi un secchio, mi misi sotto la finestra e al di sopra della testa gettai alcuni secchi d’acqua: riuscii a centrare il centro del


80 fuoco e spegnere così l’incendio. Quando, verso le tre del mattino successivo, ritornai dalla grottarifugio, vidi che l’incendio, che sembrava essersi spento, aveva ripreso vigore. Ero solo: le munizioni per fortuna non esplosero e con alcuni secchi d’acqua riuscii a spegnere l’incendio e andai a dormire. Non sapevo quali danni avesse fatto il bombardamento della notte. Venne poco dopo anche la sorella. Tutto andò bene fino alle ore 6.30 circa quando una salve di cannonate centrò la chiesa di San Biagio. Sull’altare del Santissimo stava celebrando un anziano sacerdote, don Giuseppe. Dietro la schiena in alto aveva una finestra: fu colpita da una cannonata. Pezzi della finestra in frantumi caddero anche sull’altare dove il sacerdote don Giuseppe stava celebrando. Vista la situazione, interruppe la cerimonia e si rifugiò nella sacrestia. Il bombardamento cessò verso le 10 (40). Io e mia sorella, intanto, dato che la chiesa era 40. I danni del bombardamento erano visibili fino al restauro della chiesa, effettuato nel periodo 1995-2000, quando abbiamo celebrato il bicentenario dell’edificio sacro. Le nostre richieste di aiuto per la riparazione non sono mai state esaudite. “...i frantumi caddero anche sull’altare dell Santissimo Sacramento...”


81


82 a poca distanza, prese un po’ delle nostre cose, fuggimmo verso la grotta. Ella era davanti a me circa 150 metri quando, improvvisamente, sentii un sibilo. Gridai a mia sorella di gettarsi per terra e altrettanto feci io. La bomba cadde sulla strada a metà distanza fra noi due. Dopo poco arrivò non lontano un’altra bomba. Allora le gridai di spostarsi a sinistra verso la campagna, dato che l’obiettivo del bombardamento era proprio la chiesa e la zona vicina. La chiesa fu colpita e danneggiato il tetto. Riuscii a raggiungere indenne la grotta. Finito il bombardamento ritornammo alle nostre case, che avevano subito danni. Andai in cerca di notizie e seppi che cinque persone erano state uccise. Durante il giorno apparvero sui muri dei manifesti. Annunciavano che, durante la notte o il giorno dopo, i tedeschi sarebbero usciti dal forte Musil e in colonna avrebbero attraversato Dignano diretti a Trieste. Minacciavano gravissime rappresaglie se fossero stati attaccati come il giorno precedente. Andai subito a Pola. Parlai con il parroco monsignor Angeli pregandolo di vedere se era possibile consigliare i tedeschi di rinunciare al loro progetto. Solo così si sarebbe evitata una


83 strage. Io intanto, verso sera, andai sotto una forte pioggia in cerca del comando partigiano. Lo trovai in un vecchio mulino. Pregai di rinunciare ad attaccare la colonna tedesca se fosse passata attraverso Dignano (non c’erano altre strade). Feci molta fatica a convincerli. La discussione si protrasse per più di un’ora. Essendo tutto bagnato dalla pioggia mentre parlavo con i capi partigiani, mi asciugavo a una bella fiamma accesa a un focolare. Alla fine raggiunsi lo scopo prefissomi. Mi promisero che, per il bene della popolazione, in caso di passaggio dei tedeschi li avrebbero affrontati in aperta campagna o nei boschi posti lungo la strada. I tedeschi rinunciarono al loro progetto e rimasero chiusi nel forte Musil di Pola. Fu una fortuna: se fossero passati, forse sarebbe stato un disastro. Intanto i giorni passavano e i tedeschi, non vedendo arrivare gli americani e gli inglesi, decisero di trattare la resa con i partigiani. La trattativa si svolse nella casa dei miei genitori alla periferia di Pola (41) e si protrasse dalla sera 41. La casa era in Busoler 87. oggi via di Sissano 99. La pace era trattata 2 maggio 1945. tra i generali Georg Waue e Milan Klobas e capo di OZNA Mihovil Marušić.


84 fino alle tre del mattino. Il comandante tedesco credette alle promesse dei partigiani: tutti i tedeschi avrebbero avuta salva la vita e sarebbero stati trattati da prigionieri di guerra secondo le norme internazionali. Seppi questo a casa dei miei genitori dall’altra sorella, che abitava con loro. I tedeschi, in questo campo sommamente ingenui, credettero agli impegni sottoscritti, come era prevedibile. Però, nei giorni subito dopo la resa, gli ufficiali loro furono sgozzati con un coltello e i loro corpi furono gettati in mare da rocce alte circa venti metri, in un posto dove andavo sempre a fare i miei bagni, mentre i militari furono portati fino a circa venti chilometri da Pola e gettati vivi in una foiba (42). Si calcolò fossero 42. Si dice che la foiba dove furono gettati i tedeschi sia quella di Golubinka-Colombaia, vicino Rakalj-Castelnuovo. Oggi la gente vi getta i rifiuti. L’8 giugno 2006 noi sacerdoti del decanato siamo andati sul posto. In quell’occasione il parroco don Ivan Princ ha affermato: «A Rakalj circola voce che il luogo sia maledetto, senza matrimoni e senza bambini, perché si è profanata la foiba con le vittime». I fedeli ora vanno a pregare in quel luogo per espiare in qualche modo tale vergogna. Sarebbe bene che in ogni località dell’Istria in cui caddero o furono gettate vittime di guerra si ponesse almeno una croce di pietra. Le nuove generazioni sarebbero così aiutate a non dimenticare il sangue innocentemente versato.


85 oltre trecento. Mi raccontò poi il parroco di quella zona, ora deceduto, che si sentivano i lamenti di quanti, cadendo nella voragine, non erano morti: i lamenti cessarono del tutto dopo circa quattro o cinque giorni. Così furono rispettati i patti sottoscritti! Gli alleati arrivarono dopo pochi giorni dalla firma della resa. Se i tedeschi avessero aspettato ancora qualche giorno, tutti sicuramente avrebbero avuta salva la vita. Forse, fra coloro che furono barbaramente massacrati, c’era anche un sacerdote polacco. Faceva parte di un piccolo gruppo addetto ad alcune batterie di cannoni dislocate vicino alla casa dei miei genitori e dormiva al piano superiore. Quando andavo a trovare i miei genitori, avevo passato più volte qualche tempo a parlare con lui.


86

Incontro con i capi partigiani nel bosco di Santa Fosca Verso i primi di aprile del 1945 fui avvicinato da un partigiano che mi invitò a partecipare a un incontro nei boschi vicino la chiesa di Santa Fosca. La zona si trova davanti le isole Brioni, magnifico luogo di villeggiatura che Tito, arrivato al potere, eresse a sua residenza e oggi è diventato di nuovo luogo di visita di turisti e anche di villeggiatura, però ben controllato per conservarne la bellezza naturale. L’incontro era previsto per le ore 14. Non ricordo la data di aprile (43). A un certo punto incontrai 43. Il 26 giugno 2006 ho avuto dal signor Antonio Manzin, detto Domici, un’importante testimonianza su don Toncetti. Il Manzin è nato a Dignano l’11 giugno 1920 e abita in via San Rocco. Ricorda di aver partecipato alla processione del Corpus Domini e di aver saputo quella stessa sera della fuga a Trieste in bicicletta del parroco don Rodolfo. Inoltre ricorda di avere precedentemente presenziato, assieme a un amico, a una riunione con i partigiani, comandati da Giovanni Demarin, nella cosiddetta ‘Stazione 2’, situata nei pressi delle tre casette a Santa Fosca. Tutte le precauzioni prese non bastarono e, prima di arrivare alla località prestabilita, furono scoperti. L’indomani i tedeschi li cercarono per arrestarli, ma il signor Manzin, per evitare la cattura, si associò ai partigiani e rimase con loro quattro mesi. Nel 1947, quando si trattò di optare per l’Italia, il Manzin, temendo della propria incolumità, scelse di partire; poi però ritirò la domanda e rimase nel paese natio. Non ricorda la presenza del parroco don Rodolfo Toncetti alla riunione con i capi partigiani: forse questi aveva partecipato a qualche altra riunione.


87

La basilica di Santa Fosca

una guardia armata, che mi attendeva sulla strada in mezzo al bosco. Mi scortò fino al luogo del raduno. Prima di arrivare al posto prescelto incontrai due file di armati che dovevano vigilare sulla nostra sicurezza. Essendo aprile, lo scopo mio doveva figurare una raccolta di asparagi. Certo era pericoloso, ma pensai che potesse essere utile per le informazioni e promesse varie. Sul posto dell’incontro trovai una ventina di persone: erano croati e italiani. L’adunanza iniziò come sempre con la presentazione della situazione politica, essendo imminente la conclusione della guerra. Compresi molto bene cosa ci aspettava. Io ascoltavo e tacevo,


88 prendendo naturalmente buona nota di quanto i futuri dirigenti politici, i capi della polizia e le autorità militari ci descrivevano per l’imminente futuro. Non avendo compiti specifici, ascoltai per tutte le quattro ore di durata del meeting quanto veniva prospettato per il nostro futuro modo di vivere. Si parlò anche, in particolare, del trattamento che sarebbe stato riservato ai cosiddetti nemici del popolo, ai collaborazionisti, dell’organizzazione della nuova società e del rapporto di convivenza fra croati e italiani. Presi mentalmente attenta nota di tutto. Qualcuno dirà: «Come mai lei era stato invitato?». Penso sì come sacerdote, che essi ritenevano loro amico e sostenitore; ma ciò derivava dal comportamento da me tenuto durante tutto il periodo dal settembre 1943 sino a quel momento; comportamento che era stato di equidistanza dai contendenti, di difesa dei principi e diritti delle due etnie, senza mai entrare in merito alla futura sistemazione della società. In conclusione: ognuno mi credeva sostenitore delle sue posizioni politiche, mentre in pratica intervenivo sempre dove era necessario in difesa dei diritti della popolazione. Certo, essendo i partigiani ben diversi dai tedeschi


89 e repubblichini, i miei interventi di aiuto si manifestavano molto di più nel rapporto con i tedeschi e repubblichini. Dovevo certo stare molto attento nel non schierarmi soprattutto nel campo politico, ma solo in quello civile, morale e religioso. Tutti e tre gli schieramenti finirono con il credermi dalla loro parte. Questo fatto mi portò, a un certo momento della seduta, a essere proposto dai partecipanti alla direzione del dipartimento della cultura popolare. Certo non me l’aspettavo. Scelsi la strada del sì e no: sì per quanto si riferiva alla protezione della buona cultura popolare; no, sapendo io che i loro progetti erano diametralmente opposti ai miei e che l’eventuale mia accettazione mi avrebbe coinvolto nell’eseguire un programma completamente contrapposto al mio di sacerdote. Non potevo pertanto accettare l’incarico propostomi. Avevo capito che, accettando, sarei finito coll’essere soggetto - nel comitato popolare di Dignano, che era in pratica uno dei nostri consigli comunali odierni – alle direttive e ai programmi che sarebbero stati messi in atto e sarei stato dipendente da un presidente che era già stato nominato alcuni istanti prima: un


90 muratore neanche tanto esperto, italiano, ma fervente comunista. Nel giorno in cui fosse stato riconosciuto incapace (e lo era) di guidare il comitato, lo avrebbero accusato di qualche errore commesso e processato come sabotatore e, forse, se avessi accettato la carica offertami, le medesime accuse sarebbero cadute su di me, seguite dagli stessi motivi e conseguenze. Conoscevo troppo bene i metodi dei comunisti: logicamente non furono da me portati in campo questi, ma il mio impegno sacerdotale a Dignano e Roveria. Ci fu un’animata discussione per il mio rifiuto: specialmente animata contro di me fu una partigiana di Dignano, italiana. Mi disse: «Voi sacerdoti, quando si tratta di fare del bene al popolo, vi tirate sempre indietro». A questo punto un tale, che non aveva fino a quel momento parlato, disse rivolto alla giovane: «Tu, compagna, non capisci questi problemi. Ha ragione il reverendo e non insistere più!». Cessò ogni discussione. Non conoscevo quel tale, ma compresi che era uno la cui decisione era inappellabile. Seppi in seguito che era il capo di tutta l’OZNA, polizia segreta dell’Istria.


91 Io allora intervenni con una proposta. Vicino a me c’era un giovane maestro che credeva nel comunismo, ma era anche dell’Azione Cattolica. Più volte, discutendo con lui, avevo cercato di fargli capire che il comunismo era ben diverso da come lui lo credeva. A ogni modo, dato che era un maestro e per il momento seguiva le loro idee, proposi di nominare lui come presidente del dipartimento della cultura popolare. La proposta fu accettata e non se ne parlò più. Non mantenne per molto quella carica: mi fece conoscere tutte le difficoltà che incontrava e i pericoli che lo minacciavano. Gli dissi: «Molti ormai sono costretti ad andarsene. Prèparati anche tu a fare altrettanto, ma fallo in gran segreto». Fece come gli suggerii io e un bel giorno improvvisamente non si presentò né a scuola né nel suo ufficio: era andato profugo in Italia. È morto da pochi anni. In Italia continuò a insegnare fino alla pensione: aveva abbandonato anche le idee comuniste. Durante i vari interventi compresi che alcuni di Dignano avrebbero corso un grave rischio di venire arrestati dopo la presa del potere da parte dei partigiani. Ne avvertii alcuni, affinché


92 partissero prima della venuta dei partigiani. Ascoltarono il mio segreto avviso e furono salvi. Verso le sei di sera la seduta ebbe termine. Io fui scortato fino a un certo punto. Poi, rimasto solo, misi la bicicletta accanto a un albero e mi misi a raccogliere asparagi: se avessi incontrato qualche pattuglia dei tedeschi o repubblichini, avrei giustificato il mio girovagare per il bosco. Nulla successe. Raccolsi un mazzo di asparagi: venuto a casa li consegnai a mia sorella che mi preparò per cena una bella frittata con gli asparagi raccolti. Voglio far notare che gli asparagi dell’Istria sono sottili e crescono alti con la loro asparigine: solo una parte della punta è buona; tutto il resto, crescendo, diventa duro e spinoso e non è mangiabile.


93

Natale 1944 Non pensavo di trovare a Roveria ben sette morti. Nei giorni precedenti avevo visitato tutte le famiglie dei vari villaggi componenti la cappellania, dove nel 1943 ero andato a celebrare la santa messa (in Istria c’è l’abitudine di benedire le case a Natale: tale è rimasta ancora oggi). Da alcuni giorni, circa trecento soldati ucraini che erano passati al servizio dei tedeschi, comandati da un tenente tedesco, rastrellavano ogni giorno una vasta zona (i soldati ucraini erano rimasti prigionieri dei tedeschi ed erano passati volontariamente a servirli, perché erano ferocemente anticomunisti): tutti gli uomini che trovavano nei campi e soprattutto nei boschi li fucilavano senza alcun processo. Io non li incontrai mai in quei giorni. Probabilmente, se li avessi incontrati, non mi sarebbe toccata la sorte degli altri, perché gli ucraini avevano molto rispetto del sacerdote, che essi chiamavano pope (più avanti descriverò un fatto successomi, che dimostra tutto ciò).


94 Ebbi però occasione di essere svegliato di notte da due di loro in una parrocchia vicina, dove ero andato a sostituire nella festa dell’Immacolata il parroco che era andato a Parenzo, sede del vescovo, a partecipare alla consacrazione sacerdotale di un fratello. Era circa mezzanotte quando venni svegliato da una cugina che stava nella casa parrocchiale insieme al parroco. Conoscendo quello che stava avvenendo quei giorni ed essendo i tedeschi accampati in quel paese, chiamato Sanvincenti, era tutta spaventata, pensando mi potesse succedere qualche cosa di grave. Le dissi di stare tranquilla. Mi vestii e andai a vedere cosa volevano i due tedeschi: domandavano di parlare con il parroco. Parlavano tedesco: risposi in tedesco che io non ero il parroco ed ero venuto a sostituirlo, perchĂŠ assente. Non riuscii a sapere cosa volevano: domandarono scusa per avermi disturbato e se ne andarono. La mattina dell’Immacolata seppi che cosa volevano. Tre uomini, arrestati dal tenente tedesco, avevano desiderato la presenza del


95 parroco: forse per confessarsi e forse anche per essere liberati attraverso il suo intervento a loro favore. Questo incontro non poté avvenire e alla mattina tutti tre erano stati fucilati. Se avessi saputo questo, sarei senz’altro andato io e forse sarei riuscito a liberarli. Quel Natale fu veramente un Natale triste per molte famiglie. Trovai il primo morto all’ingresso del paese. Era stato impiccato e, mentre era appeso ormai morto, lo avevano crivellato di colpi al viso, per cui era irriconoscibile. Gli altri sei erano sparsi in più parti, anche lontane. Celebrai la santa messa in mezzo al pianto di molti, che avevano perduto i loro cari. Dopo la messa presi nota dei nomi dei morti e annunciai il funerale di tutti per il giorno dopo, festa di Santo Stefano. Nessuno però conosceva quello trovato da me sulla strada. Dopo la messa del funerale li portammo tutti e sette in cimitero. Non procedetti però alla sepoltura dello sconosciuto: lo misi provvisoriamente in una cella mortuaria. Cercai di avere qualche informazione e mi si disse che forse era di un villaggio ortodosso che si trovava


96 vicino la costa, a sud di Dignano (44). Dopo il funerale ritornai a casa a Dignano. Soffiava una terribile bora: credo superasse i cento chilometri l’ora. Per farmi capire da chi non conosce la bora, dico che per andare da Dignano a Roveria (sette chilometri) ci misi tre quarti d’ora; per ritornare, nove minuti. Al pomeriggio andai nel paese ortodosso, l’unico dell’Istria allora. Era lontano 44. Il villaggio ortodosso a ovest di Dignano è Peroj. In conseguenza delle continue pestilenze si spopolò talmente che rimase con soli due abitanti. Il rettore di Pola, agli inizi del sedicesimo secolo, fece allora arrivare dalla Grecia ottanta famiglie. Le prime venticinque arrivarono da Cipro, ma se ne andarono presto, cioè nel 15 85. Furono rimpiazzati da croati della Dalmazia e quindi da montenegrini. Poi, avuto il consenso del Senato veneto, fece arrivare dieci famiglie condotte da Miho Brajković e cinque guidate dal sacerdote ortodosso Ljubotina. Per i riti religiosi usavano gli edifici della Chiesa cattolica. Osteggiati dai governanti di quel tempo, desiderosi che essi passassero alla Chiesa Romana, a loro fu affidata la chiesa di San Nicolò a Pola, distante ben dieci chilometri dal villaggio. L’insediamento del primo sacerdote ortodosso avvenne solo nel 1787. Gli ortodossi conservarono comunque la propria confessione e tradizione di fede. L’attuale chiesa ortodossa fu costruita nel 1788, mentre il campanile fu innalzato nel 1860. Dal 1854 Peroj è comune, con propria scuola ausiliaria. Attualmente vivono nel paese circa quattrocento abitanti: ottanta famiglie sono cattoliche e cinquanta ortodosse, come dichiara il parroco di Fasana don Milan Mužina. Peroj è la sola enclave ortodossa in Istria (vedi Marijan Jelenić, Vodnjan i okolica, Vodnjan 1997, pp. 125 -130).


97 circa sette chilometri. Arrivai presto, perché la bora mi fece quasi volare. Per caso vidi su un pianerottolo esterno alcune persone. Dissi loro il motivo della mia visita: dissi che desideravo avere notizie del morto a me sconosciuto. Quando spiegai dove lo avevo trovato, scoppiarono tutti in pianto. Proprio in quella zona si trovava un partigiano loro parente ed essi pensarono fosse lui. Dissi che non piangessero e che bisognava accertarsi meglio e vederlo se era lui. Chiesi che qualcuno venisse con me: si offrì una giovane. Era molto robusta e faceva fatica a starmi dietro in bicicletta, perché bisognava andare contro vento. Dopo circa un’ora e mezza, verso sera, arrivammo io e lei soli in cimitero. La portai nella cella mortuaria, vide ed esaminò il corpo e disse che non lo conosceva. Le chiesi, per essere più sicuro se avesse potuto conoscerlo, di esaminare i denti. Accettò. Il cadavere era rigido per il freddo e la rigidità che subentra dopo la morte. Allora presi un legno, lo misi in bocca al morto e, forzando, spalancai la sua bocca. Ella guardò e disse che quelli non erano i denti di chi si presumeva. Allora le dissi che poteva andare, anche perché la notte era vicina. Vennero frattanto due uomini


98 e, dopo una breve cerimonia di preghiera, lo seppellimmo. Quando, in maggio, arrivarono i partigiani vidi su un carro vestita da partigiana quella signorina che mi aveva accompagnato fino al cimitero. La presenza nella zona delle truppe ucraine alle dipendenze dei tedeschi aveva creato un nuovo rapporto anche di lingua. Gli ucraini hanno una lingua che a me, che conoscevo il croato, era comprensibile; e anche agli ucraini era comprensibile il croato. Nei miei rapporti con loro parlavo il croato ed essi l’ucraino. È una lingua che ha molte parole croate e russe: mi era quindi diventato facile parlare con loro. A questo proposito racconto un episodio che avrebbe potuto diventare pericoloso se non aves-si avuto questa possibilità di rapporto. Una notte, verso le ore 22, venivo dalla casa del medico condotto. Sulla strada era buio pesto. Camminavo tenendo in mano accesa una pila. Aveva una tenue luce. La portavo durante il coprifuoco (45) per farmi facilmente individuare: a noi sacerdoti era stato concesso da un proclama di spostarci di notte con il coprifuoco. 45. Nel tempo di guerra fu imposto il coprifuoco perché, nel caso di bombardamento notturno, gli obiettivi non illuminati erano impossibili da individuare. Venne pure proibito alle persone di spostarsi.


99 Quella sera mi sto incamminando verso casa quando all’improvviso sento un ordine di alt. Non vedo però chi l’ha pronunciato. Dal timbro della voce comprendo che non è un italiano. Allora, pensando sia una pattuglia tedesca, grido, dopo essermi fermato: «Ich bin ein Priester - Sono un sacerdote». Chi aveva detto alt non comprende e chiede la parola d’ordine proprio con l’espressione ‘parola’ (la prima mia risposta non era stata capita). Allora dico: «Ich bin der Pfarer - Sono il parroco». Nemmeno questa risposta è compresa e la sentinella chiede di nuovo ‘parola’. Allora penso: forse chi mi ha fermato è cosacco o ucraino. Dico allora, sempre fermo sulla strada: «Ja sam pop», che in croato, russo e ucraino si esprime con le stesse parole. Difatti, appena gridato «Ja sam pop - Sono un sacerdote», l’altro mi grida: «Weiter - Avanti!». Allora, piano piano, mi incammino verso di lui, sempre con la pila accesa. Quando arrivo a circa due metri, sento un altro alt. Mi fermo e ricorro allora a uno stratagemma per farmi riconoscere: alzo la pila all’altezza del viso, rivolta verso la sentinella, e lentamente giro la luce verso il mio colletto. Vedo spianato verso di me un fucile: quando però il soldato


100


101 vede il colletto, abbassa il fucile e mi invita nella sua lingua a venire avanti. Ci troviamo a tu per tu. Io gli dico in croato: «Dobra večer! - Buona sera!» ed egli risponde con le stesse parole (mi pare fosse differente solo l’accento della seconda ‘e’). Ci mettiamo a parlare: gli chiedo notizie di lui, della sua famiglia. Prima di cominciare a parlare, temendo che qualcuno possa non vederci nel buio ma ascoltarci, mi guardo attorno. Lo tranquillizzo, dicendogli che nessuno è nei paraggi: allora egli mi parla dei suoi genitori e dei fratelli e sorelle che aveva lasciato in Ucraina, a Rostov, grande città sul Don. Aggiunge che però nulla sa di loro. Gli auguro che questo possa presto realizzarsi. Il nostro colloquio si protrae circa dieci minuti: ci scambiamo le notizie che possono interessare più me che lui. Rimane contento di avere parlato con me, pur essendo egli ortodosso e io sacerdote cattolico: la guerra, nel suo male, riesce a cancellare anche le differenze religiose. Lo saluto augurandogli ogni bene: ci lasciamo ambedue contenti per quell’incontro finito tanto bene. Quante distanze annulla la differenza delle lingue se si riesce a superarle! A me, nei momenti difficili, la differenza del linguaggio La parrocchiale di Roveria


102 portò la soluzione con gli altri, facendoci meglio conoscere a vicenda ed eliminando le distanze nazionalistiche che non dovrebbero esistere fra gli uomini, anche se parlano lingue diverse. A questo proposito voglio ricordare un piccolo episodio. Stavo celebrando a Natale la santa messa nella parrocchia croata di Roveria (o Juršići). Dopo i massacri partigiani del mese di settembre 1943, gli infoibamenti (circa quattrocento erano stati gettati nelle foibe istriane) e i sanguinosi rastrellamenti tedeschi del mese di ottobre si era creata un po’ di tranquillità. Nella caserma di Roveria erano ritornati i carabinieri. Durante la santa messa vidi in chiesa una parte di loro: allora, dopo avere finito la predica in croato, mi rivolsi in italiano per augurare anche a loro un lieto e buon Natale e spiegai brevemente il significato della grande festa. Erano solo in sette: tuttavia, sebbene più brevemente, parlai a loro in italiano. Il mio doppio intervento linguistico portò un po’ di serenità in un momento certo difficile e ci rese uniti nella pace che la nascita di Gesù a Betlemme annunciava a tutti gli uomini di buona volontà. E, dopo la messa, croati e carabinieri si scambiarono vicendevolmente la pace e gli auguri di Natale.


103

Deportazione dei prigionieri Nei primi giorni del mese di maggio 1945, dopo aver ballato per alcune sere sulla piazza di Dignano con il tradizionale ‘Kolo - Cerchio’, cominciarono i rastrellamenti nelle case di tutte le persone più influenti, in altissima percentuale italiani. Ho già accennato a questo e agli incontri e brevi colloqui a una finestra con alcuni arrestati. Ai primi di giugno si sparse la notizia dell’accordo Alexander-Tito. Sembrava, in un primo momento, che anche Dignano dovesse passare sotto l’amministrazione alleata, zona A: cioè la città di Pola con un largo circondario. Invece così non fu: solo la città passò sotto gli alleati, compresa la zona dove abitavano i miei genitori, considerata città di Pola. Dopo quell’accordo, per passare dalla zona A occupata dagli alleati (e che comprendeva anche la città di Trieste) alla zona B, si doveva essere muniti di un lasciapassare con fotografia scritto in tre lingue: italiano, croato e sloveno. Sparsasi la notizia che anche Dignano sarebbe passata sotto la zona A, le truppe partigiane


104 occuparono un pomeriggio la piazza: tutte le vie di accesso furono bloccate, arrivarono due corriere e di lì a poco, legati due a due con del filo di ferro, cominciarono a uscire dalla pretura i prigionieri. Fu una scena terrificante e durò fino a quando le autocorriere si allontanarono per ignota destinazione. Io fui presente a quella scena fin dal principio: partite le autocorriere, me ne andai. Mi ero allontanato verso la chiesa parrocchiale quando una persona mi venne a chiamare, dicendo che stava succedendo un fatto pauroso: due prigionieri, uno italiano e uno croato, erano stati portati fuori legati. Cominciò un violento linciaggio di popolo che durò alcuni minuti. I due furono aggrediti con pugni, calci e legnate di ogni genere, furono ridotti in fin di vita e tali li trovai davanti la porta del municipio: avevano il petto sfondato, vomitavano sangue. Li avvicinai e dissi loro alcune parole di conforto e speranza cristiana: credo che ormai non mi capissero più. Detti loro l’assoluzione e l’indulgenza plenaria. Alcuni comunisti fecero delle osservazioni negative sul mio operato, chiedendomi fra l’altro se mi ero


105 comportato così con le vittime dei tedeschi e dei fascisti. Risposi che non meritavano una risposta. Tutti conoscevano il mio comportamento in due anni di guerra: le osservazioni erano la prova del loro odio verso il sacerdote che in quel momento compiva il suo dovere verso due fratelli vicini ormai alla morte. In quell’istante arrivò il capo della polizia, l’OZNA. Fece lo scandalizzato per quanto era successo, minacciando una vera punizione per i responsabili di quanto era accaduto. E dire che era stato lui a organizzare il linciaggio! Lo guardai fisso in viso e nulla dissi: il mio sguardo silenzioso era di per sè un forte rimprovero. Lo invitai però a soccorrere per quanto possibile quei due disgraziati. Il soccorso consistette nel farli portare nel corridoio d’ingresso della cassa malattia, che era vicina. Lì furono gettati per terra: la porta fu chiusa e tutti se ne andarono. I due morirono durante la notte, non si sa a che ora, senza nessuna assistenza.


106

La suora venuta dalla Bosnia Un giorno del 1946 si presentò alle suore dell’asilo (46) una suora. Non sapeva una sola parola di italiano. Le suore mandarono a chiamare me. Era vestita con l’abito delle suore domenicane. Io però non le credetti. Temevo fosse una spia mandata dai comunisti che avrebbero potuto trarre argomento contro di noi se l’avessimo in qualche maniera illegalmente aiutata ad andare in Italia, come ella chiedeva. Le ordinai di ritornare nella sua Bosnia: cominciò a piangere. A quel punto volli in qualche maniera avere le prove della verità di quanto affermava. Le dissi di recitare alcune preghiere a memoria: me le recitò bene. Le chiesi se avesse qualche libro di preghiera, con riferimento particolare alla sua congregazione: ne aveva uno. La interrogai soprattutto sulla sua regola, controllando nel libro se dicesse la verità: tutto risultò a lei favorevole. Mi stavo convincendo che fosse veramente una suora: tuttavia le dissi che 46. Le Suore dei Sacri Cuori di Gesù e di Maria erano italiane e tenevano l’asilo infantile nell’ex convento dei Cappuccini a Dignano. Con l’esodo nel 1947 andarono anch’esse via. Tanti dignanesi ricordano le ore liete passate dalle suore.


107 avrebbe potuto fermarsi per una notte e poi sarebbe dovuta tornare al luogo da dove era venuta. Aveva un po’ di denaro. Volli però che le suore la controllassero nel suo comportamento quando si sarebbe trovata sola in camera. Feci mettere il letto in un posto dove si sarebbe potuto controllare la suora attraverso il buco della serratura. Il controllo fu fatto piĂš accuratamente nei momenti in cui ella si preparava ad andare a dormire. Le nostre suore fecero bene il loro lavoro: mi riferirono il giorno

Le suore dei Sacri Cuori nel ex convento dei Cappucini a Dignano


108 dopo che la religiosa, ancora presunta, si era inginocchiata prima di andare a letto e aveva pregato a lungo. Ogni tanto piangeva: forse, per la mia intransigenza verso di lei, si aspettava il rifiuto del richiesto aiuto. La controllarono al mattino al risveglio: anche in quel momento il suo comportamento fu corrispondente alle affermazioni del giorno prima. Rimasi persuaso della verità del suo racconto, però continuai a manifestare il mio rifiuto di aiutare la sua richiesta: volevo invece il suo ritorno in Bosnia. Intanto organizzai quanto necessario per preparare il lasciapassare e permetterle di superare il posto di blocco. Le domandai se avesse una fotografia. Me la diede: era vestita da suora. Le dettai il suo nuovo stato anagrafico, nel quale misi come luogo di nascita un comune dell’Istria: dire che era nata in Bosnia avrebbe potuto creare dei sospetti in chi avesse controllato il lasciapassare. Le dissi di imparare bene a memoria il nuovo luogo di nascita e il luogo di residenza, che non aveva molta importanza data la sua qualifica di religiosa. Poi andai a Pola. Trovai degli amici che mi avrebbero potuto procurare un lasciapassare


109 falso: lo fecero con i nuovi dati anagrafici. Nulla le dissi di quanto avevo preparato: solo quando fu il momento di farla salire, le ordinai di prepararsi e di parlare il meno possibile per non creare sospetti con la sua parlata bosniaca. La misi nell’autocorriera vicino alla finestra per poter controllare al posto di blocco come andavano le cose. Le diedi il lasciapassare: dissi di stropicciarlo pure per far vedere che aveva già parecchio tempo e la lasciai. Io partii subito. La strada era quasi tutta in discesa e perciò arrivai al posto di blocco insieme alla corriera. Mi fermai vicino alla sua finestra: la guardia si limitò a guardare il lasciapassare senza domande. La corriera partì per Pola e io tornai a Dignano: l’avventura, piuttosto pericolosa, era finita. La suora stette alcuni giorni a Pola e le suore presso le quali era alloggiata la fecero partire per Roma: così evitai i giornalisti, sempre a caccia di notizie interessanti, tanto che le loro cronache non portarono a conoscenza il fatto. Evitai così che pubblicassero qualche particolare sui giornali italiani e mettessero nei guai me e le suore di Dignano che l’avevano ospitata senza avvertire la polizia.


110

Processo a Roveria contro i c.d. ‘nemici del popolo’ Avvenne tutto improvvisamente una domenica, nell’estate dopo la fine della guerra. Tutto era pronto per iniziare la santa messa quando fui avvertito che stava arrivando un plotone di soldati con un gruppetto di prigionieri: in un primo momento non compresi il perché di tutto questo. La gente uscì dalla chiesa e dovetti sospendere l’inizio della celebrazione senza sapere se avrei potuto farlo più tardi. Tutto si svolse sotto gli alberi di fronte alla chiesa. Arrivarono i componenti del tribunale del popolo. I soldati fecero schierare davanti a loro in piedi gli accusati; dietro di loro il popolo; in mezzo ad esso, sparsi, alcuni esagitati lanciavano insulti agli accusati e soprattutto chiedevano, già prima dello svolgimento del cosiddetto processo, la pena di morte. Parlò per primo il pubblico accusatore: elencò i reati di cui gli arrestati erano accusati. L’arringa accusatoria durò poco ed era intercalata dalle grida di ‘a morte’ e da altre richieste di condanna. Ci furono alcuni testimoni a carico e nessun testimonio a difesa. Finito ciò, il pubblico accusatore chiese


111 la condanna a morte di uno e la condanna a vita degli altri, per lunghi periodi ai lavori forzati. Fu la volta del difensore: si limitò a riconoscere la veritĂ delle accuse e chiese per gli imputati clemenza. Il presidente del tribunale del popolo prese la parola e, con poche parole, confermò la condanna a morte di uno e i lavori forzati per gli altri, con qualche lieve diminuzione della pena. Il processo era ďŹ nito. A questo punto chiesi al presidente del tribunale di poter avvicinare soprattutto il condannato a morte: non mi fu permesso. Venni a sapere che nella stessa giornata il condannato a morte era stato fucilato. Intanto io e il popolo rimasto entrammo in chiesa per celebrare pensierosi la santa messa.


112

Relazioni fra Chiesa e Stato Già il 9 luglio 1945 si manifestò, da parte del partito comunista jugoslavo, l’invito a partecipare a Pisino a certi convegni che avrebbero dovuto impostare fra i sacerdoti e i comunisti al potere in Istria nuove regole di convivenza e rapporti politico-religiosi. Ai sacerdoti che conoscevano e parlavano la lingua croata arrivò l’invito, che qui riporto. Veniva dal Fronte di Liberazione per l’Istria. Era scritto in croato. Io qui lo traduco in italiano: «Ancora al suo nascere, il movimento di liberazione ha dimostrato non solo a parole, ma anche con i fatti, che il movimento rispetta la fede dei nostri padri e vuole vivere corretti rapporti con la Chiesa e i sacerdoti. Il nostro grande compagno maresciallo Tito, i numerosi suoi discorsi hanno messo in evidenza questo nostro atteggiamento, ma nel contempo hanno proclamato che anche i sacerdoti, come rappresentanti della Chiesa, siano sinceri amici del popolo e dei rappresentanti del potere popolare. Per stabilire in Istria sinceri rapporti fra i sacerdoti e il popolo, indiciamo per mercoledì 18 luglio 1945 alle ore 9 una riunione dei sacerdoti


113 croati e sloveni del territorio di liberazione nazionale con il comitato di liberazione dell’Istria. In questa riunione tratteremo tutti i più importanti problemi di cooperazione fra i sacerdoti e il potere popolare. Pertanto vi preghiamo di venire senz’altro nel giorno stabilito a Pisino. Il presidente ŠESTAN» La lettera arrivò anche a me. A Dignano c’erano altri tre sacerdoti, che non parlavano il croato. L’avevano studiato in seminario, ma poi, con il passare del tempo, l’avevano in buona parte dimenticato. Considerai attentamente il contenuto dell’invito. Notai l’assenza della convocazione al convegno dei sacerdoti italiani. Le espressioni usate costituivano il classico linguaggio dei comunisti. Mescolavano i problemi politici con quelli religiosi riguardanti il comportamento dei sacerdoti, che essi volevano imporre a loro modo. Nella lettera nulla si accennava all’autorità del vescovo. Decisi perciò di andare all’ufficio affari interni dell’OZNA, equivalente alla Polizia. Chiesi in primo luogo se al convegno fosse stato invitato anche il vescovo: risposero che


114

Don Toncetti in ufficio

il problema da trattare riguardava i sacerdoti e non il vescovo. Risposi che c’è un’antica espressione che così sentenzia: Nihil sine episcopo. C’era fra loro un giovane italiano di Dignano: aveva studiato al liceo classico il latino e, come supponevo, doveva capirlo. La frase fu da lui capita. Poi spiegai più abbondantamente il mio pensiero: dissi che i sacerdoti potevano discutere quanto volevano, ma che non potevano prendere nessuna decisione senza il beneplacito del vescovo; quindi era assolutamente necessaria


115 la presenza del vescovo o almeno che alla discussione dei vari problemi fosse presente un suo delegato, da lui espressamente nominato. Come al solito essi obiettarono che la questione su cui i sacerdoti erano chiamati a discutere riguardava i problemi del popolo. Io dissi che a questo era senz’altro interessato anche il vescovo. Allora mi misero a disposizione il telefono, invitandomi a esporre le mie osservazioni al Comitato di Liberazione dell’Istria ad Albona. Accettai e, per circa quarantacinque minuti, ebbi con il responsabile un esauriente colloquio. Faccio notare che in quel tempo, non lontano dalla fine della guerra, ero ancora bene accettato dai capi del comitato, sia locale che provinciale. Il colloquio provocò l’invio di un altro invito datato 23 luglio 1945, che qui riporto tradotto dal croato. Come si può constatare, era in parte modificato e pareva accettare le mie richieste. Mancava però l’importante decisione circa la presenza del vescovo o di un suo delegato. Prima di fare i miei rilievi, che esposi all’ufficio affari interni a Dignano, riporto il testo italiano della lettera:


116 «In accordo con il desiderio dei sacerdoti che si sono radunati a Pisino il 18 di questo mese (seppi poi che erano stati solo quattro o cinque, n.d.a.), indiciamo di nuovo una riunione fra i sacerdoti croati e sloveni del territorio croato dell’Istria a Pisino per il martedì 31 di questo mese, alle 10 antimeridiane, nella sede del comitato distrettuale del Fronte jugoslavo popolare. Se qualche sacerdote di nazionalità italiana desidera venire alla riunione, la sua venuta sarà gradita. Nella riunione non si tratterà di questioni di fede della Chiesa, ma solo della posizione dei sacerdoti come cittadini nei riguardi del Fronte nazionale di Liberazione e anche di rapporti con la Jugoslavia federale democratica. Pertanto, a questa conferenza i sacerdoti sono invitati come cittadini godenti i medesimi diritti e come rappresentanti della Chiesa. Per facilitare la venuta alla riunione ci sforzeremo vengano mandati due autobus o camion, che porteranno i sacerdoti a Pisino da Medolino per Barbana-AlbonaPedena-Pisino e ritorno. L’altro sul tratto ParenzoAntignana-Pisino. Avvertiremo le autorità distrettuali che rendano possibile con i loro mezzi di trasporto la venuta alla riunione dei sacerdoti. Il presidente ŠESTAN»


117 Alla seconda riunione il numero dei sacerdoti fu più numeroso, anche perché c’erano i due mezzi di trasporto. Velatamente si introdusse il pensiero delle relazioni fra Chiesa e Stato. Si voleva con il tempo arrivare a una separazione da Roma (47). I comunisti trovarono però l’immediata opposizione di qualche sacerdote e il discorso fu chiuso. Il problema divenne in seguito argomento nazionale, in particolare in Croazia e Slovenia. Lo prospettò Tito in persona all’arcivescovo di Zagabria, primate della Jugoslavia. Ottenne un deciso rifiuto. Il fatto determinò un forte cambiamento nelle relazioni, in primo luogo con monsignor Stepinac che fu arrestato e, con un processo farsa, condannato a sedici anni di lavori forzati; e di conseguenza anche con tutti i vescovi che subirono angherie di ogni genere perché solidali con il primate: e così anche molti sacerdoti. 47. L’intenzione dei comunisti era di separare la Chiesa in Jugoslavia da Roma per poterla manipolare. Quando l’arcivescovo di Zagabria cardinale Alojzije Stepinac respinse l’offerta comunista cominciarono le persecuzioni. Furono chiusi i seminari, condannati tanti sacerdoti, impedita la stampa cattolica, tassata in forma vessatoria. Agli impiegati statali e ai maestri fu proibito di praticare la fede. I membri del Partito comunista dovettero sottoscrivere su apposito modulo di negare l’esistenza di Dio


118 Io tutto questo lo avevo previsto e, magari senza speranza di ottenere qualche cosa, avevo perciò detto ai responsabili dell’ufficio affari interni che sarei venuto solo se alla riunione fosse stato presente il vescovo o un suo delegato (48). 48. Riguardo alla situazione venutasi a creare, don Natale Milanović scrive: «Il comitato regionale con sede ad Albona convocò alla riunione di Pisino una parte dei sacerdoti istriani croati. Aderirono in pochi all’invito. La maggior parte era preoccupata di quello che avrebbero detto gli altri sacerdoti e il popolo, viste le profonde divergenze ideologiche tra il comitato e la Chiesa. L’agricoltore Ivan Kolić di Barbana d’Istria, noto per il suo spirito nazionale e fratello di un sacerdote istriano, consigliò ai membri del comitato di rivolgersi a me qualora ci fosse stata l’intenzione di contattare gli altri sacerdoti istriani. Il dottor Diminić e Ivan Motika arrivarono da me a Trieste e si accordarono per indirizzare i sacerdoti a collaborare per la liberazione dell’Istria. ...A me richiesero di mediare prima della riunione a Pisino... Andai dal vescovo monsignor Santin e lui fu contento dell’iniziativa, cioè del dialogo con l’autorità. Disse anzi di volere mandare una missiva per mio tramite ai rappresentanti del comitato, causa alcuni sacerdoti italiani della parte ovest dell’Istria. Mi pregò di tradurre in croato tale missiva. Il vescovo Santin si atteneva al principio del dialogo con le nuove autorità. Egli stesso andò a conferire con i partigiani a Gologorica. Nella lettera del 25 giugno 1945, prima della riunione, scrisse di trovare giuste le richieste dei sacerdoti slavi: ‘Tutti sanno che i singoli sacerdoti slavi desiderano giustamente la Jugoslavia’. A Pisino ci radunammo una ventina di sacerdoti. Nella canonica mi incontrai con monsignor Rittig quale rappresentante della Commissione per la Fede da Zagabria. Ci riunimmo nel convento di Pisino dove, come sacerdoti istriani, accettammo la risoluzione nella quale si diceva che


119 Io avevo compreso anche che alla riunione si sarebbe presentato un altro problema, e cioè l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. E così fu: a un certo momento uno della presidenza del comitato propose di inviare un telegramma a Parigi in questo senso. Alla seduta erano presenti solo sacerdoti croati. Non so se tutti diedero l’approvazione: a ogni modo, come si era fatto in altre riunioni, il telegramma risultò approvato e come tale fu pubblicato sui giornali. Ciononostante alcuni sacerdoti, tra quelli che lo avevano approvato, andarono profughi in Italia nel 1947.

l’Istria, per motivi etnici, geografici ed economici, doveva essere annessa alla Jugoslavia democratica e federativa. Ricordammo inoltre che, dopo la prolungata oppressione e dopo le pesanti lotte per la liberazione, il nostro popolo aveva il diritto di pervenire alla libertà popolare e democratica con i fratelli dello stesso sangue. Questa nostra risoluzione in seguito fu firmata da quarantotto sacerdoti» (vedi Božo Milanović, Moje uspomene, Pazin 1976, pp. 121-125).


120

Elezioni Nel settembre 1945 i comunisti organizzarono le elezioni anche in Istria, nella zona B ad essi assegnata in amministrazione dall’accordo Alexander-Tito (49). Merita essere descritta la vera e propria commedia: l’unica cosa seria fu la segretezza del voto; il resto tutto come si faceva negli altri stati sotto il comunismo. La lista da votare era una sola. Si poteva dire o scrivere solo sì o no: ai comunisti questo dava una parvenza di libertà. Non era tollerata nessuna propaganda o organizzazione di altro partito. Parlando in merito con i capi dell’OZNA, la Polizia, dissi loro che, per motivi religiosi, non avrei potuto votare per l’ideologia comunista: lo dissi anche a nome degli altri tre sacerdoti di Dignano. Essi mi risposero che potevo andare a votare e votare anche no. Chiesi chi mi avrebbe garantito circa lo scrutinio dei no. Mi risultava infatti che gli scrutatori erano solo comunisti: come avrebbero essi catalogato i no? E se anche avessi votato in bianco, si poneva la medesima 49. Secondo la storiografia le prime elezione erano organizzate 25 novembre 1945.


121 domanda. In realtà per loro era importante soprattutto che noi sacerdoti andassimo a votare. Prepararono così le elezioni: e non ci fu alcun comizio che si schierasse per un secondo partito, che non c’era. Naturalmente le mie osservazioni attenuarono una certa simpatia che avevo costruita fra me e loro. A un certo punto trovarono persino un sacerdote che fece un comizio a favore della Jugoslavia. Era un sacerdote croato, di una parrocchia del comune di Dignano: parlò soprattutto a favore dell’annessione dell’Istria alla Jugoslavia e anche della necessità di votare, per motivi politici e sociali, a favore dell’unica lista elettorale che li rappresentava. Quel sacerdote fu criticato nella sua parrocchia a motivo di altri suoi modi di comportarsi, in particolare quando cominciò a partecipare ai balli. Si vide respinto dalle giovani del paese, anche per altri motivi che non conosco. In tale situazione non ebbe altra scelta che abbandonare la parrocchia. Il vescovo monsignor Radossi dovette sostituirlo: non ottenne altre parrocchie, forse nemmeno una chiesa, perché dopo qualche tempo si unì in matrimonio. Siccome era in programma la


122 cresima, il vescovo mi mandò per qualche tempo a sostituirlo per preparare i giovani. Un altro sacerdote armato si arruolò fra i partigiani. Un giorno si trovò a tu per tu con il vescovo. Questi gli disse in latino: «Tu quoque, fili mi!» (anche tu, figlio mio!). Forse comprese l’ammonimento, lo accolse e si ritirò dalla sua posizione irregolare. Le elezioni ebbero il solito risultato, di tutte le elezioni fatte nei paesi comunisti: 99.9% per loro, anche se conosco con certezza che molti elettori scrissero sulla scheda insulti a Tito e al comunismo. In una parrocchia vicina, uno scrutatore voleva annullarle - erano moltissime ma furono dichiarate valide. Egli dovette subito allontanarsi e fuggire dall’Istria per non essere arrestato.


123

Persecuzione dei sacerdoti Il sacerdote Zvonimir Brumnić ebbe dei colloqui con don Paić sugli avvenimenti trascorsi e sui piani del movimento popolare nazionale. I due si incontrarono anche con i dirigenti di tale movimento, tentando di eliminare alcune roventi questioni. Don Paić si difese fortemente da vari inganni e mise in evidenza quanto i sacerdoti avevano fatto fra le due guerre per salvaguardare

Don Zvonimir Brumnić

Don Natale Milanović

l’identità croata del proprio popolo. Alcuni duri elementi delle organizzazioni partigiane agivano violentemente contro don Brumnić


124 e don Paić (51), separatamente dai rientrati dall’emigrazione. Essi erano pieni di odio (52) e pregiudizi verso i sacerdoti e proclamavano apertamente che bisognava ammazzarli in

(50)

50. Durante la campagna anticristiana don Brumnić fu accusato per avere distribuito dal magazzino di Antignana i viveri alle famiglie che avevano perso tutto nelle case incendiate durante l’occupazione tedesca. Fu per questo definito nemico del popolo. Per lui furono scritte sul selciato richieste di morte. Si salvò fuggendo a Trieste. Dopo la guerra lo accolsero ad Antignana con ovazioni e con un grande arco trionfale (vedi Ivan Grah, Istarska Crkva u ratnom vihoru, op. cit., nota n. 61, p. 124).vihoru, op. cit., nota n. 61, p. 124). 51. Don Kazimir Paić nacque a San Giovanni di Sterna il 9 gennaio 1911. Dopo la capitolazione dell’Italia guidò il popolo a disarmare i carabinieri a Visignano. I carabinieri chiamarono in aiuto da Trieste i tedeschi che il popolo, senza armi, incontrò a Tičan dove ci furono ottantadue caduti. Don Paić partecipò alle manifestazioni per la resa di Parenzo ai partigiani. Poi abbandonò i partigiani quando alcuni di essi, tornati dall’emigrazione, mostrarono un odio profondo per i sacerdoti, definiti come nemici del popolo. In seguito i tedeschi lo catturarono e minacciarono di morte o di deportazione. Allora il vescovo monsignor Radossi riuscì a metterlo in salvo insieme a don Vinko Pereša: inviò entrambi nel convento di Camposampiero vicino Padova. Don Paić da Trieste passò come cappellano militare ai domobrani. I partigiani lo arrestarono il 29 aprile 1945 a San Pietro vicino Gorizia (vedi Ivan Grah, Israrska Crkva u ratnom vihoru, op.cit., pp. 87-89). 52. Dopo la seconda guerra mondiale la classe operaia divenne ‘la nuova divinità’. È nota la persecuzione da noi degli intellettuali, tanto che un operaio comunista affermò: «Cos’è un medico nei miei confronti di conducente di un trattore?». In occasione dell’apertura della Collezione di arte sacra nella chiesa di San Biagio a Dignano


125 quanto parassiti e fucilarli perché nemici del popolo. Don Paić cominciò a convincersi che non poteva più collaborare con tale movimento: si trovò così tra l’incudine e il martello, fra l’occupatore tedesco e i liberatori locali. Dopo la venuta dell’esercito tedesco e la diffusione dei presidi nel territorio di Parenzo, don Paić doveva nascondersi, perché sapeva che la sua vita era in pericolo. Quando i soldati tedeschi lo arrestarono, gravò su di lui prima di tutto la minaccia dell’impiccagione, oppure un lager tedesco. Intervenne il vescovo monsignor Radossi che riuscì a salvarlo, a condizione che abbandonasse l’Istria. Il vescovo inviò lui e un altro sacerdote, don Vincenzo Pereša, nel convento di Camposampiero, vicino Padova. Di don Pereša ho scritto all’inizio di queste Memorie: dopo la mia partenza dall’Istria divenne mio nel 1984, il parroco si rivolse al responsabile del protocollo del Comune di Pola, tale L.R., pregandolo di estendere gli inviti agli intellettuali di Dignano. Per risposta ebbe un secco rifiuto. Il vento dell’ateismo veniva da noi prima di tutto dalla Russia dove furono uccisi 2691 sacerdoti, 1962 religiosi e 3447 religiose. In Spagna, negli anni della guerra civile, furono uccisi 13 vescovi, 4184 sacerdoti e seminaristi, 2365 religiosi e 283 religiose. Pure in Jugoslavia furono uccisi 287 sacerdoti, 201 religiosi, 54 studenti di teologia, seminaristi, fratelli laici e 30 suore e altri. In totale 601 vittime! (vedi Juraj Batelja, Crna knjiga, o gozovitostima komunističke vladavine u Hrvatskoj - Libro nero dell’orribile governo comunista in Croazia - Zagreb 1999, pp. XVI-XXIII e LI)


126 successore a Dignano e morì abbastanza giovane. Successivamente, il movimento popolare di liberazione attaccò su un giornale don Natale Milanović (53) e lo accusò di avere consigliato il vescovo monsignor Radossi di allontanare dall’Istria don Pereša; mosse inoltre altre accuse contro di lui per il periodo e comportamento durante l’internamento a Bergamo. Continue accuse si scrivevano contro i sacerdoti istriani da parte dei partigiani. Ne erano oggetto i sacerdoti croati, poiché quelli italiani tacevano, ben sapendo che l’odio anticristiano dei partigiani comunisti si sarebbe scatenato con immediata violenza contro di loro. Per tutto il periodo dopo il primo incontro con i partigiani, che ho descritto nelle prime pagine di queste Memorie, io riuscii a barcamenarmi fra tedeschi, partigiani italiani e croati e repubblichini, avendo ottenuto il permesso di girare liberamente per tutta l’Istria e potendo adoperare con tempestività le tre lingue tedesca, croata e italiana. 53. Don Natale Milanović fu incriminato perché durante l’emigrazione a Trieste stampò, con licenza dei tedeschi che occupavano la città, un calendario croato e un manuale scolastico per la prima classe onde i bambini imparassero a scrivere e leggere: durante la guerra, infatti, nessun manuale era disponibile. In seguito i capi partigiani cercarono don Milanović perché testimoniasse che in Istria, sulla base dei libri anagrafici, la mag-gioranza della popolazione era croata. Si trattò di una testimonianza decisiva per la commissione alleata e per l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia.


127

Difficoltà con i fascisti (54) Una sera una pattuglia di fascisti ci diede l’’Alt’. Era buio e non ci conobbero. I soldati tedeschi li allontanarono con un perentorio ‘Weg!’. Al comando della Gestapo di Pola avevo chi all’occorrenza poteva difendermi: il comandante aveva una certa simpatia per me dopo l’incontro avuto con lui nella caserma dei carabinieri di Dignano. Dai croati ero ritenuto un simpatizzante e dal comandante dei repubblichini ero ritenuto quello che veramente ero: un anticomunista. E per quanto riguardava la destinazione dell’Istria, ritenevo valida e giusta una certa divisione fra l’Italia e la Jugoslavia: per esempio quella dell’ex linea Wilson proposta dopo la prima guerra mondiale, che avrebbe potuto distribuire l’Istria metà all’Italia e metà alla Jugoslavia. Così si sarebbero potuti rispettare i diritti delle due etnie, italiana e croata, e vivere in pace. Se non ci fosse stata l’Unione Sovietica questo accordo si sarebbe potuto forse raggiungere, nonostante il forte nazionalismo, che divideva italiani e croati. 54. Il titolo è del redattore.


128


129 Tuttavia i fascisti ebbero qualche scontro con me, specialmente il giorno in cui partì un insulto contro di me da un carro tirato da due cavalli con sopra tre di loro. Ero in bicicletta: tornai indietro e chiesi conto del motivo, del perché delle parolacce rivoltemi. Si rifiutarono e, non volendosi essi fermare, fermai io i cavalli. Accusai i tre di maleducazione, e di vigliaccheria uno di loro. A un’anziana donna croata che era sul carro dissi, in croato, che l’avrei chiamata a testimonio del fatto. Essi subito dissero che dovevo parlare alla donna in italiano (55). Risposi: «Con voi ho parlato italiano; con lei, che è croata, parlo in croato». Saltarono allora giù dal carro con il mitra in mano e me lo puntarono contro il petto. Dissi loro tranquillo che potevano sparare: non mostrai nessuna paura. Alla sera, tornato a casa, li denunciai al comandante, chiedendo la loro punizione. Il capitano mi assicurò circa la mia richiesta. Dopo quell’episodio mi lasciarono sempre tranquillo. Un fatto analogo avvenne durante il ‘mattutino delle tenebre’ a Marzana, dove ero andato a 55. E’ custodito un grande manifesto fascista del 1942 nel quale sono minacciati di bastonate coloro che useranno la lingua croata. La caserma dei fascisti con l’attigua casa di don Toncetti, oggi via A. Smareglia 47


130 sostituire il parroco. Alla fine del Miserere sentii un forte baccano in chiesa. Spiegai alla gente il significato di un certo rumore da farsi: parlai però solo in croato. Il giorno dopo, giovedì santo, incontrai due militi. Mi fermarono e mi dissero: «Reverendo, se lei in chiesa parla solo in croato, noi non verremo le prossime sere in chiesa». Chiesi loro: «Allora avete fatto quel baccano anche voi?». Negarono subito. «Ecco - dissi - perché non ho parlato anche in italiano, perché ritenevo voi gente civile ed educata. Vuol dire che questa sera dirò anche in italiano quanto ho detto ieri in croato». Capirono l’ammonimento e l’incidente fu risolto. Dissi però loro che quella sera avrei fatto la predica della passione in due lingue. Poiché però il coprifuoco cominciava troppo presto, mi sarebbe occorso più tempo: domandai quindi a loro di prolungarne la durata di almeno un’ora. Feci due prediche, una in croato e una in italiano, mezz’ora ciascuna. Dato però che i fedeli capivano sia il croato che l’italiano, trattai due argomenti: alla prima predica trattai i dolori di Maria Santissima, alla seconda la Passione di Gesù:


131 e tutti furono accontentati. Non ci voleva molto ad accontentare ambedue. Oggi - mi dicono - succedono le stesse cose in Alto Adige e, pur essendo pochi gli italiani in Istria, anche là qualche fatto del genere si ripete (56). Nei momenti difficili la conoscenza delle lingue mi evitò parecchi scontri con i rappresentanti dei vari padroni ed esponenti di lingue e partiti. Ne racconto uno. Quando arrivarono i cosacchi, mi trovai ben presto in sintonia con loro perché capivo l’ucraino quasi totalmente ed essi, se istruiti, capivano il croato. Era l’ultimo periodo del Natale di guerra. Un gruppo di soldati di Salò si era installato in una casa vuota, al comando di un tenente. Questi, con una ventina di soldati, andava in rastrellamento. Chiedeva di acquistare dei viveri e soprattutto animali da cortile; pagava però con pochissimo denaro. La popolazione me ne parlò. Finita la sera la benedizione delle case, alla vigilia del Natale andai in caserma a parlare con lui e riferirgli le lagnanze della popolazione. 56. A Dignano c’è attualmente una numerosa comunità di italiani. Le funzioni religiose si svolgono sempre nel rispetto delle due lingue. Anche nel canone della santa messa sono usate le due lingue: croata e italiana.


132 Il tenente, un abruzzese, mi confermò il fatto dei prezzi troppo bassi e cercò di giustificare il suo operato. Gli dissi che il suo modo di agire aveva creato tante lamentele in tutta la zona di Roveria (Juršići in croato). Egli sostenne il suo operato come un diritto di guerra. Io gli dissi di pagare un prezzo più giusto, essendo i contadini in grave difficoltà economica. Gli prospettai anche un possibile pericolo quando sarebbe andato in rastrellamento. Fu d’accordo purtroppo solo a parole. Mi mostrò un santino, che estrasse dal portafoglio. Gli dissi che il santino era un segno di devozione e di fede, ma aggiunsi che la miglior cosa era osservare il settimo comandamento. Salutai lui e alcuni soldati di guardia e me ne andai. Erano circa le ore 22 e dovevo fare circa otto chilometri in pieno coprifuoco: pochi chilometri li feci lungo la strada provinciale e poi, per abbreviare il tragitto, attraversai la zona della stazione ferroviaria; quindi, per viottoli di bosco e campagna, arrivai in circa mezz’ora a casa. Mia sorella era in ansia per il ritardo: quando mi vide si calmò. Andai a dormire tranquillo e dormii senza problemi. Due giorni dopo


133 fui avvisato che il tenente era stato ucciso in una imboscata con tre soldati vicino alla sua caserma provvisoria. Quello che temevo e avevo previsto era avvenuto. Non mi aveva ascoltato perchÊ forse troppo sicuro di sè. Feci le esequie in caserma e poi ognuno fu portato alla sua destinazione. Episodio triste, che forse si poteva evitare solo ascoltando le lagnanze dei contadini e i miei ammonimenti. Quanti morti ho dovuto seppellire o accompagnare alla sepoltura, insieme agli altri sacerdoti! Per esempio, negli ultimi giorni della guerra, dovetti fare il funerale - mi pare di ricordare - di sei abitanti di Dignano morti durante un bombardamento di cannoni, e di ventuno tedeschi uccisi dai partigiani. Credo che in tutto i morti uccisi a Dignano e Roveria furono circa centocinquanta, senza parlare di quanti furono deportati e non fecero mai ritorno alle loro case.


134

Attività e influenza politica della Polizia Entrata in attività l’organizzazione chiamata OZNA - Odjel zaštite naroda (Dipartimento della Difesa del popolo), ebbi la possibilità di conoscere il capo per l’Istria nella seduta di Santa Fosca (57) nel mese di aprile 1945. Intervenne a un certo momento uno che taceva sempre. Quando parlò, tutti tacquero e il suo intervento fu accettato senza discussione. Seppi più tardi che era il comandante dell’OZNA dell’Istria: capo inappellabile, avesse decretata anche la morte di qualcuno. Quando, nel mese di maggio 1945, entrai nella Villa Marchesi, sede dell’OZNA, lo vidi e compresi che il comandante di quella organizzazione era lui. Non seppi mai il suo nome, anche perché a Dignano restò molto poco. Aveva pieni poteri su tutto e tutti (58). L’OZNA, in seguito, non so quando, cambiò nome: si chiamò UDBA - Uprava državne bezbjednosti (Direzione per la Sicurezza 57. L’autore delle Memorie mette qui il titolo; noi, per comprendere meglio lo abbiamo collocato più su. 58. Il vero nome era Janez Žirovnik e il nome di battaglia Osman (vedi Ivan Grah, Istarska Crkva u ratnom vihoru, op.cit., p. 61).


135 dello Stato). Ereditò i poteri dell’OZNA. Essa condannava chi e come voleva senza processi; anche alla condanna a morte. Solo qualche volta c’era qualche parvenza di processo davanti a qualche tribunale del popolo. Uno di questi tribunali condannò quattro francescani di Pola a parecchi anni di lavori forzati. Ebbi modo di assistere una domenica a un processo popolare. Ne scrivo nella descrizione del processo di Roveria-Juršići. Bastava un pubblico accusatore (che parlava più di tutti), accompagnato da un coro di invettive (un coro di ‘a morte’), una specie di presidente, alcuni giudici popolari. C’era un avvocato, che interveniva solo per chiedere clemenza. Tutto in quel tribunale avveniva in pubblico, anche la condanna a morte o ai lavori forzati che, leggendo il Goli otok (Isola Calva) (59), venivano 59. Sull’isola di Goli otok - Isola Calva, situata geograficamente tra le isole di Veglia e Arbe, venne costruito un durissimo istituto di pena, dal quale era impossibile la fuga. Il carcere era riservato a detenuti politici. Venne soppresso nel 1988. Ora è in condizioni pietose, con il cimitero distrutto e gli edifici devastati. Il 12 giugno 2006, per la prima volta, ottanta sacerdoti dell’Arcidiocesi di Fiume e della Diocesi di SenjGospić con i rispettivi pastori, l’arcivescovo monsignor Ivan Devčić e il vescovo monsignor Mile Bogović, hanno visitato


136 allora definiti ‘lavori utili’. Il medesimo termine viene adoperato oggi per diminuire il numero dei disoccupati: strana definizione, anche se quei lavori non sono lavori massacranti come lo erano quelli nei vari lager della Jugoslavia. Somigliano in parte a quelli solo per la paga (oggi ricevono lire ottocentomila al mese), tanto che pochi, anche nell’Italia meridionale, accettano di andare a fare qualche cosa. Pur rimanendo nell’elenco dei cosiddetti disoccupati, guadagnano di più alle dipendenze delle varie mafie o mettendosi, se riescono, in proprio vendendo droga, sigarette o facendo magari i killer e prendere, una tantum, duecento-trecentomila lire. Il libro Goli otok (Isola Calva) descrive la terribile pena cui in quel campo vennero condannati soprattutto i dissidenti comunisti del Cominform, in opposizione a Tito e a favore l’Isola Calva e concelebrato una messa per le vittime di quel malfamato penitenziario. Alcuni giornalisti hanno fatto in tale circostanza qualche critica alla Chiesa. Nell’occasione monsignor Bogović ha affermato: «Pensando alla Chiesa dei martiri della Croazia, desideriamo porre sotto il suo tetto tutti coloro che hanno sofferto nel nostro passato». E monsignor Devčić: «Come possiamo noi credenti non riconoscere nelle sofferenze patite in questo luogo i patimenti di Cristo stesso?» (vedi Glas koncila, 2 luglio 2006, n. 27, p. 16).


137 di Stalin. Nel 1948 avvenne la frattura tra Tito e Stalin. Lo scopo di questo micidiale trattamento era quello di purificare i condannati dalle loro colpe. Molto si è parlato di metodo..... ad Auschwitz. La differenza era solo che i bambini, i malati e gli invalidi venivano qui eliminati con il gas e bruciati; in Istria sparivano nelle foibe e in mare; in Russia si faceva altrettanto, così in Cina, nel Vietnam del Nord, in Cambogia ecc.: un’immensa carneficina. Tutto questo era organizzato dalle varie GPU, NKWD, STASI, OZNA, UDBA, Gestapo in Germania. E tale è stato il terrore infuso nei sopravvissuti che essi, nei vari stati ex-comunisti, sanno, ma non osano parlare. Cito qualche caso fra molti. Il sacerdote martire don Bonifacio, chiamato a portare i sacramenti a un ammalato, mai più ritornò a casa: ancora oggi non si sa, o non si riesce a far rivelare da chi sa, dove fu gettato il suo corpo (60). Così il padre dell’attuale nuovo 60. Don Francesco Bonifacio era stato nominato il 1° luglio 1939 cappellano esposto nella curazia di Villa Gardossi da monsignor Antonio Santin, vescovo di Trieste e Capodistria. Si era prodigato per soccorrere tutti, italiani e slavi, interponendosi fra le parti in lotta per impedire esecuzioni sommarie. Dopo la guerra fu osteggiato da una forte propaganda atea. Confidò


138 vescovo di Parenzo-Pola, che è fratello di due altri sacerdoti (61) fu prelevato dai partigiani durante la guerra e non si è mai saputo dove sia stato sepolto. Fu ammazzato perché un sant’uomo, al suo vescovo: «I capi comunisti mi creano difficoltà e mi minacciano». L’11 settembre 1946 fu avvicinato e fermato da due o quattro guardie popolari o soldati della polizia jugoslava. Non rientrò in canonica e non si ebbero più notizie di lui. Della sua morte, sicuramente violenta, non si conosce alcun particolare certo. Il suo corpo non fu mai ritrovato. Era nato il 7 settembre 1912, terzo degli otto figli di Giovanni Bonifacio e Luigia Busdon. Compiuti gli studi seminaristici a Capodistria e Gorizia, fu ordinato sacerdote il 27 dicembre 1936 a Trieste. La causa della sua canonizzazione, iniziata a Trieste nel 1957, è in corso presso la Congregazione delle Cause dei Santi, quale martire in odium fidei, come proposto da monsignor Santin (vedi Santi e Martiri nel Friuli e nella Venezia Giulia, Padova 2001, pp. 281-285). 61. Anton Milovan nacque a Režanci, in parrocchia di Sanvincenti, il 30 marzo 1907. Ebbe cinque figli, dei quali tre divennero sacerdoti: Miroslav, Vjekoslav e Ivan. Anton era un agricoltore progressista: fu il primo del villaggio ad acquistare un trattore e una trebbiatrice. Leggeva molto e in particolare i giornali cattolici, in quel tempo accessibili. Nella chiesetta di San Germano guidava le funzioni vespertine. Era un convinto e fermo oppositore delle idee atee. Il 22 marzo 1945 i membri dell’OZNA lo arrestarono a tarda sera, lo condussero in una ‘casita’ (trullo), lo legarono e condannarono a morte. Anton, udita la sentenza, estrasse dalla tasca il rosario e, dopo aver pregato, disse ai carnefici: «Muoio per il mio popolo e per la fede». Fu infoibato. Suo figlio Ivan, nato il 22 settembre 1940, ordinato sacerdote nel 1964, è divenuto vescovo della diocesi di Parenzo-Pola nel 1998 (vedi Ivan Grah, Istarska Crkva u ratnom vihoru, op. cit., pp. 97-104).


139 lo conoscevo, perché veniva alla Santa Messa in una piccola chiesa detta dei Tre Confini (62) e mi faceva da sacrestano. Gli stessi metodi adoperarono i partigiani sui monti di Toppo e Travesio, gettando parecchie persone nelle foibe, che pure qui esistono. Così fecero i comunisti in Emilia Romagna: lì parecchi sacerdoti furono ammazzati dai comunisti, ma i loro corpi nessuno li poté degnamente seppellire. Dappertutto gli stessi metodi, lo stesso terrore, la stessa paura, che ancora oggi rimane. Povera Italia, se nel 1948 avessero vinto le elezioni i comunisti e i loro servi socialisti!

62. La chiesa della Madonna è situata sul confine delle parrocchie di Sanvincenti, Barbana e Dignano. Secondo la tradizione risale all’inizio del VII secolo. L’attuale chiesa fu costruita nel XIII secolo.


140

Arresto di quattro francescani di Pola A essi era affidata la parrocchia di Sant’Antonio di Padova. Erano rimasti nella parrocchia che essi avevano eretto fra le due guerre: prima avevano solo un orfanotrofio; verso il 1930 decisero, d’accordo con il vescovo, di costruire una nuova chiesa da dedicare a Sant’Antonio di Padova. Finita la chiesa, costruirono anche un bel campanile. Pola, fino ad allora, aveva una sola parrocchia, quella della cattedrale. I francescani addetti all’attività pastorale erano quattro. Mi pare che uno era istriano (63), gli altri provenivano dalla 63. Il frate istriano era padre Cornelio Hrelja, cognome poi mutato in Relia con decreto fascista. Nacque a Gimino il 18 gennaio 1919. A Pola venne di convento il 7 aprile 1947. Cantava i salmi in carcere: lo liberarono ritenendolo pazzo. Fu poi parroco di Santa Maria Maggiore a Trieste: «il migliore», come disse di lui il vescovo monsignor Antonio Santin. Morì in fama di santità il 2l gennaio 1963. E’ sepolto a Trieste (vedi Marijan Jelenić, Svetac iz Žminja, Žminj 2006). Gli altri erano: padre Albino Sempliciano Gomiero, ex cappellano militare, padre Bernardo Beninca e padre Atanasio Kocijančić, sloveno. I tre primi furono scambiati con i prigionieri italiani, mentre padre Kocijančić, essendo cittadino jugoslavo, rimase in carcere sedici anni (vedi Ivan Grah, in Ladonja, gennaio 2007, p. 19).


141

Il don Servo di Dio Francesco Bonifacio

P. Cornelio Reglia

Provincia Veneta. Forse si erano illusi di poter restare, dopo l’annessione di Pola alla Jugoslavia. I comunisti al potere trovarono nell’ingenuità di uno di loro la possibilità di servirsene. Lo avvicinarono e uno specialista in materia fece intravedere al frate la possibilità di inviare notizie via radio a Trieste. Questi accettò di tenere la radio. Dopo qualche giorno si presentò la polizia per una perquisizione: trovò la radio e arrestò tutti i frati. Questi furono portati nel carcere di Pola e, dopo essere stati ben lavorati e preparati a dire quanto volevano loro, un mese dopo fu organizzato il processo. Gli inquisitori, sicuri di se stessi e delle risposte che i frati avrebbero dato come ipnotizzati,


142


143 iniziarono il processo: i frati accusarono se stessi, attaccarono il vescovo e il papa, insomma non sapevano cosa dicevano. Furono condannati, mi pare, a quattordici anni di carcere duro. E fu duro veramente perché, fra l’altro, a un certo momento dovettero esumare da un cimitero vicino numerose salme ancora quasi fresche; e questo senza guanti di protezione. Quando, alla sera, ritornavano per la cena sentivano l’odore dei morti tutta la notte. Per loro fortuna ebbero un’amnistia come cittadini italiani e vennero liberati a Gorizia e consegnati alle autorità italiane. Avevano però già subito quattro anni di duro lavoro, di fame e sete nel gulag di Stara Gradiška poco a est di Zagabria. La loro dolorosa vicenda è stata narrata nel settimanale L’Arena edito a Gorizia.

Dopo il trasferimento da Pola, Pietro Radošević-Radoslović da Medolino (del quale precedentemente ho scritto, dopo esser stato trasferito da Lussino), in una dichiarazione riportata a pagina 342 di Goli otok dice: «A Pola venne scoperta una radio ricetrasmittente nella chiesa dei frati. Certamente fu una montatura. La chiesa di Sant’Antonio di Padova a Pola


144 Quando tornai a Pola tutto era finito. La radio era stata collocata dagli stessi agenti dell’UDBA per poter montare un processo a carico di quei francescani, all’epoca tutti italiani, che poi vennero espulsi e costretti a prendere la via dell’esilio». Pulizia etnica, si direbbe oggi. Già allora capii che io, poco propenso a tali metodi, ero diventato un uomo scomodo alla Polizia e per la Polizia speciale. Il Radošević era intervenuto a difesa di monsignor Pavan a Rovigno contro due che lo avevano aggredito (monsignor Pavan è vissuto parecchi anni a Spilimbergo). Egli fu condannato, per certi dissensi manifestati, a sedici anni di carcere duro. Il Goli otok di Giacomo Scotti descrive in parecchie pagine le vicende del Radošević: ufficiale nell’OZNA, era buono e, dimostrando poco accordo con i metodi polizieschi di Tito, finì anche lui nell’inferno dell’Isola Calva o Goli otok.


145

Periodo 1° gennaio - 5 giugno 1947 Verso la fine di dicembre 1946, attaccato da forti minacce, dovette partire il parroco don Giovanni Gaspard (64) e io fui incaricato dal vescovo di assumere le funzioni di amministratore parrocchiale di Dignano. Dignano aveva più di cinquemila fedeli. La popolazione della cittadina era quasi completamente italiana. Una parte, sparsa in parecchi villaggi della campagna, era croata. E poi c’era Roveria, in croato Juršići, che mi era affidata dal settembre

Dott. don Giovanni Gaspard

Don Marino Manzin

64. Il dottor don Giovanni Gaspard nacque a Dignano d’Istria 4. luglio 1903. da Luigi e Morizza Eugenia Santa. Fu ordinato 3. aprile 1926, e fu parroco e decano nella stessa Dignano dal 1935 all’esodo del 1947. Fu poi parroco a Spoleto dove morì 16 giugno 1989. Brillò per vita ascetica.


146 1943. Faceva parte della parrocchia di Dignano come cappellania esposta: era tutta croata. Ne scrivo all’inizio in queste Memorie. Visto il nuovo compito affidatomi, il vescovo mi sollevò dal servizio di quella zona. A Dignano mi aiutavano due cappellani: uno, don Marino Manzin, era piuttosto giovane; l’altro, don Giuseppe Delcaro, era anziano. Contemporaneamente mi venne affidata anche la parrocchia di Gallesano (circa millecinquecento abitanti) e, dopo un mese, anche Valle (circa tremila fedeli). Gallesano era distante quattro chilometri e Valle dieci. Tutto il servizio veniva svolto in bicicletta.


147

Difficile arrivo all’ospedale Il 6 gennaio 1947 successe un episodio piuttosto difficile da risolvere. Don Marino Manzin, subito dopo il vespro dell’Epifania, mi disse che sentiva un forte dolore diffuso all’intestino. Lo accompagnai subito a casa. Gli misurai la febbre: erano 38 gradi e mezzo. Pensai a una appendicite piuttosto grave. Fu chiamato il medico che, dopo la visita, confermò il mio dubbio, aggiungendo che si trattava di peritonite. Ordinò quindi l’immediato ricovero all’ospedale di Pola. A Dignano c’era una sola automobile. Riuscii a trovarla: caricammo don Marino e partimmo. Arrivati al posto di blocco, chiesi di poter passare

L’unica auto esistente a Dignano


148 oltre con l’automobile e il sacerdote gravemente ammalato. Il permesso non fu concesso. Guardai don Marino: si aggravava a vista d’occhio. Spiegai alla polizia la sua gravità: niente da fare. Temevano che la richiesta mia fosse un trucco per portare via l’automobile. Mi offersi in ostaggio per garantire il ritorno dell’auto: niente da fare ancora. Allora dissi che avrei scaricato l’ammalato, me lo sarei caricato sulla schiena e l’avrei portato fino al blocco inglese che era lontano circa centocinquanta metri. Aggiunsi che però avrei lasciato lì l’auto e sarei andato a parlare al blocco inglese, pregando di far venire urgentemente un’autoambulanza. Quando le guardie videro la mia ferma decisione, accettarono che l’auto partisse per l’ospedale con l’ammalato. Appena arrivati, i medici capirono la gravità della situazione, portarono il sacerdote subito nella sala operatoria e don Marino fu salvo. Se avessimo tardato solo mezz’ora il mio buon confratello, e da poco mio cappellano, sarebbe morto. Ritornò a Dignano per convalescenza e poi volle essere trasferito a Trieste. Quando l’anziano sacerdote si vide solo, temette qualche improvvisa difficoltà (molti già avevano cominciato a partire) ed espresse il desiderio


149

Fassimile del manoscritto delle Memorie

di rifugiarsi a Trieste. Mi chiese il permesso di partire: glielo concessi. Così restai solo con tre parrocchie e circa novemilacinquecento fedeli. Andai allora a Pola e chiesi al vescovo monsignor Radossi di provvedere con un altro sacerdote per Valle, tremila persone. Egli provvide entro un mese con un padre francescano di Rovigno, cittadina sulla costa occidentale. Restai con due parrocchie. Il vescovo mi assegnò come cappellano don Enrico Zamlić, in croato si scrive Camlić: di lui ho già scritto in queste Memorie. Si era un po’ ripreso dalla sua depressione e faceva quanto poteva: mangiava, ma non dormiva con me per mancanza di spazio; mi aiutava con la celebrazione delle sante messe a Gallesano, a quattro chilometri di distanza, e nelle domeniche faceva il rosario, però non predicava. Io quindi facevo tre omelie a Dignano e due al pomeriggio a Gallesano. Alle confessioni provvedevo totalmente io: si trattava di passare, tra sabato e domenica, circa cinque, sei ore nell’ascoltare le confessioni.


150

Alcune foto dell’esodo da Pola


151

Il grande esodo in Italia C’era poi il problema di fornire certificati a quanti si preparavano a partire, specialmente dopo il 10 febbraio. Era il giorno in cui a Parigi era stata decisa l’annessione dell’Istria alla Jugoslavia. Le parrocchie in Istria, fino al 1924, avevano anche il compito di rilasciare i certificati di nascita, morte e matrimonio. Ma il comitato, succeduto all’ufficio anagrafe, non voleva rilasciare documenti anagrafici di nessun genere. La gente, nella previsione di dover presto partire profuga, voleva avere tutti i documenti anagrafici. A Dignano trovai tre giovani che mi aiutarono nel compito. Io però dovevo firmare i certificati e passavo più ore nell’ufficio parrocchiale a firmare. Succedeva molte volte che al posto di blocco perquisivano ogni tanto accuratamente gli abitanti di Dignano e Gallesano e, trovati i certificati, li sequestravano. Bisognava allora rifarli tutti. Rimasi anche senza carta, che fosse bianca almeno da una parte, e in zona B non se ne trovava o non volevano darcela. Trovai a Pola migliaia di fogli di carta abbandonata


152 negli uffici: i fogli erano scritti da una parte e dall’altra bianchi. Migliaia di questi li adoperai per i certificati. In Italia essi furono dappertutto accettati e lo furono anche i certificati riguardanti i periodi dopo il 1924, quando le parrocchie non avevano più la facoltà di rilasciare certificati validi agli effetti civili. Per me fu un lavoro massacrante. Nel febbraio 1947 solo a Dignano celebrai trenta matrimoni; e parecchi anche a Gallesano. Solo a Dignano ottanta bambini si preparavano alla prima comunione: la fecero il 5 giugno 1947. Per spostarmi fra Dignano e Gallesano, per andare a Pola a conferire spesso con il vescovo, al quale era interdetto di venire in Istria a visitare la sua diocesi, per andare a trovare i miei genitori e per altre necessità facevo in media ogni giorno con la bicicletta dai trenta ai quaranta chilometri. Al posto di blocco, diverse volte avrebbero voluto spogliarmi per perquisirmi: mi opponevo come potevo, protestando la violazione degli accordi Tito-Alexander, e sempre riuscii a passare. E si pensi che era da circa un anno e mezzo o due che avevo cessato di fare il pneumotorace per curare un infiltrato polmonare dal quale, dopo tre anni di cura, ero completamente guarito.


153 Da Pola a Dignano la strada era asfaltata. Ciò mi consentiva di pregare il breviario in bicicletta, e pure il rosario. Una volta venivo da Parenzo: ero stato dal vescovo. Mentre stavo leggendo era la festa del Redentore - da un bosco venne fuori un grosso bue: lo investii colpendolo alla pancia. Il bue scappò e io, riuscendo in tempo a prendere il manubrio, caddi nel centro della strada senza farmi nessun male. In questo clima si andava avanti. Vedevo partire ogni giorno una o più famiglie. Un giorno, senza preavviso, partirono tutti i maestri della scuola elementare. Le scuole, frequentate tutte da alunni italiani, restarono senza maestri. Questi avevano firmato nel 1946 una dichiarazione molto impegnativa con la quale si erano dichiarati a piena disposizione dello Stato jugoslavo: non avrebbero quindi potuto partire senza un permesso. Questo loro lasciare le scuole senza permesso li rendeva così passibili di arresto. Mia sorella non aveva accettato di firmare. Io avevo risposto ai capi che la firma l’avrebbe impegnata a insegnare cose contro la sua coscienza. Per questo suo rifiuto, da me suggerito, era stata immediatamente licenziata.


154

Progetto di fuga Con il po’ di aiuto che mi poteva dare don Zamlić - è deceduto da pochi mesi a Gorizia nell’ospedale dei Fatebenefratelli - andavo avanti nel mio lavoro, sicuro che sarebbe avvenuto qualche cosa che avrebbe cambiato la situazione. E venne. Tre giorni prima del Corpus Domini mandai una lettera alla polizia, informandola a norma delle disposizioni allora a mia conoscenza: in essa rendevo noto che il giorno della festa avrei fatto la processione, come si era sempre fatta, avrei fatto collocare quattro altari e avrei fatto una breve sosta. Poi, sulla piazza principale, come sempre si era fatto, avrei collocato un altare più grande per svolgere una funzione più solenne. Non chiedevo nessun permesso né ebbi una risposta. Alla vigilia del Corpus Domini, alle 15, mi misi in confessionale. Si confessarono per primi gli ottanta bambini che il giorno dopo avrebbero fatto la prima comunione; poi continuai le confessioni. Verso le 20 venne, pieno di paura, don Zamlić a dirmi che qualcuno della polizia gli aveva detto che il permesso per la processione non poteva essere concesso. Egli “...con i carri dei contadini portavo i corpi in cimitero...”


155


156 mi parlò di possibile arresto e condanna a dieci anni di lavori forzati. Dissi a lui di riferire a chi lo aveva mandato che io non avevo chiesto, con la mia lettera, un permesso, non previsto dalle norme italiane ancora per me in vigore; e che, per lo meno, mi mandassero una risposta scritta: non lo fecero. Io continuai a confessare e terminai alle 22.30: avevo confessato sette ore e mezzo senza interruzione. A casa la mamma mi aspettava: arrivato, le raccontai cosa stava succedendo. Le dissi anche di stare tranquilla. Prima cenai, poi, prevedendo potessero venire di notte ad arrestarmi, feci una cosa straordinaria: andai sul tetto della casa e aprii l’abbaino; poi andai sul tetto dell’ex caserma dei carabinieri, confinante con la mia casa, che allora era abitata dalla polizia, e apersi anche l’abbaino della caserma: lo lasciai aperto e me ne andai. Quando l’8 settembre 1943 i carabinieri avevano per pochi giorni abbandonato quella casa, avevo ispezionato in particolare la soffitta e anche la caserma: se la polizia fosse venuta a prelevarmi, avevo già progettato di nascondermi provvisoriamente in quella soffitta, sicuro che là nessuno mi avrebbe cercato. Durante la notte nessuno venne e dormii tranquillo. Avevo


157 frattanto già meditato due progetti per la fuga. Il primo era di andare sulla costa del mare, lontano circa sette chilometri. Durante la notte mi sarei gettato in mare, sarei uscito un po’ al largo per andare a nuoto oltre il confine e approdare in zona inglese. Calcolavo di potercela fare con circa due ore di nuoto. Allora ero molto allenato e facevo ogni giorno due ore di nuoto quando andavo a fare il bagno sul mare di Pola. Il secondo progetto era di andare verso la strada che porta a Trieste e che era vicina: bastava uscire per gli orti con la bicicletta in mano. Pola era a sette chilometri: lì però mi avrebbero bloccato e arrestato. L’altra direzione era verso Trieste. Il posto di blocco era a centodieci chilometri: non mi spaventava la distanza; ero allenato a fare con facilità anche più strada. Venne la necessità il giorno dopo. Alla mattina del Corpus Domini ero già in chiesa verso le ore 6. Si susseguirono le sante messe e le confessioni. Alle 8 ci fu la prima comunione degli ottanta bambini. Alla messa prima della processione invitai la popolazione a essere presente in gran numero contro coloro che volevano impedirci di fare la processione.


158


159

La processione a Dignano nella festa del Corpus Domini


160 Uscimmo: era presente la quasi totalità della popolazione, cosa mai vista nemmeno per il congresso eucaristico di qualche anno prima (65). Gli uomini erano sempre dietro il baldacchino: di solito un centinaio, quel giorno erano circa millecinquecento. A Dignano, in chiesa e alle funzioni e messe, tutti cantavano: quel giorno, intonato da me, si elevò un immenso coro. Non avevamo fatto i quattro altari, ma ci fermammo nel loro luogo. Nella zona più alta della strada Calnova (66) vidi un gruppo di comunisti. Avevano avuto l’ordine di fermarci con la forza, ma, vista la moltitudine degli uomini dietro il baldacchino, si fermarono. Più avanti, vicino al municipio, trovammo scavati sulla strada dei canali per impedirci di passare: discendemmo nel canale e risalimmo. Uscimmo sulla piazza: non c’era il grande solito altare, ma ci fermammo ugualmente. Io mi portai con l’ostensorio al centro della piazza e intonai in latino il Pange lingua. Tutti quasi sapevano cantarlo a memoria. Un coro potente si alzò al 65. Il congresso eucaristico fu celebrato a Dignano nel 1938 con grande successo. Ancora si conservano gli addobbi lignei usati per esso. 66. Calnova, oggi Trgovačka ulica, via delle Mercerie.


161 cielo: quattromila e più persone lo cantarono con me. Diedi la benedizione, poi intonai l’inno Noi vogliam Dio: lo cantammo con più strofe. Cantando, arrivammo alla grande vicina chiesa. Concludemmo così, ancora con qualche canto, la processione. Io andai a casa: prevedevo la tempesta. Infatti: ero a casa da poco e avevo preso solo alcuni cucchiai di brodo (allora si era digiuni fino a dopo la messa), quando si presentarono due soldati o poliziotti della cosiddetta ‘milizia’. Mi dissero di firmare una carta con la quale mi si intimava di presentarmi all’ufficio affari interni entro un quarto d’ora. Firmai la carta e dissi che sarei venuto. Mia madre mi disse: «Non andare. Se vai non ti vedrò più». La rassicurai, ma non le dissi cosa avevo deciso di fare: non doveva sapere che strada avrei scelto; se l’avessero fermata, quando sarebbe tornata verso casa sua, nulla avrebbe potuto dire, perché nulla veramente sapeva. Del progetto avevo parlato invece a mia sorella, quel giorno assente: le avevo detto di avvertire i padroni della casa di portare via tutti i mobili della casa dopo la mia partenza. Così essi fecero e quando poi la milizia venne per sequestrare tutto in casa non trovò niente: tutto era stato salvato dalla buona gente di Dignano.


162

La carta geografica dell’Istria


163

La strada verso Trieste Presi la bicicletta, salutai mia mamma e, attraverso gli orti dietro alla casa, me ne andai verso Trieste. Un solo uomo mi vide, ma seppe tacere. Scelsi Trieste perché, non essendoci telefoni né radio, causa il posto di blocco di Trieste, non avrebbero potuto segnalare la mia fuga. Percorsi circa tre, quattro chilometri, mi fermai in un bosco e, per far perdere le mie tracce, mi levai la veste e la legai al manubrio. Era circa l’una del pomeriggio e continuai a macinare chilometri su chilometri: e dire che ero ancora digiuno dalla sera precedente. Mi ero messo in tasca un po’ di pane e due pezzi di carne: non sentivo però fame e non mi ricordai nemmeno di mangiarli. Mangiai tutto dopo Buie, prima delle ciliege. Dopo circa ottanta chilometri cominciai a sentire un po’ di fame e sete. Vidi una trattoria, mi fermai e chiesi da mangiare: non avevano niente, solo pane vecchio di tre giorni. Chiesi se avevano una gassosa: me la portarono. Mi feci portare anche il vecchio pane, lo misi in un bicchiere e lo bagnai con la gassosa: mangiai e bevvi tutto (vino non avevano). Era il tempo della


164 raccolta delle ciliege: dopo Buie, una cittadina posta sulla cima di un colle, trovai un uomo con un carro che trasportava cassette piene di ciliege alla cooperativa. Gli chiesi di vendermi un po’ di ciliege. Rispose che non gli era permesso. Capì però che desideravo mangiarle e mi disse: «Si metta dietro e si prenda quanto desidera. Io faccio finta di non vedere». Riempii le tasche della veste, gli diedi una mancia e, mangiando al posto del pranzo ciliege, proseguii il viaggio per i circa venti chilometri che mancavano a Trieste. Quando fui vicino a Capodistria mancavano ancora pochi chilometri al posto di blocco. Là volevo presentarmi con la veste, per non creare sospetti. Profittai di un boschetto (in giro non c’era nessuno): me la rimisi e proseguii. Quando vidi i primi poliziotti, guardai se facevano qualche gesto vedendomi: mi fermai, feci finta di riparare qualche cosa e intanto li guardavo. Non mi diedero retta: capii che nulla sapevano di me. Arrivai al confine: la sentinella di guardia vide dal lasciapassare che venivo da Dignano e mi parlò in sloveno per chiedermi come mai il giorno del Corpus Domini ero là. Con poche parole feci finta di non comprendere e dissi che


165

Mons. Antonio Santin, vescovo delle diocesi di Trieste e Capodistria

avevo voglia di proseguire. Mi lasciò passare: ero libero. Entrai a Trieste e andai direttamente dal vescovo monsignor Santin. Egli era istriano di Rovigno, ma era anche stato parroco di Pola. Si meravigliò della mia presenza e, più ancora, quando gli dissi che ero venuto in bicicletta. Poi gli raccontai che cosa era successo: restò molto meravigliato delle mie vicende. Erano circa le sei di sera: mi offrì la cena preparata dalle sue sorelle. Dormii in episcopio. La mattina seguente, dopo


166 la messa, andai negli uffici della SADE, usai il famoso telefono segreto e informai l’ufficio di Pola. Quindi aspettai la venuta di mia sorella: ella già sapeva della mia corsa fino a Trieste. Venne alla SADE, parlammo insieme e così poté tranquillizzare mia mamma, la quale era andata nel pomeriggio del Corpus Domini a vedere attorno al posto di blocco se fossi arrivato da qualche parte: era preoccupata, ma, tornata con il piroscafo mia sorella, l’aveva informata della mia intenzione di scappare, se necessario, con la bicicletta. La notizia della mia fuga a Trieste era stata trasmessa la sera durante il notiziario radiofonico. Così finì il mio Corpus Domini in Zona B.


167

Ultimi giorni in Istria Dopo una giornata di sosta a Trieste, ritornai a Pola per vedere mia sorella e i miei genitori (l’altra sorella era già a Londra). Poi partii con una lettera del vescovo monsignor Radossi e andai a presentarmi a monsignor D’Alessi a Portogruaro. Mi accolse paternamente e mi assegnò questa parrocchia di Toppo. Avevo con me la bicicletta e volli subito, il giorno dopo, andare a visitarla. Vidi la canonica e fui contento soprattutto per i miei genitori che avrebbero potuto avere una casa. Visitai anche la chiesa parrocchiale. A causa dello scoppio del deposito della polveriera, fatto saltare dai partigiani poco tempo prima della fine della guerra, le finestre erano tutte due molto malandate. Decisi che la riparazione dei danni sarebbe stata uno dei miei primi impegni. Potei riparare tutto nel 1951, ricorrendo ai danni di guerra, per la cui riparazione era incaricato il Genio Civile di Udine. Per andare là il mio mezzo di trasporto era sempre la bicicletta; e le strade non erano allora asfaltate.


168 Ritornai ancora a Pola per preparare la partenza dei genitori. Essi vennero via poco prima del 15 settembre, data della consegna di Pola e di tutta l’Istria alla Jugoslavia. Per circa un mese dormii in un ex collegio, dove erano concentrati gli ultimi impiegati di Pola. Il primo giorno del triduo in preparazione alla festa del Carmine, nella chiesa della Misericordia, feci una predica nella quale parlai della situazione che avevo lasciato a Dignano e altrove. Il mio discorso fu fortemente applaudito. Questo fatto mandò su tutte le furie i comunisti di Pola e di Dignano. Il giorno dopo venne a trovarmi mia mamma. Quando ella partì, andai alla finestra a salutarla e vidi tre ferventi comunisti di Dignano: compresi che mi aspettavano per punirmi per il discorso del giorno precedente. Mentre accompagnavo con lo sguardo mia mamma, la vidi tornare indietro. Si era fermata a guardare quei tre: non li conosceva, ma le era venuto un forte sospetto, che mi rivelò venendo di nuovo a trovarmi. Mi disse che certamente essi aspettavano me. Sospettò che fossero armati e che forse intendessero uccidermi. Le dissi che li conoscevo, che stesse tranquilla e che avrei provveduto. Ella partì e io andai subito al telefono, chiamai la polizia


169 comandata dagli inglesi, esposi a essi i miei timori e chiesi che venissero. Mi dissero però che, finché non ci fosse stato un fatto di sangue o un’aggressione, essi non avrebbero potuto venire. Dopo un poco ritornai al telefono, dissi a chi di loro mi ascoltava che, visto che si erano rifiutati di venire, mi ero armato, che parlavo davanti a quattro testimoni e che sarebbero stati responsabili di quanto sarebbe potuto avvenire. Dissi che sarei uscito fuori e che, prima che i tre sospettati avessero fatto quanto stavano meditando, io mi sarei difeso. Allora gli inglesi dissero che sarebbero venuti subito. E vennero. Io li aspettavo alla finestra. Quando giunsero, i tre si allontanarono. Al mio chiedere, mi confermarono che li conoscevano e che avevo avuto ragione di temerli. Mi assegnarono allora un poliziotto di scorta. Questi, fino alla mia partenza da Pola, dormì nella camera accanto alla mia e, quando mi muovevo nelle ore più pericolose, mi scortava. Nulla però successe. Così finirono le mie avventure in Istria. E poco dopo la lasciai.

Don Rodolfo Toncetti


170


171

Faximile delle Memorie


172


173 APPENDICE E DUE TESTIMONIANZE


174

Mistero del male La morte viene considerata nel libro dell’umanità, la Bibbia, come l’enigma più grande. L’umanità ricorda molti e diversi mali e le diverse cause della morte: l’omicidio di Caino a causa dell’invidia; Mosé uccide l’uomo d’Egitto nella rabbia; Davide uccide Abner spinto dalla passione; Abramo è pronto a uccidere Isacco per convinzione religiosa; i fratelli Maccabei vengono uccisi sadicamente a causa del rancore religioso e nazionale. Sono uccisi i profeti perché non vengono capiti i loro messaggi; a causa del rancore religioso è messo in croce anche Gesù. Senza dubbio c’è grande differenza in tutte queste morti. A ogni modo, causare il male o la morte a un altro uomo significa mettere Dio da parte. Colui che sinceramente riconosce Dio come autore, donatore e padrone della vita mai oserebbe prendere nelle sue mani il potere della vita dell’altro. Nell’uragano seguito alla seconda guerra mondiale si mescolarono odio, vendetta, propaganda e una falsa visione della libertà dopo


175 la distruzione del nemico. La propaganda atea, affermando che né Dio né l’anima esistono, e perciò nemmeno alcuna responsabilità, fu colpevole dei crimini di guerra. L’uomo si ridusse a un livello bestiale: l’egoismo personale e momentaneo divenne la misura di tutto. La guerra portò a una spersonalizzazione mai vista dai tempi dei barbari. Purtroppo la soppressione di tanti uomini non portò né alla desiderata libertà né alla soddisfazione. Il perdurare nell’ateismo non liberò gli uomini dai loro patimenti né soddisfece i profondi desideri del cuore. Fu, questo, un diabolico autoinganno. Le conseguenze dei crimini perpetrati sono passate ai posteri: si nota una divisione culturale mai vista prima nella storia umana. Le conseguenze di questi crimini continuano oggi all’infinito. Oggi si gioca con la vita dell’uomo su un altro campo. Non si rispetta la vita dei non nati, degli ammalati e dei vecchi, si calpestano i poveri, la vita di coppia si sgretola davanti alle passioni individuali. Della vita si fa commercio: l’uomo è usato; la ricerca non conosce scrupoli né le leggi dell’etica, iscritte nel cuore


176 dell’uomo. Si sviluppa in modo indiscriminato la bioingenering e si permettono gli esperimenti con gli ovuli e sugli embrioni umani. In questo modo si sfasciano tante famiglie, diminuisce la popolazione europea, cresce la perversione in tante persone. Si affermano una barbarie e un tipo di ferocia nuovi, il diritto del più potente, ‘la cultura della morte’ che colpisce non più solo il nemico, ma tutti. Così si producono tristezza, paura e disprezzo della vita; e l’uomo intelligente corre verso l’abisso senza ritorno. Questo è il mistero del male: sempre più profondo e sempre più incomprensibile. Ed è sempre più necessaria la conversione. Questa fu la costante preoccupazione di don Rodolfo Toncetti.


177

Patriota o traditore? Al termine della lettura delle Memorie di don Rodolfo è lecito chiedersi se egli fu un patriota o un traditore. Con tutti egli intrattenne buoni rapporti: con i fascisti, con i tedeschi, con i repubblichini e con i partigiani. È certo che qualora una di queste parti avesse saputo o soltanto sospettato tale condotta l’avrebbe eliminato. La sua vita fu pertanto sempre esposta a grandi rischi e don Rodolfo ne era cosciente. Grazie alla sua intelligenza, alla sua incrollabile fede e alla prudenza del suo agire è riuscito a salvare la propria vita e quella di tante altre vittime predestinate. Il suo suggerimento ai carabinieri di chiamare in soccorso i tedeschi per fronteggiare l’attacco delle forze partigiane può sembrare un atto di sostegno al regime. In verità don Rodolfo, in quel delicato frangente, prevedeva un massacro, come del resto era avvenuto già in altre località dell’Istria. Bisognava evitare l’inutile perdita di tante vite umane e quindi si impegnò ad aiutare i sette carabinieri rimasti a difendere il presidio. Suggerì con una ricetrasmittente di contattare


178 i tedeschi che accolsero l’invito e arrivarono a Dignano giusto in tempo per respingere l’attacco dei partigiani. In questo delicato frangente la vita di don Rodolfo fu appesa a un filo. «Non c’è amore più grande di quello di dare la propria vita» (Gv 14,17), dice Gesù, e don Rodolfo agì coerente con quell’insegnamento. Nonostante il continuo pericolo, con determinazione e convinzione, si battè per il trionfo della verità: non vacilla nel difendere la Chiesa, si rifiuta di presenziare alla conferenza di Pisino, dove i comunisti avrebbero voluto creare una chiesa nazionale autonoma dal Vaticano, separando i sacerdoti dai propri vescovi. Seguendo i consigli del vescovo monsignor Antonio Santin, sarà solo sacerdote, padre di tutti e non membro di qualche partito o di qualsiasi parte politica. Monsignor Santin così scrive ai sacerdoti il 1° agosto 1943: «Dio solo è grande! Gli uomini passano, Dio rimane. Cento e cento volte la storia ha confermato questa elementare verità. E noi, che di Dio siamo i ministri, sentiamo di nuovo quale irremovibile fondamento abbia la nostra fiducia. Fiducia che in questi trepidi giorni spargeremo con speranza confortatrice nei cuori dei nostri fedeli.


179 Sacerdoti, noi non siamo chiamati a fare politica, ma a predicare la carità, la concordia, il perdono. Dov’è la carità, vi è Cristo. Bisognerà pure che divampi l’amore se si vorrà, dopo tanto odio, ricostruire. Non siamo uomini di parte. Tutte le anime hanno diritto alle nostre cure. …Noi non abbiamo nulla da cambiare. …Abbiamo sempre predicato il Vangelo, affermato gli immutabili principi, conservato la linea di dignità dalla quale la Chiesa non può dipartirsi, ieri, oggi, domani. …Abbiamo difeso i diritti della giustizia, ci siamo schierati con i deboli, gli oppressi e i minacciati. Continuiamo a farlo. È la missione della Chiesa. …Bisogna scongiurare nuove catastrofi. Uno solo ne ha la possibilità: Cristo. …Dare la vita perché ciò si realizzi è la più grande gioia» (67). Così il vescovo confortava i suoi sacerdoti nell’inferno della guerra. Così poteva scrivere solo colui che condivideva e viveva le stesse esperienze (68). 67. Lettera di monsignor Antonio Santin ai sacerdoti in Bollettino diocesano di Trieste e Capodistria n. 5 del 5 agosto 1943, pp. 91-92 (cfr. Ivan Grah, Istarska Crkva u ratnom vihoru, op. cit., pp. 179-181). 68. L’adesione ai principi e i tanti pericoli corsi da monsignor Santin sono da lui annotati nel libro autobiografico Al tramonto, Trieste 1975.


180 Don Rodolfo metteva fedelmente in pratica questi consigli. Tanti sono gli episodi che mettono in luce il suo carattere fermo e deciso: di propria iniziativa va a Valle a vedere la situazione religiosa; decide di andare da solo a cercare il dottor Diana; si prende cura della moglie e dei bambini del comandante dei carabinieri, al quale consiglia di non arrendersi; va a Gaiano subito dopo la strage fascista; si preoccupa del lasciapassare della suora bosniaca; protegge sacerdoti in pericolo; partecipa alla seduta con i partigiani presso Santa Fosca; ammonisce il capo dell’OZNA dopo la strage a Dignano; difende con coraggio i diritti della Chiesa; si astiene dal voto che ritiene non libero, perché vi è presente un solo partito; sconsiglia la sorella di seguire a scuola programmi atei; promuove la tradizionale processione nella festa del Corpus Domini; consiglia a molti di salvarsi la vita fuggendo da Dignano. È difficile trovare un’altra persona di tanto coraggio! Don Rodolfo è rimasto tutta la vita profondamente legato all’Istria. Regolarmente riceveva e leggeva il giornale Glas koncila (69) e il foglio istriano Ladonja. È stato uno dei pochi sacerdoti parlante la lingua croata a lasciare l’Istria, che portò sempre nel cuore. 69. Glas koncila è il settimanale della Conferenza episcopale della Croazia; Ladonja il mensile della diocesi di Parenzo-Pola.


181

I perché dell’esodo? Un giorno ebbi occasione di osservare un signore in chiesa, nei pressi del battistero: stava piangendo. Mi avvicinai e chiesi se potevo aiutarlo. Mi rispose: «Vede, reverendo, è qui che sessant’anni fa fui battezzato». Era commovente vederlo raccolto in preghiera. Altri mi hanno chiesto se era possibile avere l’albero genealogico, oppure di indicare loro la casa dei nonni: portati sul posto, grande era il loro desiderio di entrare. Un esule, rivolgendosi all’attuale padrona di casa, espresse il desiderio di entrare, ma la donna non comprendeva l’italiano: era una musulmana che capiva soltanto lo slavo. Con l’aiuto dell’interprete riuscì a comunicare e fu accolto con rispetto nella casa degli antenati. Sono ancora in molti a cercare le campagne, le casette, le chiese del luogo d’origine loro o della loro famiglia. Purtroppo nulla è più riconoscibile, nemmeno le tombe di famiglia. Quando nel 1975 io, come parroco, feci presente che le tombe degli italiani avrebbero dovuto essere conservate, ebbi una risposta lapidaria dal direttore del cimitero: «Neka pop gleda svoje poslove» (Che il parroco si occupi delle sue cose).


182 Quante volte mi si sono presentate persone con le parole «sono di Dignano», «ero chierichetto», «sono stata figlia di Maria», «eravamo sempre dalle suore», «con il cuore, anche se fisicamente lontani, siamo sempre a Dignano». L’esodo è stato una grande tragedia. Sarebbe troppo azzardato elencare tutte le cause. Ci limitiamo a indicare le tre più importanti: fuggire per avere salva la vita e continuare a essere italiani; fuggire dal totalitarismo comunista; motivi economici dovuti alla forzata statalizzazione delle proprietà private. Ce ne sarebbero anche altre e, tra queste, non va trascurata a Dignano la chiusura della scuola italiana per apprendisti e inoltre la chiusura della scuola elementare italiana di Albona, caso veramente emblematico. Con l’esodo non sono state abbandonate solo le campagne, le case, ma anche le chiese, le tradizioni, la cultura. Quando Dignano avrà ‘un cuore e un’anima sola’ come nei tempi passati? La maledizione della guerra ha avuto conseguenze disastrose e purtroppo insanabili. Si calcola che oggi i dignanesi sparsi nel mondo siano cinque-seimila. Don Rodolfo Toncetti, padre spirituale nel momento cruciale della guerra, ha dato risposta ai perché della tragedia. Ci può


183 consolare il pensiero che se è perduta la patria terrestre, nessuno può toglierci quella celeste. Gli antenati attendono la risurrezione in questa terra e ci accompagneranno nell’Aldilà. Non dimentichiamo mai questa verità ontologica e questa realtà biblica.


184


185

Don Rodolfo: un grande solco Don Rodolfo Toncetti (Toncetich) nacque il 6 maggio 1917 a Pola, nella frazione detta Bussoler. Frequentò e ultimò a Pola la scuola elementare ‘San Martino’ come il Venerabile Egidio Bullesi (Bulešić) per il quale è in corso il processo di canonizzazione. Era orgoglioso di ciò. Don Rodolfo conobbe lui e la famiglia di Egidio in quanto due fratelli di questi, Oliviero ed Eugenio, frequentarono lo stesso seminario di Capodistria dove divennero sacerdoti e, con l’esodo, si rifugiarono in Italia nella medesima diocesi di Concordia. Don Rodolfo fu ordinato sacerdote, dopo gli studi liceali a Capodistria e teologici a Gorizia, il 2 giugno 1940: aveva ventitré anni. Il ministero sacerdotale lo svolse a Parenzo e quindi a Roveria-Juršići. Quando, durante la guerra, si ebbe una forte carenza di sacerdoti, prestò il suo ministero a Valle, Gallesano e Dignano. Dopo la fuga dall’Istria rimase tutta la vita nella piccola parrocchia (cinquecento anime allora) di San Lorenzo diacono e martire a Toppo, nella diocesi di Concordia-Pordenone, dintorni L’indimenticabile sorriso di don Toncetti.


186 di Spilimbergo. Lì si preoccupò dei genitori e della sorella Amalia. A Toppo restaurò la chiesa e la canonica, provvide all’installazione del riscaldamento della chiesa e all’elettrificazione delle campane. Particolare vicinanza alla popolazione espresse nei tragici momenti del terremoto del 1976 che rese inabitabile la canonica e disastrò la chiesa, specialmente l’abside, dalla quale cadde una finestra. Da allora visse in una casa donata alla parrocchia e restaurata con i proventi della vendita del vecchio asilo, sostituito da un nuovo edificio costruito da don Rodolfo grazie all’aiuto giunto dagli Stati Uniti. Il parroco si interessò pure del tessuto sociale di una zona montana povera ed emarginata, favorendo l’insediamento di piccole attività produttive. Tanta gente della sua parrocchia e dei dintorni era già stata costretta ad emigrare, spesso oltreoceano (America, Australia): a don Rodolfo, considerato persona affidabile, venivano lasciati spesso in custodia gli immobili. Presa la decisione di non tornare più, gli emigranti lo autorizzavano a venderli: con le offerte lasciate da essi, don Rodolfo ebbe i mezzi per portare a termine le opere della sua parrocchia. Era persona capace anche nei campi economico e amministrativo e ottimo conoscitore


187 di leggi e regolamenti. Per cui si prestò verso tutti coloro che a lui si rivolsero per il disbrigo di pratiche pensionistiche, tanto che la sua fama in questi settori si diffuse oltre la zona: la sua casa somigliava alla cancelleria di un giurista. Mise le sue competenze a disposizione pure della Curia di Pordenone presso la quale fu responsabile dell’Ufficio Assistenza Sociale del clero: come tale si occupò di materia pensionistica. Ebbe inoltre il grande merito di riuscire a provvedere dell’assicurazione sanitaria e pensionistica suore e sacrestani. Collaborò anche agli adempimenti amministrativi seguenti la riforma concordataria del 1984 in materia di beni ecclesiastici che censì nelle parrocchie della forania di Spilimbergo. Grazie alle sue intuizioni giuridiche, la Corte Costituzionale accolse un suo ricorso e riconobbe alle religiose, dipendenti di vari enti, i diritti previdenziali previsti per gli altri lavoratori. Tale decisione modificò la prassi in materia in tutto il territorio nazionale italiano. Con i ricavati delle sue prestazioni don Toncetti collaborò sempre di buon grado a diverse opere benefiche: tra le sue elargizioni ricordiamo quelle a favore della chiesa del seminario diocesano di


188


189 Pordenone (nuovo organo e nuove campane). Aiutò pure i progetti di confratelli e amici che si rivolgevano a lui e che egli condivideva. Si scrisse sulla stampa alla sua morte: «Addio al prete ‘avvocato’ che sfidò i cannoni». Si ricorda infatti a Toppo un episodio del 28 giugno 1959: durante le manovre militari presso il poligono di tiro di Travesio, una salve di artiglieria cadde sul paese e ferì una persona. Don Toncetti, determinato e battagliero com’era, tanto fece che ottenne in seguito dal ministro della Difesa Giulio Andreotti che le manovre militari si svolgessero lontano dagli abitati e i tiri non passassero sopra le case. Si prodigò per contribuire anche alle necessità della Chiesa in Istria. Quando seppe che la diocesi di Parenzo-Pola aveva difficoltà a pagare l’assicurazione sanitaria e l’assistenza dei sacerdoti anziani, diede il suo aiuto. Fu munifico per la costruzione della chiesetta di Ostici (vicino Pinguente) e la ristrutturazione di altre chiese, compresa quella di Dignano: la diocesi di Parenzo-Pola gli fu sempre molto riconoscente. Con cuore generoso aiutò i sacerdoti bisognosi pure in Bosnia e nelle missioni cattoliche. Don Rodolfo con le sorelle Amalia e Maria


190 In Istria veniva sempre volentieri e si univa con gioia ai sacerdoti nel celebrare le feste dei santi patroni. Per diversi anni vi trascorse una settimana di vacanza. Conoscendo le poche possibilità delle case parrocchiali e non volendo essere di peso ad alcuno, dormiva nella sua automobile. Una nota sulla sua sensibilità: quando parlava con qualcuno al telefono e riteneva di informare la sorella Amalia, sorda da molti anni, pregava l’interlocutore di avere un po’ di pazienza e riassumeva a lei il dialogo in corso. E’ da ricordare che Amalia gli fu vicina sempre con grande spirito di servizio, e lo seguí ancora e fu accolta nell’attigua casa di riposo è ricordata da tutti a Toppo anche come una brava insegnante elementare. Una quindicina di anni prima della morte don Rodolfo si ammalò di un tumore alla prostata. Nel famoso Centro di Riferimento Oncologico di Aviano non gli diedero speranza di vita lunga. Allora andò in pellegrinaggio a Lourdes dove pregò: «Santa Vergine Maria, che hai miracolato tanti, se pensi sia ancora utile in questo mondo, intercedi per la mia salute; se


191 invece non sono più utile, vieni a prendermi». Dopo il pellegrinaggio si sentì bene, tanto da non assumere più le medicine prescritte né sottoporsi a cure. Ritenne la guarigione come un segno di predilezione della Madonna. Si sentiva un miracolato, ringiovanito e felice, e fu molto grato alla Vergine. Visse ancora parecchi anni. Nel 2000, resosi infermo, si dovette trasferirlo nella casa per i sacerdoti anziani di San Vito al Tagliamento (provincia di Pordenone). La sorella Amalia lo seguì e tuttora vive nella vicina casa di riposo. Gli feci visita nel 2003: non mi riconobbe. Alle infermiere che gli chiedevano di che cosa avesse bisogno rispondeva: «Ho fretta. Mi aspettano per la confessione, per il battesimo, per la dottrina». Anche in quella condizione di incoscienza conservava le stesse preoccupazioni avute nella sua dinamica vita. Morì a San Vito il 21 giugno 2005. Il funerale si celebrò a Toppo dove è ora sepolto con la mamma e il papà nella tomba di famiglia. La sua vita è un grande solco: in ogni luogo, in ogni servizio, don Rodolfo ha lasciato un’impronta. A Toppo, dove si era integrato bene, ricordano la sua


192 attività di pastore: un prete legato agli schemi del preconcilio, quindi rigoroso nell’insegnamento catechistico, nella cura della liturgia (accettò comunque la riforma) e del canto (suonava e insegnava a suonare l’organo), nella vicinanza ai fedeli: non mancò mai la benedizione pasquale alle famiglie né la cura delle tradizioni religiose friulane di questo popolo di agricoltori e montanari così diverso da quello della sua terra d’origine, di cultura veneta e marinara. Curava come prete la propria formazione spirituale, fedele alla preghiera e al suo essere sacerdote in ogni ambiente e circostanza; e partecipava alla vita di comunione dei sacerdoti della diocesi e della forania, portando sempre il suo contributo di proposta e mostrando la sua sensibilità sociale e concretezza. Pur di carattere forte e deciso, che si faceva rispettare, che difendeva tenacemente le sue idee e che nessuno poteva imbrogliare - lo rivelano anche le Memorie qui pubblicate - don Rodolfo mostrava comprensione verso tutti. Grazie al suo tratto espansivo, a Toppo gli hanno voluto bene. Tenne buoni rapporti anche con l’autorità civile, improntati alla collaborazione.


193 L’altra sua sorella, Maria Glassup, sempre vissuta a Londra, ordinò per il fratello morto le messe gregoriane a Padova (70). Il direttore dell’Opera Sant’Antonio, mons. Antonio Barbierato, confermando di avere ricevuto l’ordine, il 27 luglio 2005 rispose: «Deve essere orgogliosa di aver avuto un fratello così grande, generoso, evangelico. Sono certo che dal Cielo veglia su di voi. Prego Sant’Antonio, accanto alla di lui venerata tomba, per lei e per i suoi cari, per la sorella Amalia, perché vi protegga, dandovi gioia, pace, salute» (71). Dignano d’Istria può essere orgogliosa di avere avuto quale pastore un eroico sacerdote. E Toppo conserva il ricordo del prete e dell’uomo tutto d’un pezzo che si è speso con fortezza d’animo e ha incarnato fra la gente l’annuncio del vangelo.

70. Entrambe le sorelle do don Rodolfo sono morte nell corrente anno 2007: Maria a Londra, Amalia nella casa di riposo di San Vito al Tagliamento (Pordenone)). 71. Fotocopia della lettera si trova nell’ Archivio parrocchiale di Dignano.


194


195

Quando l’artiglieria fece fuoco su Toppo Insorsero gli abitanti, si scatenò il parroco. E vinsero la battaglia. «Montanea de Toppo, super qua montanea est castrum....». Il documento che don Rodolfo Toncetti mi mostra con orgoglio è una sorta di certificato di appartenenza all’aristocrazia dei paesi e borghi friulani dalle radici storiche profonde. È la sua parrocchia. È il resoconto dell’investitura del Patriarca di Aquileia, Engelberto, nel 1231. Don Rodolfo, istriano di Pola, parroco di Dignano d’Istria fino al 1947, quando riuscì a sfuggire rocambolescamente all’arresto da parte della polizia segreta di Tito e riparare a Trieste, a Toppo ha trovato una seconda patria. E così la missione del prete e l’animo intrepido delle terre irredente si fondano solidamente nei cento problemi di un angolo dimenticato da Dio del Friuli appena uscito dalla guerra. Il racconto di don Toncetti è ricco, colorito, animato da personaggi umili e dai potenti, gli uni e gli altri raccolti sotto il medesimo cielo cristiano. “A Toppo sono arrivato subito dopo essere scappato da Dignano. Mi hanno La chiesa di San Lorenzo martire a Toppo di Travesio - Pordenone


196 dato questa parrocchia ai piedi delle colline; molti se n’erano emigrati o stavano per farlo. A movimentare le giornate, soprattutto in primavera e in estate, c’erano le esercitazioni militari, le manovre delle truppe alleate prima, di quelle italiane poi. E con i soldati arrivavano le cannonate”. Già, perché Toppo è un paese che con l’artiglieria ha ingaggiato una bella battaglia... e l’ha vinta. “Sa, appena arrivato mi raccontarono che una salva di artiglieria inglese in esercitazione aveva centrato i sobborghi del paese, mutilando una bambina. Qualche tempo dopo una bomba fumogena italiana è piovuta a pochi metri da me. Decine di altri casi mi venivano continuamente segnalati da parrocchiani impauriti. Si pensi che per settimane e settimane i contadini non andavano nemmeno a far fieno appunto perché sulla montagna sopra Toppo era un continuo cannoneggiamento”, racconta don Rodolfo con la memoria del cronista. Ma la goccia che fece traboccare il vaso fu quel 28 giugno del 1959… Cosa accadde quella domenica? Don Toncetti diceva messa alle otto tra i sibili e le esplosioni delle esercitazioni


197 iniziate all’alba. “Subito alle spalle di Toppo, appena dopo gli orti, si spalancava la terra di nessuno, che fungeva da poligono. Sul monte davanti era come il campo di battaglia. Dunque, quella domenica, a metà della messa, una salva di sette colpi di artiglieria campale centra in pieno il paese. Trema la chiesa, scricchiolano le travature. La gente è terrorizzata. Si scappa fuori temendo che colpiscano anche la chiesa. La fortuna ha voluto che molti fossero a messa. Ci fu un ferito leggero, danni alle case, tanto spavento. Uscimmo in strada, la gente passa dalla paura alla rabbia. Vedo volti inferociti. Capisco che devo prendere una iniziativa. Salgo sulla Seicento, che avevo appena acquistato, e giro le campagne alla ricerca del comando di tiro, dell’ufficiale responsabile della batteria. Lo trovo alla fine ed inizia un aspro confronto. Sono fermissimo nella mia richiesta: che l’esercitazione venga immediatamente sospesa, che i tiri vengano rinviati, che la gente spaventata fosse rispettata allora e per il futuro. L’ufficiale fa valere, sulle prime, la ragion militare. Ma poi...”. Fu subito polemica. Il fattaccio di Toppo rimbalza dai comandi militari locali al ministero.


198 Don Concetti non dà tregua alla sua sfida. Il cielo di Toppo non sarà più solcato dalle salve di artiglieria, aveva promesso ai parrocchiani quella domenica. Così doveva essere. Ma una simile «liberatoria» era ben lungi dal poter diventare un decreto, una carta ufficiale con tanto di firma. E allora l’intrepido don Rodolfo scrive una lettera al ministro dell’epoca, che guarda caso era proprio Giulio Andreotti. E le lettere ad Andreotti non restano mai senza risposta. Divenne un «caso» aperto sui tavoli dello Stato Maggiore della Difesa. “Per la nostra sicurezza e tranquillità la prego, anche a nome della popolazione, di voler dare disposizioni perché quanto sopra non accada mai più”, scrive il parroco al ministro, esponendo la situazione, i danni, la grave ingiustizia dei mancati risarcimenti, del tetto della chiesa riparato con le sue mani, del fieno che resta sui campi. Passano i mesi, qualche promessa, ma nessuna risposta. Ma al Ministero della Difesa il fascicolo gira sui tavoli buoni. E dopo due anni il generale Mari scrive al ministro Andreotti: “Il Comando del V Corpo d’Armata, in relazione a quanto rappresentato dal parroco don Rodolfo


199 Toncetti, ha impartito tassative disposizioni ai comandi militari dipendenti, intese a vietare l’effettuazione di tiri di artiglieria al di sopra dell’abitato di Toppo”. È la vittoria, il giorno della liberazione. Gran festa per don Rodolfo, che però ha ancora dei dubbi. “Dalle parole ai fatti ne passa di acqua.... E difatti qualche tempo dopo sibilano ancora dei colpi su Toppo. Prendo la lettera ministeriale e corro dal comandante della batteria a contestargli il divieto”. Nel 1966 finalmente l’epilogo. A fronte di un decalogo di comportamento per i militari in esercitazione, comprese la deroga agli stretti vincoli di servitù militare e le guarentigie della esclusione del perimetro dell’abitato dalle traiettorie dell’artiglieria, il prefetto fa sapere, in via informale, che le richieste di don Rodolfo e dei suoi parrocchiani sono diventate un tacito impegno delle autorità militari. Ora i proiettili sibilano dietro i monti di Toppo, su Travesio e dintorni. G.D. (Articolo pubblicato su un quotidiano locale di Pordenone, senza data).


200


201

Don Rodolfo Toncetti “avvocato dei poveri” a Toppo Pola era allora, nel 1917, una città «austriaca» e, chissà, forse il nome Rodolfo gli era stato imposto per ricordare il celebre principe ereditario Rodolfo d’Asburgo, morto suicida a Mayerling. Certo è che don Rodolfo Toncetti nacque cittadino austriaco. Poi nel 1947 scelse l’Italia e il vescovo di Concordia scelse per lui la parrocchia di Toppo di Travesio. Da allora sono passati 47 anni e don Rodolfo è rimasto sempre lì nel paesino pedemontano. Ma che cosa fa da 47 anni don Rodolfo Toncetti in quel di Toppo? Il buon pastore della comunità non solo sotto il profilo religioso, ma anche sotto quello sociale nel senso più ampio del termine. Basta entrare nel suo studio (in una bella casa da lui comperata, ma intestata alla parrocchia), basta dare uno sguardo agli scaffali dei libri per capire quello che fa. Accanto al testi «classici» di morale e di teologia, ecco in bella evidenza l’«Enciclopedia legale», «L’avvocato di tutti», il Don Rodolfo parroco a Toppo


202 «Manuale di diritto privato», «Il testamento e le successioni», la raccolta di leggi sulla previdenza sociale e poi vocabolari: vocabolari di inglese, di spagnolo, di croato, di tedesco. Don Rodolfo se ne serve perché i suoi parrocchiani, e soprattutto i loro discendenti, sono sparsi in tutti i continenti e dai vari luoghi gli scrivono. Anche quelli che non sanno la lingua italiana, ma che hanno ancora interessi, magari aggrovigliatissimi, nelle località di origine. Di che cosa gli scrivono? Di pensioni, di eredità, di divisioni, di successioni, di donazioni, di vendite: tutto passa per le sue mani. E sono mani esperte. All’INPS, l’Istituto di Previdenza Sociale, ha

porte aperte, lo conoscono, lo stimano. Lo conoscono anche i notai ai quali egli porta le pratiche già ben impostate. Quante? Centinaia e centinaia. Forse migliaia. Ormai molte, risolte, giacciono... archiviate in soffitta, ma altre sono lì nello studio, in corso di definizione, come dicono i burocrati. Non esistono però solo gli emigranti, vi sono i cittadini in loco da tutelare. Ne sanno qualcosa


203 i responsabili del cementificio di Travesio che se lo sono trovato di fronte a contestare: ha detto un secco «no» allo sparo delle mine. Da uomo pratico (quand’era giovane in Istria lavorava nell’azienda paterna che era ben meccanizzata) ha suggerito metodi razionali di escavazione e immediati ripristini ambientali. Ma questo prete «anomalo» è diventato poi persona di fiducia anche per i cementieri, quando si trattava di acquistare i terreni. Chi poteva convincere i proprietari con poche parole e in poco tempo riuscire a concludere anche con un buon profitto per i venditori? Solo lui, da vero uomo sbrigativo.

La tomba a Toppo di don Rodolfo, dei suoi genitori e della sorella Amalia


204 In un’altra occasione è riuscito a trovare trentamila metri quadrati di altri terreni per l’azienda Monopanel (oggi Metecno). Nel giro di poche ore ha fissato il prezzo e nel giro di pochi giorni è riuscito a predisporre gli atti di compravendita. E ancora un buon risultato: avere sulla porta di casa un’industria di grande prestigio e di sicuro avvenire. Un uomo deciso don Toncetti, un vero difensore civico pur senza investiture ufficiali, anche quando ce l’ha fatta ad ottenere dal ministro della Difesa il divieto di tiri di artiglieria sopra l’abitato di Toppo. Poteva un personaggio di questo genere non essere utile anche alla Curia di Pordenone con i problemi amministrativi che questa si trovava a dover risolvere? Problemi complessi, resi ancor più complicati dal passare del tempo, come ad esempio le proprietà delle parrocchie da definire e da regolarizzare. Occorreva una preparazione specifica, una buona capacità di mediazione, ma anche risolutezza nelle decisioni, tutte doti che don Toncetti ha in abbondanza.


205 E l’inaccettabile impedimento di una legge che stranamente non permetteva alle religiose dipendenti di essere assicurate? Una vittoria eccezionale per la Curia di Pordenone, prima che un ricorso alla Corte Costituzionale estendesse il beneficio in tutta Italia. E questo per l’opera di questo parroco «di campagna». E poi l’annoso problema dei sacrestani, con un contenzioso nel campo del lavoro che doveva essere assolutamente risolto? Nemo Gonano

(Articolo pubblicato su un quotidiano locale di Pordenone, anno 1994).


206 Con l’edizione di queste Memorie non desideriamo riaprire ferite, perché ciò sarebbe solo un prolungare gli asti della guerra. Noi siamo per il perdono e vogliamo imparare dal nostro passato a vivere oggi in pace, coltivando i valori di accoglienza e fraternità che ci insegna il Vangelo e che la Chiesa Cattolica sottolinea con il suo magistero. Il quinto comandamento proibisce la distruzione volontaria della vita umana. A causa dei mali e delle ingiustizie che ogni guerra provoca, la Chiesa con insistenza esorta tutti a pregare e ad operare perché la Bontà divina ci liberi dall’antica schiavitù della guerra (2307). Tutti i cittadini e tutti i governanti sono tenuti adoperarsi per evitare le guerre (2308). Catechismo della Chiesa cattolica

Sebbene le recenti guerre abbiano portato al nostro mondo gravissimi danni sia materiali che morali, ancora ogni giorno in qualche punto della terra la guerra continua a produrre le sue devastazioni. Anzi, dal momento che in essa si fa uso di armi scientifiche di ogni genere, la sua atrocità minaccia di condurre i combattenti ad una barbarie di gran lunga superiore a quella dei tempi passati. La complessità inoltre delle odierne situazioni e la intricata rete delle relazioni internazionali fanno sì che vengano portate in lungo, con nuovi metodi insidiosi e sovversivi, guerre più o meno larvate. In molti casi il ricorso ai sistemi del terrorismo è considerato anch’esso una nuova forma di guerra. ...Deve invece essere sostenuto il coraggio di coloro che non temono di opporsi apertamente a quelli che ordinano tali misfatti.


207 Esistono, in materia di guerra, varie convenzioni internazionali, che un gran numero di nazioni ha sottoscritto per rendere meno inumane le azioni militari e le loro conseguenze. Tali sono le convenzioni relative alla sorte dei militari feriti o prigionieri e molti impegni del genere. Tutte queste convenzioni dovranno essere osservate; anzi le pubbliche autorità e gli esperti in materia dovranno fare ogni sforzo, per quanto è loro possibile, affinché siano perfezionate, in modo da renderle capaci di porre un freno più adatto ed efficace alle atrocità della guerra. ...La guerra non è ancora purtroppo estirpata della condizione umana. ...I capi di Stato e coloro che condividono la responsabilità della cosa pubblica hanno dunque il dovere di tutelare la salvezza dei popoli che sono stati loro affidati, trattando con grave senso di responsabilità cose di così grande importanza... Coloro poi che, al servizio della patria, esercitano la loro professione nelle file dell’esercito, si considerino anch’essi come servitori della sicurezza e della libertà dei loro popoli; se rettamente adempiono il loro dovere, concorrono anch’essi veramente alla stabilità della pace (79). E’ chiaro pertanto che dobbiamo con ogni impegno sforzarci per preparare quel tempo nel quale, mediante l’accordo delle nazioni, si potrà interdire del tutto qualsiasi ricorso alla guerra... e procurare la sicurezza comune (82). Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo GAUDIUM ET SPES


208 INDICE

5 11 14 24 31 41 49 56 66 70 75 84 91 101 104 108 110 118 121 125 132 138

Introduzione Dati biografici «Piccola libertà» Ricerca del dottor Diana Liberazione di arrestati e condannati La strage di Gaiano Processo popolare Telefono segreto I segni delle torture Tre casi Tragedia dei tedeschi Incontro con i capi partigiani nel bosco di Santa Fosca Natale 1944 Deportazione dei prigionieri La suora venuta dalla Bosnia Processo a Roveria contro i c.d. «nemici del popolo» Relazioni fra Chiesa e Stato Elezioni Persecuzione dei sacerdoti Difficoltà con i fascisti Attività e influenza politica della Polizia Arresto di quattro francescani di Pola


209 143 145 149 152 161 165

Periodo 1° gennaio - 5 giugno 1947 Difficile arrivo all’ospedale Il grande esodo in Italia Progetto di fuga La strada verso Trieste Ultimi giorni in Istria

171

APPENDICE E DUE TESTIMONIANZE

172 175 179 183

Mistero del male Patriota o traditore? I perchè dell’esodo Don Rodolfo: un grande solco

193 199

Quando l’artiglieria fece fuoco su Toppo Don Rodolfo Toncetti „avvocato dei poveri“ a Toppo xxxxx Indice

204 206


210

Con il contributo di Citta’ di Dignano d’Istria e Un grazie alla comunità di Toppo (Pordenone, Friuli) per le foto e la documentazione gentilmente fornite.




Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.