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DESCRIZIONE: La contessa sanguinaria, la contessa Dracula: chiusa nel suo castello, circondata da servitori senza scrupoli, alla continua ricerca del predominio assoluto. In un susseguirsi di passioni estreme che ne denotano la follia, si batterà ogni giorno della sua vita per annullare anche ciò che nessun essere umano può assoggettare al suo volere: il tempo.
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Simona Gervasone è nata il 4 novembre 1975 a Torino. Nel 1995 si trasferisce nella periferia Cuneese, dove ancora oggi vive e lavora come impiegata. Coltiva fin dall’adolescenza la curiosità che la spinge a leggere qualsiasi cosa, oltre alla passione per la scrittura e la pittura, in cui si rifugia non appena ha del tempo libero. Considera la lettura un modo per esplorare mondi altrimenti sconosciuti, un po’ come succede al protagonista del libro “La storia infinita” di Michael Ende. Mondi che vale la pena di visitare e che sempre lasciano qualcosa di impagabile all’interno dell’anima.
Titolo: Erszébet Bàthory Editore: 0111edizioni Pagine: 172
Autore: Simona Gervasone Collana: Selezione Prezzo: 13,90 euro
11,82 euro su www.ilclubdeilettori.com
Leggi questo libro e poi... - Scambialo gratuitamente con un altro [leggi qui] - Votalo al concorso "Il Club dei Lettori" e partecipa all'estrazione di un PC Netbook [leggi qui] - Gioca con l'autore e con il membri della Banda del BookO (che si legge BUCO): rapisci un personaggio dal libro e chiedi un riscatto per liberarlo [leggi qui]
LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO) ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI
Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'! Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione. TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA
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Leggili online con EasyReader Decine di libri in versione integrale da leggere online, liberamente. EasyReader è una vastissima raccolta di libri da leggere online, in versione integrale oppure in versione "trailer", comunque sempre molto "corposa" (da un minimo di 30 pagine a un massimo di 50). Tutti i libri proposti in versione e-book su questo sito sono coperti da copyright e sono disponibili anche in formato libro, regolarmente pubblicati (e quindi muniti di codice ISBN) e disponibili anche in libreria. Il catalogo viene aggiornato MENSILMENTE. Bambini/ Fantasy/ Giallo/ Ragazzi Fantascienza Thriller
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Sentimentale Altri generi
SIMONA GERVASONE
Erzsébet Bàthory sangue e perfezione
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.ilgiralibro.com
Erzsébet Bàthory 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2008 Simona Gervasone ISBN 978-88-6307-141-2
Finito di stampare nel mese di Novembre 2008 da Digital Print Segrate - Milano
Il peggior sporco è quello morale: istiga ad un bagno di sangue. Stanislaw Lec
La bellezza non è nel viso. La bellezza è nella luce nel cuore. Kahlil Gibran
Temo che tutte le donne apprezzino la crudeltà, la crudeltà pura, più di qualsiasi altra cosa. I loro istinti sono meravigliosamente primitivi. Le abbiamo emancipate, ma esse rimangono schiave sempre in cerca di un padrone. Amano essere dominate. Oscar Wilde
La giovinezza non ha età. Pablo Picasso
Dedico questo romanzo alla mia famiglia e alla mia prima figlia che nascerĂ a novembre.
PREFAZIONE
Parlare di horror, tanto in letteratura quanto al cinema, spesso e volentieri evoca nell’immaginario collettivo figure irreali che popolano più le antiche tradizioni o i nostri peggiori incubi che non la vita reale. Ma quando è la realtà a superare la fantasia, quando una leggenda affonda le proprie radici in fatti storici documentati, ecco che il discorso prende tutta un’altra piega e si intuisce che, alla base di “certe storie”, esiste sempre un fondo di verità. Uno degli esempi più classici è quello dei vampiri, esseri votati al Male che si aggirano nella notte assetati di sangue e che rimandano a certi miti dell’antichità come quello delle lamie: una delle rappresentazioni più moderne di questo archetipo è quella del nobile, o della nobile, che di giorno si comporta in maniera affabile e gentile e che di notte si trasforma nel terrore dei suoi concittadini. Questo modello prende la propria origine da personaggi realmente esistiti che hanno saputo creare e ritagliare intorno alla propria figura una sapiente miscela di arcano mistero leggendario e macabra e sanguinaria realtà. E’ il caso del conte Dracula, ispirato a un aristocratico rumeno noto per la sua fama di “impalatore dei nemici” che portava il nome di Drakul. E’ il caso della contessa ungherese Bàthory, soprannominata in epoca più recente e non a caso, “Contessa Dracula”. E’ il caso, raccontato con sapiente maestria, del nuovo romanzo di Simona Gervasone, eclettica scrittrice del fantastico in grado di passare da un genere all’altro con un’agilità di stile e linguaggio senza pari, riuscendo sempre a trasmetterci il cuore pulsante dei suoi protagonisti, siano essi buoni o malvagi. Anche stavolta, con la storia delle contessa Bàthory e della sua corte, Simona è stata capace di regalarci un’opera fantastica che trae a piene mani linfa vitale dalle leggende che a loro volta trovano riscontro in fatti storici documentati e realmente accaduti. Preparatevi a sorseggiare un dosato cocktail a metà tra fantasia e realtà, pronti a saltellare ora da una parte ora dall’altra del sottile limite che separa i due mondi.
Preparatevi ad affrontare la famigerata “Contessa Dracula� in tutto il suo sanguinario splendore!
Davide Longoni Webmaster www.lazonamorta.it
SIMONA GERVASONE
Erzsébet Bàthory sangue e perfezione
PARTE PRIMA
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Era una giornata splendida. Le pesanti tende di velluto vennero scostate per far entrare la luce del giorno nell’ampia stanza. Erzsébet scese dal letto senza degnare di uno sguardo la giovane cameriera che aveva l’atteggiamento spaventato di chi sa di essere una succulenta preda nella tana di una terribile belva. La cameriera sentiva come bruciare il punto della sua schiena in cui era agganciato lo sguardo crudele della sua padrona. Se lo sentiva addosso e anche senza voltarsi, sapeva che la donna era seduta, immobile sul bordo del letto. La giovane, con le mani che tremavano vistosamente, il respiro corto e le lacrime quasi sul punto di inondarle il viso, finì di legare la tenda. Quand’ebbe finito, si voltò di scatto col terrore dipinto in volto e se la ritrovò davanti. In piedi, con la cuffia da notte ancora calata sul capo. Lo sguardo ben piantato nel suo, l’espressione di chi sta fantasticando di sgozzare chi ha davanti. La giovane abbassò il viso fino a fissare il pavimento, una lacrima scese lenta nonostante lo sforzo per trattenerla. La contessa alzò solo una mano, indicandole la porta e la giovane sembrò riprendere a respirare solo in quel momento. Tremando come se si trovasse nuda in mezzo a una bufera di neve, corse verso la porta col cuore che batteva troppo veloce e il terrore di udire l’ordine di fermarsi prima che fosse fuori da lì. La contessa seguì la sua breve corsa fino a che la porta non si richiuse lasciandola sola. La sua attenzione venne catturata dalla macchia scura sul pavimento. Nonostante le erbe che avevano bruciato per tutta la notte spandendo il loro gradevole profumo, l’odore del sangue era ancora forte. Inspirò a pieni polmoni come se quel nauseabondo odore fosse il più piacevole mai sentito. Qualcuno bussò alla porta interrompendo questo suo rito mattutino. “Entra.” Disse aprendo di nuovo gli occhi su quegli alloggi grandi e freddi. Klàra entrò portando con sé un fumante intruglio di erbe e lo posò sul ripiano della toeletta. Erzsébet attese senza parlare che la giovane dai capelli lunghi e biondi strettamente intrecciati, le portasse la sedia. Si sedette con le mani in grembo e si voltò verso la finestra da cui entravano obliqui i raggi caldi del sole. Klàra recuperò la spazzola e il catino con l’intruglio fumante e prese a spazzolare i lunghi capelli scuri che avevano assunto riflessi dorati grazie alle
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lunghe ore passate a farsi pettinare sotto i raggi solari con quella pozione schiarente. La pelle bianca più del latte veniva protetta da una sostanza cremosa a base di grasso animale. Non amava discorrere con le sue cameriere né tantomeno amava vederle aggirarsi per il castello, ma vi era costretta. Quello che più di tutto amava, era scoprire una loro mancanza, un loro errore. Amava punirle e amava non sapere se e quando sarebbe finita la punizione. Aprì gli occhi che durante quella gradevole carezza ai capelli teneva chiusi e si voltò verso la vetrata. Nella zona più in ombra scorse il viso attento della fanciulla. Quanti anni poteva avere? Non lo sapeva, ma sapeva quanti anni aveva lei. Trentasette. Trentasette anni! Quella giovane non doveva averne più di sedici. Aveva la pelle liscia e bianca. Troppo liscia e troppo bianca per appartenere a una cameriera. E i capelli troppo biondi. Biondi come li avrebbe desiderati lei. Invece era costretta a stare lì seduta per ore ogni giorno per far sì che divenissero più chiari e mai e poi mai avrebbero assunto quello splendido colore che sotto i raggi del sole sembrava oro fuso. Digrignò i denti e s’irrigidì sotto le attente spazzolate. Klàra se ne avvide e rallentò i movimenti già temendo una possibile punizione. “Da dove vieni?” domandò asciutta, stupendo Klàra che quasi fece cadere spazzola e catino. La ragazza deglutì prima di riuscire a trovare il coraggio di rispondere. “Da Lèkà.” Rispose con un tremito, domandandosi perché mai la contessa fosse interessata a discorrere con lei delle sue origini. Erzsébet assentì muovendo appena il capo. Lèkà. Quanti orrendi ricordi legati a quel luogo che non poteva che farle venire in mente Orsolya. Aveva sprecato così tanti anni al cospetto di quella suocera glaciale e rigida da non ricordare neppure quanti. Tutta la sua gioventù, sprecata tra quelle mura a imparare le arti della padrona di casa, avendo sempre alle calcagna l’austera donna che più di ogni altra cosa desiderava una sposa degna di suo figlio. Erano lontani i tempi in cui scorazzava serenamente nella dimora dei propri genitori. Era stato a causa della morte di suo padre quando aveva appena dieci anni che sua madre, Anna Bàthory, decise di prometterla in sposa a Ferencz Nàdasdy, la cui antica famiglia era ricca e importante. Ricca per merito di suo suocero, Tomàs, grande palatino che aveva contribuito fortemente all’elezione dell’imperatore Ferdinando. La ricchezza venne proprio servendo gli Asburgo. E da povero e ignorante divenne ricco e colto, studiando addirittura all’università di Bologna. Il riflesso di Klàra divenne più nitido quando alcune nuvole passarono pigre davanti alla palla infuocata del sole. Erzsébet colse una fuggevole occhiata della ragazza.
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“Non trovi abbastanza interessante pettinare i miei capelli?” domandò acida. “Sì mia signora.” Rispose quasi ansimando per lo spavento. “Bugiarda!” sibilò tra i denti voltandosi di scatto e arpionando i polsi candidi della giovane in una stretta violenta. “Dorkò!” gridò e non passarono che pochi secondi che comparve sulla porta la figura sgraziata e goffa della donna. “Sì, mia signora?” “Chiama Ficzkò, subito!” ordinò strattonando la giovane che, con gli occhi sbarrati, si guardava intorno con la speranza di poter ancora fuggire. Dorkò uscì di corsa dalla stanza e i suoi passi veloci risuonarono nel corridoio del vecchio castello. Urla concitate e di nuovo passi che correvano nel senso opposto. La porta fu riaperta e Dorkò fece segno al deforme nano di entrare al cospetto della contessa. “Dove hai trovato questa giovane?” domandò prendendola per i capelli. “A Lèkà mia signora.” “Non portarmi mai più serve trovate in quel luogo! E’ ignorante, sporca e incapace!” “A qualcosa può servire mia cara.” Intervenne Dorkò ghignando. Qualcosa che poteva vagamente somigliare a un sorriso piegò gli angoli della bocca ancora bella di Erzsébet. Sì, a qualcosa poteva servire. Senza che la giovane se n’avvedesse e con la velocità di un rapace, Erzébeth sfilò l’attizzatoio dal suo supporto e, prendendolo a due mani, lo calò con violenza sul viso della giovane che urlò di dolore portandosi le mani al naso devastato. Con il solo sguardo e senza bisogno alcuno di parole, ordinò a Dorkò e Ficzkò di tenerla ferma. Gli occhi azzurri e grandi della ragazza saettavano dall’uno all’altro e con qualche parola biascicata tra i denti rotti e il sangue che sgorgava rosso e lucido, tentava di chiedere pietà. Bella, troppo bella. Con quella pelle così liscia e bianca. Bianca come non lo era mai stata quando lavorava ancora nei campi di Lèkà. Era grazie a lei se ora poteva permettersi di lavarsi e mantenere la pelle pallida di una nobildonna. Era grazie a lei se quei capelli biondi come l’oro mantenevano il loro splendore. Si voltò verso lo specchio, dove spiccavano le sottili rughe sulle fronte alta. Lei stava invecchiando e quello spreco di gioventù invece le sbatteva in faccia la sua perfezione! Ma Dorkò le aveva insegnato molte cose in tutti quegli anni. Molte cose che avevano limitato di molto i danni del tempo. Nonostante i suoi trentasette anni, manteneva ancora un aspetto giovane e la sua bellezza era ancora rinomata. Nessun uomo era mai rimasto impassibile davanti alla sua bellezza e sem-
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pre sarebbe stato così, grazie agli insegnamenti di Dorkò e alla sua predisposizione naturale. “Vi prego… mia Signora… vi prego…” piagnucolava la giovane. Aveva sentito di punizioni crudeli e terribili cui erano state sottoposte alcune giovani cameriere e lei era sempre stata così attenta a non fare nulla che potesse attirare su di sé tali punizioni. Ma cos’aveva fatto? Era stata attenta! Sempre! Ma nemmeno immaginava cos’avevano in mente per lei. Niente spilloni infilati nelle carni, niente capelli strappati a forza, niente tagli sul seno o morsi alle cosce. Quello che l’aspettava era molto, molto peggio di tutto ciò che le era stato raccontato fino a quel momento.
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II
Le urla percorrevano i corridoi, rimbalzando da una parete all’altra. Ogni serva si fermò e quasi smise di respirare. Ogni faccenda fu interrotta mentre quelle grida disumane arrivavano anche negli antri più nascosti a sollevare i peli delle braccia e i capelli sulla nuca. La contessa era di cattivo umore. Erano giorni che regnava la quiete e ognuna di loro si aspettava che da un momento all’altro sarebbe accaduto. Ognuna di loro desiderava solo starle più alla larga possibile. Nessuna aveva certo invidiato Klàra quando era stata scelta quella mattina per pettinare la contessa. Avevano sentito tutte chiaramente quando aveva chiamato Dorkò e questo poteva significare solo una cosa: le cantine. Tutte, chi più chi meno, avevano provato sulla propria pelle la crudeltà della contessa, ma nessuna era mai stata portate nelle cantine, perché tutte coloro che vi erano state condotte non erano più lì per poterlo raccontare. Insieme alle urla sembrava fosse arrivato un refolo gelido di morte. I passi nel corridoio fecero chinare la testa alle giovani serve che, senza proferir verbo, continuarono i loro servizi. Qualcuna di loro vide il nano sporco e puzzolente trattenere forte i capelli della giovane che per questo camminava con il busto chinato in avanti. Il viso si voltò un poco quando il suo sguardo incrociò le vesti di un’altra serva indaffarata, ma nessuno ebbe il coraggio di guardarla. Di incrociare quegli occhi azzurri e spalancati. Per paura di suscitare l’ira della contessa e per timore di non poter più prendere sonno con il ricordo di quegli occhi nella mente. Dorkò le serrava le braccia dietro la schiena in modo che non potesse liberarsi dalla stretta di Ficzkò. Erzsébet camminava ritta e composta dietro di loro come se nulla di strano stesse accadendo. Solo ogni tanto si portava la mano pallida al capo, su cui i capelli erano stati velocemente appuntati prima di uscire dalla stanza da letto. “Aiutatemi!” gridò la giovane che quasi non aveva più voce. Qualcuna pianse per lei; quelle che potevano perché più nascoste alla vista della contessa. Qualcuna rabbrividì soltanto, sperando di non dover mai avere a che fare ella stessa con la padrona di casa. Le scale ripide che conducevano nelle cantine erano prive d’illuminazione e Dorkò accese alcune fiaccole. Le pareti umide e coperte di muschio erano
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grigie e vischiose. L’aria stantia e pregna degli odori forti della paura e del sangue sembrava essere una presenze palpabile e concreta. Lunghe catene pendevano dal soffitto accanto alla lavanderia. “Legatela.” Disse. L’illuminazione dei ceri le feriva gli occhi che avrebbero preferito di gran lunga il buio sicuro e gradevole di poco prima, ma al contempo desiderava vedere. Vedere la paura negli occhi di quella lurida contadina. Voleva vedere il suo sangue e voleva fare tutto con calma, gustandosi ogni sua espressione, ogni sua occhiata e vederla mentre esalava l’ultimo respiro. Le braccia di Klàra vennero incatenate alte sulla testa da Dorkò mentre Ficzkò si occupava delle caviglie senza disdegnare qualche sporca carezza sulla carne tiepida delle gambe e su, tra le cosce serrate. La contessa lo lasciò fare e forse questa volta gli avrebbe anche permesso di rimanere un po’ da solo con il corpo esanime della ragazza. In fondo anche lui era un uomo e il suo aspetto orrendo e sporco di certo non gli dava modo di sfogare i suoi istinti con donne consenzienti. Appena finito di legarla, i due si allontanarono e lasciarono che la contessa soppesasse i vari strumenti di tortura appoggiati in modo ordinato sul tavolaccio contro la parete. Prese le pinze e con un cenno ordinò a Ficzkò di strapparle gli abiti. Ficzkò non se lo fece ripetere due volte e ridendo con cattiveria si avvicinò alla ragazza che ancora sperava di poter fare ritorno alla sua vita e che per questo rimase in silenzio anche quando sentì le mani piccole e callose strizzare i seni scoperti e insinuarsi tra le sue gambe. “Basta!” ordinò Erzsébet infastidita dalle troppe iniziative del nano. Ficzkò si allontanò e tornò al fianco di Dorkò che a mezza voce pronunciava uno dei suoi incantesimi. Erzsébet si pose di fronte alla fanciulla e attese che Dorkò finisse con la sua malia prima di affondare la pinza nella carne tenera dell’addome. Le urla divennero insopportabili, tanto insopportabili che Erzsébet posò la pinza e prese un grosso ago. “Vi pregoooooooooo…” piagnucolò la ragazza, ma l’ago entrò nella carne morbida del labbro inferiore mentre Dorkò la teneva salda. Le labbra furono cucite strettamente e il sangue scendeva copioso sul mento e sui seni grandi e pieni. Anche lei aveva seni pieni un tempo. Prima di avere quattro figli. Quei figli che non aveva mai desiderato, ma che era stata costretta ad avere per dare un erede ai Nàdasdy. Dorkò tagliò lo spesso filo e lo annodò in modo che la ragazza non potesse rovinare quell’accurato lavoro di cucito. La contessa si fermò davanti al tavolaccio e osservò con attenzione i vari utensili prima di scegliere un grosso coltello affilato e una coppa di ceramica. Diede la coppa a Dorkò e senza attendere un secondo incise in profondità il seno della giovane
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che ora non poteva far altro che gridare sommessamente lacerando ancora di più le labbra martoriate. Gli occhi stralunati non avevano più lacrime ed erano rossi e asciutti. Dorkò raccolse il sangue che sgorgava dalla ferita e quando ritenne che fosse abbastanza lo portò sul tavolaccio e vi aggiunse pizzichi di erbe essiccate pronunciando parole incomprensibili. Quand’ebbe finito, riportò la coppa dinnanzi a Erzsébet che bevve il sangue tutto d’un fiato facendolo colare sulla gorgiera d’argento nel quale spiccavano le perle bianche che ora si chiazzavano di rosso. La fanciulla chiuse gli occhi inorridita. Il suo sangue. Quel fluido scuro e denso che scorreva nelle sue vene e le dava la vita, stava scendendo nella gola di quella donna. Solo allora si rese conto che i suoi piedi sfioravano della ceramica e non la pietra grigia delle cantine. Un catino, molto grosso, simile a una vasca stava sotto di lei. Il suo sangue… il suo sangue… Il sangue era raccolto in quel catino incastonato nel pavimento di pietra e voluto fortemente dalla contessa. Il corpo dissanguato di Klàra venne buttato da parte come fosse solo spazzatura. La morte non era arrivata in fretta e tante erano le torture a cui era stata sottoposta prima che una taglio netto della gola ponesse fine al dolore, ai pensieri, alla speranza. Sì, perché la speranza era davvero l’ultima a morire; l’ultima ad abbandonare il corpo, addirittura dopo l’anima che già vagava alla ricerca di un luogo sicuro dove poter vivere per l’eternità. La speranza che tutto ancora poteva cambiare. Un uomo forte avrebbe potuto entrare e salvarla, magari avvertito da una delle altre serve. Magari il conte Nàdasdy e forse avrebbe fatto rinchiudere la contessa e magari sposato lei. La vecchia e orrida Dorkò avrebbe potuto pentirsi, sentire il richiamo di Dio e magari aiutarla a fuggire. Ficzkò avrebbe potuto scoprirsi innamorato di lei e colpire le sue due aguzzine con la scure che aveva lì di fianco. Oppure Erzsébet avrebbe potuto semplicemente fermarsi. Lasciare che vivesse. Ma tutto questo non accadde e mentre la luce si affievoliva e i suoi occhi diventavano fissi, ancora la speranza le sussurrava parole di conforto. Dorkò sparì verso le scale e tornò con due serve robuste che l’aiutarono a portare il grosso catino verso le stanze della contessa. Non fecero domande e fecero attenzione a non rovesciare nemmeno una goccia di quel prezioso sangue. Sapevano di chi era e sapevano che avrebbe potuto essere il loro. Ficzkò aspettava in disparte. “Prenditela. È ancora calda.” Disse la contessa senza voltarsi e dirigendosi anch’ella verso la scala. Ficzkò rise sguaiatamente e non attese di sentire richiudere la pesante porta che già abbassava i luridi pantaloni.
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Erzsébet percorse i corridoi; salì la scala. Al suo passaggio tutte le serve s’irrigidivano come se la mano fredda di uno scheletro si fosse poggiata sulle loro schiene. Tutte cercavano di darsi da fare con i loro compiti senza fare rumore e senza fiatare. Terrorizzate dall’idea di poter attirare in qualche modo la sua attenzione. Riprendevano a respirare e il cuore rallentava i battiti solo quando lei scompariva dietro un angolo o si chiudeva alle spalle una porta. Dorkò aveva già pensato a tutto. Il profumo di gelsomino aleggiava nell’aria, le candele rendevano più gradevole la fredda stanza. Le pesanti tende di velluto di Genova erano ben tirate per impedire che la luce del sole rovinasse quel rito così importante. Dorkò l’aiutò a liberarsi dell’abito e dei gioielli e l’accompagnò, nuda e bianchissima verso la vasca in cui era stato versato il sangue della serva. Erzsébet s’immerse nel liquido tiepido rabbrividendo. Certo se avesse potuto scaldarlo un poco… ma non si poteva. Si sarebbe rovinato. Doveva essere fresco e pulito per poter compiere il miracolo. Si lasciò lambire dal liquido vischioso mentre Dorkò le carezzava i capelli. “Più sono giovani e meglio è.” Disse con calma. “Giovani…” “Sì, giovani. Il sangue giovane nutrirà la vostra pelle candida come la luna e la renderà sempre più bella, sempre più levigata. Ogni segno lasciato dal tempo, dalle gravidanze verrà cancellato. La vostra pelle assorbirà l’essenza della loro giovinezza così come la terra assorbe l’acqua.” Erzsébet si lasciò massaggiare la schiena e le spalle. L’olio profumato fu versato nella vasca e si formarono ghirlande fatte di minuscole gocce lucide. Non ricordava quando era stata la prima volta che aveva provocato la morte. Era passato ormai troppo tempo. Ricordava solo di aver sentito una sorta di disagio che però era passato velocemente, lasciando il posto a una sensazione di benessere che sfiorava la beatitudine. Immerse le mani nel sangue quasi freddo e se lo portò al viso che prese a massaggiare con attenti movimenti circolari. Jò Ilona si sarebbe occupata del cadavere. Non aveva nulla di cui preoccuparsi se non prendersi cura del proprio corpo, nell’attesa che qualche uomo vi posasse gli occhi per desiderarlo e qualche donna per invidiarlo.
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III
I colpi sulla porta lo svegliarono di soprassalto. Cosa poteva essere accaduto di così grave da svegliarlo nel cuore della notte? Janòs Ponikenus, pastore di Csejthe buttò da parte la pesante coperta e infilò le vecchie scarpe dirigendosi verso la porta. “Chi è? Sapete che ore sono?” domandò innervosito da tanta insistenza. “Sono io.” Sibilò Dorkò e subito Janòs si affrettò ad aprire la porta con il cuore che batteva all’impazzata. Era l’incubo di ogni pastore essere svegliato nel cuore della notte da quell’orrida strega che somigliava in modo impressionante a un demonio. Non che lui ne avesse mai visto uno, ma era certo che se fosse accaduto avrebbe colto la somiglianza con quella vecchia. Quando se la trovò davanti, i brividi lo percorsero in tutto il corpo. Ossuta, brutta e con addosso un odore nauseabondo, stava lì di fronte a lui con le mani piantate sui fianchi e il ghigno beffardo di chi sa che può chiedere qualsiasi cosa. “Cosa volete a quest’ora?” domandò Ponikenus cercando di non guardarla troppo a lungo per paura di non riuscire più a prendere sonno per il resto della sua vita. “Un funerale.” “Un funerale? Che non può attendere fino all’alba?” “No, non può attendere. La contessa ci tiene molto.” Sottolineò le ultime parole che suonarono come una minaccia. “Datemi il tempo di mettermi qualcosa addosso.” Rispose voltandosi e chiudendo la porta. Dorkò infilò un piede tra i battenti e fissò a lungo i suoi occhi da rapace in quelli del pastore prima di lasciare che quest’ultimo chiudesse la porta. “Vi aspetto qui fuori.” Concluse. Jànos avrebbe voluto dirle che, suo malgrado, conosceva la strada e non vi era alcun bisogno che rimanesse lì ad aspettarlo. Si sfilò la veste da notte e si buttò addosso gli abiti che aveva lasciato appoggiati con ordine sulla sedia. La stanza era fredda e umida e il pavimento di legno scricchiolava a ogni suo
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movimento. Si sedette sul letto per infilarsi le scarpe e invece si lasciò un attimo andare prendendosi la testa tra le mani e scotendola vigorosamente. Che cosa succedeva in quel castello? Perché tutti quei funerali alle ore più impensate? Che avessero ragione le tante voci che aveva sentito sul conto della contessa? Non lo sapeva. Non ne aveva idea. Sapeva solo che la donna che lo aspettava fuori dalla porta gli faceva venire i brividi più del freddo di gennaio. Che avesse ragione Andràs Berthoni, suo predecessore? Eppure gli era sembrata una donna così a modo. Così distinta e persino regale. La sua bellezza era imbarazzante, è vero, ma nulla si poteva dire del suo ineccepibile comportamento. E poi, Ferencz era un uomo così buono, coraggioso e di famiglia così distinta che non poteva credere che avesse in moglie una donna capace di torturare e uccidere come le voci dicevano. Per giunta, tutto quel gran chiacchiericcio proveniva da Vienna. Come la chiamavano? Die Blutgräfin… contessa sanguinaria. Forse avrebbe dovuto indagare un po’ più a fondo. Forti colpi alla porta lo riportarono alla realtà e all’incombenza che aveva da svolgere. S’infilò le scarpe in tutta fretta e uscì nell’aria gelida. “Seguitemi.” Sibilò Dorkò. Camminarono fino al castello, dove tre figure scure e immobili attendevano vicino a una malfatta cassa. Quando fu più vicino si accorse che una delle figure era Jò Ilona e le altre due erano donnoni grandi e grossi infagottati in pesanti mantelli. Senza dire una sola parola, le tre donne sollevarono la cassa e Dorkò fece cenno al pastore di seguirle. Camminarono ancora nella notte stellata. I residui dell’ultima nevicata scricchiolavano sotto il loro passo. Giunsero fino al cimitero che non era distante dal luogo da cui erano partiti. Perché farlo uscire in piena notte per venire fin lì quando avrebbero potuto portare la bara e chiamarlo dopo? Una delle donne inciampò e la cassa cadde rumorosamente a terra facendo saltare i chiodi mal messi. Ciò che vide lo lasciò di sasso. La ragazza all’interno della bara non doveva avere più di diciassette anni. Il viso era tumefatto, il naso rotto in più punti non sembrava far parte di quel viso, ma quello che più lo terrorizzò furono le labbra. Cos’aveva sulle labbra? Dorkò imprecò e subito le donne si misero all’opera per risistemare la cassa. Erano cucite… le labbra erano cucite… “Che cos’è accaduto a questa fanciulla?” domandò con un filo di voce. Non avrebbe voluto domandarlo. Aveva paura di domandarlo e sapere, ma le parole erano uscite dalla sua bocca senza che se ne accorgesse.
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“E’ caduta. Era una ragazza disattenta.” Rispose Dorkò fissandolo. Era caduta… caduta con le labbra cucite… Cos’avevano fatto a quella creatura?
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Simona Gervasone
IV
L’alba arrivò di nuovo, il cielo era pesante di neve. Erzsébet si fece pettinare come ogni mattina, dalle mani attente e tremanti di una servetta in carne. Era soddisfatta della cura di bellezza del giorno prima e forse, se la serva avesse commesso qualche errore, le avrebbe concesso la grazia. Forse. La serva non commise errori e pettinò i lunghi capelli con delicatezza e attenzione. Prese la retina di perle, la posò sulla sommità del capo e iniziò il lungo lavoro d’intreccio. Quand’ebbe finito, Erzsébet si rimirò allo specchio soddisfatta. Sollevò una mano per congedare la serva e attese che il suo posto venisse preso da una delle tante dame di compagnia, che si sarebbe occupata di massaggiarle il viso con le essenze velenose e sbiancanti di stramonio e poi di truccarla. Kata non la fece attendere. Entrò sempre guardando il pavimento e si affaccendò subito con gli arnesi da toeletta. Dopo ore di massaggi, le truccò gli occhi scuri con olio di nocciola e ravvivò le labbra con un unguento rosso brillante. Quando fu pronta congedò Kata che uscì dalla stanza. Ogni ragazza al servizio della contessa temeva quel momento. Terminata la seduta mattutina di bellezza, si sarebbe aggirata per il castello, osservando e valutando l’operato di ognuna e quasi sempre trovava qualcosa che non era fatto nel modo giusto. Qualcosa da punire. Qualcuno da torturare. Ma quel giorno era forse diverso perché passò nei corridoi senza degnare di uno sguardo le sarte al lavoro o la sguattera che lucidava il corrimano della scala. Erzsébet camminò lentamente nei corridoi, posando lo sguardo su ogni specchio che incontrava. Sembrava soddisfatta della propria immagine riflessa o forse lo era perché solo pochi attimi prima, un messo le aveva portato una proposta che mai avrebbe potuto rifiutare. Una delle più antiche famiglie ungheresi le aveva appena proposto che Anna, la sua figlia maggiore, andasse in sposa all’erede Miklòs Zrinyi. Dorkò si sarebbe occupata dei preparativi per il fidanzamento della figlia dodicenne.
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Dal fondo del corridoio giunsero dei passi pesanti e sicuri. Erzsébet si bloccò lasciandosi scappare un gemito. Si voltò per tornare indietro cercando di camminare veloce, ma senza dare a vedere che aveva fretta di andarsene da lì. “Contessa.” Salutò una voce profonda e tutt’altro che amichevole. Erzsébet si voltò e si trovò davanti all’unica persona al mondo che riuscisse a turbarla: Megyery il Rosso, tutore del suo ultimogenito Pàl di poco più di un anno. “Megyery.” Salutò lei voltandosi per continuare la sua ritirata. “Mi pare che abbiate molta fretta questa mattina. Ha forse a che fare con il fatto che vi è stato un funerale questa notte?” Erzsébet sgranò gli occhi e fece un passo indietro, ma immediatamente si ordinò di mantenere i nervi saldi. “Non capisco che cosa intendiate, ma vi consiglio di occuparvi del vostro compito e non degli affari che non vi riguardano.” Megyery sorrise fissandola negli occhi con insistenza. Aveva capito che cosa stava accadendo in quel castello e prima o poi avrebbe trovato il modo di far giungere quelle notizie alle orecchie di chi di dovere. Era solo questione di tempo e anche lei lo sapeva. Glielo leggeva negli occhi. Avrebbe posto fine a quei diabolici massacri. Era stata una giovinetta di tredici anni a confidargli ciò che accadeva nelle cantine del castello. Erano pochi mesi che si occupava dell’educazione dell’erede Nàdasdy e come tutte le mattine, stava godendosi una sostanziosa colazione a base di pane appena sfornato e vino caldo aromatizzato. La giovinetta aveva attraversato le cucine piangendo e singhiozzando e si era rintanata in un angolo della dispensa. Di corsa dietro di lei era giunta Jò Ilona con il suo passo pesante e il fiato corto. Si era guardata intorno mentre lui la osservava con un’espressione che era un misto d’orrore e fastidio. “Cos’avete da fissarmi?” aveva domandato brusca. “Puzzi.” Aveva risposto lui con un’espressione di disgusto e scostando i rimasugli di colazione che non aveva più voglia di finire. La donna lo incenerì senza rispondere e continuò a perlustrare la cucina in lungo e in largo. Quando fu abbastanza vicina alla dispensa, Megyery il Rosso non poté non fare nulla. “Esci dalla cucina se non sei capace di lavarti.” Aveva tuonato. “Cosa? Voi ordinate a me di uscire dalla cucina?” “E’ esattamente ciò che ho appena fatto.” Jò Ilona aveva supposto che la ragazza non fosse in cucina dato l’atteggiamento sicuro dell’uomo, ma una volta sulla soglia si era voltata ancora. “La contessa non sarà felice di sapere del vostro atteggiamento.” E se n’era andata battendo forte i piedi con la sua grossa mole.
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Megyery si era avvicinato alla porta e aveva sbirciato per vedere se realmente la donna si fosse allontanata prima di dirigersi verso la dispensa e scostare la pesante tenda. La ragazza non doveva avere più di tredici anni. Era rannicchiata in un angolo, tremante e piangente. “Vi prego…” aveva sussurrato, tirando su col naso. “Vieni. Non avere timore. È andata via. Cos’è accaduto per sconvolgerti a tal punto?” La ragazza aveva ripreso a piangere nonostante lo sforzo visibile di ritrovare il contegno. “Judith… l’hanno uccisa…” “Cosa?” Megyery aveva sorriso incredulo “Sei certa di ciò che dici?” Aveva sentito parlare delle pesanti punizioni inflitte dalla contessa alla servitù che commetteva errori, ma non credeva che si sarebbe mai spinta fino a tal punto. Forse la ragazza aveva visto mettere in atto una di queste famose punizioni e aveva tratto conclusioni affrettate. Per questo motivo, si fece accompagnare dalla ragazza nelle cantine e ciò che vide gli tolse ogni dubbio. Una giovane dai capelli rossi e ondulati era legata a pesanti catene che scendevano dal soffitto. Larghe pozze di sangue si allargavano sotto i suoi piedi martoriati. I segni di centinaia di bruciature ne ricoprivano il corpo morbido. Megyery si era avvicinato col cuore che batteva all’impazzata e la bocca secca. La ragazza aveva due spilloni piantati negli occhi sbarrati e uno più spesso trapassava la lingua rosea. “Per l’amor di Dio… chi è stato a fare questo?” sussurrò più a se stesso che alla ragazza che lo aveva accompagnato a vedere quello scempio. “La contessa e Dorkò.” Piagnucolò la giovinetta. La colazione minacciò di abbandonare il suo stomaco. Già alcune mosche passeggiavano frenetiche sulle ferite aperte. Si premette una mano sulla bocca e tornò sui suoi passi prendendo per mano la giovinetta tremante. Un rumore di passi li gelò. Megyery aveva fatto segno alla ragazza di fare silenzio e tirandola da una parte si erano nascosti in un antro buio. Ciò che avevano visto dopo era stato anche peggio. Ficzkò era giunto in compagnia di Jò Ilona e insieme avevano liberato le braccia della fanciulla. L’avevano stesa a terra e con un cenno d’intesa, la vecchia donna aveva abbandonato le cantine lasciando che Ficzkò approfittasse di quel corpo defunto. A quel punto Megyery aveva vomitato. Che cosa avrebbero fatto alla creatura che aveva per mano una volta che l’avessero trovata? Non voleva saperlo, ma poteva fare qualcosa.
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“Vattene. Scappa subito e non fare parola di ciò che hai visto con nessuno.” Le aveva detto, spingendola fuori. La fanciulla si era guardata attorno infreddolita mentre la neve cadeva candida e leggera e poi era corsa via. Quello stesso pomeriggio, la contessa l’aveva fatto chiamare nei suoi appartamenti e già Megyery immaginava di cosa gli volesse parlare. “Chi credete d’essere?” era stata la prima domanda che la donna aveva posto. “Perdonatemi, ma non capisco che cosa intendete.” Aveva risposto beffardo. “Non fate finta di non capire. Jò Ilona mi ha messo al corrente del vostro atteggiamento e voglio che sappiate che su certe cose non transigo.” Megyery aveva sorriso e un’espressione di puro stupore si era dipinta sul viso della contessa. “Che cos’avete da sorridere?” “Ho avuto modo di vedere con questi stessi occhi il fatto che su certe cose non transigete. Forse, se anche vostro marito ne venisse a conoscenza…” Per la prima volta, la contessa era parsa spaventata. “Conosce le punizioni che uso impartire alle serve inette.” “Sì, ma forse non sa fino a che punto si spingono e forse non sa che un lurido nano approfitta dei loro corpi martoriati quando già la vita li ha abbandonati.” La contessa ebbe un sussultò e sgranò gli occhi. “Andatevene.” Aveva tuonato. “Come desiderate.” Era stata la sua laconica risposta. Da quel momento in avanti, la donna aveva cercato di non incontrare mai il tutore di suo figlio lungo i corridoi del castello e non vedeva l’ora che si levasse dai piedi per andare a stare nel castello di Sàrvàr. “Se vi è stato un funerale non credo che sia vostro interesse parlarne.” Lo ridestò dai suoi pensieri. “E’ strano che troviate sempre domestiche di salute così cagionevole. Siete sfortunata contessa.” Sibilò lasciando intendere che non avrebbe mollato la presa. “Ora dovete scusarmi Megyery, ma devo occuparmi di cose ben più importanti delle vostre fantasie.” Terminò ripercorrendo il corridoio con passo deciso. Megyery rimase a fissarla a lungo mentre la figura scompariva nel buio del lungo corridoio. Quale stregoneria la manteneva così bella e perfetta? Si domandò.
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V
La cerimonia di fidanzamento era stata un gran successo e ora, Anna aveva raggiunto la famiglia del suo futuro marito. Un grattacapo in meno al castello. Erzsébet si sedette sul bordo del letto. Era inquieta. Erano passati mesi dall’ultima visita di suo marito e altrettanti mesi dall’ultimo viaggio a Vienna. La noia minacciava di ucciderla proprio come le succedeva quando, ancora ragazzina, era costretta nel castello di Lèkà con Orsolya. Aprì il baule e tirò fuori tutti gli abiti in esso contenuti. Stupendi velluti di Venezia, corsetti tempestati di perle bianchissime. “Kata!” gridò. “Sì mia signora.” “Devo cambiarmi d’abito.” “Sì mia signora.” Kata scomparve e tornò poco dopo accompagnata da due giovanissime sarte. “Chi sono?” domandò guardandole di traverso e con tono basso. “Elanhia e Anna.” “Quanti anni hanno?” “Dodici e quattordici.” “Devono riprendere questo abito.” Disse facendo segno a Kata di aiutarla a indossarlo. Senza pudore, rimase nuda e bianchissima al centro della stanza mentre Kata l’aiutava a infilare il pesante abito di velluto rosso cupo. Le giovani sarte mantennero lo sguardo fisso a terra per timore di suscitare le sue ire e fecero bene perché un solo sguardo avrebbe provocato la sua reazione spropositata. Quando l’abito fu indossato e ben stretto sul petto, la contessa ordinò loro di eliminare i difetti. Le due giovani si avvicinarono con il necessario già pronto. Aghi appuntanti sul corsetto, fili colorati che uscivano dalle tasche. Si scambiarono uno sguardo impaurito quando ebbero finito di controllare l’abito da ogni lato. Non vi era alcun difetto visibile e non potevano far finta di averne trovato uno a caso sulla spalla perché la contessa poteva non averne notato uno lì, ma in vita o sul petto.
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“Cos’avete da guardare? Cosa state aspettando? Io non ho tempo da perdere!” tuonò. “Sono ancora inesperte contessa.” S’intromise Kata non senza cattiveria. “Io non ho bisogno di sarte inesperte in questo castello!” Le ragazzine fecero un passo indietro, ognuna augurandosi che fosse l’altra a subire la punizione. La contessa si voltò verso di loro, osservò i loro visi impauriti e questo la fece infuriare ancora di più. Odiava quegli sguardi terrorizzati ed ebeti. Odiava quelle pelli bianche immeritate, ma più di tutto, odiava le sarte incapaci. Con un movimento repentino lasciò andare un manrovescio a entrambe. La più piccola si lasciò sfuggire un grido mentre Anna represse il pianto con stoicismo. Elanhia… aveva l’età di sua figlia pensò, ma questo non fermò la sua mano che prese il polso della ragazzina e la strattonò con violenza, tanto da farle perdere l’equilibrio. La lasciò cadere come un sacco e sbattere il viso sul pavimento freddo prima di portarsi le mani alla testa e gridare con tutto il fiato che aveva in corpo e tutta la rabbia del mondo. “Portala via!” gridò, indicando la più grande che non riusciva a credere d’essere stata risparmiata. Non c’era spazio per la pietà. Non avrebbe fatto nulla per difendere l’altra sartina. Avrebbe solo trovato un posto sicuro e si sarebbe messa a piangere per il sollievo. Kata allontanò la ragazza e chiamò Jò Ilona e Dorkò che entrarono nella stanza con le tende tirate. “Cosa accade mia signora?” domandò Dorkò. “Abbiamo una sarta che non sa fare il suo mestiere. Questo è inammissibile!” Dorkò sogghignò e si avvicinò alla ragazzina che piangeva sommessamente tenendosi le braccia strette al corpo. La prese per i capelli e tirò con forza, quasi sollevandola da terra. “Incapace, sporca, piccola puttana.” Sibilò tra i denti marci. “Battetela finché non si accorgerà del difetto di quest’abito.” Jò Ilona sorrise crudelmente e raggiunse Dorkò che già schiaffeggiava la ragazzina. Ella, impaurita tentava di difendersi alzando le braccia paffute, ma gli schiaffi, i graffi, gli strattoni arrivavano da tutte le parti. Dorkò le piantò le unghie sporche e lunghe nella pelle rosea della guancia e tirò con forza fino a staccare brandelli di carne sanguinante. “Basta!” gridò la contessa. “Ora vedi il difetto?” Elanhia, squassata dai singhiozzi, tenendosi le mani sul viso sanguinante si avvicinò all’abito e con la forza della disperazione osservò con occhio attento fino a individuare un lievissimo difetto nel corsetto, di fianco a una delle tante perle.
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Con la mano che tremava tanto da non riuscire a indicare un punto ben preciso, avvicinò l’indice all’impercettibile grinza. La contessa sorrise soddisfatta. “Toglilo.” Sibilò mentre Dorkò e Jò Ilona ghignavano soddisfatte. Quando la sartina ebbe finito il suo lavoro, venne letteralmente scaraventata fuori dalla stanza. La contessa si rimirò soddisfatta nello specchio, ma subito dopo si accorse che anche quel passatempo era terminato. La noia tornò ad agitare il suo animo. La noia e il desiderio. Quanti mesi erano passati dall’ultima visita di suo marito? Non li contava più. Dorkò parve comprendere al volo ciò di cui la sua padrona aveva bisogno. “Vi chiamo Lazlo?” La contessa assentì senza voltarsi.
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VI
Lazlo si stava occupando del cavallo della contessa. Come tutte le mattine, lo pettinava, gli dava la biada, lo spazzolava e immaginava di essere al posto del cavallo quando la contessa partiva al galoppo, diretta verso la foresta. Non che non avesse mai avuto l’onore. Lo aveva avuto eccome! D’altra parte, come poteva una donna così bella e sensuale rimanere tanto a lungo senza un uomo nel letto? Suo marito faceva ritorno al castello molto di rado e gli impegni mondani non erano poi molti in certi periodi dell’anno. Sentì il passo pesante e riconoscibile di Dorkò che attraversava il cortile. Odiava quella donna! Vecchia, sporca e odiosa strega! “Lazlo!” lo chiamò. “Sì?” Rispose lui senza voltarsi e continuando a spazzolare il cavallo nero. “La contessa ti attende.” Comunicò sogghignando e mettendo in mostra i pochi denti neri che le rimanevano. Lazlo sorrise tra sé e posò la spazzola. Diede due pacche al cavallo e pensò che i suoi desideri erano stati esauditi. Senza farselo ripetere, oltrepassò la donna e corse verso l’entrata del castello. Molte serve erano all’opera in giro per le stanze. Passò accanto a Elanhia e le palpò il sedere sodo. La ragazzina si girò disgustata, ma senza lamentarsi o allontanarsi. Il viso ancora tumefatto e pieno di segni rossi ancora freschi gli fece capire che aveva combinato qualcosa di molto grave. Sapeva delle punizioni, ma questo non faceva che rendere ancora più affascinante quella donna austera e bianca come il latte. Salì la scalinata saltando i gradini a due a due e in men che non si dica si ritrovò dinnanzi alla porta delle sue stanze. Bussò con garbo e attese di essere invitato a entrare. “Avanti.” L’abito rosso cupo giaceva ai piedi del letto e la figura bianca di Erzsébet spiccava persino sulle lenzuola di lino che non potevano paragonarsi al biancore della sua pelle. Non era donna da farsi corteggiare o da fingere disinteresse per il sesso. Un’altra al suo posto avrebbe finto di averlo chiamato per qualche mansione, si sarebbe fatta adulare e corteggiare prima di iniziare a
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cedere al potere della carne, ma lei no. Lei non amava perdere tempo in quelle assurde ballate di passione. Lei amava andare al sodo e Lazlo gliene era grato. Non conosceva l’amor cortese e non sapeva che farsene di una donna frivola e civettuola. Senza proferir verbo, si strappò gli abiti di dosso e si gettò sull’alto letto a baldacchino con i suoi pesanti intarsi di legno scuro. “Siete meravigliosa.” Sospirò, già palesemente desideroso di farla sua. “Massaggiami la schiena.” Gli ordinò porgendogli una boccetta di unguento profumato. Lui sospirò reprimendo un sorriso e si versò maldestramente l’olio profumato sulle mani callose. Sapeva di stalla, di lavaggi poco frequenti e di maschio, mentre lei aveva addosso un forte profumo di gelsomino che nascondeva l’odore forte della pelle lavata con sangue e delle creme a base di grasso animale. Lazlo prese a massaggiarle la schiena liscia. Con la mano callosa seguì la linea della spina dorsale fino a scendere sui glutei morbidi. Come faceva a conservare una tale bellezza nonostante l’età? Si domandò mentre massaggiava e lentamente la sua mano scendeva e s’insinuava tra le gambe. Erzsébet gemette. Vogliosa come e forse più di lui. Desiderosa di sentire un uomo dentro di lei. Desiderosa di godere e di vedere negli occhi dell’altro, la passione più sfrenata. Sentì le dita ruvide accarezzarla nel più intimo e dischiuse le gambe per agevolare le carezze che le davano piacere. Lazlo le baciò la schiena, il collo, i capelli e si sdraiò sopra di lei. Lei amava il sesso “fatto come gli animali”, per questo Lazlo non si preoccupò di farla voltare nella classica posizione del missionario. Già umida, si inarcò e lasciò che lui la penetrasse con foga. Niente preliminari con lei… non servivano. Non fecero l’amore. Fecero sesso, puro e semplice. Senza se né ma. Senza vie di mezzo. Gridando e contorcendosi; spingendo e ansimando. Come due bestie in cerca solo del culmine. E il culmine arrivò una volta e poi una seconda e anche una terza per tutti e due. Forse quel desiderio animale era di famiglia. Un po’ come la gotta oppure l’epilessia che a quei tempi aveva un nome molto meno scientifico: crisi del cervello. Forse il fatto stesso che fosse figlia di due cugini non aveva fatto che renderla ancora peggiore. Non era l’unica infatti a denotare un carattere particolarmente crudele e cupo. Lo zio Stefano, re di Polonia aveva sempre sofferto di queste crisi. Lo zio Istvàn era un ladro, bugiardo e arrivista che per un periodo fu palatino di Transilvania e dalla quale fuggì portando con sé tutto il denaro che riuscì a trovare. Gàbor, suo cugino e re di Transilvania era anch’egli di una crudeltà inaudita e finì ucciso tra le montagne, ma non prima di aver dato libero sfogo all’incestuosa passione per la sorella Anna. Un altro Gàbor, zio questa volta,
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passò la vita a tentare di scacciare il demonio che sentiva avere dentro di sé. E poi c’era Klàra, zia prediletta di Erzsébet che dopo quattro mariti, svariati amanti non si limitò a portare nel proprio letto degli uomini e iniziò la stessa Erzsébet all’amore fra donne. Non erano dello stesso stampo i suoi genitori che pur essendo cugini, si amarono rispettosamente per molti anni. Gyorgy era solo l’ultimo di tre mariti per Anna e apparteneva al ramo Ecsed, mentre Anna al ramo Somlyò. Erzsébet quindi non disdegnava avere nel letto una delle damigelle, ma c’erano dei momenti in cui non le bastava. Dei momenti in cui desiderava quello che le poteva dare solo un uomo e ne desiderava anche gli odori, il tono di voce, la barba ispida, le mani callose. Lazlo faceva al caso suo. Ignorante, ma prestante. Forte e dotato. Più giovane di lei di cinque anni, la guardava con adorazione ogni volta che s’incrociavano al di fuori del castello. Nei suoi occhi leggeva passione e adorazione e questo lei voleva. Voleva essere venerata come una dea. Rimanere per sempre sulla pelle del mondo senza per questo subire i ricatti del tempo. Lazlo si alzò dal letto sfatto e passo i polpastrelli callosi sulla schiena di Erzsébet che pareva dormire. “Siete stupenda. Bellissima e le vostre bocche sono entrambe voraci e lussuriose. Siete sprecata per un solo uomo.” Sussurrò posandole un bacio umido sulla schiena.
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VII
Gli aveva scritto tante lettere in cui non mancava mai di tenerlo aggiornato su tutto ciò che accadeva al castello. Non proprio tutto forse, perché lui non avrebbe capito certi suoi passatempi. Tutti erano in gran fermento per il suo ritorno. Le serve non facevano che lustrare e riordinare, le cuoche cucinavano con perizia la cacciagione ed Erzsébet riposava, coperta da cataplasmi di belladonna. Il viso massaggiato dalle mani sapienti di Natò, la sua dama di compagnia prediletta, ma non per questo risparmiata dalle punizioni. Desiderava vederlo? Sì, ma allo stesso tempo, sapeva che la sua presenza le avrebbe precluso per tutta la sua permanenza al castello, una parte importante della sua vita. Le mani scivolavano sulla sua fronte alta mentre le foglie di belladonna sbiancavano e ammorbidivano la pelle del corpo. Erzsébet digrignò i denti, presa da un moto di rabbia inaspettato e devastante come un fulmine senza nubi. Sangue… di questo avrebbe avuto bisogno in quel momento. Da spalmare sul proprio corpo. Sangue da cui assorbire l’essenza vitale, ma non c’era tempo. Sarebbe arrivato da un momento all’altro. Forse però avrebbe almeno potuto scaricare l’ira che sentiva crescerle dentro come una malattia mortale che le avvelenava l’anima. Forse per quello un po’ di tempo lo aveva ancora. “Fa venire Judith.” Ordinò portandosi le mani al capo preso nella morsa di fitte lancinanti che altro non erano che il preavviso di una sfuriata. Natò si ripulì le mani unte sul grembiule ricamato e senza far passare un solo secondo, si diresse verso la porta e uscì. Tornò pochi minuti dopo. Sul suo volto era dipinta l’ansia che l’aveva presa quando non aveva trovato Judith nella stanza dei ricami, ma solo dopo aver cercato in ogni altra stanza del primo piano. Ci aveva messo troppo tempo? “Falla avvicinare.” Ordinò Erzsébet senza voltarsi, fissando sempre con ostinazione il soffitto della stanza. Natò spintonò la giovane che incespicando e guardandosi attorno nervosa, si avvicinò alla contessa.
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“Mia signora…” sussurrò terrorizzata. Ancora recava i segni delle percosse subite da Dorkò la settimana precedente. Senza preavviso e con un movimento repentino e collerico, la contessa si mise in posizione seduta facendo scivolare i cataplasmi dal petto che rimase nudo. Le afferrò un braccio e strappò la manica. Judith fu tentata di ritrarre il braccio, ma non ebbe il tempo di mettere in atto quel pensiero che già i denti della contessa affondavano nella carne morbida dell’avambraccio. Judith gridò, con gli occhi che si riempivano di lacrime, ma non tentò di divincolarsi, immaginando per questo una punizione ben peggiore di un morso e forse eterna. La contessa scosse la testa come un lupo rabbioso e strappò la carne pallida quasi fino all’osso. Lasciò il braccio della serva e masticò avidamente la carne calda e sanguinolenta socchiudendo gli occhi grandi e scuri. Natò rimase immobile accanto alla porta rabbrividendo di terrore e disgusto, mentre Judith si portava il braccio martoriato al petto e con profondi singhiozzi premeva la ferita. “Vattene!” gridò allora la contessa infastidita ora dalla sua presenza, quasi come se fosse stata interrotta nel bel mezzo di una rilassante seduta di bellezza per volere della serva stessa. Judith corse via piangendo e premendosi il braccio che sanguinava copiosamente. “Cosa fai lì impalata? Abbiamo ancora molte cose da fare!” aggredì Natò. Natò torno accanto alla contessa e con le mani che tremavano, ricominciò il suo massaggio. Quando ritenne che la seduta fosse durata abbastanza, ordinò a Natò di prendere l’abito di velluto avorio e rosso. Il suo corpo venne sciacquato con acqua profumata e i capelli pettinati e unti con unguenti al gelsomino. L’abito, di una bellezza impeccabile, venne stretto sul busto. Natò le infilò le scarpe un momento prima che un gran trambusto al piano di sotto indicasse che il momento era arrivato. Ferencz era al castello. Erzsébet era invasa da sentimenti in netto contrasto tra di loro. Non era amore quello che sentiva per il marito. Non aveva mai provato quel sentimento per nessuno e non credeva esistesse davvero. Credeva piuttosto che fosse una bugia, inventata per far da cornice alle ballate e alle storie che aveva sentito raccontare e che venivano dai salotti italiani. Lo rispettava… questo sì. Sentiva rispetto e fastidio al contempo. Rispetto per quel guerriero coraggioso e bello. Scuro di capelli e dal portamento fiero. E fastidio. Fastidio per il suo intrufolarsi nella sua vita al castello, rovinandole i piani. “Mia signora…” la salutò lui rimanendo ai piedi della scala.
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“Mio signore.” Lo ricambiò lei con un cenno del capo riccamente adornato. “Gradite una coppa di vino?” domandò lei da buona padrona di casa. “Perché no!” rispose sorridendo e fissando quegli occhi misteriosi e profondi. Anche lui non poteva dire di provare amore per quella donna rigida e distante, ma una sorta di passione malata. In quegli occhi vedeva il fuoco dell’inferno. Lingue che si toccavano, labbra che si schiudevano. Urla di piacere e gemiti. La considerava un’ottima padrona di casa. Severa, ma giusta. Sorrideva ai racconti delle punizioni inflitte alla servitù e che mai si avvicinavano davvero a ciò che accadeva veramente al casello di Csejthe. L’aveva conosciuta quando lei aveva dodici anni ed era poco più che una bambina. L’avevano scelta come sua sposa anche se lui era ben distante dal considerare l’idea del matrimonio. Eppure sapeva di doverlo fare. Era l’unico figlio maschio dei Nàdasdy ed era indispensabile che portasse avanti il nome di famiglia. Troppo impegnato nelle battaglie contro i Turchi già allora, tornava a casa di rado. Ogni volta che tornava, scopriva una nuova Erzsébet. Più grande, più matura, più istruita e con una carica erotica che non faceva che accrescere il suo desiderio di matrimonio. Quando si sposarono, lei aveva quindici anni ed era nel pieno della sua giovane bellezza. Non aveva potuto fare a meno di ammirarla nel suo abito nuziale e immaginarla senza. Ma tutto ciò che aveva immaginato, nemmeno si avvicinava a ciò che lei gli aveva fatto provare tra le coltri del letto a baldacchino che avevano diviso la prima notte di nozze. Nulla al confronto delle sue passate esperienze “amorose”. Nemmeno la più consumata delle prostitute era andata così vicino a farlo impazzire di piacere. Non poteva che essere grato ai suoi genitori per la scelta che avevano fatto. Non tornava al castello molto spesso. C’era sempre qualche battaglia da portare avanti. Qualche turco da uccidere. L’Ungheria da proteggere. Ma quando tornava, sapeva che avrebbe passato giornate di festa. Cibo ben cucinato, vino a fiumi, risate, passeggiate a cavallo e sesso. Tanto sesso sfrenato. Il desiderio che le leggeva ogni volta negli occhi, bastava a fargli credere che lo amasse e che non attendesse che lui per dare sfogo alla sua sana libido. Certo non immaginava la tresca con Lazlo o le giovinette con cui si intratteneva quando non aveva voglia di Lazlo. Erzsébet scese con grazia gli scalini. Ferencz le porgeva la mano e lei la prese con garbo. Entrambi sentirono una scarica di energia che percorreva i loro corpi desiderosi l’uno dell’altro. Ma non potevano ascoltare quel richiamo come animali. Vi era tutto un rituale fatto di buona educazione da seguire scrupolosamente prima di lasciarsi andare ai propri istinti, al riparo delle spesse pareti della camera da letto.
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Scendendo insieme la scala si diressero verso il lungo tavolo che avrebbe ospitato la cena con ogni ben di Dio. Con uno scampanellio, Erzsébet chiamò la serva addetta alla cucina e ordinò due bicchieri di vino speziato. Ferencz si stupiva sempre dell’innato atteggiamento da padrona di casa della moglie. Non mancava di riservare sempre un’occhiata profonda e severa alla servitù che pareva avere di lei molta soggezione e forse anche un po’ di paura. Tutto filava liscio al castello proprio per questa ragione, pensava. Una donna forte e capace, non avvezza ai piagnistei soliti delle altre donne o a crisi di debolezza. Erzsébet non gli dava questi pensieri. Sapeva che, anche sola e distante da lui, non faticava a tenere a bada servitù, figli e l’intero paese se fosse stato necessario. Già… i figli… “I nostri figli?” Erzsébet osservò silenziosa la donna grassa e rosea che posava le due coppe di vino aromatizzato con cannella, chiodi di garofano e miele. Solo quando ella se ne fu andata, sollevò i suoi occhi cupi verso il marito che attendeva risposta. Anche gli occhi di lui erano profondi, ma in fondo buoni, umani. In essi si scorgevano i normali sentimenti che scuotono l’animo di ogni uomo, ma in quelli di lei… un mondo ignoto e senza fine si dibatteva dietro quelle iridi scure. “Stanno bene.” Fu la sua risposta concisa. “Anna?” “Ho ricevuto una sua missiva ieri. Si trova molto bene con la sua nuova famiglia e pare non veda l’ora di convolare a nozze.” “Ne sono lieto. Non c’è nulla di meglio che trovare la persona giusta per dividere la propria vita in eterno.” Sussurrò guardandola fissa. Erzsébet socchiuse gli occhi, come se dita invisibili le stessero sfiorando il corpo sinuoso. Reclinò il capo come a voler godere di quelle carezze inesistenti. “Vi desidero…” sussurrò ancora Ferencz sentendo l’eccitazione diventare troppo impetuosa per poter ancora attendere. Erzsébet fece un passo indietro e si addosso alla parete fredda. Un brivido la percorse in tutto il corpo. Anche lei non voleva più aspettare. Complice il bel portamento di lui, i suoi occhi profondi e vogliosi, la sua barba scura e che lo faceva somigliare a un dio guerriero e quella voce lenta e profonda che sembrava volersi insinuare in ogni parte del suo corpo. Percepì il respiro di lui sul collo dove la gorgiera d’argento terminava in sapienti ghirigori. Sentì le sue mani grandi e callose che le si posavano sui fianchi. Niente esisteva più attorno a loro. Esistevano solo più i loro corpi. Il loro desiderio. Erzsébet si ritrasse di scatto. “Cosa vi prende?” le domandò Ferencz con disappunto.
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“Non è il luogo adatto per questo genere di cose. Voi mi tentate. Mi spingete a fare cose che non si dovrebbero nemmeno pensare in pubblico.” Disse asciutta, nascondendo quella parte di sé che invece non teneva in nessun conto il buon costume. “Avete ragione. Perdonatemi.” Rispose Ferencz, violentando la propria eccitazione. “Bevete il vostro vino finch’è tiepido.” Consigliò lei abbozzando un sorriso che sembrò più una smorfia. Forse l’abitudine a non sorridere mai aveva in qualche modo fatto sì che i muscoli del viso non fossero più in grado di farlo. Bevvero il vino e parlarono dei loro figli. Pàl cresceva, Kata diventava una signorina come anche Orsolya. Non venne mai menzionato il nome di Megyery il Rosso nonostante Erzsébet sognasse di vederlo infilzato dalla spada di Ferencz. “Desiderate fare una passeggiata?” domandò lei posando la coppa vuota. “Sì, una passeggiata è forse quello che ci vuole.” Disse non senza un pizzico d’ironia. Uno scampanellio prodotto dalla contessa fece accorrere Kata. “Portami il mantello.” Disse asciutta. Kata ritornò quasi di corsa, con il mantello di velluto e pelliccia e glielo posò sulle spalle senza che lei muovesse un solo dito per agevolarle il compito. Ferencz ammirava quel modo austero e la desiderava ogni volta di più. Desiderava domare quel corpo bianchissimo e quel carattere forte e ribelle che tra le lenzuola diventava caldo e arrendevole oppure aggressivo e selvatico. Era come farlo con donne diverse e contrapposte allo stesso tempo. Era come cambiare donna ogni volta. Forse per questo non smetteva di desiderarla nemmeno quando giaceva con una prostituta nel cuore dell’accampamento da guerra. Sempre lei nei suoi pensieri. Sempre lei, muta e bellissima, con il suo corpo nato per fargli sfiorare il piacere più alto. Riprese anche lui il proprio mantello e le porse il braccio. Il cielo era terso e non minacciava più di nevicare come nei giorni passati. Sembrava un abbozzo di primavera e le chiazze di neve, giacevano semisciolte ai bordi della strada. Passeggiarono in silenzio, guardandosi attorno. I rami spogli degli alberi si stagliavano netti sul cielo azzurro. Il rumore delle sterpaglie appena riapparse dai cumuli invernali di neve scricchiolavano come se fossero percorsi da piccole lepri. Le orme di un lupo percorrevano la loro stessa strada. Ricordava l’ultima volta che avevano percorso quel sentiero. Era successo poco prima di ottobre dell’anno passato. Faceva già freddo eppure una donna completamente nuda stava al centro della radura. Aveva guardato accigliato e poi si era voltato verso Erzsébet che non appariva per nulla stupita da quella visione. “Chi è quella donna?” le aveva domandato incredulo.
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“Una serva.” Aveva risposto lei seria. “Che cosa fa una serva nuda in mezzo al bosco?” “Ha rovesciato e rotto un vaso di miele. È una punizione.” Ferencz aveva guardato il corpo della donna che si lamentava senza però urlare. “In cosa consiste la punizione?” “Il suo corpo è cosparso di miele. Lo stesso miele che è andato sprecato per un suo errore. Ora come vedi almeno serve a qualcosa. Serve a farle capire che non deve più commettere errori. Le formiche amano il miele, ma non credo che lei ami altrettanto i morsi delle formiche.” Così dicendo si era allontanata attendendo che lui la seguisse come sempre faceva. Era rimasto ancora un momento a contemplare quello spettacolo e poi era scoppiato in una grassa risata seguendola. “Siete piena d’inventiva moglie mia! Sono certo che non rovescerà mai più il vostro prezioso miele!” Solitamente non ricordava mai i visi delle donne al servizio di sua moglie, ma il viso di quella ragazza gli era rimasto impresso. Nei giorni successivi l’aveva cercata, ma senza alcun risultato. Non sapeva certo che Dorkò aveva terminato il lavoro iniziato da sua moglie e che Berthoni si era occupato di tumularla in fretta e furia. Seguirono quello stesso sentiero fino ad arrivare alla medesima radura dove però non c’era la ragazza di quella volta, ma solo un palo dimenticato. “Cosa mi dite di ciò che avete passato negli ultimi mesi?” domandò lei. “Niente di più di ciò che già vi ho scritto. Non desidero parlare della guerra ora che sono a casa. Piuttosto, vorrei darvi un consiglio. Ho dimenticato di scrivervelo l’ultima volta e so che stavate cercando un rimedio con due domestiche.” “Vi riferite al modo di intervenire su svenimenti ed epilessia?” “Sì. Purtroppo l’isterismo non colpisce solo le donne e ho dovuto farvi fronte in più di un caso negli ultimi tempi.” Fissò per un lungo istante l’orizzonte come a voler ricordare ogni particolare di quei momenti. “L’ultimo periodo è stato duro e molti uomini, soprattutto i più giovani, si sono lasciati andare a vere e proprie crisi che non sapevo più come gestire. Il rimedio è arrivato per caso. Il ragazzo era sdraiato per terra in preda alle convulsioni isteriche quando una candela è caduta e ha dato fuoco a un pezzo di carta. In un attimo le fiamme hanno lambito i piedi del giovane che si è come ripreso in modo istantaneo. Credo che il fuoco cancelli le crisi di cervello.” Erzsébet lo guardò sgranando gli occhi come se non avesse mai pensato a commettere una tale tortura ai danni di una delle sue domestiche.
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“Sembrate sconvolta.” “No. Sono ammirata. Siete riuscito casualmente a trovare un rimedio a una piaga che affligge più di una domestica. Non mancherò di mettere in atto il vostro consiglio non appena si presenterà l’occasione e non mancherò di scrivervi l’effetto che ha avuto.” “Sono felice di potervi essere in qualche modo utile nella gestione del castello.” Sorrise accarezzandole una guancia. “Avete la pelle più bella che io abbia mai veduto.” Sospirò di nuovo in preda al desiderio. Se glielo avesse concesso, l’avrebbe presa lì, tra la neve che si scioglieva al sole ancora debole. Passeggiarono tra gli alberi ancora addormentati dall’inverno giunto quasi al suo naturale termine e lo sgocciolio della neve. Quando rientrarono, infreddoliti e soddisfatti, si fecero portare altre due coppe di vino fumante e lo sorseggiarono in silenzio. “Mi ritiro per prepararmi alla cena.” Disse lei quand’ebbe finito la sua coppa. “Certo.” Assentì lui osservandola mentre si allontanava verso la scalinata. Per l’occasione erano stati invitati alcuni amici di famiglia che avrebbero goduto della loro compagnia e assaporato la cacciagione splendidamente cucinata. Ferencz non fece caso alla giovinetta dallo sguardo terrorizzato con l’avambraccio fasciato strettamente e non fece caso neppure agli occhi supplichevoli di altre domestiche. Parevano chiedergli di non andarsene più perché quando c’era lui, potevano respirare… potevano non piangere… e alcune potevano continuare a vivere.
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VIII
La tavola era imbandita. Ogni tipo di carne fumava e profumava la sala da pranzo. Tutti gli invitati avevano preso posto e assaporavano rumorosamente i grossi pezzi dorati. Non vi era nessuno che si facesse problemi a masticare con la bocca aperta o bere risucchiando. Se Erzsébet e le altre signore avevano fatto tutto il possibile per essere profumate anche se non lavate, gli uomini recavano con sé l’odore forte e acre dei campi di battaglia. Sudore vecchio, urina stantia, polvere e sangue coprivano le loro pelli coriacee. Tra risate grasse e rumorosi grugniti, la cena volse al termine. Erzsébet sedeva ritta e composta, completamente adornata da perle e ori. Ascoltava senza parlare. Guardava senza vedere. Osservava ogni movimento delle sue domestiche e se lo imprimeva nella memoria in modo da non passare sopra a qualche loro mancanza. Il fio sarebbe arrivato alla partenza di Ferencz. Era felice di quel banchetto, di quella deviazione dalla solita routine, ma al contempo non vedeva l’ora di riappropriarsi del suo tempo. Di poter gestire come meglio credeva gli affari del castello. Di ritrovare il silenzio di quei corridoi. Aveva anche desiderio di tornare a Vienna. Si sentiva bella come non mai e nuovi abiti erano arrivati pochi giorni prima dall’Italia e dalla Francia. Abiti curati nei minimi dettagli che sottolineavano la sua figura e che avrebbero dovuto essere ammirati alle corti di Vienna. Presa da questi pensieri contrastanti, vide la sera passare e gli invitati congedarsi per tornare alle loro dimore. Finalmente soli. “Siete stanca?” “No.” Senza aspettare oltre, Ferencz le si avvicinò e le porse la mano. Lei la prese con garbo abbassando gli occhi come fosse una vergine alla sua prima notte e si alzò dalla pesante sedia di legno. Salirono in silenzio la scala mentre nei loro animi si agitava un mondo sommerso e fatto di solo buio e lingue di fiamma. La porta della stanza venne aperta e richiusa con uno scricchiolio. All’interno bruciavano lampade a olio che spandevano i loro aromi dolciastri e illumina-
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vano i pesanti arazzi dai colori tristi. Qualche ciocco scoppiettava nel piccolo camino. “Vi ho desiderata ogni giorno e ogni notte.” Sussurrò lui baciandole il petto, dove la pelle scoperta fremeva. “Niente e nessuno riesce a cancellare la vostra immagine dalla mia mente.” Continuò. Lei fece un passo indietro verso il letto rischiarato dalla tremolante luce delle lampade a olio e dal fremere più vivo delle lingue di fuoco nel caminetto. Si sdraiò facendo vagare lo sguardo, in attesa di sentire le mani di lui addosso. Non poteva dirgli quello che agognava. Non poteva dirgli che desiderava la violenza e il dolore, ma rimase ferma, immobile nel suo pallore attendendo che fosse lui a comprendere ciò che più la poteva eccitare in quel momento. Non carezze di velluto e baci setosi. Non parole d’amore e rispetto di marito, ma rudi mani ovunque. Immaginava la veste strappata di dosso con foga. Immaginava carezze pesanti, graffi e morsi. Immaginava lui, che senza preamboli s’insinuava tra le sue carni pulsanti. Immaginava l’odore forte del suo sesso. Ferencz parve comprendere appieno quei desideri nascosti o forse seguì semplicemente i suoi di desideri. Lacerò l’abito costoso e stupendo che cadde di lato a brandelli. Con un movimento fulmineo strappò via la gorgiera che racchiudeva l’esile collo e centinaia di perle perfette rotolarono sul pavimento. Poggiò le labbra su quel collo tiepido. Sotto le labbra, il pulsare ritmico delle vene e i gemiti di piacere. Rimase con le labbra incollate al collo mentre lei s’inarcava come a volergli dire di non abbandonare quella posizione di dominanza. Morsicò la pelle morbida che subito si chiazzò di rosso. Fece scivolare un braccio dietro la testa di lei e con rudezza la prese strettamente per i capelli. Erzsébet sentiva attraverso la stoffa dei pantaloni, l’eccitazione maschia del marito che non vedeva da mesi, ma di cui ricordava la passione irrefrenabile tanto quanto la sua. Un bacio profondo le riempì la bocca. Sapore di cibi gustati da poco, odore di tabacco e sudore sulla barba lunga. Saliva che si mischiava e odore di gelsomino delle lampade a olio. Con un ginocchio, le scostò bruscamente le gambe l’una dall’altra. Così, osservando il suo corpo nudo con cupidigia, si sollevò e si liberò degli abiti per poi tornare immediatamente su quella pelle tanto bianca da sembrare lucente. Ripiombò sul suo collo e lei reagì mordendolo a sua volta, ma con meno riserve di quelle di lui. Un rivolo di sangue sgorgò dalla pelle coriacea e le bagnò le labbra già rosse di trucco. “Lo desiderate più di me non è vero?” domandò sorridendo e guardando un momento quegli occhi immensi e quelle labbra umide del suo sangue. La baciò di nuovo, sentendo il sapore ferroso di quel vitale liquido rosso.
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Erzsébet non rispose. Non ce n’era bisogno, le parole non avrebbero fatto altro che rovinare un momento perfetto. Un momento in cui si sentiva come avrebbe voluto sentirsi sempre, in preda alla più devastante lussuria. Sospesa nel tempo, con la noia lontana anni luce e le forze della natura al suo cospetto. Questo sempre avrebbe voluto. Voleva che quel momento non finisse mai. Desiderava il sesso dentro al suo, i movimenti forti e violenti, la furia di un uomo dentro di sé e il culmine del piacere, ma allo stesso modo lo temeva perché avrebbe portato all’inevitabile fine e lei sarebbe tornata a sentire la noia che le attanagliava l’anima. Le forze della natura che si rintanavano nel loro mondo parallelo senza darle più conforto. Di nuovo la luce del giorno che lei mal sopportava e di nuovo le solite noiose faccende di ogni giorno. Invece lei desiderava solo questo. Solo un eterno dibattersi del desiderio. Anche lui sembrava non voler giungere troppo in fretta alla fine e per questo ancora non si era congiunto con la moglie che pure gli dimostrava tutta la sua cupidigia. “Siete così meravigliosa che non posso credere di aver avuto tanta fortuna.” Sospirò. “Voi siete un uomo meraviglioso.” Rispose senza nemmeno pensare a ciò che diceva. Le mani di lui si soffermarono sui seni ancora turgidi nonostante le gravidanze. Li baciò con foga, senza riguardi, senza delicatezza, strofinando la barba spessa sulla pelle delicata. Succhiò come un infante affamato, ogni tanto mordendo, ogni tanto baciando. Lasciò che ancora quell’eccitazione sublime non trovasse sfogo in una penetrazione, ma poi dovette arrendersi alla propria natura ed entrò dentro di lei. Lei gemette forte quando sentì il piacere misto al leggero dolore della penetrazione forzata, ma subito si mosse contro di lui come se non ne avesse ancora abbastanza. Come se desiderasse tutto il corpo di lui dentro se stessa. Come se quella parte da sola non bastasse a saziarla. Lui spinse con tutte le forze dei lombi, senza mai rallentare e senza per questo arrivare a un troppo veloce epilogo. Si fermò, la girò sulla pancia e la penetrò ancora, mentre lei s’inarcava e spingeva indietro come una qualsiasi bestia in calore. Le mani di lui calarono violentemente sulle rotondità del sedere facendola sussultare. Le unghie penetrarono nella pelle scavando leggeri solchi violacei e lei non pensò minimamente al suo biancore rovinato oppure alla sua perfezione deturpata. Pensò solo al piacere che stava provando e che raggiunse il suo apice. Passarono ore di quella guerra chiamata sesso e solo quando entrambi sentirono la soddisfazione completa, si sdraiarono stremati l’uno di fianco all’altra.
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Non ci sarebbero state coccole e carezze. Lei non le amava e lui glien’era grato. Nessun uomo vero amava passare il proprio tempo a coccolare una donna, ma tollerava di doverlo fare per amore della famiglia. Sì, si riteneva davvero fortunato oltre ogni limite. “Siete tutto ciò che un uomo può desiderare.” Sospirò scostandole i capelli sciolti dal volto accaldato e roseo. Lei lo stupì baciandogli il palmo della mano. “Vorrei andare a Vienna.” Disse, già dimentica di quella notte di passione. Già sentiva che tutto stava ripiombando nella solita mediocrità e non poteva sopportarlo. Aveva bisogno di svago, di cambiare aria. “Siete incredibile! Avete una tale vitalità… ho appena usato il vostro corpo a mio piacimento per ore e voi avete la forza di pensare a un viaggio!” “Verrete con me non è vero?” chiese tradendo un senso di debolezza che non era da lei. Ferencz si accorse di quella debolezza e aggrottò la fronte quasi come fosse preoccupato. “Vi sentite bene? C’è qualcosa che avete dimenticato di dirmi?” domandò. “No. Desidero solo lasciare per un po’ questo castello e le incombenze dell’inverno passato.” “Non avete che da chiederlo. Partiremo immediatamente. Anche io non disdegno un viaggio a Vienna ora che l’inverno è ormai alle spalle.” La notte consumò l’olio dei lumi e la legna nel caminetto divenne sonnacchiosa brace mentre le tende tenevano fuori i primi raggi di luce.
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IX
Era tutto pronto. Le carrozze erano state caricate con i bauli colmi d’abiti all’ultima moda e le serve erano pronte per partire. La contessa discese la scala in compagnia di Ferencz discorrendo degli ultimi accordi. Non sarebbe partito con lei, ma l’avrebbe raggiunta nei giorni successivi e questo la metteva di cattivo umore. Non voleva che rimanesse da solo al castello con Megyery il Rosso pronto a pugnalarla alle spalle rivelandogli i suoi passatempi. Detestava viaggiare da sola e non avere le attenzioni di un uomo. Questo la mandava letteralmente in bestia. Costretta a passare lunghissimi mesi da sola, non tollerava che anche in quell’occasione ci fosse qualcosa a tenerla chiusa nella sua solitudine. Una solitudine che non era fisica perché attorno a lei c’erano sempre centinaia di persone e ora che stava andando a Vienna ce ne sarebbero state ancora di più. La sua era una solitudine ben peggiore: quella congenita che alberga l’anima e che ti strazia lo stomaco. Quella che fa sì che tutto attorno a te sia avvelenato da sentimenti di tristezza. La sensazione di essere sempre sospesa in un mondo liquido fatto di frivolezza che mai sarebbe arrivato a percepire la vera profondità dell’anima. Eppure, ella stessa era sempre in cerca di frivolezza. La stessa bellezza che rincorreva da sempre era frivolezza, ma non per lei. Per lei quella perfezione bianchissima era alla base della propria esistenza. Alla base del legame instabile con la propria anima e ancora, alla base del suo legame con il mondo che la circondava. Senza quell’eterea perfezione non era nulla. La natura era perfezione e lei non desiderava che assorbire tale perfezione da tutto ciò che poteva. Infusi di erbe, impacchi di foglie, animali essiccati, ma in primis… il sangue dei suoi simili. Non ricordava quando avesse cominciato a ritenerlo alla base stessa della sua felicità. Ricordava di aver sempre avuto scatti rabbiosi contro la servitù e una naturale predisposizione per il comando. Forse tutto era accaduto accidentalmente la prima volta.
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Una visione indistinta le si presentò davanti agli occhi. Una ragazza di un anno più grande di lei. Doveva avere circa 16 anni perché era accaduto l’anno dopo il matrimonio, quando ancora era in vita sua suocera e i balli a Vienna erano solo sogni. L’aveva schiaffeggiata con qualche pretesto che ora le sfuggiva e colpendola, le aveva fatto sanguinare il naso. Era inorridita quando aveva visto la propria mano sporca di quel sangue contadino e il polsino dell’abito irrimediabilmente rovinato. Urlando e imprecando aveva preso a strofinare via quelle macchie rendendosi poi conto che il sangue della contadina, aveva reso la pelle più morbida e più bianca. Non si era chiesta se quell’effetto fosse una conseguenza del suo strofinare in modo ossessivo. “Siamo pronti mia signora.” Jò Ilona interruppe i suoi pensieri. Assentì con un lieve cenno del capo e salì sulla carrozza salutando il conte che per tutto il tempo era rimasto in silenziosa attesa. Aveva compreso che non sarebbe stata una buona scelta aprir bocca davanti allo sguardo ferreo di Erzsébet. Le inviò un silenzioso bacio quando la vide sporgersi dalla carrozza e voltarsi verso di lui, ma nulla fece pensare che se ne fosse accorta. Il viaggio non era troppo lungo, ma spesso Erzsébet cambiava posizione, spazientita, come se avesse avuto una corona di spilli sulla seduta. La notte stava per calare di nuovo quando giunsero finalmente nei pressi della grande residenza viennese. Poco distante, troneggiava il palazzo imperiale dove Massimiliano II si preparava ad abdicare in favore del figlio Rodolfo II. Era risaputo il loro interesse sfrenato per la magia e per l’occulto e forse anche per questa ragione, Erzsébet amava frequentarli. Vienna rappresentava tutto il meglio e tutte le novità in fatto di magia e pozioni e la contessa non mancava mai di visitare ogni piccola bottega per trovare le erbe migliori, le pietre più magiche, le pozioni più efficaci. Jò Ilona scese dalla carrozza in coda e sbraitando, diede le prime consegne alle giovani serve. “Desiderate che qualche fanciulla in particolare vi sia riservata per questa sera mia signora?” ghignò con cattiveria. Quando non era la contessa a urlare per avere una fanciulla da torturare, era lei stessa che le proponeva un diversivo. Forse perché la conosceva ormai talmente bene da non aver bisogno di attendere l’ultimo momento. Vedeva bene che da un momento all’altro sarebbe esplosa. Perché allora aspettare che fosse troppo tardi? “Sì.” Il suo viso non tradiva alcuna emozione. Gli occhi guardavano distante. Forse guardavano un mondo diverso da quello che vedevano i comuni morta-
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li. Forse una realtà parallela fatta di cieli grigi carichi di elettricità, alberi curvi trasudanti di sostanze sconosciute. La carrozza ripartì alla volta del palazzo imperiale. Una serata movimentata e allegra l’attendeva e per l’occasione aveva scelto uno degli abiti più belli, arrivato dalla Francia solo pochi giorni prima. Ecco lo splendido palazzo imperiale solo a pochi metri ormai. La carrozza si fermò e Ficzkò le porse la mano per aiutarla a scendere. L’aria era pungente sul fare della sera e Erzsébet si riparava come meglio poteva per non rischiare di fare la sua entrata a palazzo con le gote rosse di una qualsiasi contadina. La voce baritonale di Massimiliano II l’accolse non appena mise piede dentro il palazzo. Schiere di giovani serve accorsero a sollevarle la stola di pelliccia dalle spalle, a riscaldarle le mani con un panno caldo. “Cara, cara, cara contessa Bàthory! Quale piacere riavervi qui a Vienna!” con un inchino le sfiorò la mano gelida con le labbra. “Imperatore, è un onore essere ancora una volta a Palazzo in vostra gradevole compagnia.” S’inchinò lei. “Desiderate del vino caldo? L’inverno non ha ancora abbandonato queste terre purtroppo. Pensate che solo pochi giorni fa è stato qui un rinomato pittore italiano e mi ha narrato delle splendide giornate primaverili che già si godono nella piccola Italia! Oh… beati loro!” rise gioviale. Aveva anche lei conosciuto alcuni artisti italiani e ne aveva ammirato la fantasia e le capacità, ma non avrebbe mai potuto risiedere in Italia. Troppo ciarlieri. Troppo solari. “Venite. Sedetevi accanto al camino.” Erzsébet lo seguì senza controbattere. “Immaginavo che il conte Ferencz Nàdasdy sarebbe giunto in vostra compagnia… mi auguro che vada tutto per il meglio.” “Sì, mi raggiungerà tra qualche giorno a causa di una questione di famiglia che non poteva in alcun modo essere rimandata.” “Ah bene! E i vostri figli? Che mi dite dei vostri figli?” “Stanno bene. Sono grandi ormai e Anna è persino fidanzata con un giovane di ottima famiglia.” “Ma cosa mi dite! La piccola Anna già in età da marito! Il tempo passa troppo velocemente… troppo… ma voi siete splendida come non mai! Dovete confessare qualcosa?” Erzsébet ebbe un tuffo al cuore. Come faceva a sapere? “Vi sentite bene? Mi sembrate più pallida del solito.” Domandò Massimiliano II con aria preoccupata. “Sì, è solo il viaggio…”
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“Ecco il vino.” Disse prendendo la coppa dalle mani di una giovinetta dalle guance paffute e rosee. “Bevete, vi sentirete subito meglio.” Erzsébet prese la coppa e sorseggiò il vino bollente. “Siete davvero senza tempo mia cara. Non sembrate avere un solo anno di più rispetto a quando avete sposato il giovane Ferencz. La natura vi ha fatto un dono mia cara.” Erzsébet sentì il peso sullo stomaco disciogliersi fino a scomparire, e pensò a tutto ciò che faceva per far sì che il tempo davvero si fermasse. Rimasero soli a discorrere delle erbe migliori e dei nodi magici che percorrevano la terra. Delle salmordine dalle gocce di sangue e di altre pietre dai poteri ultraterreni. Gli invitati arrivarono presto e il salone si trasformò in un allegro via vai di dame in abiti sgargianti e gentiluomini dalle mani delicate. Erzsébet guardò con invidia queste coppie volteggiare allegramente per la sala fino a che non arrivo l’ora di lasciare il ricevimento. Quando arrivò alla sua residenza sentiva dentro di sé che si stava preparando un esplosione di rabbia senza precedenti. Varcò la soglia con furia e salì le scale sbuffando e digrignando i denti come fosse una bestia feroce. “Jò Ilona!” gridò e ogni fanciulla in quella casa iniziò a pregare. Jò Ilona accorse e si fermò sulla soglia in attesa di ricevere ordini che già conosceva. Erzsébet ansimava come una belva ferita, gli occhi pieni di lacrime mai versate e rabbia repressa per troppo tempo. Con una manata spazzò via ogni oggetto posato sulla toeletta, compreso il bauletto di corno dove conservava i suoi più potenti oggetti magici. Fu tentata di gettare a terra anche lo specchio, ma con le mani atteggiate ad artiglio e il viso sfigurato dalla malvagità, si fermò e lasciò ricadere le braccia lungo i fianchi. Si girò verso Jò Ilona. Nei suoi occhi non vi era più nulla di umano. Il viso era talmente bianco e gli occhi talmente vasti e neri da dare l’impressione di poterci annegare dentro. E annegare dentro quegli occhi significava annegare tra le fiamme dell’inferno. Si sentiva come svuotata. Tutta quella gente che l’aveva guardata e ammirata l’aveva anche come consumata. La sua bellezza senza tempo era stata messa a dura prova dal viaggio e poi era stata “rubata” dagli occhi bramosi di donne e uomini e da quelli dello stesso imperatore! Mesi e mesi di cataplasmi, massaggi, unguenti e un solo giorno per avvizzire! Tutti l’avevano ammirata quella sera! Tutti l’avevano desiderata!
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Tutti avevano preso una parte di lei! Divorata dagli occhi desiderosi e lussuriosi. Jò Ilona non aspettò che fosse lei a ordinare una giovane; ne portò una, la prima che le capitò a tiro. Tanto piccola da sembrare ancora una bambina, ma già sviluppata come una donna. Erzsébet la fissò con disgusto. La natura aveva concesso a quella creatura di non essere una nana, ma solo per poco… molto poco. Con passo pesante e deciso uscì dalla stanza e scese le scale. La fanciulla cominciò a strillare e disperarsi perché sapeva che qualche possibilità di uscire viva da quella camera c’era, ma dalla lavanderia… no. CONTINUA...