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I “Maltagliati” non appartengono tutti a uno stesso genere letterario. Il titolo si riferisce all’intenzione di non celare più di tanto le differenze stilistiche dei due autori, motivo per il quale alcuni testi sono volutamente “irregolari”: in primo luogo perché le quattro mani sono bene in vista; in secondo luogo perché vi si accenna a certe strutture di genere per poi eluderle o parodiarle o farne oggetto d’iperbole. È così che nei “Maltagliati” trovano posto, ad esempio, un racconto ostentatamente meta-letterario (Sette ragazze per lui), un finto poliziesco in chiave ironica (Hiding Place), una fiaba un poco particolare (La regina Dorotemilla e il messicano), un racconto pseudo-gotico (Gregor), un falso paragrafo di un libro sul cinema italiano (I grandi attori del cinema muto italiano) e così via. Alcuni dei racconti pretendono di essere connessi tra loro: in maniera sistematicamente improbabile.
L'AUTORE: Xedù è Carlo Sperduti e Marta Mazzucato (e viceversa): un progetto di scrittura a quattro mani nato all’inizio del 2009. Gli autori sono nati il 21 agosto del 1984 e del 1985, uno a Roma e l’altra a Camposampiero (PD). Marta Mazzucato è laureanda in Letteratura Musica e Spettacolo presso la Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Roma “La Sapienza”; ha inoltre frequentato i corsi della Scuola Romana dei Fumetti. Carlo Sperduti si è laureato nel 2009, sempre presso la Facoltà di Lettere e Filosofia de “La Sapienza”, con una tesi sulla letteratura potenziale in Francia e in Italia. Scrive racconti dal 2002. “Maltagliati” è il primo libro di Xedù.
Titolo: Maltagliati Autore: Xedù Editore: 0111edizioni Collana: Opera Prima Pagine: 118 Prezzo: 13,00 euro
11,05 euro su www.ilclubdeilettori.com
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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO) ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI
Hai un amico scrittore e vuoi fargli uno scherzo o un dispetto, oppure vuoi "vendicarti" per qualcosa ma non hai ancora trovato il sistema per "fargliela pagare"? RAPISCIGLI un personaggio e fallo rivivere in un tuo racconto, poi chiedi il riscatto all'autore: se paga, il suo personaggio ne uscirà indenne, altrimenti MORIRA'! Se fra i libri che hai letto c'è un personaggio che ti ha particolarmente colpito e che ti è rimasto impresso per qualche motivo, puoi unirti alla Banda del BookO ( che si legge Buco) per un'IMPRESA A DELINQUERE assolutamente fuori dal comune: RAPISCI IL PERSONAGGIO, TIENILO IN OSTAGGIO E CHIEDI UN RISCATTO. Per rapire un personaggio è necessario renderlo protagonista di un racconto con DUE FINALI, uno a lieto fine e uno tragico (il personaggio MUORE!). Verrà reso pubblico un solo racconto, in base all'esito della richiesta di riscatto: se l'autore paga, il finale sarà "lieto", altrimenti il personaggio farà una tragica fine. Non ti senti abbastanza "scrittore" per buttare giù un racconto? Non fa niente! Rapisci ugualmente un personaggio: se l'autore del libro da cui lo hai rapito non pagherà il riscatto, daremo la notizia dell'uccisione della vittima. Se invece pagherà... bé, a morire sarai tu (ossia il bandito), durante il bliz di liberazione. TUTTI I RACCONTI VERRANNO PUBBLICATI IN ANTOLOGIA
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MALTAGLIATI
www.0111edizioni.com
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MALTAGLIATI 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Xedù ISBN 978-88-6307-236-5 In copertina: Immagine di Alessandro Timpanaro Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da Digital Print Segrate - Milano
INTERVISTA A XEDÙ Di Normanno Calvadòs
La seguente intervista mi è stata concessa da Xedù in via del tutto eccezionale. È l’unica riconosciuta come ufficiale dai due scrittori. Agisco del tutto in buona fede, per quanto possa sembrare inverosimile, affermando che rispondono in sincrono. Non mi hanno concesso di rivelare i loro nomi, che d’altra parte non hanno svelato neppure a me. Mi è però stata data la possibilità di pubblicare un piccolo estratto dal nostro scambio di battute su questa nuova edizione della presente raccolta. La conversazione si è svolta in un piccolo bar di Lentini in provincia di Siracusa. Normanno Calvadòs: Quando avete avuto per la prima volta l’idea di scrivere dei racconti a quattro mani? Xedù: Nel preciso istante in cui non abbiamo avuto più buone idee per racconti a due mani. È successo circa un anno fa. L’idea è stata sua (si indicano a vicenda). In realtà è cambiato ben poco: le idee sono state comunque pessime, ma ci è sembrato insolito e addirittura raro che due menti così in sintonia come le nostre non siano riuscite a combinare niente di buono. Crediamo che l’originalità e la causa del successo della nostra opera risiedano precisamente in questo fattore. N.C.: Leggendo i vostri racconti si ha l’impressione che vi siate attenuti a delle regole. È solo un’impressione? X.: No, al contrario, ma non sempre siamo riusciti a rispettarle fino in fondo. Non possiamo svelarle tutte. Possiamo però dire che i racconti sono nati, a grandi linee, in questo modo: quando uno dei due aveva un’idea per una storia la comunicava all’altro, il quale aveva circa una settimana di tempo per abbozzare quella che a suo parere doveva essere la prima metà del racconto. La seconda metà veniva scritta, sempre nel giro di una settimana, da chi aveva avuto l’idea. A volte, se capitava di
avere proposte nello stesso momento, si scrivevano due racconti simultaneamente, il che ha creato in certe occasioni un po’ di confusione. N.C.: Perché avete scelto proprio Xedù come nome di battaglia? X.: Non faccia domande sciocche. N.C.: Avete mai avuto problemi, nel lavorare assieme, per il fatto di essere un uomo e una donna? X.: Se si riferisce a una certa divergenza di vedute, era proprio quello che volevamo. È stato un buon banco di prova e ne siamo usciti entrambi più tolleranti. Da questo punto di vista siamo completamente soddisfatti. A volte, però, desideravamo essere perlomeno due uomini e due donne. N.C.: Potete render noto, almeno per quanto riguarda uno dei testi della raccolta, chi ha scritto cosa? X.: Neanche per idea. N.C.: Per via della x? X.: Non faccia domande sciocche. N.C.: Alcune recensioni hanno accusato il vostro libro di contenere un certo numero di contraddizioni e incongruenze. Cosa avete da dire in proposito? X.: Solamente che ci siamo prestati giuramento reciproco di omettere, di interpolare, di variare, di mentire e se possibile di confondere. N.C.: Per quale motivo, nei vostri racconti, ci sono così tanti personaggi con gli stessi nomi? X.: È una domanda a trabocchetto? N.C.: Scrivevate ognuno per proprio conto o lavoravate assieme?
X.: Inizialmente preferivamo scrivere separatamente, poi ci siamo resi conto che era più conveniente farlo assieme: se non altro per scambiarci opinioni e consigli in tempo reale e soprattutto per condividere, durante le pause, ricette tipiche delle rispettive terre d’origine. N.C.: Dove preferivate scrivere? X.: Nel suo studio (si indicano a vicenda). N.C.: La vostra radicale differenza, a proposito di provenienza geografica (estremo nord e sud Italia), vi ha mai creato disagio o difficoltà? X.: In generale direi di no, ma nei momenti di maggiore tensione (perché ce ne sono stati, non creda il contrario) facevamo gran fatica a comprendere a fondo il significato degli insulti dell’altro. Col tempo la cosa è migliorata: abbiamo coniato degli ibridi che ci permettono di baccagliare nella più totale comprensione reciproca. N.C.: Una domanda forse indiscreta: i vostri rapporti si fermano alla dimensione professionale o vanno oltre? X.: Non faccia domande sciocche. N.C.: Avete intenzione di continuare a collaborare o di proseguire su strade diverse? X.: Continueremo a collaborare seguendo strade diverse.
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SETTE RAGAZZE PER LUI
Non sapeva che giorno fosse ma ancora non sapeva di non saperlo. Aveva voglia di poltrire. Si allungò sotto le lenzuola, guardò il soffitto tendere al verde e ripensò piano alla serata precedente. Era arrivato un poco in anticipo e aveva aspettato che la sua ragazza finisse il turno nel lavasecco per cani dove lavorava da un anno. Si erano salutati con la mano e lui l’aveva guardata attraverso il vetro del negozio, mentre infilava a forza un cocker sporco d’inchiostro nel lavatricio per cani. Il lavatricio era simile per funzioni e forma a una normale lavatrice, ma al posto del cratere tondo coperto dall’oblò aveva un tubo catodico cavo, largo abbastanza per un cane di taglia media. La differenza tra un Marco e una Giulia è la stessa che passa tra un lavatricio e una lavatrice. Lui entrò, la baciò e chiese cosa fosse successo, indicando il cane che lo guardava. -È un cane polpo- disse lei -Pare che i suoi padroni stiano per divorziare, e pare che la bestiola si spaventi per le urla e i litigi. Pare anche che abbiano dovuto insonorizzare la cuccia, ma credo non basti. Lei finì il turno, azionò il lavatricio, timbrò il cartellino e chiuse il locale con un grosso lucchetto a forma di chiave. Lui si chiamava Carlo ed era il protagonista di un romanzo; il nome di lei per ora non ha importanza. Entrambi erano consapevoli della presenza dello scrittore, che collocavano in un punto poco precisato al di sopra delle loro teste. Sapevano d’essere pedine. I due si avviarono lungo il viale mentre il tramonto del. Erano amanti uniti e focosi, e in condizioni diverse si sarebbe parlato presto di matrimonio, di figli e di un camino, se non fosse che lo scrittore aveva stabilito che Carlo, il suo pupillo, dovesse avere ogni notte una ragazza diversa. Lo scrittore era infatti fermamente convinto che le storie d’Amore avessero condizionato il modo di comportarsi della gente: sempre alla ricerca di qualcosa di cui lui francamente se ne infischiava.
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Per facilitare la memoria aveva dato alla ragazza del lunedì il nome di Linda. La ragazza del martedì si chiamava Marta, il mercoledì era di Margherita, il Giovedì di Giada, il Venerdì di Veronica, il Sabato di Sara e pure per la domenica, che dovrebbe essere giorno di riposo, c’era una ragazza: Daria. Quella di cui Carlo era innamorato era tra queste; si amavano molto e aspettavano il loro turno settimanale con pazienza e dedizione. Benché avesse sette ragazze, Carlo non era un Don Giovanni. Era un Carlo. E dei migliori. Lei era carina: avrebbe potuto avere altre storie di sua iniziativa, dal momento che lo scrittore non si curava di lei se non quand’era con Carlo. Ma non poteva. Quelle ventiquattrore con lui le bastavano per essere felice (lei diceva per via del cuore molto piccolo, frutto di una malformazione ereditaria della sua famiglia). Lui si rassegnava al suo destino senza ribellarsi. -È come se ogni notte facessi l’amore solo con te!- esclamava lui, alle lacrime di lei. -Non è colpa sua- pigolava lei alle amiche. -Cardellino mio- diceva lui -alla settimana prossima! Lei avrebbe voluto che lui fosse riuscito a spezzare in qualche modo le catene di quell’orribile ingiustizia. Aveva sentito dire che una volta un protagonista di un Harmony era riuscito a uccidere il suo scrittore, era andato in banca, aveva salutato gli amici e si era messo a scrivere romanzi polizieschi in Polinesia. Anche se tutte le apparenze mostravano un attaccamento forte e sincero della coppia, lei provava spesso la sensazione che sarebbe invecchiata prima di riuscire ad accorgersene, e l'impossibilità di crearsi una famiglia in un certo senso la disorientava, in un altro la tranquillizzava e in un terzo senso la faceva sentire come immobile. Un giorno conobbe uno scrittore. Era giovedì e Carlo era con Giada. Pensò anche di seguirli, solo per la masochistica curiosità che hanno a volte le donne di venire a conoscenza di cose che non potrebbero in ogni caso modificare. Da quando pensò di farlo a quando effettivamente lo fece passarono tre mesi. Spiò Giada e Carlo perché lei le trasmetteva una fastidiosa sensazione d’indipendenza, cosa che sentiva poco sua. Era chiaro che Giada non fosse innamorata di Carlo, e per questo quasi l'invidiava. Si sentiva come legata a doppio filo a quella vita: lo scrittore le forniva i binari su cui doveva viaggiare ed era, lei sì, innamorata di Carlo, il che forse la condizionava ancor di più.
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Solitamente, essendo quello un romanzo tutto teso all’analisi dei rapporti uomo-donna, le ragazze di Carlo non facevano altro che andare a casa sua, suonare il citofono, scomparire nell’androne e uscirne esattamente ventiquattrore dopo, dieci minuti prima che alla ragazza del turno successivo venisse per così dire consegnata la staffetta. Spesso Giada, però, spiccava tra le altre in quanto a inventiva: non che avesse mire particolari su Carlo, ma tendeva ad annoiarsi. Richiedeva quindi allo scrittore di poter uscire per prendere un gelato o per andare al cinema. Lei avrebbe preferito che Giada si attenesse alle disposizioni superiori: considerava andare al cinema come un pericoloso sovrappiù d’intimità. Carlo, come tutti quelli che passano per don Giovanni (e in realtà si chiamano Carlo) adorava andare al cinema. Lei pensava che fosse molto meno intimo fare l'amore una volta a settimana seguendo ordini precisi che guardare un film insieme, nel buio di una sala, magari sfiorandosi o abbracciandosi di tanto in tanto. Probabilmente questo strappo alla regola veniva giustificato dal fatto che lo scrittore considerava Giada un carattere particolare, un poco diversa dalle altre, e ai fini del racconto tutto ciò non generava alcuna incongruenza. Lei non sapeva dove lo scrittore avesse collocato l'infanzia e la formazione culturale di Giada: sperava solo che fosse abbastanza bigotta e ignorante da risultare antipatica o volgare. Bella era bella. I ribelli ricci rossi risultavano romantici, su di lei, e la camminata congiungeva compostezza e cordialità. Dalla finestra al pianterreno, quella di Carlo, sotto la quale si era appostata per la prima e ultima volta, la risata di Giada usciva forte ma cristallina, e lei sperava di non dover ascoltare anche le risate di lui, ma le sentiva. Insomma, c'erano tutte le basi su cui poggiare una sana gelosia. Era quindi un giovedì, e lei si era alzata presto per riconsegnare il cocker alla famiglia cui apparteneva. Non aveva programmi per la giornata, ma una sua ex-collega dell’università la invitò a una festa in piscina. Accettò la proposta e si diedero direttive sulla serata. La festa si sarebbe svolta a Sabaudia, in una villa di una neo-velina la cui vita sociale, constatò più tardi lei, era rigogliosa e variegata. La neo-velina indossava un costume intero, dorato, molto sensuale, e un paio di pantaloncini della stessa cromatura. C'era un diggei, un tavolo per i cocktail con le ruote, un ombrellone aperto, una piscina con i faretti e una governante filippocaraibica che a fine serata improvvisò un balletto tipico, con arditi movimenti di bacino. La neo-velina le toccò il braccio e le disse che di lì a poco sarebbe arrivato uno scrittore molto interessante e che era sicura
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sarebbero andati d'accordo. Lei accolse l’informazione con una risata, considerandola più che altro una presa in giro. La governante si denudò e trascinò via il diggei implorante soccorso. La neo-velina si tolse il costume e tutti scoprirono che era brutta e aveva la pelle flaccida e gialla. Si rimise dunque il costume e i suoi pretendenti aumentarono. Lo scrittore era bellissimo. Le toccò un braccio, disse di essere uno scrittore e che era sicuro sarebbero andati d'accordo. A questa seconda previsione lei accettò di seguirlo a bordo piscina, dove una volta aiutato il mimo a risalire in superficie, si scambiarono opinioni sul mondo delle veline e delle governanti. Per tutta la serata lei lo osservò con un miscuglio di interesse e prudenza. Le sembrava piuttosto divertente e alla mano, ma quella cosa di essere uno scrittore (il suo primo romanzo s’intitolava Fitness e guerriglia) le faceva sovrapporre al volto di lui quello del suo carceriere. Pensò che anche lui di sicuro deteneva il potere sulla vita di tante persone e per un attimo, quando lui si soffermò sui lauti guadagni che il suo mestiere prevedeva, ebbe l’irrefrenabile tentazione di spingerlo in acqua. La serata andò comunque liscia o lievemente effervescente. A mezzanotte passata, si constatò facesse ancora troppo caldo e si optò per un tuffo collettivo con tanto di diggei e governante, ora felici. Il diggei, asciugato e svuotato, si rimise in posizione e buttò su un lento che fece venir voglia a tutti di andarsene in lacrime. Così fecero, dopo lo scambio prevedibilmente improduttivo di indirizzi e numeri di telefono scribacchiati sui sottobicchieri. Sentì lo scrittore solo poche volte e lo vide solo un paio di anni dopo, quando la situazione era del tutto cambiata, ma questa è un’altra storia. Prelevò quindi la sua amica e se ne tornarono a casa. Una volta tra le coperte si chiese se Carlo fosse ancora sveglio, con Giada, o se dormissero di già, o se lei dormisse e lui no, o se lei stesse già dormendo da ore e lui pensasse a lei. Insomma, vagliò tutte le possibilità. Pochi giorni dopo fece a Carlo un breve riassunto della festa, smorzandone i toni. Erano le dieci di mattina. La giornata con la sua amata sarebbe stata indimenticabile, lei dormiva al suo fianco e il cuscino gli strizzò l’occhio consigliandogli di svegliarla piano. Carlo non s’immaginava cosa, di lì a poco, sarebbe successo: lo scrittore, geloso di quella complicità che cominciava ormai a sfuggire al suo controllo, decise di cancellare per sempre il nome di lei dalla mente di lui. Benché, infatti, lei fosse sempre riuscita a mantenere la dovuta di-
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stanza dalla trama del racconto, lo scrittore si era stupito del fatto che era stato Carlo stesso a iniziare a trattar male le altre ragazze. Oltretutto le chiamava col nome di lei e faceva pure cilecca. Una volta girato il cuscino, che oramai non faceva solo l’occhiolino ma dispensava consigli osceni su varie posizioni d’accoppiamento, la svegliò. Il nome non venne. Lui si corrucciò talmente che lei, aperti gli occhi, si rese subito conto di ciò che stava succedendo. Se il suo nome era stato dimenticato, lei poteva essere Linda o Daria, e se lei poteva essere Linda o Daria, lui aveva smesso di amarla. Tanto era lo sgomento incontrollabile di lui, tanto la situazione lo lasciò di ghiaccio, tanto lei si rivestì in fretta che lui non riuscì a trattenerla. Il soffitto ora tendeva al viola. Lei era la ragazza del martedì ma lui non conosceva più il suo nome. Fu a questo punto che l’equilibrio del romanzo si ruppe, irrimediabilmente: la ragazza del martedì non ne volle più sapere di Carlo e dello scrittore, e quando quest’ultimo la chiamava in causa per farle compiere quello che il suo personaggio doveva compiere, non riusciva più a scrivere. Addirittura gli uscivan fuori gli vengono, se ne accorgette, le frasi sgrammaticate più e di mancanti sintatticamente del tutto. Quando si rese conto, dopo vari e vani tentativi, di non saper più gestire situazione e scrittura, capì di dover ricreare daccapo un equilibrio diverso all’interno della narrazione. Si mise subito al lavoro, pieno di un’ansia opprimente sulle sorti dell’opera. La principale modifica consistette nel dare uno spazio più ampio alla ragazza del martedì. Decise di chiamarla finalmente per nome e di renderla protagonista. Le cose cominciarono da subito a cambiare, sensibilmente. Marta Mazzerduti si svegliò al richiamo dolce di Carlo, si stiracchiò e lo guardò dritto in viso, felice di trovarsi di nuovo, al mattino, a condividere un letto con l’uomo che amava. Il soffitto, però, tendeva al nero. Si rese subito conto, dall’espressione di lui, che qualcosa non andava. Capì che Carlo non riusciva ancora a ricordare il suo nome. Piena d’ira e invasa dall’esasperazione non meno della Polonia dalla Germania nazista, gli si rivolse nei termini che seguono:
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-Imbecille! Mi chiamo Marta! Emme A Erre Ti A! -Come, scusa?- rispose lui ancora insonnolito, inebetito e nondimeno incredulo. A questa risposta Marta lo giudicò ancor più degno dell’epiteto con cui l’aveva apostrofato appena qualche riga più su e decise di scandire bene anche l’invito che si riporta fedelmente di seguito: -Fottiti! Effe O Doppiattì I Ti I! Chiaro? La replica di quello che somigliava sempre di più a un perfetto idiota constò di una serie di suoni pessimamente articolati che condussero logicamente Marta alla soluzione definitiva: iniziò a riprendersi tutto ciò che di suo aveva lasciato, nel tempo, in quell’appartamento. Mentre Carlo continuava con i suoi esercizi vocali senza riuscire a recuperare la capacità di esprimersi in un qualsivoglia idioma conosciuto, Marta riponeva in uno scatolone rimediato nello stanzino una lunga serie di oggetti: una copia del Pasticciaccio gaddiano, un posacenere a forma di tartaruga scheggiato su una zampa, un nano in plastica, un nutrito numero di accendini, una scatola di preservativi, un’antologia dei più famosi indovinelli del mondo, un manuale di strategia scacchistica, un pacchetto vuoto di gitanes senza filtro, un vinile di uno dei più accaniti fumatori di sempre di gitanes senza filtro, un ritratto di Bogart in trench con cappello e sigaretta, un caleidoscopio fatto a mano, una felpa viola a pois bianchi, un compasso a forma di gambe di donna e molto altro. Impacchettato il tutto, si voltò per l’ultima volta verso Carlo per sferrare il colpo di grazia: -Ho sentito discorsi più sensati da un lavatricio, te lo giuro. Addio! Lo scrittore, che aveva reimpostato il tutto senza saper bene dove andare a parare, non poté a questo punto resistere alla tentazione di introdurre un terzo personaggio, e quando Marta spalancò la porta con l’intenzione di imboccarla per poi sbatterla il più sonoramente possibile alle proprie spalle, come da che mondo è mondo si conviene in queste occasioni, si trovò faccia a faccia con Margherita, la quale si accingeva a suonare il campanello. La rabbia di Marta non lasciò spazio, in un primo momento, a cambiamenti d’espressione, mentre lo stupore di Margherita comparve nella più evidente delle maniere su sopracciglia occhi e bocca. Carlo, che assisteva alla scena alle spalle di Marta, aveva ormai rinunciato alla comunicazione verbale e si limitava a poco percettibili variazioni d’ampiezza di fauci, mantenendo costante una certa vacuità nello sguardo che faceva pensare a tutto meno che a un uomo sano di mente.
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Come in certi duelli western, il tempo sembrò fermarsi per un periodo indefinito e venne riempito da numerosi scambi di occhiate prima che qualcuno decidesse a muoversi. Lo sguardo di Margherita si soffermava a fasi alterne sugli occhi pieni di furore di Marta e su quelli privi di riempimento di Carlo. Carlo fissava, senza guardare, il viso di Margherita affiancato alla nuca e alle spalle di Marta. La traiettoria dello sguardo di Marta puntò per tutto l’episodio sugli occhi di Margherita, ma il contenuto di detto sguardo passò gradualmente dalla semplice rabbia a un misto di rabbia, gelosia e impazienza. Marta si mosse per prima, scostando poco cortesemente, con l’aiuto dello scatolone, il corpo di Margherita. Si avviò per le scale. Carlo riprese parzialmente conoscenza e tentò di guadagnare l’uscita per correr dietro alla donna che amava, come da che mondo è mondo si conviene in queste occasioni. A impedirglielo fu il braccio sinistro di Margherita, che non voleva rinunciare alla sua parte a causa di un banale incidente diplomatico. Superata la prima rampa di scale, Marta cominciò a meditare vendetta. Superata quest’ultima riga, lo scrittore rimase a corto d’idee. Non trovando un seguito che lo convincesse abbastanza, lasciò lì i suoi personaggi, immobili nelle rispettive posizioni e occupazioni: Marta rimase sulle scale, col suo scatolone, a meditare vendetta; Carlo a tentare di forzare il braccio di Margherita senza farle male; Margherita a contrastare il tentativo di Carlo spingendolo con quanta forza poteva all’interno dell’appartamento. Le altre cinque ragazze erano chissà dove a far chissà cosa. Verso sera lo scrittore, in piena crisi, decise di abbandonare il suo romanzo, decretando tra sé e sé che quel genere di storia proprio non faceva per lui. Andò al cinema. Si proiettava un poliziesco. Rincasò e si preparò per la notte con un leggero senso di sollievo. Prima di infilarsi sotto le lenzuola fumò una gitane senza filtro, ciccando di tanto in tanto nel posacenere a forma di tartaruga (scheggiato su una zampa). Sognò di svegliarsi in quella che sembrava una stanza d’albergo. Guardandosi meglio intorno riconobbe molti oggetti familiari, tra i quali un ritratto di Bogart appeso alla parete di fronte e un vinile di Gainsbourg sulla scrivania. Capì di trovarsi in camera sua, anche se le dimensioni e la disposizione dei mobili erano molto diverse. Andò alla finestra e si ritrovò a guardare una città mai vista prima, che aveva tutta l’atmosfera di uno studio da film hollywoodiano. Oltretutto in bianco e
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nero. A dispetto di tutto ciò, aveva la sensazione di trovarsi nel futuro. Pioveva. Si voltò verso l’interno e notò un trench e un cappello appoggiati su una sedia. Li indossò e scese in strada: appena uscito dal portone al pianterreno svoltò a destra e si ritrovò immediatamente a un incrocio. Una ragazza dai notevoli ricci rossi, con passo affrettato, lo sfiorò voltando sulla strada da cui lui era arrivato. Alzò gli occhi e lesse: Snapshot Avenue… Quando si svegliò, il mattino seguente, non ricordava altro di quello che aveva sognato, ma prima ancora che la moca cominciasse a brontolare gli era nata in testa un’idea per un racconto, ambientato in una città abitata esclusivamente da investigatori privati. Ma questa è un’altra storia, scritta da un altro una quarantina d’anni dopo. Il crescente interesse per la letteratura di genere, e in particolare per il noir e il poliziesco, lo portò poco dopo a Parigi, nei primi mesi del 1970. Aveva letto da qualche parte che circa un anno prima un matematico e scacchista francese aveva ipotizzato una nuova tipologia di racconto poliziesco. A parere di costui l’unica possibilità mai presa in considerazione nel genere in questione era quella in cui risulti colpevole il lettore. Interessato a questa prospettiva e ad altre che andavano aprendosi per merito di quel curioso personaggio e di altri suoi amici, affrontò il viaggio per incontrarlo. Riuscì in tempi relativamente brevi a farsi accordare un appuntamento e incontrò lo scacchista in un bar del centro. Gli parve un simpaticone. Il francese, che affermò di avere un’infarinatura d’italiano ma non troppo, ordinò e offrì un primo giro di distillato di sidro di mele, bevanda molto in voga nella sua combriccola. Dopo il secondo giro il matematico si vide rivolgere una domanda che suonava più o meno così: -Lei crede davvero necessario realizzare quel racconto che ha ipotizzato a proposito della narrativa poliziesca? La risposta fu repentina e spontanea, in italiano: -Ma anche no. Questa breve replica, pronunciata con più che evidente accento francese, lo scrittore se la immaginò stampata su carta, in questo modo: “Mon Queneau”. Quando tornò in Italia, dopo aver trascorso alcune settimane in compagnia del simpaticone e dei suoi ancor più simpatici amici, lo scrittore non sembrava più lo stesso agli occhi di chi l’aveva conosciuto prima del viaggio: improvvisava palindromi anagrammi e lipogrammi a tutto
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spiano, pretendeva continuamente di essere espulso dalla compagnia e reintegrato per acclamazione unanime, inventava giochi di parole su qualsiasi coglioneria fosse oggetto di conversazione. Ci si preoccupò seriamente. Una sera che aveva bevuto troppo obbligò, letteralmente, cinque persone a sfidarlo a scacchi. Di seguito. Vinse tutte le partite in men che non si dica. Tornato a casa decise di riprendere in mano il romanzo sui rapporti uomo-donna, senza però concedersi strappi alla regola. Di regole, anzi, se ne impose di nuove, e molto rigide. Allo stesso modo, tirannicamente, le impose ai suoi personaggi, che non ebbero la forza di contrastare come un tempo le decisioni del loro creatore. Era diventato troppo forte e determinato. Decise che Carlo doveva tornare ad avere le sette ragazze che aveva sempre avuto, una per ogni giorno della settimana. Decise di scrivere sette serie di sette capitoli, una per ogni donna. Decise che ogni capitolo doveva essere interamente composto da acrostici alternati del nome del protagonista maschile e della ragazza di turno. Decise che il numero di tali coppie di acrostici, per ogni capitolo, doveva essere pari alla somma del numero di lettere costituenti il nome del protagonista maschile e quello della ragazza di turno. Decise di intitolare il libro Sette ragazze per lui. Stranamente iniziava col martedì, in questo modo: «Molti amori ritardano, temono aperture: con anni riescono. Lasciamoli operare…» Marta e Carlo, se non altro, ebbero assicurato un rapporto senza sbavature, almeno per un certo tempo. Un giorno lo scrittore si domandò se fosse poi così importante portare a compimento ciò che aveva iniziato. Per tutta risposta sussurrò, quasi automaticamente, un “Mon Queneau” più che eloquente. Da allora in poi non produsse più opere di narrativa: si limitò a immaginare nuovi modi di farlo. Il soffitto tese per sempre al bianco.
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UN MATRIMONIO
Parigi, 19 Giugno 1825 Cara Sophie, L’ultima volta che ci siamo viste avevi i capelli corti. Mi chiedo spesso quanto puoi essere diversa adesso, dopo quasi tre anni che sono assente da Liverpool. Parigi, ultimamente, mi sta consolando. Ogni sua strada, anche la più affollata e rumorosa, riesce a donarmi una serenità che non credevo possibile in una grande città. Ricordi Roma? Quanto l’odiammo! Quella calura insopportabile, lo sferragliare delle carrozze, e la gente! Che trambusto, che modi! Ho conosciuto un uomo, Sophie cara. È poco che ci frequentiamo, ma lui ha esposto chiaramente le sue intenzioni e sembra una persona a modo. È di buona famiglia (i suoi possiedono quel grande emporio di tessuti importati dall’India. Ci siamo passate davanti l’ultima volta che sei venuta a Parigi. Quel palazzone orrendo, ricordi?). Ci siamo conosciuti alla biblioteca nazionale. È stato un colpo di fulmine. Non che io creda a simili sciocchezzuole, ma Sophie… credo sia stato lo stesso anche per lui! Ci siamo incrociati con lo sguardo, io ero alla mia postazione, come al solito, e lui si è diretto con passo sicuro verso di me, come se ci conoscessimo. Sospetto abbia chiesto in prestito tutte le opere di Rousseau solo per rimanere lì a guardarmi mentre cercavo i codici corrispondenti. Era quasi l’orario di chiusura. So che non sta bene farsi accompagnare a casa da uno sconosciuto (seppur bello come il sole), e infatti sono riuscita a rifiutare: l’ho ringraziato per avermi portato la borsa fino all’uscita e l’ho cordialmente salutato. Mi è dispiaciuto lasciarlo lì come un allocco, ma avresti dovuto vedere che faccia ha fatto! Oh beh, poco male: è tornato due giorni dopo, alla stessa ora; mi ha riconsegnato i volumi (sospetto non li abbia nemmeno sfogliati, perché apertone uno la copertina ha scricchiolato come se non venisse maneggiata da anni!), dopodichè mi ha chiesto se potevamo vederci per un matinée da Babette. Ho pensato: ECCOLO, È
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LUI! Tutto quello che una ragazza di buona famiglia vuole sentirsi proporre da un uomo è un matinée da Babette. Non c’ero mai stata di mercoledì. La sala principale era gremita e caotica: la crème de la crème di Parigi era tutta presente, e io ero lì, accompagnata da un affascinante giovanotto! Indossavo il mio abito color malva, quello comperato con zia Selma in Italia, e la spilla perlata di mamma. Volendo sin da subito fargli capire quanto io sia una ragazza per bene e con i piedi per terra, non mi sono azzardata a indossare le scarpe abbinate, che (e non lo dico per vanità) mi rendono piuttosto maestosa. Tu lo sai come tendo a innervosirmi quando spicco tra la folla. Ho optato, quindi, per le sostitute meno vistose, quelle color glicine, con la piuma e l’anellino d’argento. Da quanto ho visto, comunque, avrei potuto benissimo osare: da Babette non si fa economia di lustrini, e una ragazza come me ha quasi il dovere di eccedere: se c’è il buon gusto, cara Sophie, tu lo sai, ci si può mettere addosso qualsiasi cosa. Comunque sia il mio Paul è stato un vero gentiluomo. Indossava un elegantissimo panciotto, di quelli color crema, così raffinati portati di mattina e così in voga a Parigi da essere quasi demodè! Paul ha uno stile innato: un misto di ricercatezza e d’eleganza davvero raro. Ci siamo dati appuntamento direttamente là, e ho ritardato di quei venti minuti che si convengono a una signora. Abbiamo poi passeggiato lungo i boulevards, dove Paul mi ha dilettato con qualche buffo aneddoto sulla sua famiglia. Dice zia Patty che un uomo, quando racconta dei suoi cari tra il primo e il terzo appuntamento, ha serie intenzioni di introdurre rapidamente la ragazza nel proprio ambiente privato. E questo significa una cosa sola: matrimonio! Sarebbe tutto così perfetto, cara Sophie! Noi potremmo andare a vivere a Belleville, facendo spola tra la sua tenuta in Bretagna, il nostro nido d’amore qui a Parigi e l’India, ovviamente. Di sicuro mi vorrà con sé, durante i suoi viaggi di lavoro. Per fortuna l’Inghilterra ha reso civile quel paese barbaro. Sarà così emozionante viaggiare soli, io e il mio Paul, vedere le piantagioni di cotone e osservare i selvaggi del posto! Dicono che le ragazze con la pelle chiara e trasparente come la mia vengono venerate come dee, ma ho anche sentito dire che anche le vacche sono considerate esseri sacri. Di questo, perciò, preferisco non vantarmene. Questa sera andremo al Théâtre-Italien. La stagione di quest’anno non mi entusiasma particolarmente; Paul dice che la struttura ha perso di visibilità durante l’anno scorso, e che in seguito allo scandalo di Mademoiselle Olympe Pélissier l’aristocrazia francese se ne sia piuttosto
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allontanata. Pare che, con la stagione che si apre stasera, si tenti un recupero. Paul dice che hanno scritturato un giovane talentuoso, un tale Gioacchino di cui non ricordo il nome completo: italiano, molto alla moda, molto creativo. Cara Sophie, fammi sapere come vanno le cose a Liverpool, dimmi di te, di Kathy. E mi raccomando: non dire nulla a proposito di Paul, a nessuno! Ti bacio, mia cara, a prestissimo. Tua, Eleonor.
Liverpool, 10 Luglio 1825 Cara Eleonor, Non ti dico quanto mi allieta la notizia del tuo incontro! Scusami ma non ho saputo resistere alla tentazione di confidarla a Kathy, ma stai pur certa che terrà la bocca chiusa (l’ho minacciata, se s’azzardasse a parlare, di farmi restituire la stola color cammello, e sai quanto ci tiene). Liverpool comincia a stancarmi davvero: piove di continuo e i giovanotti sono sgarbati, donnaioli e butterati. Niente a che vedere con i gentiluomini di Parigi! Anch’io ho una novità, sebbene molto più modesta della tua: ricordi Pete, di cui ti narravo la primavera scorsa? È rosso di capelli, con le lentiggini: non il figlio della tabaccaia, dico Pete il figlio del lattaio. Una settimana fa, insieme al solito latte, mi ha consegnato un biglietto. Per fortuna mamma non se n’è accorta. Odia gli Smiths più di satana. Da quando il fratello di Pete, Michael, ha messo incinta quella poverina di Mary Sherwood, la sua famiglia è caduta in rovina. Tutta Liverpool ne è al corrente. Pete, comunque, mi pare diverso: è un giovine così perbene, certo non esattamente un intellettuale, ma con la sua dichiarazione ammetto che mi ha molto stupita. Te la riporto: “Cara Sophie, io vi amo. Vi consegno il latte da ormai sei anni, e sogno sin da piccino di potervi sposare. Forse vi sembrerà poco rispettoso. Una brava ragazza come voi mi troverà sicuramente volgare! Ma io vi amo, piccola Sophie! Se volete che ci possiamo rivedere mettete una ics sul sì. Se no mettete una ics sul no. Ma non la mettete sul no, vi imploro. Con tanto ardore, simpatia e affetto. Pete.” E poi aggiunge: “Il latte è il migliore della mungitura”. Non è adorabile? Certo un po’ troppo audace e sgrammaticato.
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Ma mi pare così sincero! Oh, non lo illuderò mica. Sarò corretta e gli dirò chiaro e tondo che è inutile che mi scriva. Figurarsi! Io con un lattaio! Pensa come la prenderebbe mamma. Le prenderebbe di certo un colpo. Lo sai che Elisabeth Bennet ha trovato marito? Si chiama Lord Serrington, è un uomo facoltosissimo, di ottima famiglia. Sono proprietari di mezzo Essex. E pensa che la sorella minore di Beth, Alice, s’è fidanzata l’altro ieri con un altro facoltosissimo signore, amico intimo del signor Serrington! Con questa si sono proprio sistemate. Beate le Bennet: ecco cosa mormora tutta Liverpool: Beate le Bennet! Ma adesso bando a queste ciance popolari: raccontami piuttosto nuove sulla tua vita parigina! Mr. Charming (il mio odioso maestro di musica) dice che in Francia s’annida tutta la feccia dell’universo, ma io non lo credo affatto. Penso anzi che il cuore di quella città batta grazie agli artisti e ai puri di cuore (e spero che il tuo Paul sia l’uno, l’altro o entrambe le cose). Quando potrò tornare a Parigi? Vorrei anch’io un Paul nella mia vita! Non fraintendere: non provo invidia. Padre Frankly (che da qualche tempo chiamiamo affettuosamente Mr. Shankly) mi ha messo in guardia da questo terribile vizio capitale: dice che l’invidia è la figlia prediletta del peccato, sorella dell’odio, seguace di Caino e nemica giurata del Santissimo Amore di Cristo. Mia cara amica, ti abbraccio forte. La mamma chiede se da voi i manicotti di volpe sono considerati volgari indosso alle vedove. A presto, Sophie.
Parigi, 30 Luglio 1825 Carissima Sophie, Il piccolo Pete deve rimanere dove sarebbe sempre dovuto restare: lontano da te, sulla soglia del tuo portone, con la testa china, a consegnarti il latte. Mi raccomando: è di fondamentale importanza che tu non lo frequenti, che non ti dia confidenza e che tu non ti faccia mai vedere in sua compagnia. Mia cara Sophie, non rispondere a quel biglietto, anzi distruggilo. L’onta di cui suo fratello s’è macchiato è troppo grave. In ogni caso non ti sposerebbe mai. Non puoi permetterti di perdere tempo con un lattaio. Non vorrai che la gente pensi che se vi sposate è solo per
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rimediare a un peccaminoso danno, vero? Come quella povera anima di Mary Sherwood. Dio misericordioso, non voglio nemmeno pensarci! Ricorda che qualunque cosa tu faccia ricadrà sulla tua famiglia, su Kathy. Dio non voglia! Passiamo a cose più liete… ho una grande, grande, grande notizia da darti: dopo la prima di quel tal Rossini di cui ti dicevo (S-U-B-L-I-ME!), dopo aver prenotato al Thèâtre-Italien uno dei palchetti centrali solo per noi, dopo una meravigliosa cena da Pierre, dopo una romantica passeggiata sotto la luna parigina, Paul mi ha chiesto di diventare sua moglie! Sì, lo so che è un poco avventato. Ma mia cara Sophie! Quando mi ricapiterà una cosa simile? Ho ormai ventuno anni: le nostre madri, alla nostra età, s’eran già maritate ed erano in dolce attesa: mia madre aspettava Emily e la tua il piccolo Edward! E comunque non lo sposo avventatamente: lo amo tanto. Ha già dato prova di grande sensibilità, di classe e moderata benché castissima passione. Ti prego di non dire nulla a nessuno, la cosa non è ancora ufficiale. Voglio aspettare che il mio caro Paul lo dica al padre, che ora è in viaggio. Mi ha detto che potremmo celebrare il nostro Santo Matrimonio nell’antica cappella di famiglia, o addirittura nella cattedrale. Ma ci pensi?! Tu e Kathy, poi, potreste venire a trovarci, e mentre siamo in viaggio di nozze badare ai frutti del nostro amore (è usanza, qui, che le lune di miele durino parecchio. Quella di Mimì Lachance si è prolungata addirittura per un anno e mezzo!) Ci ho ripensato: dillo a tutti, mia cara amica. Sono tanto felice! Cara Sophie, ho un’idea magnifica: se tu dovessi rimanere nubile, potresti venire ad abitare con noi! Potresti sistemarti nella grande tenuta di Paul senza pagare il becco di un quattrino! E sai che gioia affidarti l’educazione dei miei figli? Ora ti saluto, ho appuntamento con Paul e sono già in ritardo, più del consentito. Un bacio, tua Eleonor. P.s. I manicotti di volpe sono assolutamente obsoleti! Dì a tua madre che la prossima stagione parigina punterà sui cincillà color miele.
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Liverpool, 21 Agosto 1825 Mia carissima Elly, Intuivo già la buona notizia prima che mi arrivasse la tua lettera! È tutto meraviglioso! A quando la data? A quando il matrimonio? Oh, mia cara, tutta la famiglia è in fibrillazione, tutta Liverpool attende con ansia i lieti sposini! Mi chiedono del viaggio di nozze. C’è chi ha puntato cento sterline, scommettendo che il primogenito sarà un maschietto! Tua madre è quasi svenuta dalla gioia! Padre Frankly inizialmente è rimasto un poco contrariato, per via della provenienza di Paul. Dice che il buon sangue inglese non dovrebbe mischiarsi a quello francese, ma sai com’è fatto: giura di accantonare la questione patriottica se accettate di risposarvi nella sua cappella, quella in cui andavamo da bambine. Oh mia cara, lo farai per me e per Mr. Shankly? Avete già deciso per il nido d’amore? Quando contate di poter venire a Liverpool? E l’abito! Cara Eleonor, hai scelto il tuo abito di nozze? Per quanto riguarda me, mia cara amica, non sono riuscita a seguire i tuoi amorevoli consigli: io e Pete siamo innamorati. Non so davvero con chi confidarmi. Lui ha continuato a corteggiarmi e io non ho saputo resistere ai suoi dolci sguardi. Non sa ancora nulla di ciò che provo, ma dice di volermi sposare subito. Mi ha introdotto alla sua famiglia: sono tutte persone rispettabili. Certo, vivono in una modesta casupola… Eleonor cara, che devo fare? Per quanto ancora potrò ignorare le sue suppliche? Per ora lo sto tenendo sulle spine. Un tuo consiglio in questo delicato momento potrebbe davvero essermi utile. Ti prego, rispondi presto. Con profondo affetto, tua Sophie. P.s. La mamma chiede se le pochette vanno bene anche di giorno o sono un accessorio da utilizzare solo di sera.
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Parigi, 12 Settembre 1825 Cara Sophie -stop- tutto annullato -stop- Paul vile cercatore di dote stop- io deflorata umiliata profondamente abbattuta -stop- prego non dire nulla a riguardo -stop- imminente ritorno a Liverpool -stoppochette solo sera -stop-
Liverpool, 4 Ottobre 1825 Cara Eleonor, Che terribile notizia, che nefasto giorno! Quando ho letto la tua strana lettera, tua madre è quasi svenuta per il dolore, padre Frankly ha annunciato di odiare la Francia e i francesi come il tacchino ripieno durante il digiuno quaresimale. Siamo tutti affranti e ti aspettiamo a braccia aperte. Ciò che ti è successo mi addolora, soprattutto in vista di quella che avrebbe potuto essere una lieta notizia anche per te: io e Pete ci sposiamo. Mia cara, non odiare la mia felicità. È gia tutto pronto. Mamma inizialmente non l’ha presa bene. Lo sai com’è fatta: ha voluto indagare sulle entrate della latteria, per accertarsi che nei prossimi anni lui non si riduca a fare il mantenuto. Le entrate, effettivamente, non sono un granché, ma Pete ha inaspettatamente ereditato una grossa somma da suo fratello Michael, il quale, purtroppo, è morto suicida ieri mattina. S’è lanciato in mezzo al traffico di Londra (lo sai quanta confusione c’è di mattina) e una carrozza reale l’ha preso in pieno. Leggendo il testamento abbiamo scoperto che il povero Michael ci ha lasciato i risparmi di una vita. Povera Mary Sherwood! Parliamo di grosse somme, tanto che pensiamo di lasciare Liverpool e trasferirci a Parigi. Mamma è quasi svenuta dalla gioia. Tu sarai sempre la benvenuta, nubile o maritata. Addoloratissima per il tuo dispiacere, ti auguro, perlomeno, un gradevole viaggio di ritorno. Mi sposerò il ventuno del mese prossimo. Spero tu possa esserci. Con amore, Sophie.
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Parigi, 11 Dicembre 1826 Sophie cara, È tempo che io vi spieghi come sono andate le cose. Voglio farlo perché non godrei appieno della mia vittoria, se la parte sconfitta e ingannata non sapesse d’esser tale (o almeno una delle parti ingannate non lo sapesse). D’altra parte, riceverete questa lettera a più di un anno dall’accaduto: credo sia un tempo sufficiente a evitarmi ogni preoccupazione su un eventuale riavvicinamento tra voi ed Eleonor. L’origine del mio piano risale all’estate del 1822, e cioè all’ultima volta che Eleonor venne a trovarvi a Liverpool prima dello scorso autunno. Vi racconterò come andò, ma non voglio esimermi dal precisare, a mo’ d’introduzione, che l’opinione che avevate di me (e che posso ben supporre avete tuttora) era molto limitata. Tale fattore non va certo annoverato tra le cause minori del mio successo: l’ignorante e rozzo lattaio che vi serviva quotidianamente e andava a sbrigare qualche commissione per vostro conto era sì un lattaio, ma scaltro, colto e di gusti raffinati, ottimo conoscitore di Shakespeare e dei tragici greci. Altro fondamentale errore da parte vostra fu l’innamorarvi di me, che vi portò a nutrire nei miei confronti, credendo d’essere ricambiata, più fiducia di quanta ne meritassi. Mi ricordo che arrivai a casa vostra, quell’estate, proprio nel momento in cui abbracciavate Eleonor, appena giunta, tra mille esclamazioni di gioia. Vi dico sin da adesso che me ne innamorai follemente: quei corti boccoli castani che arrivavano appena a ricaderle sulle gote lisce, tonde e perfette; quella figura esile ma ben proporzionata; quell’incedere elegante, sinuoso, affascinante, sensuale; quel sorriso che (lo notai subito) le procurava un leggero e sublime appiattimento del labbro superiore… Iniziai a ordire la mia trama sin dal giorno stesso: non potevo aspettare. Il pensiero di Eleonor era allo stesso tempo così nuovo e così insistente da non poter rimandare: dovevo trovare il modo di possedere quella donna. L’occasione me la forniste voi, inconsapevolmente. Una mattina, non appena vi feci la mia consegna, mi chiedeste di spedire una lettera. Penso ricordiate bene quel giorno: faceste la vostra richiesta ad alta voce, per non destare sospetti in vostra madre, che era lì a pochi metri di distanza. Mi deste sì una lettera, ma facendo bene attenzione a porgermela in modo che leggessi il nome del destinatario, vale a dire il mio. Eleonor era già andata via da qualche giorno.
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Quella vostra lettera d’amore la conservai e la studiai a fondo. In seguito cominciaste ad affidarmi davvero l’incarico di spedire le vostre missive, indirizzate soprattutto a Eleonor. Vi posso assicurare che, almeno dall’inizio di maggio dello scorso anno, non gliene arrivò nessuna. Ci misi più di due anni a imparare a memoria ogni singola peculiarità della vostra calligrafia (come vedete con successo) e ogni singola futilità del vostro stile. Per non parlare di quanta fatica ho fatto ad abbassarmi a trattare di certi insopportabili argomenti. Dovetti inventare pettegolezzi e frivolezze d’ogni genere, anche riguardanti la mia famiglia. Forse, adesso, cominciate a intuire il perché non riceveste più lettere da Eleonor, da allora: le intercettavo, le leggevo e le rispondevo a nome vostro. Il postino si fidava di me, come tutti, e non ebbe mai motivo di dubitare della mia buona fede quando mi offrivo di consegnare qualche lettera insieme al latte. Inutile dire che presentai il mio personaggio, di cui Eleonor, credo, si ricordava vagamente, in modo da esaltare una bontà d’animo e una gentilezza che mettessero in secondo piano la mia professione e le mie condizioni economiche. Inventai una mia dichiarazione nei vostri confronti, mal scritta ma sincera. Non funzionò: Eleonor pensava che l’unione tra una ragazza del vostro rango e un lattaio potesse suscitare qualche scandalo. Un altro ostacolo fu la sua relazione con un uomo, a Parigi. Fortunatamente si rivelò un impostore in breve tempo, ma dovetti far finta di gioire, in un primo momento, della loro relazione, e soffrire, poi, per la loro separazione. Inventai di aver ereditato una grossa somma da mio fratello suicida, somma in realtà non così enorme e frutto dei miei risparmi personali, e che mi avreste sposato. La invitai al matrimonio. Rispose, poco dopo, che sarebbe stata presente, chiedendo inoltre notizie di sua madre, dalla quale non riceveva posta da tempo, nonostante le spedisse numerose lettere. Ovviamente intercettavo anche quella corrispondenza, facendo in modo di interrompere i loro contatti. Nell’ultima lettera che scrissi a vostro nome non feci alcun cenno a proposito di sua madre. Voi eravate già mal disposta nei confronti di Eleonor, per un lungo silenzio che non vi spiegavate. Continuavate a credere di spedirle lunghe lettere, dapprima sempre più preoccupate, poi man mano stizzite e infine ingiuriose. Ma a Eleonor arrivavano le mie. Sua madre, come sapete, ormai sicura che fosse successo qualcosa di brutto alla figlia, organizzò i preparativi per un viaggio a Parigi. Per me, tutto si metteva per il meglio.
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Il giorno che Eleonor arrivò a Liverpool successe quello che sapete già, per averlo vissuto in prima persona. Sua madre era partita solo qualche giorno prima. Voi non sapevate del suo arrivo, e tanto meno lo desideravate (siete una pessima amica, dopotutto: avreste dovuto continuare a preoccuparvi per Eleonor e seguire la signora Rugby a Parigi). La scorgeste dalla vostra finestra e le faceste dire da qualcuno della servitù di non volerla vedere mai più, senza fornire ulteriori spiegazioni. Eleonor tentò di insistere ma dovette rinunciare. Si incamminò verso casa di sua madre. Io finsi di passare di lì per caso e la salutai, chiedendole come mai si trovasse da quelle parti. Stupita, mi raccontò dell’invito che aveva ricevuto. Le spiegai del vostro sentimento nei mie confronti, precisando che non lo ricambiavo e che tra voi e me non c’era mai stato nulla. Evidentemente incredula, Eleonor andò su tutte le furie e mi disse che sarebbe andata a chiedere spiegazioni a sua madre. Le dissi che era partita, ma finsi di non sapere per dove. Lei giudicò la cosa impossibile e volle andare ad accertarsene. Mi offrii d’accompagnarla. Inizialmente dubbiosa (sapete che non sta bene farsi vedere in giro con un lattaio?), infine accettò. Evidentemente aveva bisogno di conforto e si concesse di tralasciare le apparenze. La servitù non era al corrente dei fatti: la madre di Eleonor aveva tenuto segrete le sue preoccupazioni per non dare adito a pettegolezzi sul conto della figlia. Aveva mascherato la sua partenza da viaggio di piacere, a tempo indeterminato. Eleonor cominciò a farsi scura in viso, e non poté reprimere le lacrime. Volle tentare di nuovo a casa vostra, come sapete senza successo. Non aveva dove andare, così le offrii un pasto in casa mia e le feci credere di rammentare, improvvisamente, di aver ascoltato uno scambio di battute tra sua madre e voi, nel quale si parlava di un viaggio a Parigi. Potete immaginare come andò a finire: non ci misi molto a ingraziarmi Eleonor. Dopotutto sono un bell’uomo e so come comportarmi con le signore. Inoltre la tirai fuori da una brutta situazione. Vi dirò solo che la sua opinione sui lattai è radicalmente mutata. Riuscimmo a rintracciare la madre, una volta a Parigi, e le raccontammo del vostro comportamento. Mi dimostrai indignato, al pari della signora Rugby, del fatto che avevate tenuto nascoste le lettere di Eleonor che in realtà non vi erano mai arrivate e del fatto che avevate finto un matrimonio che in realtà non avevate mai finto. Ora di sicuro vi spiegate perché cessarono i contatti anche con la signora.
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Io ed Eleonor ci siamo sposati circa tre mesi fa. Domattina partiremo per Lione, alla volta della nostra nuova dimora. Lì ci sono certi miei parenti che mi hanno procurato un buon lavoro. Non cercate in alcun modo di riprendere i contatti con la vostra amica d’un tempo: a Lione non conoscete nessuno, e non avete il nostro indirizzo. Anche in caso riusciste a rintracciarci non godreste della benché minima credibilità, dati i vostri presunti misfatti. Non pensate, poi, di far leggere questa lettera a qualcuno per provare le mie malefatte: sarebbe motivo di scandalo, e so bene quanto ci tenete a evitare che ne succedano; inoltre ho distrutto tutte le lettere che si presume voi abbiate scritto a Eleonor, e il loro mancato ritrovamento potrebbe far dubitare che le avete distrutte voi. In ogni caso siamo geograficamente troppo lontani perché possiate pensare di crearmi dei problemi. Vi confesso però che mi piacerebbe se ci provaste: ho sempre avuto la mania dei giochi atti a stimolare l’ingegno, e vorrei poter giocare altre partite con voi, per ingannarvi di nuovo. Come vedete, mi sono brillantemente aggiudicato la vittoria nella prima, magari con un po’ di fortuna dalla mia parte, lo ammetto. A voi, se volete, la prossima mossa. Badate: potrei avervi mentito, anche in questa lettera, su tutto o solo su una parte di ciò che vi ho raccontato. Al contrario, potrei aver detto nient’altro che la verità. Vi saluto con la vostra firma. Sophie.
Con la lettera del 12 settembre 1825 Eleonor Rugby fu precorritrice inconsapevole del linguaggio telegrafico. Il suo stato psicologico, fortemente influenzato dalla delusione amorosa, non le permise, evidentemente, di prolungarsi in spiegazioni più esaurienti sull’accaduto. Il telegramma, com’è noto, comincerà a essere utilizzato a livello di massa solo in seguito.
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RACCONTO DI UNA CAMERIERA INESISTENTE
In ogni città del mondo esiste un locale come il Fantutte. Caratterizzato da un'affluenza variabilissima, il Fantutte si distingue, nel weekend, per le lunghe file di clienti in attesa, i quali divengono piuttosto irascibili in caso qualche furbo tenti uno scavalcamento di posizioni. Un venerdì sera, avvistata una coppia che tirava dritto verso l'entrata come se niente fosse, la folla si è amalgamata assumendo le fattezze di uno scarpone da montagna, con tanto di stringhe e punta ferrata. I due vicentini sono stati rinvenuti quattrocento metri più in là, sulla cima di un pioppo di mare. Se nel fine settimana il periodo d'attesa varia dai quarantacinque ai novanta minuti, infrasettimanalmente il Fantutte risulta pressoché vuoto, diventando il punto di ritrovo ideale dei giocatori semi-professionisti di calcio balilla del quartiere, che amano cimentarsi in impressionanti tour de force di un centinaio di partite a sera. C'è chi giura di aver udito, dall’esterno, un baccano del tutto simile a quello provocato dalla finale Brasile-Italia dei mondiali del novantaquattro. Un po' bar di quartiere, un po' locale ricercato, il Fantutte è situato nella prima periferia della città e accoglie migrazioni di paganti in fuga dai luminosi locali del centro che prediligono aree più metropolitane e vagamente malsane, di cui il Fantutte è fiore all'occhiello. La clientela più altolocata ama il locale per l'atmosfera alla mano, per i prezzi popolari, per la carica di genuina vitalità e per la presenza di bizzarri individui ostentatamente freak; coloro che abitano nei paraggi l'amano perché raggiungibile a piedi, perché gli si fa credito e perché provvisto di calcio balilla funzionante. Il locale è invece privo di un sistema di aerazione a norma ed è divenuto famoso, nel tempo, per la coltre di fumo abbastanza spessa, si dice, da poterla scheggiare con un coltello a mandorla per il grana padano. Perfino la polizia, durante un controllo, alla vista di cotanta compattezza si è complimentata offrendo da bere e distribuendo pacchetti di Merit al gestore e alle ragazze.
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Nelle serate di piena, allo scopo di mantenere stabile la qualità della coltre di cui sopra, è possibile fare acquisti rivolgendosi alle signorine vendisigarette, abbigliate con gilet bianco, papillon e banchetto appeso al collo. Come tutti i locali che si rispettino, anche il Fantutte ha funto da palcoscenico per la nascita di epocali amicizie, per rotture melodrammatiche e per violente limonate negli angoli. Negli ultimi anni, otto coppie conosciutesi tra quelle mura hanno deciso di convolare felicemente a nozze, organizzando come ringraziamento per il locale banchetti a base di olive, verdurine sott'olio e Campari soda per tutti. Di queste, solo tre hanno resistito più di un anno. Sandrina, di cinque anni, figlia di Marianna la capo vendisigarette e di Antonio capo cannoniere del calcio balilla, è solita ricordare ogni giorno alla maestra dov'è stata concepita, precisamente tra il jukebox e il distributore di lattine. Al Fantutte, ogni giovedì, si fa musica dal vivo. Il programma si è fregiato, negli anni, dei nomi di memorabili meteore della musica leggera. In un solo mese, registrando il tutto esaurito, si esibirono: Gli Ugola d'oro da Montecatini, premiati per la peggior canzone d'amore dell'annata 1978/79, intitolata Io e te nell’olio solare; Gerardo Casalino e il suo piano bar da Frosinone; Roberto Popé con la sua impeccabile imitazione di Celentano; Sandro de Asmundis in qualità di baritono, direttamente dai matrimoni di tutto il nord-est. In occasione di quell’indimenticabile aprile i musicisti, intimoriti dai racconti sulle numerose commozioni cerebrali riportate dai colleghi, costrinsero Mauro il gestore a montare una rete protettiva che separasse il pubblico dal palco. L’esibizione del maestro Casalino è ormai leggenda. A fine serata si appurò che il pubblico era riuscito a scagliare al suo indirizzo: diciotto bottiglie di Moretti, quindici bicchierini da rhum, due tavoli tondi, quattro paia di scarpe spaiate, un cane, due confezioni sottovuoto di pistacchi da aperitivo, i gusci dei pistacchi, i pistacchi che non si trovavano nelle confezioni, un fusto carico di birra dell’Alto Adige, due vassoi in metallo placcato lanciati a mo’ di frisbee, una sedia, Mauro stesso e trecentosettantacinque lire in pezzi da cinque. Si potrebbe supporre che la qualità della selezione musicale, in locali di questo tipo, sia piuttosto scarsa. In realtà non tutti sanno che, soprattutto dalla metà degli anni settanta a metà anni ottanta, il Fantutte è stato la mecca dei più grandi artisti internazionali, i quali solo dopo tali perigliose esibizioni riuscirono a rivelarsi al grande pubblico. Il Fantutte fungeva da trampolino di lancio per tutti quegli artisti che non riuscivano a fare il pieno in altri locali a causa di un troppo spiccato speri-
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mentalismo. Le reazioni del pubblico erano, in ogni caso, sempre le stesse: Mauro montò la sua prima rete protettiva nel 1979, la cambiò dieci anni dopo, quando ormai la maglia metallica era lacerata in più punti, sostituendola con una nuova di pacca l'anno passato. La ditta a cui si rivolse nel 1979 si chiamava Paggetti ed era tra le migliori in città. Il proprietario, un certo Agostini Michele figlio di Paggetti Antonio (la notizia del padre che non riconobbe il figlio fu per settimane sulle prime pagine di tutti i rotocalchi), fu incaricato inoltre di montare gli idranti di sicurezza, di fissare le teste di bufalo sul bancone e di perfezionare l'impianto idraulico nella toilette. Michele fu per anni la spalla di Mauro, e quando si decise a presentargli la figlia, tale Agostini Antonietta, mirava esattamente a quello che di lì a poco sarebbe successo. Il matrimonio si celebrò tre mesi dopo, nella casa paterna, con un meraviglioso sfondo bucolico e tutto il quartiere in ghingheri. Anche quell’occasione fu palcoscenico, tra gli invitati, della nascita di epocali amicizie, di rotture melodrammatiche e di violente limonate negli angoli, questa volta bucolici. La ditta di reti metalliche e il Fantutte, negli anni, furono protagonisti di parallele scalate economiche citate tuttora dai più autorevoli resoconti finanziari regionali. La moglie di Mauro, alla morte del padre, rilevò la ditta, che ormai valeva svariati milioni, la modernizzò in tutti i suoi aspetti e la portò a un livello di competizione inaudito per l'epoca. Quando, nel 1998, un pub rivale osò sfidare il prestigio delle serate fantuttiane ingaggiando per una serie di esibizioni i vincitori di Sanremo, il proprietario fu costretto a sostituire così tante reti che Antonietta poté permettersi un’intera squadra di camerieri e colf reclutati direttamente da Città del Vaticano. Nel periodo d'oro del locale ci si poteva ritrovare a dividere un tavolo con un Marzullo, una Pravo, una Mazzucato, un Ciampi, un Mandela, uno Sperduti, un Cecchetto o una D'avena. Benché avesse la possibilità di smettere di lavorare o affidare il locale a terzi, Mauro rimase e rimane ancora nella sua posizione abituale, ossia vicino ai fusti di birra, da dove può tener d’occhio Gennifer, un’assidua frequentatrice che non ha abbandonato negli anni l’abitudine di spillarsi autonomamente le pinte, ubriaca fradicia, allungandosi sul bancone per meglio raggiungere la leva. Per chi riuscisse a entrare al Fantutte durante il fine settimana, qualche consiglio: una volta superata la porta d'ingresso noterete, sulla destra, un individuo pagato per scaraventarvi fuori al minimo sgarro; sulla si-
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nistra, invece, un baracchino presso il quale bisogna mostrare, acquistare o rinnovare la propria tessera d'entrata. Il tesseramento, purtroppo, è obbligatorio, ma a chi di voi temerari volesse sfidare la sorte consiglio di passare più velocemente che potete, fingendo che siate usciti di lì da pochi minuti. Ricordate che solo ai frequentatori più assidui è concesso proferire le seguenti parole: “Mauro mi conosce, il dj è un mio amico, ho dimenticato la giacca e devo entrare a riprenderla”. Una volta superato l’ingresso potete rilassarvi, bere una spuma, accendere una sigaretta o mettervi a ballare. È necessario, a questo punto, dedicare due parole ai ballerini del locale. Ne esistono diversi tipi: ci sono i ballerini professionisti, che si lanciano sfide da una parte all'altra della pista, con lo sguardo, e nessuno si accorge di nulla finché con un doppio carpiato si palesa il vincitore; ci sono quelli che generalmente non ballano ma si lanciano in vorticosi e convulsi movimenti di bacino se attacca la loro canzone preferita: una volta terminata si sentono come nudi e schizzano nel più vicino angolo oscuro; ci sono poi quelli a cui non piace la musica e a cui non piace la gente, ma in cui il tasso alcolemico è tale che non possono fare a meno di roteare come indemoniati sulla pista (se poi l'indemoniato ha pure una sigaretta accesa non pensate di poterlo schivare: tornerete a casa con le braccia simili a un pezzo di mandorlato di Scaldaferro); ci sono infine i veri ballerini da locale: si divertono talmente e considerano così importante il coinvolgimento collettivo, che se il dj s'arrischia a mettere un pezzo poco gradito, si offendono tanto da esser capaci di mollar lì amici e fidanzati/e senza dir niente (i più irosi annunciano di dover andare in bagno e se la prendono invece direttamente col dj, il quale quasi sempre accetta di interrompere il brano per sostituirlo con uno più appropriato). Categorie più rare ma non meno pericolose sono quelle delle ragazze scoordinate sui tacchi e dei marpioni da pista. Ovviamente la tipologia dei ballerini è in buona parte determinata dalla serata. Il Fantutte ne offre una vasta gamma, ognuna con apposito dj (groupie e ballerini annessi). Incredibilmente, il bagno si situa in fondo a sinistra. Mauro e il signor Michele hanno più volte tentato di smantellare l'impianto idrico e di posizionarlo in fondo a destra, ma problemi di superiore competenza li hanno costretti ogni volta a rinunciare. Proprio come i migliori locali, invece, il Fantutte è munito di ottocento watt di potenza, distribuite su quattro casse della Yocosound; una sera del 1985 in cui si esibiva una band Hair Metal, gli allora celeberrimi Piccadilly Suicide, l’impianto non resse alle possenti schitarrate, che a metà concerto fecero crollare
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le graziose colonnine ioniche, spedite da poco da Massa Carrara, e il controsoffitto in amianto. I fusti della coca, durante l'ultimo ritornello, cominciarono a sibilare per poi esplodere, perforando il soffitto e atterrando giusto un mese fa, misteriosamente, nei pressi di Lentini in provincia di Siracusa. Sin dall’anno in cui Mauro si sposò, cominciò a crearsi un’intricata rete di incontri, di amori, di ripensamenti e di scambi di partner. Tutti arrivarono ben presto a conoscere tutti e a frequentare tutti: bastava dire - l'ho conosciuto al Fantutte - per generare reazioni di indignazione mista a curiosità. Per scongiurare il diffondersi di una brutta nomea, Mauro istituì una di quelle regole che sarebbero poi state osservate alla stregua di vere e proprie leggi: ciò che succedeva al Fantutte doveva rimanere dentro il Fantutte. Ora posso dilungarmi sull’aspetto più succulento del Fantutte: gli intrighi sentimentali. Negli ultimi anni la maggioranza della clientela, in special modo durante il fine settimana, è costituita da universitari, in prevalenza della facoltà di lettere e filosofia, i quali arrivano a frotte accompagnati dagli amici e dagli eventuali partner. Da qualche tempo tutta la facoltà si presenta puntuale, alle undici spaccate, sulla soglia del Fantutte. Un paio di loro si sono improvvisati dj con discreto successo, altri sono semplici clienti, altri ancora sono ormai riconosciuti all’unanimità come i migliori ballerini del locale dal 1975. Emanuela, una di queste studentesse, ha conosciuto una sera uno dei dj, tale Filippo. Hanno avuto una breve storia, finita un po' troppo presto per uno dei due. Un’altra sera Marta ha insultato questo tal Filippo perché la canzone non le garbava (vedi capitolo: “i veri ballerini da locale”). In seguito hanno fatto pace. Marco il magazziniere è colui il quale si sa meglio gestire la situazione: porta avanti varie relazioni, anche simultaneamente. Per un po' ha avuto una ragazza, soprannominata Citizen Kane, che è stata compagna di stanza di Peggy, la quale ha avuto per tre ore una storia bellissima con il magazziniere subito dopo che lui aveva piantato Citizen Kane. Marco, in ogni caso, le ha preferito ben presto la loro padrona di casa, Assunta, incaricata da Mauro (con cui si dice abbia avuto a che fare) di spolverare le bottiglie sugli scaffali più alti, sfruttando a tal scopo la titanica statura di due metri e otto centimetri. Quanto detto finora può bastare a rendere l’idea di come possano esse-
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re complesse le situazioni che vengono a crearsi al Fantutte. Non mi sarebbe possibile enumerare tutte le connessioni esistenti tra gli innumerevoli personaggi che ho avuto l’occasione di tener d’occhio, lì dentro, dalla privilegiata posizione di chi sta dietro il bancone a servire alcolici: posizione che ricopro da più di due anni, alternandola al servizio ai tavoli quando esso è previsto. In ragione di ciò sarà molto più facile concentrarsi su un caso particolare e tentare di dimostrare come da un singolo frequentatore sia possibile risalire, per gradi, alla totalità della clientela fantuttiana o a buona parte di essa. Non saprei spiegare perché, ma ultimamente c’è un tale che mi colpisce in modo particolare. È cliente abituale da qualche mese, ma a quanto va dicendo frequentava il Fantutte ai tempi dell’installazione della prima rete metallica, e afferma inoltre di ricordarsi perfettamente la performance del maestro Casalino, pretendendo di conoscere la verità sulla reale entità di ciò che gli fu scaraventato contro. Sostiene infatti, questo tizio sulla cinquantina che risponde al nome di Carlo Sperzucato, che la versione ufficiale sul conteggio degli oggetti rinvenuti a fine serata, vale a dire quella diffusa da Mauro, sia una balla bella e buona. Tuttavia, quando qualcuno gli chiede di spiegarsi meglio, scuote lentamente la testa come a sottolineare l’inutilità di una rettifica a distanza di così tanti anni. Qualche sera fa, però, sono riuscita a scambiarci qualche parola subito dopo avergli servito una bionda. Evidentemente era in vena di confidenze, e quando ha tirato fuori la storia della presunta falsificazione dei dati ho notato un velo di malinconia nei suoi occhi, chissà perché. In ogni caso mi ha svelato come andarono davvero i fatti. Mi ha assicurato di aver visto con i suoi occhi una scena che non è mai riuscito a dimenticare, a dispetto del tempo trascorso: pare che Mauro, durante la raccolta dei reperti, avesse intascato in tutta nonchalance una moneta da cinque lire. Se le cose stessero davvero così, la somma esatta dei proiettili d’Italma che avrebbero potuto martoriare il maestro Casalino nel lontano 1979 se solo non ci fosse stata quella benedetta rete metallica non ammonterebbe a trecentosettantacinque lire ma a ben trecentottanta unità della stessa valuta, la differenza essendo stata illegalmente confiscata dal mio allora giovane datore di lavoro. La possibilità che Mauro possa esser stato per così dire un mariuolo o un ladro e, come se non bastasse, che possa non aver perso il vizio oltre al pelo (cosa che in effetti ha perso più che abbondantemente) mi ha piuttosto stupita se non addirittura sconvolta. Tutto ciò, in ogni caso, è passato in secondo piano per ben due motivi.
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Il primo è che subito dopo questa storia delle lire il novello confidente ha cominciato a raccontarmene un’ altra non meno destabilizzante: evidentemente incoraggiato dall’epocale sbronza di cui era vittima ha cominciato a farfugliare strane cose, che evito di riportare perché un poco inquietanti, a proposito di un paesino di montagna (se ricordo bene Monte San Fausto). Il secondo motivo è che, come durante ogni sua ciucca, il barcollante individuo, terminata la narrazione, s’è gettato nella mischia con la chiarissima intenzione di rimorchiare. La cosa incredibile è che, nonostante l’età (fattore sul quale sono forse stata indulgente valutandola intorno ai cinquanta) e nonostante la concorrenza di tutte le giovani speranze maschili della facoltà di lettere e filosofia, ci riesce sempre. Non l’ho mai visto fallire, fatta eccezione per un’occasione che non posso però mettere in conto perché era solo al secondo drink. Così, Fantutte è diventato in breve, per lui, sinonimo di numerose avventurette e di un’energica dose di orgoglio mascolino. Nel momento esatto in cui Mauro afferrava i polsi di Gennifer impedendo modalità non ammesse di spillaggio e in cui Citizen Kane, con tutta evidenza, rivangava antichi rancori abbaiando in faccia al magazzinere; nel preciso istante in cui Peggy colpiva con impeccabile mira l’occhio destro di Assunta con una ben compattata palletta di carta fuoriuscita con gran propulsione da un’artigianale cerbottana in pura cannuccia da cocktail; nell’attimo precipuo in cui Filippo, di turno al banco da dj, mandava in play un più che noto brano di Bowie provocando reazioni pressoché epilettiche in un più che noto fan di Bowie, la sigaretta del quale non mancò di proiettare lapilli incandescenti a distanze superiori ai quattro metri e mezzo sfigurando gli avambracci di almeno tre avventori e inquinando non meno consumazioni; ebbene è stato proprio allora che ho visto lo Sperzucato presentarsi a Marta, rimanendo un poco di sasso, saprà lui perché, nell’apprendere il nome di lei. Inutile dire che nel giro di un’ora o poco più i due erano spariti insieme. Bene, ora che sono arrivata a stabilire una connessione tra due clienti qualsiasi del Fantutte, il gioco è fatto: ci si può divertire. Marta ha una sorella di nome Elena, la quale in fatto di gusti non gradisce rapporti etero. È nota a tutti la breve relazione che ha avuto con Betty, che non disdegna invece di passare di quando in quando da una sponda all’altra. In questo va molto d’accordo con Citizen Kane, con cui ha condiviso per breve tempo, oltre alla stanza, un certo Giordano, meglio conosciuto nel locale come il fratello di Filippo. Quest’ultimo,
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avendoci provato (ovviamente senza successo) con Elena, si è accontentato di Emanuela, con la quale, si è già detto, è durata poco. Un po’ di più è durata invece tra Emanuela e Giordano, il quale molto stronzamente, per dirla in due parole, ha soffiato la ragazza a Filippo, che non si è però perso d’animo spassandosela due o tre volte con la più anziana Assunta. Come sappiamo Assunta, oltre ad aver presumibilmente avuto a che fare con Mauro (notizia, per quanto se ne sa, mai arrivata alle orecchie della moglie Antonietta) ha avuto e continua ad avere una relazione con Marco, che annovera tra le sue numerose conquiste anche Marta. Lo Sperzucato, dal canto suo, nel giro di pochi mesi è riuscito a portarsi a letto, tra le altre, Assunta Peggy e Citizen Kane (le ultime due in contemporanea, a quanto si dice rischiando ripetutamente arresti cardiaci). È facile notare, a questo punto, come le donne in comune tra Marco e Carlo siano almeno quattro e come Marta, a esempio, abbia almeno due uomini in comune con almeno tre donne. Ma c’è di più. Pare che lo Sperzucato abbia scoperto, grazie a certe indiscrezioni di Marta, che sua sorella Elena altri non è che l’ex di una ex di Filippo, ossia di Stella. Pare anche che a Filippo non farebbe piacere venire a conoscenza della bisessualità di Stella, cosicché lei sta bene attenta a non far notare in pubblico il suo flirt con una certa Marilena, recente acquisto del Fantutte nel ruolo di arbitro durante i tornei di calcio balilla. Detta Marilena, peraltro, figura nella lista delle conquiste di Marco, mentre suo fratello (il più che noto fan di Bowie) figura giusto da un paio di giorni in quella di Filippo, che stanco delle troppe delusioni ha deciso di esplorare nuovi territori, non prima di aver accoppato Giordano, trovato sanguinante e a rischio di amputazione di testicoli in un vicoletto buio poco distante dal Fantutte. Il più che noto fan di Bowie, da parte sua, ha più volte tentato esplorazioni in senso inverso, avendo successo in un paio di occasioni con Marta e, sembra, con l’ormai anziana Antonietta (su quest’ultima notizia le fonti sono contraddittorie). Ora, è bene sottolineare che io, in tutto ciò, ci sto dentro fino al collo. Dopo esser stata un paio di volte con Filippo ho deciso di mollarlo per iniziare il più che noto fan di Bowie alle dette esplorazioni, cosa che, evidentemente, deve avergli garbato alquanto. Una volta resami conto che, tutto sommato, avevo provocato una seria crisi di identità sessuale nel più che noto, ho deciso di non peggiorare la situazione e concedermi qualche afrodisiaco rendez-vous con Marco, il quale non è stato però troppo all’altezza delle mie aspettative e della sua fama. Così ho deciso anch’io di esplorare nuovi territori e non ho avuto difficoltà a pro-
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curarmi la collaborazione di Elena in un primo momento e di Betty in un secondo. Betty non si è fatta scappare l’occasione di propormi una seratina in compagnia di Citizen Kane, che manco a dirlo ho accettato di buon grado. Avendo preso confidenza coi nuovi territori ho voluto dedicarmi per qualche giorno a Stella, che ho poi preferito lasciare a Marilena per non creare tensioni tra i dipendenti. A quel punto son tornata sui miei passi e mi sono rivolta a Giordano. Spero che Filippo non lo venga a sapere: le condizioni del fratello sono già abbastanza drammatiche. In questo momento lo Sperzucato sta uscendo dalla doccia e io smetto di scrivere: preparo un pranzetto. Pranzetto fatto e Carlo andato. Non male lo Sperzucato!
Il testo riportato è un estratto di un documento più ampio. Con tutta probabilità si tratta di alcune pagine strappate da un diario, di cui purtroppo non è stata trovata traccia. Questi e altri fogli ingialliti, di contenuto molto simile, sono stati rinvenuti in un’abitazione in località Monte San Fausto, un borgo abbandonato. L’occasione del ritrovamento è stata una ricerca condotta da alcuni frequentatori del Fantutte a proposito di una serie di sinistri avvenimenti che ebbero luogo qualche anno fa nello stesso paese, e di cui sarebbero venuti a conoscenza tramite i racconti di Carlo Sperzucato. A detta loro nessuna delle persone nominate nel documento, tutte realmente esistenti, ha mai conosciuto la presunta autrice di queste pagine. D’altra parte, testimonia Mauro, al Fantutte non si assume nuovo personale da più di quindici anni, con l’eccezione di Marilena. Il gestore ci tiene inoltre a precisare di non aver mai cornificato la consorte e di non aver commesso il furto di cinque lire di cui viene accusato nel misterioso manoscritto. In ogni caso sembra che, in seguito al singolare ritrovamento, sia sorto più di qualche dissapore fra i clienti del Fantutte. Carlo Sperzucato è sparito nel nulla: alcune testimonianze lo vorrebbero residente a Hiding Place, ma accurate ricerche hanno dimostrato che non esiste, in tutto il globo terrestre, una città con questo nome, se non nelle pagine di un poco noto racconto di recente pubblicazione. CONTINUA...