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DESCRIZIONE: In un mondo evoluto dove la tecnologia è quasi inesistente e la magia è all'ordine del giorno, Amanda Sheldon resta coinvolta suo malgrado in un'oscura vicenda di omicidi seriali, apparentemente legata al ritorno di qualcuno che sperava fosse sparito per sempre dalla sua vita.
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Impiegato, traduttore a tempo perso, l'autore è da sempre un avido lettore e scrive da quando ne ha memoria. In tempi recenti si è dedicato con maggiore impegno a questa attività, dando vita al mondo di Anthuar, in cui questo romanzo è ambientato. Ha scritto anche il romanzo “Trittico Oscuro” (2009, Zerounoundici Edizioni)
Titolo: Riflessi d'ombra Autore: Valerio Massimo Tidona Editore: 0111edizioni Collana: Selezione Pagine: 170 Prezzo: 14,00 euro
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LA BANDA DEL BOOKO (CHE SI LEGGE BUCO) ANONIMA SEQUESTRI ovvero PERSONAGGI RAPITI
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Carmelo Massimo Tidona
RIFLESSI D’OMBRA
www.0111edizioni.com
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RIFLESSI D’OMBRA 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2009 Carmelo Massimo Tidona ISBN 978-88-6307-240-2 In copertina: Immagine www.shutterstock.com Finito di stampare nel mese di Dicembre 2009 da Digital Print Segrate - Milano
RIFLESSI D’OMBRA
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CAPITOLO 1 Ombre
Kate aveva attraversato la giornata come muovendosi nella nebbia, passando da un’attività all’altra senza davvero focalizzare la sua attenzione su quello che stava facendo. La sensazione di angoscia che l’aveva attanagliata fin dal mattino, quando si era risvegliata da un sogno oscuro e confuso che non aveva lasciato tracce nella sua memoria se non quella sottile inquietudine, non era diminuita col trascorrere del tempo. Anzi, sembrava quasi essersi gradualmente acuita fino a divenire insostenibile. Seduta di fronte alla signora Lovelock, l’ultima cliente del giorno, fissava le carte disposte sul tavolo senza davvero vederle, incapace di trarne un significato. La donna grassoccia dall’altro lato la guardava con la bocca perpetuamente dischiusa in una piccola “o” che avrebbe potuto essere di sorpresa, di attesa, o semplicemente di stupidità congenita. Passò una mano sul drappo celeste, radunando le carte e ricomponendo il mazzo, per poi rimescolarlo. «Mi dispiace, devo riprovare» annunciò in tono pacato. La “o” della signora Lovelock si espanse appena, ma la donna non profferì parola. Quando Kate le porse il mazzo, lo tagliò con la mano sinistra e si rimise in attesa. La veggente riprese a disporre le carte sul piano del tavolo, poi le scoprì lentamente, una alla volta. La prima carta, posta quale braccio sinistro della croce formata sul tavolo, era capovolta. Il disegno su di essa rappresentava il disco solare, sotto cui un uomo sollevava un fanciullo verso il cielo. Ai suoi piedi, tentacoli d’ombra si contorcevano, come tentando di sfuggire alla luce proveniente dall’astro. La seconda carta, sul lato opposto, raffigurava un uomo anziano intabarrato in una tunica rossa. Procedeva lungo una strada invisibile, appoggiandosi a un bordone e tenendo con l’altra mano una lanterna accesa. Un cappuccio copriva gran parte dei suoi lineamenti. Kate scoprì quindi la carta che
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aveva di fronte a sé: un uomo appeso per una caviglia a una forca. Il ginocchio dell’altra gamba era piegato, e il polpaccio incrociava quello della prima. La veggente ristette per un attimo immobile, osservando le tre carte scoperte. La mano le restò sospesa a qualche millimetro dall’ultima carta rimasta coperta, mentre la consapevolezza si faceva strada nella sua mente: quella lettura non riguardava l’ennesima richiesta della signora Lovelock in merito a quando avrebbe trovato il suo prossimo marito. Riguardava lei. Pur allenato a mantenere un’espressione neutrale durante il lavoro, quali che fossero le informazioni che doveva riferire, il suo volto dovette in qualche modo mostrare le sue perplessità, a giudicare dal fatto che la sua cliente si sporse in avanti, scrutando le carte come se in qualche modo potesse interpretarle a sua volta, e le domandò «Cosa ha visto? Qualche problema?» «No, no... Niente anche questa volta... Credo di essere un po’ stanca» cercò di tranquillizzarla Kate, mentre pensava a come fare altrettanto per se stessa «Forse sarebbe meglio se per questa sera chiudessimo qui...» La signora Lovelock sgranò gli occhi alle dimensioni di due piattini da caffè. «Ma come...? Non mi ha detto ancora nulla!» «Certo, lo so. Ovviamente non mi deve nulla per oggi. Anzi, facciamo così, la prossima consultazione sarà gratuita, per farmi perdonare. Insistere ora sarebbe davvero inutile, mi creda.» La donna parve pensarci un po’ su, poi assunse un’espressione condiscendente. Kate immaginò che l’idea di sentirsi dire gratis per una volta le stesse cose che in genere pagava per ascoltare avesse fatto presa nel suo intelletto, o almeno nel suo cristallo di credito. «D’accordo, se la mette così... Voglio dire, se davvero sarebbe inutile riprovare...» «Se non ho ricavato niente da due letture, una terza o una quarta non cambierebbero nulla. Davvero.» «Allora tornerò la prossima volta. Ma non è necessario che...» Non completò la frase, forse per paura che la veggente potesse prenderla troppo sul serio e concordare sulla mancata necessità di una prestazione gratuita. «No, no, non si preoccupi, ci tengo, e poi lei è una cliente affezionata.» E quest’ultima affermazione non si poteva davvero negare, in genere il vero problema con la signora Lovelock non era indurla a tornare, ma liberarsene. Cosa che si stava dimostrando vera anche in questa
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occasione. «Allora arrivederci» disse infatti la donna senza accennare a muoversi. Se non fosse stata già in piedi, probabilmente non si sarebbe neppure alzata. «Ma non ha visto proprio nulla nulla? Nemmeno un accenno...» Kate girò attorno al tavolo e la prese con gentilezza per un gomito, sospingendola appena in direzione della porta con fare indifferente. «No, nulla davvero.» Nulla che riguardasse i suoi affari di cuore, almeno. «La accompagno alla porta.» Quell’ultimo sollecito fece sì che, se non altro, la donna si voltasse in direzione dell’uscita. Occorsero però numerose altre raccomandazioni e rassicurazioni prima che, passo dopo passo, si decidesse a raggiungerla, e infine addirittura oltrepassarla. Non appena il miracolo si fu compiuto, Kate chiuse a chiave la porta e ci si appoggiò con le spalle, sospirando, un po’ per rilasciare la tensione, un po’ per assicurarsi che l’altra non rientrasse per chiedere un’ulteriore conferma. Attese un po’, facendo lunghi respiri per schiarirsi la mente, e al tempo stesso valutando se fosse il caso di guardare o meno l’ultima carta. Decise, infine, di averne avuto già a sufficienza, e d’impulso tornò al tavolo, radunando nuovamente tutte le carte e rimescolando il mazzo per pura abitudine, senza alcuna vera necessità. Quindi raggiunse la porta sul retro e uscì a sua volta, chiudendosela alle spalle. Si avviò a piedi verso il suo appartamento, a soli due isolati dallo studio. Era arrivata già a metà strada quando si rese conto di tenere ancora strette in mano le carte. Rimase per un istante a fissarle, sentendosi stupida, poi riprese il cammino, ritenendo inutile tornare indietro apposta. Le avrebbe portate con sé andando a lavoro il giorno dopo. Poco dopo stava oltrepassando la soglia di casa sua. «Luce», disse in un sussurro, e subito l’ingresso venne rischiarato dalla morbida luminosità dei globi che fluttuavano negli angoli, vicino al soffitto. Qualunque fosse l’oscura minaccia presagita dal sogno e dalle carte, l’appartamento non sembrava esserne influenzato; la sensazione che le dava era quella del rifugio sicuro di sempre. Poggiò le chiavi sul tavolino accanto alla porta e mise lì anche il mazzo di carte, così da non dimenticarlo quando fosse uscita, la mattina dopo. Non sarebbe stato un grosso danno, visto che ne aveva diversi di scorta allo studio, tuttavia si trattava del suo preferito e non aveva voglia di sostituirlo, anche se solo per poco.
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Stava dirigendosi in cucina, per prepararsi una tisana, quando la sensazione di disagio, affievolitasi quando aveva messo piede in casa, tornò a farsi sentire, più forte di quanto non fosse stata fino a quel momento. Sebbene nulla attorno a lei fosse cambiato, l’accogliente dimora adesso le sembrava essere una trappola letale, da cui avrebbe fatto bene ad allontanarsi, a fuggire finché c’era ancora tempo. Ammesso che ce ne fosse. Ruotò su se stessa, abbandonandosi all’angoscia che la pervadeva. Corse verso la porta, abbassò la maniglia e tirò, senza che il battente si muovesse di un solo centimetro. In preda al nervosismo tirò e scosse la porta più volte prima di comprendere che era chiusa a chiave; l’aveva chiusa lei stessa dopo essere rientrata. Se non si fosse sentita ancora in trappola si sarebbe data della stupida. Allungò la mano e lo sguardo verso il tavolino dove si trovavano le chiavi, e fu allora che vide l’ombra muoversi sul pavimento, come se qualcuno, o qualcosa, stesse passeggiando davanti a casa sua, frapponendosi tra l’ingresso e la luce del pianerottolo. Un ragionamento che avrebbe di sicuro avuto più senso se ci fosse stata una luce dall’altra parte, se l’ombra si fosse stagliata su un’area illuminata dall’esterno e non fosse stata, come invece era, semplicemente in terra, come una chiazza liquida di inchiostro nero. L’anomalia non ebbe il tempo di raggiungere la parte razionale del suo cervello, perché l’oscurità prese a muoversi come non avrebbe dovuto fare, risalendole lungo gli stivali come una cosa viva. Kate indietreggiò d’istinto, cercando di scrollarsela di dosso, con l’unico risultato di estenderla come fosse stata un elastico. La vide risalire fin oltre il bordo degli stivali e poi lungo i polpacci, coperti solo dai collant. Non provò alcuna sensazione tattile a quel contatto, se tale lo si poteva definire, solo una sensazione di gelo che la intorpidiva, tanto che quando cercò di fare un altro passo indietro non riuscì a mantenere l’equilibrio e cadde, ritrovandosi dolorosamente seduta in terra un istante dopo. Non sapendo che altro fare si piegò in avanti e allungò le braccia verso gli stivali, nella folle speranza di riuscire, togliendoli, a sfuggire alla presa del suo oscuro assalitore. Tentò di afferrare il tessuto delle calzature nel punto in cui era libero dalla presenza dell’ombra, e fallì miseramente, come le comunicò il freddo intenso che le assalì la punta delle dita, facendogliele ritrarre di scatto. La sensazione non svanì, e Kate osservò con orrore macchioline nere che le si agitavano sui polpastrelli, come piccole orde di formiche carnivore, per poi riunirsi in
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sottili tentacoli oscuri che risalirono spiraleggiando le sue falangi, proseguendo poi lungo le mani e fino ai polsi. In quel momento un urlo lancinante lacerò il silenzio, e dovettero passare diversi secondi prima che si rendesse conto che proveniva dalla sua gola. Lo sconforto che l’aveva attanagliata per tutto il giorno ora aveva in qualche modo un volto, se non un corpo – giacché l’ombra appariva del tutto priva di sostanza, come era logico attendersi da essa dopotutto – cosa che però non migliorava affatto la sua situazione. Il suo sguardo si posò frenetico su tutto ciò che poteva raggiungere, cercando qualcosa che potesse esserle d’aiuto, senza trovarla. Non aveva mai voluto un cristallo di comunicazione – per qualche ragione usarli le causava un forte mal di testa – e mai prima di allora se ne era pentita, ma in quel momento desiderava con tutte le sue forze di poterne far materializzare uno nel palmo della sua mano. Un desiderio che di sicuro non si sarebbe mai realizzato. Sperare che le sue urla facessero accorrere i vicini era quasi altrettanto inutile, il massimo che poteva aspettarsi era che il giorno dopo andassero a lamentarsi in massa con l’amministratore perché li aveva disturbati. Rendendosi conto che la sua unica speranza era quella di riuscire a uscire di casa e scendere in strada, fece appello a tutta la forza che possedeva per riuscire a rimettersi in piedi. Non provava dolore, ma gli arti anestetizzati dal freddo la rendevano goffa e impacciata. Riusciva a muoversi ma non sentiva nulla nelle mani e nelle gambe da metà coscia in giù, e il primo, incerto passo che tentò di compiere una volta in piedi, più che farla avanzare la portò a precipitare in avanti, urtando con forza la spalla sinistra contro il tavolino. Il dolore la aiutò a riprendere coscienza di sé, anche se per poco. Con un movimento sgraziato, gettò l’inerte mano destra a cercare le chiavi e la strinse attorno a qualcosa; vide le sue carte spargersi sul pavimento e capì di aver sbagliato bersaglio, e che era ormai troppo tardi per riprovare. L’ombra le aveva ricoperto quasi tutto il corpo, sentiva il torpore e il gelo aggredirle la pelle dai piedi fino alle spalle, continuando a risalire per quel poco che ancora restava. Un istante prima che anche il suo volto venisse fagocitato, e il suo mondo divenisse completamente nero, il suo sguardo si posò sull’unica carta che le era rimasta in mano, parzialmente accartocciata tra le sue dita; su di essa si scorgeva una donna velata con tra le mani un manto nero che, Kate sapeva pur non potendolo vedere, stava usando per coprire un uomo in ginocchio. La Notte.
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CAPITOLO 2 Dal passato
Reduce da una giornata tutto sommato tranquilla all’università, Amanda passeggiava senza troppa fretta per le vie del centro, godendosi la lieve brezza serale che, sebbene continuasse a farle scendere sul volto un ricciolo particolarmente ribelle, la metteva di buon umore. Come programmato, il cielo era sereno e la temperatura gradevole; era senza dubbio la giornata adatta per una grigliata in giardino, il che del resto era il motivo per cui Shim avesse deciso di organizzarla proprio per quella sera. Amanda non era molto entusiasta all’idea di passare la serata in mezzo a un gran numero di persone, alcune delle quali considerava a stento dei conoscenti; in tutta onestà aveva più che altro una gran voglia di mettersi comoda nel suo salotto con un buon libro tra le mani, ma le occasioni in cui il nano si spingeva al punto da organizzare un evento sociale erano talmente rare che non se ne sarebbe persa una per tutto l’oro del mondo, e in più gli aveva promesso che sarebbe andata lì prima degli altri per dargli una mano con i preparativi. Doveva solo fare una piccola commissione, poi lo avrebbe raggiunto. Non si soffermò a guardare le vetrine, concedendo una piccola eccezione solo a quella di una pasticceria che esponeva una gran profusione di dolci dai colori e aspetti più disparati, e si diresse spedita verso l’unica che le interessava, sormontata dall’inquietante riproduzione di un paio di occhiali che con ogni probabilità sarebbero andati larghi perfino a un gigante. Non che lei ne avesse mai visto uno che indossava delle lenti, a dire il vero. Lei, al contrario, ne aveva avuto bisogno fin da piccola. Non era cieca come una talpa, anche senza vedeva in maniera quasi decente, ma comunque non poteva, né voleva, farne a meno per lunghi periodi. Sapeva che un piccolo intervento avrebbe risolto il suo problema in via definitiva, tuttavia la situazione della sua famiglia le aveva impedito di farlo quando era piccola – erano cose da maghi, e i maghi specializzati in simili discipline non erano mai economici – e adesso che poteva permetterselo era ormai tanto abituata
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agli occhiali da non ritenerlo davvero necessario. Quando fece il suo ingresso nel negozio, salutando con cortesia, una commessa bionda e minuta le sorrise per poi sparire sotto il bancone, lasciando riemergere solo una mano che si produsse in un gesto vago. Amanda dedusse che le stesse dicendo di attendere – cosa che del resto avrebbe fatto comunque – sebbene il movimento avrebbe potuto significare qualunque cosa, da un insolito saluto alla richiesta d’aiuto di qualcuno che sta per annegare, quest’ultima resa improbabile solo dal fatto che non vi fosse un lago al posto del pavimento. O, almeno, non dal lato in cui si trovava lei. Pochi istanti dopo, la commessa riapparve tenendo in mano un paio di occhiali e annunciando giuliva «Eccoli qui!», come se più che prenderli da un cassetto li avesse appena estratti dal sottosuolo dopo un lungo e faticoso lavoro di scavo. Amanda le sorrise e si avvicinò per prenderli, non riuscendo a resistere alla tentazione di lanciare un occhiata al di là dell’ampio bancone in vetro e legno. Restò quasi delusa dal vedervi solo la continuazione del pavimento, senza alcuna traccia di stabilimenti balneari o siti archeologici; si consolò indossando la sua nuova montatura, e constatando che le stava a pennello. «Abbiamo fatto il possibile per il vecchio paio,» la stava intanto informando la ragazza con l’aria contrita tipica del dottore che ha appena perso un paziente «ma non era recuperabile, troppo rovinato. Come ha fatto a ridurli a quel modo, se posso chiederglielo?» «Frana...» borbottò Amanda senza neppure rendersi conto di averlo fatto ad alta voce, almeno non finché uno stupito «Come ha detto?» della commessa glielo palesò. «Ah... dicevo che sono una frana» si affrettò a correggersi, non le sembrava il caso di spiegarle che erano finiti sotto un masso mentre collaborava alla demolizione della volta di una caverna allo scopo di seppellire un demone «Li dimentico sempre nei posti più strani, e l’ultima volta li ho ritrovati... be’, ha visto in che condizioni erano...» «Sì... già. Ha pensato di metterci sopra un incanto di protezione? O una runa del ritorno? Per un piccolo sovrapprezzo...» «No, no, grazie... credo che mi limiterò a prestare più attenzione a dove li metto, non voglio darmi un’altra scusa per abbandonarli dove capita.» «Capisco» replicò la commessa col tono di chi non capiva affatto «Comunque si ricordi che è possibile incantarli anche in seguito, in qualunque momento.» «Sì, grazie» rispose Amanda sorridendo, e le porse il polso col suo
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braccialetto bene in vista, nella speranza che questo ponesse fine alla conversazione. Non fu così. Mentre la ragazza le sfiorava il bracciale con la bacchetta che avrebbe trasferito il credito dovuto, fu costretta a sorbirsi una serie di discorsi in merito a sconti, promozioni, programmi fedeltà e in generale molte più cose di quante avrebbe mai potuto volerne sapere. Il suo sorriso era quasi sul punto di trasformarsi in una paresi quando fu infine in grado di accomiatarsi. Uscita dal negozio si prese un istante per conservare nella borsa il fodero degli occhiali nuovi, cosa che aveva preferito non fare all’interno per ridurre il tempo di permanenza. Non si avvide della figura in un vicolo poco distante che, dopo averla osservata per un attimo, annuiva e si allontanava nella direzione opposta. Per raggiungere la casa di Shim dovette tornare verso l’università – la stazione più vicina era a pochi metri da questa – e da lì usare un portale per spostarsi in periferia, proseguendo poi a piedi. Quando arrivò, Shim era già in giardino, dietro un ampio barbecue, intento ad accendere il fuoco; con il vero carbone che lui riteneva infinitamente superiore a qualunque artificio magico. L’espressione sul volto del detective era quella seria e concentrata di sempre, non così il suo abbigliamento, come Amanda scoprì nel momento in cui lui la vide e avanzò per accoglierla: indossava un paio di larghi pantaloni neri che gli arrivavano poco sotto il ginocchio, scarpe da ginnastica dello stesso colore e una sgargiante maglietta arancione a maniche corte su cui, in nitide lettere blu, campeggiava la scritta “Non sono piccolo, sono concentrato”. Amanda dovette portarsi una mano alla bocca per soffocare una risata, riuscendoci solo in parte. «Non riesco a crederci!» esclamò quando ebbe riacquistato a sufficienza il controllo «Ce l’hai ancora!» Lui la guardò aggrottando la fronte. «Naturale. Ed è anche in ottime condizioni. Per chi mi hai preso?» «Ma quanto è passato da quando te l’ho regalata? Dieci anni?» «Più o meno. Ed è ancora come nuova.» «Ma non ti farai davvero vedere con quella dai tuoi agenti...» Shim si strinse nelle spalle. «Conoscono le regole. Qui possono fare tutti i commenti che vogliono, sul lavoro il primo che ci prova finisce a piantonare il ponte est. Comunque mi pareva che fossi qui per darmi una mano, non per discutere del mio abbigliamento... o sbaglio?» «Posso fare entrambe le cose assieme» ironizzò lei. «Non mentre sei impegnata a prendere il cibo dalla dispensa e metterlo
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sul tavolo là in fondo... non se vuoi che senta quello che dici, almeno.» «Approfittatore» commentò lei con un sorriso, dirigendosi verso la porta d’ingresso. La casa del nano era un luogo che aveva frequentato molto spesso da piccola, si poteva dire che ci fosse cresciuta dentro. Era da molto che non vi entrava, eppure nulla sembrava essere cambiato dall’ultima volta. Tutto era pulito e ordinato come sempre, nulla che fosse fuori posto o stonato. Per essere un nano, Shim era una casalinga perfetta. Naturalmente, tutto in quell’abitazione, con l’unica eccezione di porte e soffitti, era a misura di nano. Da bambina, Amanda aveva adorato il fatto di poter accedere a ogni cosa senza dover salire su una sedia, ora però la situazione le creava un vago senso di imbarazzo che non riusciva a definire con precisione. Questo, comunque, non le poteva impedire di rendersi utile, e di conseguenza trascorse la successiva mezz’ora a trasportare un vasto assortimento di piatti, bicchieri, stuzzichini, salse e bevande dalla cucina al giardino, che nel frattempo aveva iniziato a popolarsi. Shim aveva fatto gli onori di casa, o di giardino più propriamente, accogliendo i vari ospiti uno per uno, senza comunque abbandonare il suo attuale compito. Per lo più si trattava di agenti della sua squadra e altri colleghi della polizia, ma non mancavano alcuni suoi amici del tutto estranei alle forze dell’ordine. Amanda conosceva molti dei presenti, pochi davvero bene, mentre altri le erano totalmente ignoti, o erano nulla più di visi visti di sfuggita in qualche occasione. Rivolse cenni di saluto a chiunque le capitasse a tiro, evitando di soffermarsi con qualcuno, poi, quando parve che nessun altro dovesse arrivare e Shim ebbe iniziato ad arrostire e distribuire carne e verdure, raggiunse in silenzio il tavolo delle bevande e si riempì un bicchiere d’acqua fresca, cercando di tenersi in disparte dalla confusione. Era lì da un po’ quando qualcuno le rivolse la parola, facendola trasalire. «Non sembri invecchiata neanche di un solo istante.» Non fu il suono di quella frase, poco più di un sussurro, a causare la sua reazione, ma l’aver riconosciuto la voce che l’aveva pronunciata. Si voltò, sperando contro ogni logica di essersi sbagliata, e lo vide lì a fissarla coi suoi magnetici occhi blu scuro incastonati in un volto la cui espressione sorniona era fissata nella sua memoria ormai da tempo. «Cosa ci fai qui, Jayce?» gli chiese, la voce una pozza di gelo «Credevo ti fossi trasferito a Nuova Finnell.»
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«Infatti.» rispose lui, sorridendo come se l’evidente ostilità di lei non lo scalfisse «Solo che ho deciso di fare un viaggio lungo la costa ultimamente, e già che mi trovavo da queste parti ho fatto una piccola deviazione.» «Che avresti potuto risparmiarti» lo redarguì lei. Jayce si profuse in una pacata risatina. «Andiamo, Amy! Non potrai davvero avercela ancora con me dopo tutto questo tempo.» «Avercela con te per avermi quasi fatto uccidere? No, certo, come potrei?» gli rispose Amanda con pesante sarcasmo. «A me sembra che tu ti sia ripresa piuttosto bene» replicò lui abbassando impercettibilmente lo sguardo verso le curve del seno di lei, percepibili sotto il maglioncino leggero. «Cosa vuoi, Jayce?» «Nulla. Solo fare due chiacchiere con una vecchia amica.» «Sarei questo per te? Una vecchia amica?» «No, naturalmente, ma avevo la sensazione che ex fidanzata non ti sarebbe piaciuta come definizione.» «Perché non provi con “vittima”?» «Parli come se fossi stato io ad aggredirti.» Se l’uomo provava un pur minimo pentimento, la sua voce non ne recava traccia alcuna. «Non ti avevo neppure chiesto io di venire con me.» «Non voglio neppure pensare a quello che sarebbe successo se non lo avessi fatto.» «E allora non farlo. È andato tutto bene, no? Siamo tutti vivi e in buona salute, per quanto ne so.» «Non per merito tuo, Jayce. Ora fammi la cortesia di tornartene da dove sei venuto.» «E offendere il nostro buon detective Stonehand andando via prima che la festa sia finita?» ironizzò lui, sempre sorridente «Non lo farei mai. Ma mi terrò alla larga da te, se ci tieni così tanto.» «Sì, Jayce, ci tengo.» «Come preferisci.» L’uomo si strinse nelle spalle e si allontanò, iniziando a chiacchierare amabilmente con la prima persona che si ritrovò a incrociare. Amanda lo fissò ancora per pochi istanti, poi tornò a voltarsi e riempì di nuovo d’acqua il suo bicchiere, valutando se fosse il caso di berla o, piuttosto, gettarsela sulla testa per raffreddarsi il sangue. Optò per la prima scelta solo per non dare spettacolo. Quando tornò a voltarsi verso il giardino, per poco non andò a sbattere contro Shim che le si stava avvicinando. Immaginò che dovesse aver assistito almeno a una parte della scena, anche se il tutto si era svolto in
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maniera abbastanza pacata da non attirare l’attenzione. «Problemi con Jayce Holloway?» le domandò lui «Jayce Holloway è un problema» rimarcò lei, riuscendo comunque a mantenere un tono civile. Dopotutto, il nano non aveva alcuna colpa in quella vicenda, non sarebbe stato giusto prendersela con lui. «Quando ho saputo che era tornato, sono stato in dubbio se invitarlo o meno» proseguì Shim «Avevo l’impressione che non vi foste lasciati in maniera proprio amichevole, ma...» «Tranquillo, Shim, tu non potevi saperlo.» «Avrei potuto domandartelo.» «E io probabilmente ti avrei detto di invitarlo lo stesso. Sì... forse sarei stata più preparata a ritrovarmelo davanti, anzi dietro, ma non mi sarei mai permessa di pretendere il diritto di veto sui tuoi ospiti. Dopo tutto è un tuo amico.» «Tu sei una mia amica. Lui è qualcuno con cui ho lavorato. Siamo in buoni rapporti, o almeno lo eravamo prima che sparisse dalla circolazione due anni fa, ma niente di più. Certo non è qualcuno a cui farei un prestito.» «Ah... quindi a me lo faresti!» ridacchiò Amanda cercando di portare la conversazione verso lidi più spensierati. «E tu avresti il coraggio di chiedermi di intaccare il mio misero stipendio? Piuttosto dovrei chiederne io uno a te.» Amanda si strinse nelle spalle. «Non lo faresti mai. Hai la testa troppo dura.» «Invece penso proprio che ti stupirò.» ironizzò lui «A giudicare da quanto mangiano questi squali potrebbe essere l’unica alternativa al domandare l’elemosina per il resto del mese... Guardali, sono già lì che reclamano...» «Vai, vai, non farli aspettare prima che decidano di mangiarsi tra loro» rise lei. Shim si avviò verso il barbecue, impugnando davanti a sé il forchettone come se avesse dovuto difendersi dall’assalto di un drago. «Comunque ne riparliamo dopo!» le disse mentre si allontanava. Amanda fece un cenno d’assenso e un sorriso, poi lo salutò agitando la mano, quasi lo stesse vedendo partire per un lungo viaggio. Quando lui fu tornato a occuparsi del cibo, però, non riuscì a evitare di cercare con lo sguardo Jayce, e appena lo vide la sua espressione tornò a essere cupa.
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CAPITOLO 3 Due anni prima
«Liberate il passo!» La voce dell’uomo era imperiosa, la mano destra già sfiorava l’elsa della spada che gli pendeva dal fianco, nessuna delle due cose però pareva impressionare i due individui ammantati di nero, che bloccavano l’accesso al ponte. «Temo che non sia possibile» rispose uno di questi in un tono di finta cortesia «Siamo qui per il vostro bene. Sarebbe estremamente inadeguato per voi procedere oltre.» «È mio compito decidere cosa è adeguato per me, di certo non vostro. Liberate il passo, ripeto, o sarò costretto a liberarlo io stesso.» «Voi e quale esercito, signore?» domandò ironicamente l’altro uomo, mentre con una mano scostava il lembo del suo mantello, rivelando una spada non dissimile da quella del loro antagonista, per quanto in apparenza di fattura meno raffinata. Il primo uomo fece un singolo passo indietro, spazzandosi ostentatamente con una mano la spalla della sua casacca celeste, come se si fosse accorto in quel momento di un granello di polvere e avesse ritenuto essenziale liberarsene prima di ingaggiare un duello. «Dunque è questa la vostra risposta» commentò. «No, signore. Quella era la nostra domanda.» gli rispose quello che aveva parlato per primo «Questa è la nostra risposta.», concluse sguainando anch’egli una spada e puntandola in alto davanti a sé, imitato dal suo compagno. Di rimando, l’uomo in azzurro sfilò la propria arma dal fodero, e proprio in quel momento, dal folto della vegetazione retrostante, altri cinque uomini fecero la loro comparsa, armi in pugno, ponendosi in semicerchio alle sue spalle. «E questa è la mia. È col mio esercito che passerò sopra i vostri corpi privi di vita, se così sarà necessario. Dunque ve lo domando per l’ultima volta, lasciate libero il passo o perirete.» I due si rivolsero solo uno sguardo fugace, per nulla impressionati da quello sviluppo inatteso. Altri quattro uomini, anch’essi con mantelli neri a coprirli quasi del tutto, comparvero dal nulla ai lati del ponte, due
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per parte, e si disposero alla battaglia. In quel momento vi fu un crescendo di musica e i contendenti iniziarono a cantare, con le parti che si alternavano nelle strofe, mentre la battaglia aveva inizio in una serie di complessi movimenti coreografici che la facevano assomigliare a una danza, pur non togliendo nulla alla sua credibilità. Grazie all’ottima visuale dal suo posto in platea – in qualche modo Jayce riusciva sempre ad avere i posti migliori, e lei aveva desistito da tempo dal cercare di sapere come – Amanda riusciva ad apprezzare appieno la splendida sincronia dei movimenti, e il modo in cui il battere dei piedi e il ritmico cozzare delle spade si sposassero perfettamente con la musica, diventandone parte anch’essi come ulteriori strumenti. «Sono tutti originali» le sussurrò una voce al suo fianco. Lei si girò a guardare Jayce, che la osservava con un enigmatico sorriso sul volto, poi tornò a concentrarsi sulla proiezione prima di rispondere. «Che vuoi dire?» «Conosco l’illusionista che ha prodotto lo spettacolo» spiegò lui «Tutti i personaggi sono una sua creazione, non ha voluto ispirarsi a nessun modello vivente.» «Be’ congratulazioni. È un ottimo lavoro, sono molto realistici.» «È quello che gli ho detto anche io» assentì lui. La musica, intanto, aveva assunto un tono più cupo. I combattenti si erano fermati e guardavano in direzione della foresta, le teste inclinate appena all’indietro e gli sguardi rivolti verso l’alto. L’enorme testa di un drago fece la sua apparizione al di sopra delle fitte fronde e cantò con voce cupa e roboante un’ultima strofa, che riprendeva quelle della canzone della battaglia. Quindi soffiò, e un’immane fiammata nera avvolse l’intera scena, suscitando qualche urletto di sorpresa da parte degli spettatori più impressionabili. Quando il fuoco svanì, la scena era rimasta vuota. Le luci in sala si riaccesero, indicando l’inizio dell’intervallo. «Ci sgranchiamo un po’ le gambe?» domandò Jayce, lasciando in realtà ben poca scelta ad Amanda, dato che già si stava alzando. Tipico di Jayce: di rado le sue richieste erano davvero tali, piuttosto che affermazioni mascherate da un velo di presunta cortesia. Con un lieve sospiro, lei lo seguì all’esterno. «Cosa te ne pare finora?» le domandò lui mentre alzava lo sguardo al cielo notturno. «Non sono del tutto sicura che l’assedio di Finnell sia andato proprio
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così...» rispose lei «Ma la realizzazione è ottima.» «Certo, gli sceneggiatori devono prendersi qualche libertà alle volte, specie per i musical.» «E per gli gnomi» aggiunse lei sorridendo «Sulle scene non si vede mai uno gnomo che non parli a una velocità decente.» «E per fortuna» rise lui di rimando «Altrimenti gli spettatori non capirebbero nulla. A meno di essere gnomi. Per non dire che anche gli illusionisti dovrebbero faticare parecchio...» «A meno di essere gnomi» gli fece eco lei «O magari potrebbero preparare l’illusione a velocità normale e poi riprodurla accelerata.» «E tu ci andresti a vederlo uno spettacolo così?» «Mmmm... no.» «Vedi? Gli spettacoli non sempre devono riprodurre la realtà. A volte vanno adattati, o romanzati.» «Sì, d’accordo, ma bisogna stare attenti anche a non esagerare. Prendi quel personaggio di oggi, quel mago... Youka... Non ti è sembrato un po’ troppo romanzato? Voglio dire, pensi davvero che se ne potesse andare in giro così in piena battaglia senza un capello fuori posto e tutto in ordine come se stesse facendo una sfilata di moda?» Amanda non aveva idea del perché stesse disquisendo di gnomi da spettacolo e maghi da palcoscenico come se la cosa sul momento le importasse. Un po’ era un discorso come un altro, un po’ aveva la vaga sensazione che se non avesse parlato di quello avrebbe finito per impelagarsi in ragionamenti che non aveva alcuna voglia di affrontare. Non si poteva dire che le cose tra lei e Jayce andassero male, tuttavia di recente era difficile fare discorsi seri con lui. Ogni volta, per qualche ragione, uno dei due si ritrovava nella sgradevole situazione di non voler sentire quello che l’altro aveva da dire, e questo non era piacevole. Quasi a confermare i suoi pensieri non del tutto consci, Jayce fece un mezzo passo indietro, le poggiò le mani sulle spalle, massaggiandogliele appena, e annunciò a mezza voce: «Amy, devo partire.» Lei respinse l’istinto di voltarsi, riuscì perfino a non irrigidirsi sotto il tocco leggero delle sue dita, o almeno così sperò. «Dove vai?» «Non posso dirtelo. Una missione. Niente di pericoloso, comunque, sarò solo irreperibile per un po’. Forse solo pochi giorni.» «Che tipo di missione?» domandò lei «O non puoi dirmi neanche questo?» Nonostante i suoi sforzi, il tono della domanda non fu del tutto tranquillo e pacato. Eppure sapeva benissimo fin dall’inizio che Jayce non avrebbe potuto condividere tutto con lei. Il suo lavoro nella
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FPI, la Forza di Polizia Internazionale, richiedeva un certo margine di segretezza che lui non era disposto a violare, e di questo non poteva fargli alcuna colpa. «Protezione testimoni» disse lui in tono casuale, rilassato. Stavolta Amanda non riuscì a non tendere i muscoli. Visto che ormai ogni speranza di sembrare indifferente era andata perduta, scivolò via dalle sue mani e si voltò a guardarlo negli occhi. «E non sarebbe pericoloso?» «No. Lavoro di routine» minimizzò lui «Non credo ci sia nessuno che intende fare del male a quel... testimone.» «Allora a che scopo proteggerlo?» «Non si può mai essere abbastanza sicuri. Ma si tratta solo di questo. I rischi sono talmente minimi che ci sarò soltanto io.» «E questo dovrebbe tranquillizzarmi?» domandò lei basita. «Mettiamola così... dovresti essere più preoccupata tu sapendo che sono altrove a fare un normalissimo lavoro di sorveglianza... o io sapendo che tu sarai sola senza nessuno che ti controlli?» la canzonò lui. «Sei diventato geloso all’improvviso?» ribatté lei non cogliendo, o facendo finta di non cogliere, il senso della sua domanda. Lui rise, una risata lieve e morbida come una carezza. «Non ho paura che tu mi tradisca mentre non ci sono. Ho paura che tu riesca a cacciarti in uno dei tuoi soliti pasticci. A confronto di quelli, i rischi che corro io sono sempre irrisori» sottolineò il sempre, marcandolo con la voce e con un gesto della mano, come a voler tracciare una riga sotto la parola. Lei sbuffò, in parte divertita ma soprattutto punta sul vivo. «Potresti portarmi con te, allora. A quanto pare staremmo più tranquilli entrambi.» «Sì, forse, ma no, non questa volta» disse lui tranquillo. La risposta pacata ebbe però tutt’altro effetto su Amanda, anche se lei riuscì a non darlo a vedere. Avrebbe compreso se lui avesse affermato di non poterla coinvolgere in una missione ufficiale, perfino se avesse detto di non volerla tra i piedi, ma una reazione tanto vaga non poteva che solleticare tutti i suoi istinti, quelli che lui avrebbe definito “da ficcanaso”. Così come di certo lui si sarebbe messo in allarme se lei non avesse insistito. «Perché no? Se ci sarai solamente tu, non rischi di certo che qualcuno possa lamentarsene.» «Io e il testimone. Non vado a sorvegliarmi da solo» puntualizzò lui. «Tu e il testimone, d’accordo. Ma avrà già abbastanza da testimoniare
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per mettersi anche a fare la spia anche sulle tue frequentazioni.» «Non è proprio quel genere di testimone... almeno non ancora.» «Stai cambiando discorso?» «Solo se il tentativo funziona.» «Non funziona.» «Lo immaginavo» disse lui sorridendo e stringendosi nelle spalle con un’aria innocente che proprio non gli si addiceva. «Comunque non mi farai cambiare idea.» «Hai qualche motivo per voler restare tutto solo con questa persona?» domandò lei, non del tutto seria «Non sarà per caso che si tratta di una testimone?» «Segreto professionale» rispose lui con una smorfia divertita. «Quindi è di un altro genere di rischio che dovrei essere preoccupata...!» Lui si lasciò andare a uno scoppio di risa, breve ma intenso, che lei non apprezzò molto. «Considerato che io sono un uomo di legge e preferisco non infrangerla... il mio testimone non rappresenterà quel rischio per te almeno per un’altra quindicina d’anni, anno più anno meno. E poi» si piegò in avanti per poggiarle un lieve bacio sulla fronte, scostandole i ricci con una mano «lo sai che a me piacciono le donne più vecchie di me.» Lei lo allontanò con uno scherzoso pugno sulla spalla, avendo cura che non fosse però del tutto indolore. Lui indietreggiò, stringendosi con la mano il punto colpito e facendo una smorfia esagerata quanto finta. In quella, una musica proveniente dall’interno della sala annunciò che l’intervallo stava per terminare. «Vogliamo tornare ai nostri posti?» chiese lui, con la solita espressione sorniona sul volto, come di un gatto che non solo abbia appena mangiato un canarino ma sappia di averne una nutrita scorta a disposizione per gli anni a venire. Come sempre, si era avviato prima ancora di aver terminato la frase, lasciando Amanda senza altra alternativa che seguirlo. A meno di piantarlo in asso e tornarsene a casa a piedi. Con ogni probabilità, la seconda parte dello spettacolo fu all’altezza della prima. Amanda non avrebbe di certo saputo dirlo, perché per tutto il tempo la sua mente era stata altrove, a riflettere sulla misteriosa, almeno dal suo punto di vista, missione di Jayce. Non che credesse davvero a sue possibili mire romantiche o sessuali sulla testimone, giovane o meno che fosse; da quel punto di vista era disposta a dargli
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piena fiducia, e l’unico scopo della sua battuta in merito era stato spingerlo a rivelarle qualche informazione in più. A onor del vero, non avrebbe saputo dire cosa fosse di preciso a preoccuparla, ciò però non era sufficiente a dissipare i suoi dubbi o, meglio, le sue certezze. Perché era certa che ci fosse qualcosa di strano in quella faccenda e, purtroppo per Jayce, Amanda era geneticamente incapace di lasciar correre quando fiutava un qualsivoglia genere di mistero.
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CAPITOLO 4 Sulla scena del delitto
Il corpo giaceva scomposto sul pavimento, coperto alla meglio da un lenzuolo. Non si trovava, come invece avrebbe dovuto, nell’esatta posizione in cui era stato lasciato dopo la morte, poiché l’apertura della porta l’aveva spostato, dato che era stato a ridosso della stessa fino a quando gli agenti non erano entrati, forzandola, dopo aver risposto a una tardiva chiamata da parte di alcuni altri inquilini dello stesso palazzo. Diversi poliziotti stavano esaminando l’appartamento, sebbene non vi fosse in realtà molto da vedere. Nessun segno evidente di lotta, nessun chiaro indizio di ciò che potesse essere accaduto. Gli uomini in uniforme setacciavano comunque con cura estrema ogni angolo delle diverse stanze, con strumenti magici e non, ben consci del fatto di non dover lasciare nulla di intentato. Accanto al cadavere, un elfo in giacca e cravatta osservava un punto indefinito davanti a sé, come cercandovi la risposta a tutte le sue domande. Senza troppo successo. Una voce, che somigliava parecchio a un muggito, lo risvegliò dalla sua trance, attirando la sua attenzione. «Detective?» Celendlinis Delmenar, capo della squadra omicidi della polizia di Tejarak, nonché unico detective nei dintorni, si voltò verso chi l’aveva chiamato e sobbalzò nel ritrovarsi faccia a faccia, in senso quanto mai lato, con un torace avvolto da una giacca nera e una camicia color antracite. Si maledisse tra sé per quell’evidente perdita di autocontrollo, per quanto fosse ormai troppo tardi per rimediare, e si ripromise che avrebbe dovuto abituarsi quanto prima al nuovo medico legale... come se fosse stata una cosa facile. Un altro, al suo posto, forse si sarebbe sentito addosso il peso della situazione, considerato che la necessità stessa di un nuovo medico legale era derivata da un suo fatale errore, causa, seppur indiretta, della morte del precedente. Ma lui non era un altro, dunque il suo unico pensiero, in quel momento, era come evitare di ritrovarselo così appiccicato... meglio ancora se avesse trovato un
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modo per mettere qualche chilometro di distanza tra loro. «Le spiace non starmi così vicino?» chiese in tono spocchioso, scegliendo l’approccio diretto. Il dottore mugghiò qualcosa che poteva essere una scusa o un velato improperio e fece qualche passo indietro, permettendo così a Celen di accoglierlo interamente nel suo campo visivo... e facendolo pentire della cosa quasi subito. Era incredibile quanto quell’individuo offendesse il suo senso estetico. Non contento di essere quello che era, il dottore aveva una cura talmente minima del suo aspetto da rasentare l’inesistenza. La sua giacca era stropicciata, la camicia aveva superato di molto quella definizione e gli orli dei pantaloni, già questi ridicolmente corti, per qualche ragione gli si erano arrampicati fin quasi alle ginocchia, lasciando scoperto molto più di quanto avrebbero dovuto. L’insieme era talmente sgradevole da far quasi passare in secondo piano il fatto che avesse degli zoccoli e... «Detective?» lo chiamò nuovamente il suo interlocutore, che non era solito perdersi in fantasticherie e faticava a comprendere le astrazioni mentali dell’elfo. «Ho sentito» sibilò Celen stizzito, facendo vagare lo sguardo un po’ ovunque tranne che sul capo bovino del dottore «Cosa c’è?» «Pensavo volesse conoscere l’esito dei controlli preliminari sul corpo» replicò il minotauro in un tono professionale che suonava quasi assurdo provenendo da una simile creatura. «Ah! Sì. Certo. Cosa ha rilevato?» «Stando alla temperatura del corpo, la morte dovrebbe essere avvenuta da oltre ventiquattr’ore, ma...» «Non è possibile» lo interruppe l’elfo «Non coincide con le dichiarazioni dei testimoni.» «È quello che stavo per dire» proseguì il dottore «Inoltre il corpo non porta segni evidenti di quella che potrebbe essere stata la causa della morte, in apparenza non...» «Ma cosa dice?» si intromise Celen, quasi scandalizzato «Ho visto io stesso dei chiari segni sulla testa, potrebbe essere stato colpito con un oggetto contundente.» «Sì, infatti, venga a vedere» replicò il medico legale, mantenendo una calma invidiabile, mentre si avvicinava al corpo e, dopo essersi accosciato in una posizione il cui equilibrio sembrava in violazione delle leggi della fisica, si allungava per sollevare il lenzuolo, scoprendo la testa della vittima. L’elfo inorridì alla vista della massiccia coda del minotauro che
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spuntava da un’apposita apertura sul retro dei pantaloni, e si affrettò ad avanzare a sua volta, chinandosi signorilmente verso il corpo e puntando un dito affusolato verso un segno che ne attraversava la fronte. «Sì, appunto» commentò il dottore voltandosi appena verso il detective, così da fargli passare “accidentalmente” la punta di un corno a un centimetro scarso dall’occhio, costringendolo a indietreggiare «Segno di impatto violento con un corpo solido a sezione triangolare, presumibilmente lo spigolo di qualcosa. Opterei per...» si alzò, si allontanò di qualche passo, afferrò la maniglia dell’ingresso «... la porta. La ferita è successiva alla morte, i suoi uomini devono averlo colpito quando hanno fatto irruzione.» «Non può esserne certo.» «No. Qualcun altro potrebbe aver ucciso la vittima, in un modo che comunque non conosco ancora, poi averla colpita alla testa con la porta, essere uscito, essere rientrato da un’altra parte e averla spostata in maniera tale che non fosse più possibile aprire senza urtarla. Un po’ macchinoso, completamente inutile, ma immagino possibile, se l’assassino non aveva nulla di meglio da fare.» Celen lo guardò inarcando un sopracciglio. «Mi prende in giro?» «No, faccio ipotesi assurde e prive di senso, visto che stabilire la dinamica di un omicidio non è decisamente il mio campo di competenza.» «Esattamente» sottolineò la cosa l’elfo. «E stabilire cosa ha causato una ferita e quando non è il suo, quindi se le dico che quello è un colpo di porta successivo alla morte, si risparmi di decidere al mio posto se posso esserne certo o meno» ribatté il minotauro, sempre col massimo della pacatezza. Un agente in uniforme si avvicinò ai due prima che il detective potesse aggiungere altro. «Dottor Melkor?» Il minotauro si voltò verso il nuovo arrivato, dando prova di averlo sentito con un cenno del capo. «Possiamo procedere con la rimozione del corpo?» «Fate pure. E fatelo arrivare in centrale prima possibile, voglio iniziare subito l’autopsia. Con permesso...» le ultime parole erano rivolte a Celen, che reagì con un cenno stizzito e del tutto inutile, visto che il dottore gli aveva già voltato le spalle ed era ormai quasi oltre la porta. Facendosi un appunto mentale in merito alla necessità di una protesta formale nei confronti di Melkor, l’elfo ruotò su se stesso di centottanta gradi e si avvicinò a un paio di agenti che stavano ispezionando una
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finestra. «Siete riusciti a capire da dove sia passato l’assassino?» Guardandosi bene dal far notare che non sapevano ancora se esistesse un assassino, i due interruppero il loro lavoro per rispondergli. «Le finestre erano chiuse, non è possibile che siano state aperte, o richiuse, dall’esterno, e non ci sono impronte o altre tracce» disse il primo. «La porta è da escludere, il corpo era troppo vicino e non sarebbe stato possibile aprirla per uscire. In più era chiusa a chiave, dall’interno» aggiunse il secondo. «Quindi niente porta né finestre. Altre vie d’accesso?» domandò Celen. «Nessuna.» «Di conseguenza, chiunque sia entrato deve essersi teletrasportato o smaterializzato» asserì il detective. «È l’ipotesi più plausibile, ma non ci sono tracce residue di magia nell’appartamento, abbiamo verificato.» «Nessuna?» si stupì l’elfo «Nessuna anomala» precisò uno degli agenti «Cucina, dispensa, elaboratore, solite cose, ma niente che faccia pensare a un incantesimo di teletrasporto o smaterializzazione, o di altro genere per quel che vale.» Celen rimase per un attimo a pensare, valutando le varie opzioni. Un incantesimo avrebbe lasciato tracce rilevabili, e i suoi agenti non erano così stupidi da lasciarsele sfuggire, perciò questo escludeva l’uso di mezzi magici per introdursi nell’appartamento. Un vampiro forse sarebbe stato in grado di farlo comunque, tuttavia la cosa gli sembrava improbabile. Non solo non vedeva un delitto a opera di vampiri da almeno una decina d’anni, ma soprattutto il modus operandi era del tutto estraneo. Se la vittima fosse stata dissanguata, probabilmente anche quel bovino del nuovo medico legale l’avrebbe notato. «Potrebbe essere stato uno psichico» disse infine, pronunciando l’ultima parola come fosse stata una velata bestemmia. Per quanto ne sapeva, esistevano poteri psichici in grado di teletrasportare le persone, o renderle intangibili, e non trattandosi di magia il loro utilizzo non sarebbe stato rilevato dagli strumenti. «La squadra Psi dovrebbe essere qui a momenti per sondare l’area» lo informò uno degli agenti che, dopotutto, doveva essere già arrivato prima di lui a quella conclusione «Ne sapremo di più dopo che avranno terminato. Anche se...» si lasciò sfuggire l’uomo.
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«Anche se?» lo incalzò Celen vedendo che non sembrava intenzionato a concludere il discorso. «Anche se...» riprese questi imbarazzato, pentendosi di aver parlato troppo «bisogna considerare la possibilità che non sia entrato nessuno.» «Mi sembra improbabile che la vittima si sia suicidata urlando» lo apostrofò il detective in tono acido. «No ma...» iniziò a dire l’agente, venendo interrotto da una discreta gomitata del suo compagno, che gli fece cambiare idea «... improbabile, sì» concluse. Il collega aveva ragione. Meglio un’occhiataccia e un probabile rimprovero che un’inutile discussione per cercare di far cambiare idea a Delmenar. Una volta che quell’elfo si era messo qualcosa in testa, e in questo caso il qualcosa era un omicidio, fargli vagliare un’alternativa era un’impresa che sarebbe riuscita a pochi, e solo a prezzo di grande sacrificio personale. Suggerirgli che la vittima poteva essere deceduta anche per un semplice attacco cardiaco significava, nella migliore delle ipotesi, essere bollato come deficiente o insolente, o entrambe le cose, per i mesi a venire. Fortuna volle che l’agente venisse risparmiato anche dal semplice rimprovero, poiché l’attenzione del detective venne attratta da tre persone che proprio allora stavano facendo il loro ingresso nell’appartamento, scavalcando con cura i segni di gesso sul pavimento, unica testimonianza rimasta della presenza di un cadavere fino a poco prima. Le uniformi celeste chiaro e lo stemma sulle maniche, un ottagono allungato color oro su cui erano impressi un cerchio e una croce sovrapposti, li identificavano senza dubbio come appartenenti alla squadra Psi e, dal punto di vista di Celen, li qualificavano a un livello appena superiore rispetto agli addetti alle pulizie. Uno dei tre nuovi arrivati, una donna alta e snella dai lunghi capelli biondi, si diresse subito verso di lui, nonostante la sua espressione di vago disgusto a quell’apparizione avrebbe dovuto essere sufficiente a tenere alla larga chiunque. «Sergente Sharon Chanders, squadra Psi» si presentò l’agente «È lei il detective incaricato delle indagini?» «Detective Celendlinis Delmenar, capo sezione della prima squadra omicidi» replicò lui in tono sussiegoso. La sua non era tanto una presentazione quanto un’affermazione di autorità. «Immagino sia un sì» borbottò a un volume a malapena udibile Sharon «Detective, dovrebbe far uscire tutto il personale non necessario, abbiamo bisogno di un po’ di calma per operare.» «Giusto. Dimentico sempre che i vostri giochetti non funzionano
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quando ci sono troppi spettatori.» Sharon sgranò gli occhi a quell’uscita, ma riuscì in qualche modo a trattenersi dal rispondere per le rime. «La presenza di troppe persone può causare delle perturbazioni, le tracce che dobbiamo cercare di rilevare sono minime, di solito, per cui meno fonti di disturbo sono presenti, più è accurato il risultato degli esami.» «È quello che ho detto» asserì convinto l’elfo, mentre rivolgeva dei cenni agli agenti alle sue spalle «Carder, Voyd, fate uscire più gente possibile, lasciate lavorare gli indovini.» Sharon si irrigidì. Una mano posata sulla sua spalla la fermò un istante prima che scattasse. «Noi siamo pronti» le annunciò il proprietario della mano, un agente Psi dai biondi capelli a spazzola e dall’aria vagamente elfica, più a livello di espressione che di genetica. «Allora iniziamo» grugnì la donna di rimando, facendo un brusco dietrofront e iniziando a dare disposizioni. Celen la guardò senza neanche tentare di nascondere la sua aria di superiorità. I due agenti che aveva mandato a far sgombrare la stanza furono di ritorno poco dopo. «Detective, crede sia il caso di avvisarli della professione della vittima? Potrebbe aver lasciato anche lui delle tracce psichiche.» L’elfo lo guardò in tralice. «Quell’uomo era un veggente. Come vuoi che le abbia lasciate, leggendo i fondi del caffè?»
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CAPITOLO 5 Presagi
Amanda non stava riuscendo a godersi la serata. Certo, la possibilità di farlo sul serio era svanita nel momento in cui Jayce aveva fatto la sua comparsa, ma ogni tentativo di archiviare la cosa e riuscire a distrarsi almeno in parte si era rivelato fallimentare. Sembrava quasi che lui stesse facendo di tutto per mantenersi sempre al margine del suo campo visivo, e conoscendolo non si trattava di una possibilità da trascurare del tutto; quando quell’uomo desiderava far saltare i nervi a qualcuno, si dimostrava un professionista in quell’arte. In apparenza non esisteva alcuna valida ragione per cui avrebbe dovuto volerli far saltare a lei, ma con lui tutto era possibile, come Amanda aveva già scoperto a sue spese in passato. Era stata tentata di andarsene, tornare a casa e dimenticare tutta la faccenda; l’unica cosa a impedirglielo era stato il non voler fare un torto a Shim. In realtà sapeva che lui avrebbe capito, ma non voleva comunque metterlo in condizione di doverlo fare. O forse, anche se non lo avrebbe mai ammesso, non voleva darla vinta a Jayce. Immersa com’era nei suoi pensieri, impiegò diverso tempo a rendersi conto della presenza di qualcuno, appena fuori dal cancello del giardino, che agitava una mano per attirare la sua attenzione. Trasalendo, percorse il vialetto e raggiunse la figura che la osservava con aria sconvolta. «Kate?» domandò, riconoscendola, mentre apriva per farla passare «Che succede? Come mai sei qui?» «Sono venuta a cercarti» rispose la veggente con voce tremante. «Vieni... ti trovo una sedia... ma come sapevi che ero qui?» per quanto ne sapeva lei, Kate e Shim non si conoscevano neppure, se non forse per sentito dire. Era probabile che li avesse menzionati l’una all’altro, di certo però non li aveva mai presentati. Lo sguardo che le rivolse l’amica, però, pur distorto dal suo attuale stato d’animo, le fece subito comprendere la gaffe. «Ah, giusto.» «Non ho voluto disturbarti all’università. Sarei venuta a casa ma ho
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visto che saresti rientrata troppo tardi e... mi dispiace, non ce la facevo ad aspettare, avevo bisogno di parlare con qualcuno.» «Non importa, non mi stavo comunque divertendo un granché» la tranquillizzò lei mentre recuperava uno sgabello abbandonato e glielo porgeva, cercandone inutilmente un secondo con lo sguardo. Si risolse a rinunciare e si accosciò accanto all’amica. «Che cosa ti è successo? Sembri sconvolta.» «Lo sono. Ho fatto un sogno Mandy...» «Un sogno?» ripeté Amanda in tono interrogativo. Negli ultimi tempi aveva smesso di considerare innocui i propri sogni, e per ottimi motivi, ma quelli di Kate forse non lo erano mai stati. Alcuni veggenti, e lei tra questi, erano in grado di sognare il futuro, anche se, per quanto ne sapeva lei, era qualcosa su cui non possedevano alcun controllo «Su cosa?» «Ho sognato la mia morte.» D’istinto, Amanda si sollevò sulle gambe e si protese per abbracciarla, impedendole senza volerlo di continuare a parlare. Kate ricambiò l’abbraccio in maniera dapprima incerta, poi con più abbandono. Quando si separarono, Amanda vide che il volto della veggente era rigato di lacrime. Sapendo che Shim non avrebbe avuto nulla da ridire, si alzò in piedi e la aiutò a fare altrettanto, invitandola a entrare in casa. Durante il tragitto quasi si aspettava di ritrovarsi Jayce davanti, invece non lo vide da nessuna parte, anche se augurarsi che se ne fosse andato sarebbe stato troppo. Una volta entrate, fece sedere Kate accanto al tavolo della cucina. «Ti prendo un po’ d’acqua» le disse mentre apriva un pensile e ne estraeva un bicchiere «O preferisci un caffè... no, meglio di no.» «Non importa... sto bene...» «No che non stai bene. Come potresti? Devi raccontarmi tutto, ma prima devi calmarti un po’» le porse il bicchiere, che nel frattempo aveva riempito per metà «Ecco, bevi.» Kate accettò l’acqua e ne bevve un sorso, poi poggiò il bicchiere sul tavolo. «È stato orribile. Un sogno estremamente vivido. Quando mi sono svegliata...» si fermò, bevve un altro sorso d’acqua prima di riprendere «Quando mi sono svegliata, ho capito che era un sogno solo perché mi sono resa conto di essere viva. E nel sogno ero... morta. Quella... quella cosa, quell’ombra, mi aveva ucciso.» «Quale ombra?» domandò Amanda, sedendosi accanto a lei.
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«È entrata in casa mia, passando sotto la porta. Era solo un’ombra, niente altro, non aveva sostanza, ed era così... fredda, gelida.» «Forse un non morto, una specie di spirito...» azzardò Amanda, la cui esperienza in fatto di non morti si limitava in realtà a esseri ben più concreti di un’ombra gelida. «Non lo so. Quello che so è che mi ha avvolta... ho cercato di fuggire ma è stato inutile... ero debole, e poi...» prese a singhiozzare e dovette smettere di parlare. Amanda le prese una mano nel tentativo di consolarla. «Non sai per certo se è un sogno premonitore, giusto?» le chiese, pentendosene quasi subito. Di certo Kate l’avrebbe saputo eccome, e se non lo fosse stato non si sarebbe ridotta così. Cercò di aggiustare il tiro prima che l’altra rispondesse. «Voglio dire... non hai la certezza che si realizzerà, possiamo fare qualcosa per impedirlo. Tu dici sempre che il futuro non è scritto nella pietra.» «Sì Mandy ma... se avessi visto... Non so cosa si possa fare, era così...» «Tu non lo sai, forse, ma di sicuro qualcuno lo saprà. Possiamo parlarne con Shim, siamo a casa sua» aggiunse l’ultima parte non essendo certa dei mezzi con cui Kate l’aveva trovata, e non sapendo se fosse al corrente di dove si trovava di preciso «Anche se non riesce a capire di cosa si tratti, potrà fare delle ricerche. Darti protezione, magari.» «No... non credo...» «Perché no? Che cos’hai da perdere?» «Sai anche tu cosa pensa la gente dei veggenti, Mandy» replicò lei «Penserà che sono una pazza visionaria... sarà solo tempo sprecato.» «Shim non è “la gente”. Se può fare qualcosa lo farà. Andremo a parlargli assieme, appena ti sarai calmata.» «Non me la sento...» «Ti garantisco che non ti prenderà in giro.» «Ti credo ma... non ce la faccio a farlo... non adesso...» «Non sai... hai idea di quando potrebbe accadere?» «Di sera. Non oggi. Forse domani, o tra otto giorni.» «Perché otto?» domandò Amanda, incuriosita dallo strano salto temporale. «La signora Lovelock. C’era lei nel mio sogno. I prossimi appuntamenti con lei sono domani e il quindici», scaricata un po’ della tensione iniziale, ora Kate aveva iniziato a parlare con un tono più fermo, più sicuro. «Quindi, pensi di essere al sicuro per stasera?» «Sì... credo di sì.»
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«Va bene. Allora...» si interruppe un istante per riflettere «Facciamo così: andremo da Shim domani mattina, in centrale. Questa notte, per stare più sul sicuro, verrai a dormire da me.» «Mandy, non...» «”Non” niente. È deciso. Staremo entrambe più tranquille, e domani risolveremo la faccenda a mente fresca. Se c’è qualcuno che può aiutarti, quello è Shim, te lo posso assicurare.» «Non è così semplice... se cerco di evitare che accada, le cose potrebbero cambiare, non so cosa potrebbe succedere dopo...» «Non fingerò di capire quello che stai dicendo...» rispose Amanda, che non aveva nessuna intenzione di cercare di districare un possibile paradosso temporale, o quel che fosse «ma per adesso non può cambiare niente, giusto? Se comunque il tuo sogno non riguardava stasera, non importa cosa fai oggi, o anche cosa fai domani mattina... fino a domani sera, ammesso che sia domani sera, le tue azioni non influenzeranno quell’ombra.» «In teoria no...» «Allora non complichiamo le cose adesso, va bene? Facciamo un passo alla volta.» Kate rimase a guardarla per qualche istante senza dire nulla. Amanda ricambiò lo sguardo con un’espressione decisa. Non avrebbe lasciato che il sogno si realizzasse, non avrebbe permesso all’ombra, qualunque cosa fosse, di reclamare la sua vittima predestinata, questo dicevano i suoi occhi in quel momento. «Grazie» disse infine Kate, abbassando lo sguardo. «Consideralo un pagamento per tutte le volte in cui mi hai letto le carte gratuitamente» ribatté Amanda con un sorriso. «Adesso vado a dire a Shim che devo andare via, poi andiamo a casa mia e ti preparo un infuso per aiutarti a riposare stanotte.» «Ne hai uno?» le domandò Kate, abbastanza sorpresa. «Io no, ma Shim sicuramente ne ha da qualche parte, fammi dare un’occhiata...» armeggiò per qualche minuto dentro uno dei pensili, poi ne estrasse un barattolo con aria trionfante «Ecco qua.» Kate osservò la scena con una smorfia. «Sicura che non sia qualcos’altro? Tipo... veleno per topi?» «Mmm... no, non può essere, Shim ama i topi, non li avvelena. Se è davvero qualcosa per loro, sarà anche meglio di quello che cercavo io.» «Mandy!» «Rilassati! C’è scritto sull’etichetta, vedi?» le sorrise mostrandole il
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barattolo più da vicino. In effetti l’etichetta, oltre a fornire una quantità di istruzioni perfino eccessiva considerata la semplicità d’uso del prodotto, lasciava pochi dubbi sulla natura del contenuto. Per di più, il barattolo sembrava non essere mai stato aperto, segno che il padrone di casa non doveva avere un gran bisogno d’aiuto per riuscire a dormire. Restava da capire perché, in tal caso, l’avesse comprato, ma era un mistero su cui Kate non sentiva alcun bisogno di indagare. Poco dopo, le due donne si alzarono e lasciarono la casa di Shim, ignare del movimento tra le ombre al loro passaggio. Mentre Amanda spiegava a Shim di dover andare via prima, ricevendone tutte le rassicurazioni del caso, e l'amica la attendeva presso il cancello, la porta d’ingresso, ignorata dai più, si aprì, per poi richiudersi di nuovo dopo qualche istante.
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CAPITOLO 6 Indagini
L’ufficio del detective Delmenar era tra i più grandi dell’intera centrale, secondo solo a quello del capo della polizia, all’ultimo piano. Era anche uno dei meno utilizzati. Quando si trovava alla centrale, l’elfo era più spesso nei corridoi che non alla sua scrivania, intento, a suo dire, a controllare il lavoro di ognuno dei suoi agenti, sebbene non fosse questa la definizione che i diretti interessati attribuivano alla sua sorveglianza. Non potendo lavorare in una foresta, Celen aveva portato la sua personale foresta al lavoro. Ogni angolo del suo ufficio, nonché ogni superficie piana non altrimenti utilizzata, ospitava una varietà di piante che avrebbe fatto la felicità di un botanico, delle quali l’elfo si occupava di persona, non consentendo a nessun altro, meno che mai all’inaffidabile personale addetto alle pulizie – che in realtà non aveva affatto accesso alla stanza – di avvicinarsi più del minimo indispensabile. Anche sulla scrivania, per altri versi piuttosto sgombra, faceva bella mostra di sé un vaso, dentro cui una piantina dall’aspetto insolito sfoggiava numerosi fiorellini di un ammaliante colore blu elettrico. Oltre a questa, l’unica altra cosa a risiedere in maniera permanente sul piano di lavoro era la piccola sfera di cristallo, poggiata su un supporto nero a tronco di cono, che al momento pulsava di una luce azzurra a indicare una chiamata in arrivo. L’elfo la sfiorò appena con una mano e al centro della sfera comparve una perfetta miniatura del capo bovino del medico legale, alla cui vista Celen fu sul punto di voltare lo sguardo con disgusto. L’immagine crebbe fino a superare i confini del cristallo e assumere dimensioni vicine alla metà di quelle reali. «Ha qualcosa da dirmi?» sibilò Celen. «Se mi sta chiedendo se l’ho chiamata solo perché avevo voglia di parlare con lei, la risposta è no» replicò il Minotauro senza mostrare il minimo accenno di ironia «Ho i risultati dell’autopsia.»
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«Allora non mi faccia perdere altro tempo, cos’ha scoperto?» «Niente.» «Come sarebbe a dire “niente”?» «Sarebbe a dire che non sono riuscito a risalire alla causa della morte della vittima. Fatta eccezione per le ferite causate dalla porta, o da qualunque altra causa lei abbia scoperto nel frattempo, si tratta del cadavere più in salute che io abbia mai visto.» «Sicuramente deve esserle sfuggito qualcosa. Ripeta gli esami per la magia, ammesso che li abbia fatti, e controlli se ci sono tracce di veleno o di sostanze tossiche.» «Non ci sono tracce residue di magia sul corpo. L’esame tossicologico è negativo, non ci sono ferite letali, o di altro genere in effetti se ci limitiamo a quelle inflitte prima della morte, gli organi interni sono in ottime condizioni e non mostrano segni di deterioramento. Se non sapessi che quell’uomo è morto, gli direi che può tornare a casa e fare il prossimo controllo medico tra due o tre mesi.» Celen ascoltò l’intera esposizione mentre formulava con la mente il paragrafo in merito alla manifesta incompetenza, da aggiungere alle altre ragioni di lamentela nei confronti del dottore quando avrebbe inoltrato il suo reclamo ufficiale. Crew, il suo predecessore, non gli aveva mai dato questo genere di problemi. E non aveva mai muggito in sua presenza. Il dottor Melkor, dal canto suo, proseguì con la massima tranquillità. «Simili condizioni troverebbero una spiegazione solo in caso di un omicidio perpetrato con la magia, cosa che però abbiamo già escluso. Ho controllato la letteratura in merito ad altre cause di morte che influiscano sulla forza vitale di un individuo senza riscontri fisici, tuttavia non ho trovato niente che non richiedesse l’uso di un qualche genere di incantesimo, che avremmo comunque rilevato.» «In sintesi, mi sta dicendo che non è capace di spiegare come sia morto quell’uomo.» «Le sto dicendo che non esiste una causa rilevabile con le nostre attuali procedure e strumentazioni, e che potrebbe essere necessario chiedere un consulto con esperti di altre discipline per valutare la situazione.» «E allora proceda con questo consulto!» replicò l’elfo esasperato «Cosa sta aspettando? Che glielo dica io?» «In realtà sì. Per ragioni al di là della mia limitata capacità di comprensione, secondo la procedura l’intervento di consulenti esterni deve essere autorizzato dal detective incaricato delle indagini.» «Giusto» borbottò Celen «Le farò avere l’autorizzazione.»
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«Nel frattempo potrebbe essere una buona idea controllare se si siano verificati casi simili altrove, potrebbe essere un buon sistema per ottenere maggiori informazioni.» L’elfo quasi balzò a sedere, trattenendosi con un notevole sforzo di volontà. Irrigidì i palmi delle mani sulla scrivania e tese le braccia prima di replicare in tono gelido: «Non ho bisogno che lei mi suggerisca come devo fare il mio lavoro.» «Nemmeno io, ma non mi sembra che questo le impedisca di farlo» rispose pacato il Minotauro un istante prima che la sua immagine proiettata dal cristallo svanisse, segnalando la chiusura della comunicazione. Celen guardò con odio la sfera come se questo potesse bastare a trasmettere tutto il suo disprezzo fino al minotauro e causargli un’embolia cerebrale fulminante. Fu tentato di scendere all’obitorio e discutere della cosa a quattrocchi col dottore, ma preferì dimostrare la sua superiorità ignorandolo e mettendosi al lavoro sul caso. La cosa migliore da fare, al momento, era collegarsi agli archivi della polizia e verificare se vi fossero informazioni in merito a indagini su casi simili effettuate da altre giurisdizioni. Passò ancora una volta la mano sulla sfera, che tornò a illuminarsi di una lieve luce azzurrina, preparandosi a ricevere i comandi di attivazione. Non dovette fare altro che pensare a quello che aveva bisogno di reperire negli archivi per attivare il suo accesso privilegiato alla maginet e accedere agli archivi comuni delle centrali di polizia, il metodo più rapido per lo scambio di informazioni tra le forze dell’ordine. I risultati che ottenne furono maggiori di quelli che sperava, per quanto forse la speranza non fosse il sentimento più adatto considerato che stava cercando delle vittime di omicidio. Interruppe la ricerca e inviò un nuovo comando alla sfera, mettendosi poi in attesa del risultato. Poco dopo, un volto si materializzò all’interno del cristallo per poi espandersi come era avvenuto poco prima per quello del medico legale. Ora Celen si trovava a fissare, non senza un certo grado di repulsione, un uomo massiccio e dai lineamenti squadrati, con la pelle di un insano colore verdastro e dall’aspetto squamoso. «Sono il capitano Celendlinis Delmenar della Prima Squadra Omicidi di Tejarak, con chi sto parlando?» si presentò. «Capitano Throll, squadra omicidi di Nuova Finnell. Cercava qualcun altro?» grugnì il suo interlocutore. «No, certo. La stavo contattando in merito a un caso a cui state
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lavorando, delle vittime di omicidio prive di...» Throll lo interruppe. «Brutta storia. Come posso esserle utile, detective?» «Questa mattina abbiamo ritrovato il cadavere di un uomo nel suo appartamento. Aveva i segni dell’impatto con un corpo contundente sulla fronte, ma sembra non siano stati questi la causa della morte, e il nostro medico legale sostiene che non ve ne sia una apparente.» «In pratica avete una vittima simile a quelle che sono state ritrovate qui da noi.» «È possibile. Cosa sa dirmi in merito.» «Non molto purtroppo. Le indagini sono ancora in corso, e per il momento non abbiamo risultati degni di nota. Per adesso non c’è neppure qualcosa che accrediti la teoria dell’omicidio; per quanto ne sappiamo potrebbe anche essere un qualche tipo di malattia sconosciuta.» Celen rifletté sul fatto di non essersi ritrovato l’unico medico legale incompetente del mondo, cosa che in parte lo consolava, ma evitò di dare voce a questo suo pensiero, preferendo concentrarsi su altro. «Mi dica quello che può, comunque. In cambio la terrò informata sui nostri progressi.» «Come le dicevo, non c’è molto. L’unico punto in comune che siamo riusciti a riscontrare tra le vittime è che fossero tutte degli psichici di qualche genere.» «Veggenti?» domandò l’elfo. «È possibile, ma non posso assicurarglielo. Ufficialmente, ai veggenti non è consentito operare qui a Nuova Finnell.» «Mi sembra una cosa sensata» asserì l’elfo convinto. «È una cosa inutile. Soprattutto considerando che ne abbiamo già uno che lavora a titolo gratuito, cosa che rende abbastanza stupida l’idea di fare vaticini a pagamento.» «Pensavo avesse appena detto che i veggenti non possono lavorare lì da voi.» «Infatti è così. Tutti tranne uno, il veggente ufficiale della città. È una legge che risale al quindicesimo secolo e nessuno si è mai dato pena di cambiarla. La vostra vittima è un veggente?» «Sì. Probabilmente un ciarlatano.» «Probabilmente no. Rientrerebbe nella casistica.» «Forse erano tutti dei ciarlatani. Non mi stupirebbe se qualcuno avesse deciso di liberarsi dei cialtroni che fingono di poter prevedere il futuro alla gente.» «Se così fosse, si sarebbe scelto un pessimo posto dove iniziare la sua
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crociata, non le pare?» «Che mi dice del vostro “veggente ufficiale”?» «Dicono che sia bravo, e c’è chi afferma che risalga al quindicesimo secolo anche lui. Per quel che mi riguarda, non l’ho mai neanche incontrato.» Celen sospirò. «Volevo sapere se è tra le vittime.» «No.» «Interessante.» Throll si strinse nelle spalle, gesto che andò quasi del tutto perso per l’elfo, che lo vedeva solo dal collo in su. «Non più di tanto. Quell’uomo è sopravvissuto a peggio, non credo basti un morbo sconosciuto o un maniaco omicida a interrompere la sua carriera.» «Lo avete interrogato?» «Gli abbiamo chiesto se avesse notato qualcosa di strano. Posso mandarle i rapporti dell’interrogatorio, ma la sostanza è che ha risposto di no.» «Immagino non gli abbiate chiesto di...» «Anche ammesso che in qualche modo avesse potuto darci delle informazioni con le sue capacità, sa meglio di me che le doti dei veggenti non sono ritenute delle testimonianze valide in tribunale, e non ho nessuna intenzione di far invalidare le mie indagini.» «Certo, certo, era solo curiosità. Dunque non c’e altro che sia in grado di dirmi?» «Tutte le vittime sono state trovate a casa loro o comunque in un ambiente chiuso e isolato, nessuna traccia di accessi avvenuti con mezzi magici o poteri psichici, niente impronte o altre tracce della presenza di altre persone. Tutto lascia pensare che non si tratti di omicidi.» «Altro?» «No. E lei?» «Io cosa?» «Qualche informazione sul suo caso?» «Niente di più di quello che le ho già detto. Le indagini sono appena iniziate. La terrò informata, comunque.» «Ci conto.» Celen chiuse la conversazione, riflettendo su quanto aveva appena appreso. Il capitano Throll gli aveva in parte confermato quello che già era emerso dalle indagini iniziali, ovvero il fatto che la magia non fosse coinvolta negli eventi. Questo, se non altro, escludeva la necessità di dover informare della cosa Stonehand, il che era senz’altro una cosa
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positiva. Rimase per un attimo a pensare al modo migliore di procedere, poi chiamò l’ufficio della Squadra Psi. A rispondere fu la donna con cui aveva parlato quella mattina, Sharon Chanders. «Stavo aspettando un suo rapporto» le disse lui senza darle il tempo di perdersi in convenevoli. «Gliel’ho mandato poco fa, se ha fretta posso aggiornarla a voce.» «Lo faccia allora.» «Abbiamo trovato tracce di attività psichica nell’appartamento, ma nulla che possa spiegare come un eventuale omicida possa esservisi introdotto. Non c’erano residui psichici ricollegabili a un teletrasporto o a una dematerializzazione.» «Quindi che genere di attività psichica avete rilevato?» domandò l’elfo, pur consapevole che non sarebbe riuscito a ricavare granché dall’informazione. I poteri psichici non solo erano fuori della sua area di competenza, ma per quanto lo riguardava erano del tutto fuori del mondo, un’inutile aberrazione di cui un mago non avrebbe mai dovuto perdere tempo a preoccuparsi. «Niente di classificabile, molto probabilmente solo i residui dovuti all’attività della vittima, in ogni caso nulla di letale o di potenza sufficiente a meritare ulteriori controlli.» «Fateli lo stesso!» quasi urlò «Non possiamo sottovalutare nulla finché non avremo le idee chiare sull’accaduto, mi sono spiegato?» «Come vuole, ma non sarà semplice. Le tracce psichiche si esauriscono col tempo, ed essendo già deboli in partenza...» «Non le ho chiesto una lezione universitaria, le ho chiesto di fare altri controlli, non mi interessa come dovrete farli o quanto straordinario sarà necessario per riuscirci prima che diventi del tutto impossibile, fateli e basta!» concluse interrompendo la conversazione prima che la donna potesse replicare. Purtroppo, rifletté, la realtà dei fatti era che non aveva alcun elemento su cui poter lavorare. Tutto quello di cui era certo era che un uomo era stato ucciso – le ipotesi di Throll su una morte dovuta a cause più o meno naturali non gli interessavano – e che lui non aveva idea di come fosse accaduto. Questo perché nessuno di coloro che avrebbero dovuto fornirgliene una era stato in grado di farlo. Era questo che succedeva quando ci si affidava a degli incompetenti, ma per il momento, solo per il momento, a questo problema non poteva porre rimedio. A quello dell’assenza di dati, invece, forse sì, si disse mentre usciva dal suo ufficio.
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CAPITOLO 7 Mondi Paralleli
«Tejarak?», domandò Lars Seymourn, la cui voce tradiva un certo stupore. Il capitano Throll era entrato nel suo ufficio poco tempo prima, giusto il necessario per fargli un resoconto della conversazione avuta con il detective Delmenar, e ora sembrava essere in attesa di una sua reazione alle informazioni che era andato a portargli. «Così sembrerebbe.» «L'ipotesi che sia una malattia inizia a diventare improbabile» commentò ancora il detective. «Potrebbe comunque essere stata portata lì da qualcuno.» «Sì, ma... quattro vittime qui in città, poi poche vittime isolate lungo la costa e poi Tejarak. È un comportamento anomalo per una malattia. Perché non ci sarebbero state altre vittime nelle altre città colpite?» «L'ho pensato anche io. Dovremmo tornare all'ipotesi dell'omicida, ma...» «Ma è ancora inspiegabile come abbia ucciso le vittime, e perché» concluse per lui Lars. «La verità è che non c'è niente di spiegabile in questa faccenda.» «Se soltanto mi lasciassi...» Throll lo interruppe prima che potesse concludere la frase. «Ti ho già detto di no e spero non vorrai farmelo ripetere ancora. Quel Sylke è l'ultima persona che voglio far avvicinare ai cadaveri, specie dopo quello che è successo l'ultima volta.» «Sai che non aveva nessuna colpa per quegli omicidi, non direttamente almeno.» «Questo resta ancora da dimostrare per quel che mi riguarda. In ogni caso il suo intervento è escluso. Nei tuoi casi puoi fare quello che ti pare, anche rischiare che i risultati delle indagini vengano invalidati...» «Perché possano essere invalidati dovrebbero essercene, lo hai detto tu stesso che non sappiamo praticamente nulla. Comunque hai ragione, il caso è tuo e non sta a me decidere... solo non ho idea di come altro io
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possa aiutarti.» «Potresti contattare il tuo collega di Tejarak. Delmenar non mi ha fatto una buona impressione, non sono affatto sicuro che condividerà i risultati delle sue indagini, ammesso che venga a capo di qualcosa. Forse il capo del DCM locale sarà più incline alla collaborazione. Mi pare che tu lo conosca.» «Stonehand? Non molto bene, l'ho incontrato una volta soltanto, era il relatore per un corso di aggiornamento e abbiamo scambiato solo qualche parola. Mi sembra un tipo a posto comunque, credo che non si farà pregare a tenerci informati.» «Comunque è meglio che lo contatti tu, è più difficile che si indisponga.» «Cosa che vale per chiunque se la scelta è tra essere contattato da me o da te.» ironizzò Seymourn. «Molto divertente. Posso contarci?» «Sì, d'accordo, lo contatterò e vedrò cosa può dirmi della faccenda.» «Evita di farlo in modo ufficiale, possibilmente.» «Vale a dire?» «Non voglio che tutta la centrale di Tejarak sappia che sto scavalcando uno dei loro detective... soprattutto non voglio che lo sappia il detective che sto scavalcando, vorrei mantenere almeno qualche possibilità di avere quelle informazioni. Perciò... trova un sistema, d'accordo?» Lars si strinse nelle spalle. «D'accordo. Penserò a qualcosa.» Quella sera, Lars lasciò la centrale in orario, cosa che non accadeva quasi mai considerata la mole di lavoro che si trovava a dover sbrigare quotidianamente. Nessuno gli chiese spiegazioni, né lui si aspettava che accadesse. Anziché usare il portale della centrale per tornare nei pressi di casa sua, prese in consegna un mezzo di servizio e lo usò per dirigersi a casa di Sylke, nella speranza di intercettarlo prima che uscisse. Avrebbe potuto chiamarlo per avvisarlo della sua visita, se non avesse avuto delle ragioni per voler evitare qualunque accenno alla cosa che non fosse fatto in una conversazione a quattr'occhi. L'abitazione del suo “consulente” si trovava in una zona abbastanza anonima della città, a metà strada tra il centro e il quartiere del porto, dove gli affitti erano abbordabili – soprattutto perché la maggioranza dei servizi non erano raggiungibili a piedi – e le condizioni degli stabili non del tutto pessime. Da quando conosceva Sylke, Lars era stato lì solo un paio di volte, una delle quali, almeno nelle intenzioni, per
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arrestarlo. Dopo aver bussato alla porta, rimase in attesa per un tempo che gli apparve troppo lungo. Bussò di nuovo con maggiore convinzione, sperando di non essere arrivato troppo tardi. Non aveva idea di quali fossero le abitudini dell'uomo, salvo la sua marcata tendenza a dormire di giorno e fare qualunque cosa facesse di solito dopo il tramonto, e in genere non aveva nessun buon motivo di interessarsene. Alcuni istanti dopo il terzo tentativo, la porta si aprì e Sylke comparve sull'uscio, con indosso soltanto un asciugamano attorno ai fianchi, di un giallo limone che faceva a pugni con il grigio cenere della sua pelle, e un paio di guanti neri. Il detective inarcò un sopracciglio. «Bella tenuta» commentò. «Ero sotto la doccia» grugnì Sylke di rimando. «Con i guanti?» L'altro non rispose, gli voltò le spalle e rientrò, lasciando la porta aperta. Lars lo prese come un invito e si accomodò, seguendo il suo riluttante ospite verso la stanza principale della casa, non molto più grande del suo ufficio alla centrale, e molto meno arredata. Tolto un divanetto in un angolo, non vi erano altro che una sedia e un tavolo, su cui erano poggiati alla rinfusa gli oggetti più disparati. Due porte si aprivano su pareti perpendicolari: una lasciava vedere una stanza da letto in disordine e un'ulteriore porta che doveva condurre al bagno, l'altra conduceva a una piccola cucina. Registrò tutte queste informazioni più per abitudine che per vero interesse, poi tornò a voltarsi verso Sylke, che nel frattempo si era diretto in camera da letto e, senza preoccuparsi di chiudere la porta, aveva lasciato cadere l'asciugamano e stava prendendo degli abiti dal letto per indossarli. «Ehi... di questo spettacolo avrei potuto fare a meno» commentò Lars, notando distrattamente l'uniformità di colore del fondoschiena dell'ibrido rispetto al resto del corpo. Inutile dire che uno come lui non si esponesse molto al sole. Sylke si strinse nelle spalle mentre si infilava un paio di pantaloni neri. «Cosa ti serve?» «Sì, anche io sono felice di rived... Lasciamo perdere. Dammi il tuo cristallo.» Nonostante l'espressione sorpresa che gli comparve sul volto, il mezzo drow ritornò in soggiorno, con la maglia ancora infilata solo per metà, prese dal tavolo la catenina con pendente che in genere portava al collo e la porse, senza lasciarla del tutto, al detective, che nel frattempo aveva
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estratto da qualche parte un sottile cilindro metallico. «Ti ho aiutato a risolvere qualche caso senza saperlo o hai deciso di darmi una gratifica?» gli domandò nel contempo senza troppa convinzione. Lars toccò il ciondolo con la bacchetta, ed entrambi si illuminarono per una frazione di secondo. «Consideralo un viaggio pagato per Tejarak. Andata e ritorno.» «Vacanza premio?» «No.» «Chissà perché, lo immaginavo.» «Ho bisogno che tu vada a trovare il detective a capo del DCM di Tejarak e gli porti un mio messaggio.» «Perché io? E perché portarglielo fisicamente, già che ci siamo? Non puoi chiamarlo e dirglielo a voce?» «Non posso chiamarlo, e non ho intenzione di spiegartene la ragione, e il messaggio è secondario, la cosa importante è che ci vada tu.» Sylke sospirò e si infilò al collo la catenina, lasciandola scivolare sotto la maglia, poi tornò nella stanza accanto e si sedette sul letto per indossare calze e stivaletti. «Per caso vuoi un caffè mentre mi spieghi per quale ragione hai bisogno che io vada a trovare questo tizio.» «Shim Stonehand.» «D'accordo, questo Shim Stonehand?» «No, grazie lo stesso.» «Bene, perché non ne ho, per cui comincia a spiegare.» «Il problema è che non ti posso dire che di recente abbiamo avuto a che fare con dei cadaveri che non avevano alcuna causa di morte apparente, mi sono spiegato?» «Benissimo. Continua a non parlarmene.» «Throll non vuole saperne di permettermi di farti intervenire, perciò le indagini sono a un punto morto. Adesso però pare ci sia stata un'altra vittima con le stesse caratteristiche a Tejarak, che non è nella nostra giurisdizione...» «Quindi tu vuoi gentilmente offrire la mia assistenza alla polizia di Tejarak per il caso.» concluse Sylke. «Ottima deduzione.» «E se questo... Stonehand rifiutasse?» «Se non altro ci avremo provato.» «Questo però non spiega perché non vuoi chiamarlo e chiederglielo prima di spedire lì me come un pacco dono.»
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«Perché... perché meno persone sanno di questa faccenda, meglio è.» «Hai paura che ti intercettino le chiamate?» Seymourne si strinse nelle spalle. «Non si è mai abbastanza paranoici per certe cose.» «Ecco perché io non entrerò mai in polizia.» «Oltre al fatto che non ti ci vorrebbero?» «Oltre a quello, ovviamente.» Sylke attraversò di nuovo la stanza in cui si trovava Lars per dirigersi in cucina. Aprì lo sportello di quella che doveva essere la dispensa, ci guardò dentro e la richiuse con un'espressione indecifrabile sul volto. «Immagino che non potrò neanche chiedere un compenso ufficiale per la consulenza, visto come stanno le cose.» «Se riesci a darmi qualche informazione utile, ti pagherò di tasca mia, senza intaccare le casse del dipartimento.» «Molto generoso. Niente sconti, comunque.» «Non avevo dubbi. Quindi devo considerare accettata la proposta?» «Sapevi che avrei accettato ancora prima di chiedermelo, altrimenti perché mi avresti pagato il viaggio senza avermene ancora parlato?» «Per scaramanzia.» «Col lavoro che fai non dovresti credere a queste cose.» «Non ci credo, ma non per questo non funzionano.» Mentre parlava si mise una mano nella tasca interna della giacca e ne estrasse una busta chiusa. «Questa dovrai consegnarla a Stonehand. Gli ho spiegato chi sei e cosa sai fare, e perché ti sto mandando da lui.» Il suo interlocutore prese la busta e la studiò con attenzione, rigirandosela davanti agli occhi, come se avesse potuto trarne chissà quale informazione nascosta. «Una lettera di referenze. Forte» disse senza entusiasmo e con velato sarcasmo «Non ne ho mai avuta una prima.» «Cerca di fare una buona impressione. Potremmo avere la possibilità di risolvere una serie di omicidi.» «Il tuo capo non la prende bene quando lo si aiuta a risolvere serie di omicidi, se non ricordo male.» «Non è il mio capo, e ce l'ha solamente con te, non con la soluzione dei casi.» «Cosa che è un bel problema quando sono io la soluzione del caso.» «Allora stavolta cerca di non esserlo. Ci vediamo quando torni.» «Lars?» «Cosa?»
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«Mi chiedevo solo se non faresti prima a farmi entrare all'obitorio ed esaminare uno dei corpi che avete lì senza dire niente a Throll.» «Qualcuno verrebbe di sicuro a saperlo, e non ho intenzione di rischiare la carriera per un caso che non è neppure mio.» «Perché, pensi che se lo faccio a Tejarak non lo saprà nessuno?» «Quello che fai a Tejarak, ufficialmente, non mi riguarda. Non sei un mio dipendente, e sei libero di prestare i tuoi servizi a chiunque li richieda, incluso Stonehand se coglierà la palla al balzo.» «Non fa una piega.» «Lieto che tu l'abbia notato. Altre domande?» «Solo una. Conosci qualche albergo decente a Tejarak?»
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CAPITOLO 8 Rivelazioni
L'ufficio di Shim Stonehand era più grande di quanto gli sarebbe mai stato necessario, cosa che poteva dirsi anche dell'essenziale mobilia con cui era arredato. Pur potendo, il detective non aveva mai voluto farla sostituire con qualcosa di più adatto alle sue ridotte dimensioni, in parte per una sorta di rispetto verso chiunque altro dovesse recarvisi, in parte per una punta di orgoglio razziale, dal quale non era del tutto immune. Della prima ragione, al momento, doveva essere contento Jayce Holloway, che stava occupando una delle due poltrone di fronte alla scrivania posta all'incirca al centro della stanza. Il suo atteggiamento rilassato – busto reclinato all’indietro, mani intrecciate dietro la nuca, gambe incrociate con la caviglia della destra poggiata sul ginocchio sinistro – era in netto contrasto con la posa rigida di Shim, seduto eretto con i palmi di entrambe le mani poggiati sul piano della scrivania davanti a sé. Il nano studiava il suo ospite con occhio clinico, in cerca di verità nascoste che sapeva non avrebbe trovato. Conosceva Jayce da diverso tempo e in varie occasioni aveva lavorato assieme a lui in indagini congiunte, con ottimi risultati. Lo considerava un buon agente, nonostante le sue arie da sbruffone, e sapeva quanto fosse molto più serio di come si sforzava di apparire. Non aveva nulla da rimproverargli sul piano professionale, e anche dal punto di vista personale la sua opinione era sempre stata abbastanza buona, almeno fino a quando lui e Amanda si erano lasciati e lui si era trasferito senza dare spiegazioni. Non che Manda ne avesse date, del resto. Si era comportata come se non fosse accaduto nulla di speciale, ma di questo non c’era da stupirsi trattandosi di lei, e non si poteva considerare il suo comportamento distaccato come un’indicazione del fatto che non ci fosse niente di sbagliato. Shim non aveva mai voluto indagare sulle cause della loro separazione, tuttavia non aveva mai perso quel vago senso di colpa dovuto al fatto di essere stato la causa, anche se in maniera del tutto involontaria, del loro incontro.
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La reazione della ragazza della sera precedente gli lasciava credere che, se esisteva una colpa in quello che era accaduto, Jayce doveva possederne almeno la maggior parte, e questo lo indisponeva un po’ nei confronti dell’uomo, ma si sforzò di non farlo trapelare quando gli rivolse la parola. «Allora, Holloway. A che devo la visita?» «Bella festa ieri» gli rispose lui con tono casuale. «Grazie. Ma immagino tu non sia venuto fin qui e abbia aspettato che io mi fossi liberato solo per dirmi questo.» «No, ma comunque non ho un motivo particolare. Mi domandavo soltanto se avessi qualche caso che potrebbe necessitare della mia attenzione, tutto qui.» «Tutto qui? Se avessi qualche caso da FPI lo avrei comunicato ai tuoi superiori.» «Certo, certo, ma visto che io sono qui non avrei modo di saperlo.» «Sei scappato senza dargli il tuo recapito?» ironizzò Shim. «Diciamo che sono in vacanza. Ma ho già iniziato ad annoiarmi.» «Forse avresti dovuto fermarti di più lungo la costa.» «Sono stato a Beril, a Rubenvar e a Falsar... vista una città di mare le hai viste tutte.» «Sì, be’, mi spiace di non poterti essere d’aiuto, ma qui ultimamente è tutto tranquillo. Se fossi passato un paio di mesi fa, magari...» «Sì, ho sentito che avete avuto un po’ di movimento da queste parti.» «Se vuoi definirlo così...» «Bene...» Jayce raddrizzò la schiena, sciolse le dita e poggiò le mani sui braccioli della poltrona per poi alzarsi in piedi. «Non ti faccio perdere altro tempo, faccio un giro a salutare i ragazzi e me ne torno in albergo.» «Quanto pensi di fermarti in città?» «Non so ancora. Qualche giorno immagino. Stammi bene.» Il nano lo salutò con un gesto della mano e lo guardò uscire. Dopo non molto, sentì la sua voce nel corridoio: «Ops, mi spiace, non guardavo dove andavo.» Gli rispose una voce di donna: «Ah... non importa, non è successo niente.» Shim non aveva idea di chi potesse essere. «Che cosa ci fai qui?» Altra voce femminile, questa inconfondibile. Amanda. Che ci faceva lei lì? Stava quasi per alzarsi e andare a vedere quando Holloway rispose alla domanda della ragazza: «Niente, una piccola rimpatriata, ma stavo andando via.» Non vi furono altri scambi di battute, e prima che potesse abbandonare
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la sua postazione, Amanda e una donna bionda stavano affacciandosi alla porta del suo ufficio. «Posso?» «Manda, certo, ciao. Chi è la tua amica?» «Shim, Kate Mendels. Kate, lui è Shim Stonehand, il capo del Dipartimento di Controllo della Magia.» «Kate... la veggente, giusto?» Shim aveva fatto il gesto di scendere dalla poltrona, lasciandolo a metà perché la donna si era fatta avanti per stringergli la mano, risparmiandogli un passaggio «Manda mi ha parlato di lei.» «Anche a me di lei detective» replicò Kate con un sorriso non del tutto forzato. «È un piacere conoscerla di persona.» «Piacere mio, ma accomodatevi. Che posso fare per voi?» «Kate ha bisogno di aiuto» disse Amanda mentre si sedeva sulla poltrona che poco prima era stata occupata da Jayce. Kate prese posto sull’altra senza troppa convinzione. «Credo sia meglio che ti spieghi tutto lei stessa.» «Io non... non sono del tutto sicura che...» farfugliò la veggente senza celare il suo imbarazzo. «Stia tranquilla. Qualunque cosa mi dirà, resterà tra noi. E le assicuro che non le riderò dietro, se è questo che teme.» Kate si voltò a guardare Amanda, che le rivolse uno sguardo di incoraggiamento. Prese fiato e iniziò a parlare, dapprima in modo incerto, poi sciogliendosi sempre più e fornendo tutti i particolari che riusciva a ricordare. Shim la ascoltò in silenzio e con attenzione, senza interromperla né commentare fino a quando il racconto del sogno non fu terminato. «In pratica, lei mi sta dicendo che ha sognato che questa... ombra la ucciderà, ma non sa dirmi quando, o se, questo dovrebbe accadere, a parte il fatto che si tratterà di un giorno in cui ha appuntamento con questa signora Lovelock.» Kate lo guardò con un’espressione indecifrabile. «Sì. So che sta pensando che...» «Sto pensando che dovremmo metterla sotto protezione per il tempo necessario, a partire da stasera, ma ho bisogno che lei mi dica con precisione quanto le sue coordinate temporali sono affidabili. È possibile che gli eventi cambino? Che, ad esempio, non si realizzino più in concomitanza con la visita della signora?» Un attimo di silenzio venne rotto da Amanda che chiamava a mezza
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voce «Kate?» La veggente era rimasta a osservare Shim, forse indecisa su quanto le sue affermazioni fossero serie, o intenta a rivalutare la sua opinione della polizia. Sentire il suo nome dovette riscuoterla, perché assunse un’espressione meno sperduta e rispose alla domanda. «I sogni premonitori non sono una scienza esatta, ma questo era molto preciso. Se l’ombra arriverà, se il fatto stesso di venire qui non ha già cambiato le cose, sarà dopo una visita della signora Lovelock, ne sono certa. Se così non dovesse essere, è probabile che la sognerò ancora... ma spero che non succeda.» «Immagino. Due agenti staranno con lei giorno e notte, per sicurezza, in modo da essere pronti a intervenire.» «La ringrazio» replicò la veggente con palese stupore. «Non deve, è il mio lavoro. Manda, potrei parlarti qualche minuto in privato, se non hai da fare?» «Sì, certo...» rispose Amanda incerta, volgendo nel contempo lo sguardo verso la sua amica. «Non c’è problema, io posso tornare a casa da sola.» «No» si intromise Shim «Non deve, la farò scortare fin da adesso, così risparmierà anche agli agenti di doverla cercare. Può aspettare all’ingresso nel frattempo, il tempo di scambiare due parole con Amanda e le mando gli agenti.» «Ah... va bene.» Shim attese che Kate fosse uscita e si fosse richiusa la porta alle spalle prima di rivolgersi ad Amanda. «Ti direi che stamattina è stato qui Jayce, ma credo che tu te ne sia già accorta da sola.» Lei annuì. «Manda... non sono affari miei e non ti ho mai chiesto niente prima, ma se c’è qualcosa che dovrei sapere in merito a lui, e a te, forse è arrivato il momento per dirmelo.» «Che vuoi dire?» domandò lei con un’aria da finta tonta che non le si addiceva. «Non sei il genere di donna che prende in odio i suoi ex, per quanto male possano averla lasciata...» «A dire il vero sono stata io a lasciare lui» precisò Amanda. «Meglio ancora, ragione di più per non trovare normale il modo in cui lo tratti. Sembra che, potendo, gli salteresti addosso per sbranarlo.» «Ti sembro una che sbrana le persone?» ironizzò lei, ma il suo tentativo di alleggerire i toni si perse nel vuoto. «No, è per questo che so che ci deve essere qualcosa sotto. Ti ha fatto del male? Fisicamente?» «Ma che dici? No!»
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«Se non ricordo male il tuo... incidente... è accaduto proprio nel periodo in cui vi siete lasciati...» insisté lui. «Sì, e non ti dirò che non sia stata colpa sua, in una certa misura, ma non è stato lui. Non è mai stato quello il problema.» «E allora qual è il problema?» «Lui. Lui non è...» Silenzio. Shim attese qualche istante, poi si rese conto che Amanda non sarebbe andata oltre e la incalzò «Non è cosa?» «Shim... non posso spiegarti tutto in dettaglio, altrimenti l’avrei già fatto. È solo che... non è esattamente la brava persona che sembra.» «Perché, sembra una brava persona?» «Hai capito cosa intendo. È diverso da come appare. Tutte quelle arie, le battute, l’atteggiamento da simpaticone a tutti i costi... è una facciata.» «Non mi dici niente di nuovo.» «Lo so, ma ho guardato quello che c’è dietro, e non mi è piaciuto.» «Non mi sembra sufficiente per spiegare il tuo atteggiamento. Che hai visto di così orribile?» «Posso solo dirti che non è una persona degna di fiducia. Non ha scrupoli, di nessun genere, e non si interessa a nessun altro che a se stesso. Può non spiegarti perché ce l’ho con lui, ma almeno dovrebbe bastarti per capire perché non ho più voluto stargli accanto.» Shim scese dalla poltrona e girò attorno alla scrivania, avvicinandosi alla donna. Non riusciva a capire il suo comportamento e le ragioni per cui fosse così criptica in merito a quanto accaduto tra lei e Holloway. Di primo acchito si sarebbe detto che stava cercando di coprirlo per qualcosa che aveva fatto, una tesi che però non si sposava affatto con il modo in cui lo trattava; dato il risentimento che dimostrava nei suoi confronti, non sembrava logico che volesse proteggerlo da una qualche responsabilità. A meno che, naturalmente, non vi fosse costretta, e poiché lei non era tipo da sottostare a ricatti, quale che fosse il rischio, questo poteva solo significare che ciò che stava tacendo aveva a che fare con il lavoro dell’uomo alla FPI. Ma il problema restava: che lei non potesse o piuttosto non volesse rivelargli come stavano le cose, sapeva che sarebbe stato difficile, se non impossibile, spingerla a confidarsi. «Manda, io sto cercando di aiutarti» le disse, deciso a tentare comunque. «Lo so, lo so, ma non c’è davvero niente che tu possa fare... anzi, non
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c’è niente che si debba fare, il passato è passato e lui, per quanto mi riguarda, fa parte di quello e di nient’altro. Se sono fortunata lascerà la città molto presto e potrei perfino non incontrarlo più fino ad allora. Nel frattempo... non fidarti di lui più del necessario. Non ti sto dicendo che sia corrotto o che non faccia il suo lavoro... forse lo fa anche meglio di quanto vorrei, solo... non metterti nella sua linea di tiro, tutto qui.» Shim inarcò un sopracciglio. «Hai già pensato a chi mandare con Kate?» domandò lei a bruciapelo, cambiando discorso «Se ci sono i tuoi agenti sarò più tranquilla, io ho una lezione tra non molto.» Il nano annuì e tornò dietro la sua scrivania. Era chiaro che non avrebbe saputo nient’altro da Amanda, e per rispetto nei suoi confronti non avrebbe insistito oltre, ma gli sarebbe rimasta la curiosità di sapere cosa mai poteva averla portata a quel punto. Che poteva mai aver fatto Jayce Holloway?
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CAPITOLO 9 In relativa sicurezza
Jayce non era neppure passato a salutare Amanda prima di partire per la sua missione misteriosa ma non troppo. Forse non ne aveva avuto il tempo, ma lei riteneva più probabile che l’avesse evitata di proposito per non correre il rischio di una replica della discussione, pur pacata, della sera prima. Quale che fosse la ragione, non le importava. Aveva maturato la sua decisione e c’erano ben poche cose in grado di dissuaderla una volta che aveva stabilito di fare qualcosa. Jayce non era una di queste. Le lune erano già alte in cielo quando uscì di casa diretta verso uno di quei pochi luoghi che aveva sempre evitato di frequentare in compagnia del suo uomo, non perché lui non l’avrebbe apprezzato, bensì perché non avrebbe per nulla gradito vedere lì lei. A dispetto della sua aria raffinata ed elegante, l’Underdark non era un posto adatto a chiunque e poteva rivelarsi molto pericoloso per chi non fosse stato in grado di badare a se stesso. Amanda, inutile dirlo, riteneva di appartenere di diritto alla categoria di chi sapeva farlo; convincere Jayce di questo, però, non sarebbe stato facile, tanto che in quel particolare caso non sarebbe neppure valso la pena provarci. Giunta a destinazione, passò senza obiezioni di sorta oltre i buttafuori e la ragazza all’ingresso, e si immerse nelle ombre del locale assorbendone l’atmosfera crepuscolare, lasciando da parte la pacata insegnante universitaria per divenire, almeno in apparenza, parte integrante di quel mondo notturno. Non stava cercando nessuno in particolare quella sera – una qualunque delle sue conoscenze le sarebbe andata bene per iniziare le sue indagini personali – ma, anche in caso contrario, sapeva di non doversi impegnare: doveva aspettare che loro andassero da lei. Si sedette al bar, scegliendo uno sgabello che le permettesse di non avere nessuno accanto, almeno sul momento, e uno dei tre baristi,
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un’elfa scura snella e sinuosa come una pantera, subito si diresse verso di lei, rivolgendole un’occhiata dall’alto in basso – merito della pedana dietro il bancone. Amanda ricambiò lo sguardo e ordinò: «Un jondril, senza ghiaccio.» La donna le voltò la schiena e si accinse a preparare il cocktail. «Salve, bella signora» sussurrò all’improvviso una voce alla sua sinistra, fallendo come sempre nell’intento di farla trasalire. Amanda si voltò appena in direzione del suo proprietario, incrociando il suo sguardo con quello di un paio di occhi da rettile incastonati in un volto che, in mancanza di informazioni migliori, si sarebbe detto umano. Non disse nulla. «Ti si vede poco da queste parti, ultimamente» proseguì il nuovo arrivato. «Vero» assentì lei. «Si dice in giro che tu preferisca passare il tuo tempo con un poliziotto.» «E chi mette in giro queste voci?» domandò Amanda con scarso interesse. «Io.» La risposta che lei stava per proferire fu interrotta dal ritorno della barista, che le poggiò davanti un bicchiere di cui stava ancora mescolando il contenuto con un bastoncino. Al suo interno, volute di un liquido bianco latte e uno nero inchiostro si alternavano in un movimento spiraleggiante, indivisibili ma incapaci di mescolarsi davvero. «Come fai a bere quella roba?» le domandò il suo interlocutore. Amanda si strinse nelle spalle con aria indifferente, sorseggiando il cocktail e risparmiandosi la battuta di routine sui gusti reciproci. «Allora, dov’è il tuo agente?» insisté lui. «Non qui.» «Certo che no, lo saprei se ci fosse.» «E invece non sai dov’è?» «Mi mancano ancora un paio di gradini all’onniscienza. Qualche indizio?» «Non sono in vena di giocare agli indovinelli, Isher.» «Strano. Quando vieni qui, di solito è perché hai bisogno di qualche risposta. E se non fai domande...» «Mi meraviglio, pensavo conoscessi già le mie domande» lo canzonò lei. CONTINUA...