Destiny

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In uscita il 28/2/2017 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2017 ( ,99 euro)

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GIUSY MERCURI

DESTINY

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DESTINY Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-075-7 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Dedicato a chi ha un sogno nel cassetto e una stella nel cielo, a chi nonostante tutto non ha mai mollato, a chi vorrebbe avere le ali per poter raggiungere la persona che ama, a chi crede nel destino e non ha mai perso la speranza. A chi lassÚ, nel cielo, ha un angelo che lo protegge. Questo è per te nonno, ovunque tu sia, sei e sarai sempre nel mio cuore.



“Una persona spesso incontra il suo destino sulla strada che aveva preso per evitarlo.� Jean De La Fontaine.



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PROLOGO

Il destino ama prendersi gioco delle persone ed è capace di giocare brutti scherzi. Ti colpisce come un uragano, arriva impertinente e sconvolge il tuo mondo, le tue abitudini, e tu, nonostante tutto, non puoi che lasciarlo fare, seguire la strada che il destino ti mostra, come se qualcuno l’avesse tracciata per noi. A volte, però, può sorgere il dubbio, un dubbio che farebbe impallidire chiunque: e se quello che chiamiamo destino non fosse altro che una banalissima presa in giro? Se non esistesse alcuna strada tracciata da qualcun altro, da una mente superiore, ma tutto ciò che accade, il destino appunto, dipendesse solo dalla nostra volontà? Se fosse davvero così, sarebbe alquanto ironico, visto che ho sempre pensato che se avessi mai incontrato lo scrivano del mio destino, lo avrei preso, senza pensarci due volte, a schiaffi. E se quello scrivano fossi io? Un tormento che credo, prima o poi, tutti nella vita si


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trovano ad affrontare. Come minimo, dovrei mettermi davanti allo specchio e prendermi a schiaffi da sola. E mentre mi guardo allo specchio, mentre cerco di capire, ecco che un altro dubbio mi assale: è possibile che un solo essere umano controlli il destino di più persone? Che abbia nelle sue mani i fili delle loro esistenze, proprio come un burattinaio che muove tante marionette ignare? Cos’è il destino? Esiste davvero? Io sono burattino o burattinaio? Scuoto la testa senza riuscire a trovare una risposta, anzi, mi chiedo se è vero, come dicevano i vecchi saggi, se la verità sta nel proprio nome. Sì perché, guarda caso, il mio nome è proprio Destiny.


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Sei anni prima

Il sole stava tramontando sulle spiagge di Miami e, nonostante fosse ormai basso all’orizzonte, il caldo era ancora intenso. Erano gli ultimi giorni di agosto, quando le spiagge iniziano a svuotarsi dei turisti provenienti da ogni parte del mondo e restano soltanto, si fa per dire, gli abitanti della Florida ad affollare i locali. Io ero sul molo, a fissare le barche dove i marinai si stavano preparando per le battute di pesca notturne. Gridavano come forsennati, un particolare, questo, che rovinava leggermente il panorama che avevo davanti a me. «Hope!» urlò qualcuno alle mie spalle. Mi voltai di scatto, anche se avevo già riconosciuto quella voce: si stava avvicinando a passo svelto Marcus, che io, senza una ragione precisa, avevo sempre chiamato Mark. Una volta che mi fu accanto, notai come le sue spalle enormi mi facessero ombra, ma il particolare che più catturò la mia attenzione furono i suoi occhi azzurri: erano preoccupati. «Ciao!» lo salutai e mentre lo dissi, provai un tuffo al cuore:


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chissà come, avevo la certezza che mi avrebbe dato una brutta notizia. Mark mi guardò per un istante, un’espressione indecifrabile sul viso. Prese un respiro profondo. «Parto per New York!» disse. Provai la surreale sensazione di una mano sprofondata nel petto, una mano gelida che aveva appena stretto in una morsa dolorosa il mio cuore. «Ricordi che avevo spedito a Good Morning People Says il progetto per una puntata?». Annuii: lo ricordavo fin troppo bene. «Ecco, a qualcuno è piaciuto, lo hanno trovato originale e interessante e vogliono che vada a lavorare per loro!». E un sorriso di quella che non poteva essere che gioia gli illuminò la faccia. «Non posso crederci! Il sogno di una vita intera si sta per realizzare!». Le parole gli uscirono di bocca con la stessa velocità con cui la mano gelida mi aveva strangolato il cuore. Lui mi fissò con occhi colmi di quella che non era preoccupazione, ma gioia, in attesa che dicessi qualcosa. Mi feci coraggio, cercai di ingoiare quell’orrido boccone amaro che mi era rimasto incastrato nell’anima. «Sono davvero contenta, Mark!» lo dissi con un’eccessiva


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enfasi che rivelava che ciò che avevo detto non era altro che una menzogna, ma lui era troppo eccitato per accorgersene. «Grazie

Hope,

sai

quanto

conta

per

me

la

tua

approvazione!». Avrei voluto dirgli che era davvero un idiota, che non aveva capito un bel niente di come mi sentissi realmente. Che non volevo che partisse, neppure per realizzare il sogno che aveva prima cullato e poi coltivato per tutta la vita. Avrei voluto prenderlo a ceffoni e dirgli di restare, ma, in fin dei conti, chi ero io per poter impedirgli di salire su un aereo che lo avrebbe portato tra le braccia del suo destino? «Sai che io ti appoggerò sempre» trovai il coraggio di dire. Lui mi regalò un altro dei suoi sorrisi, luminosi e rossi come il tramonto. «Quindi, questo è un addio…» aggiunsi per poi trattenere il fiato. Mark sgranò gli occhi, quasi come se avessi detto la più stupida delle idiozie. «È un arrivederci, Hope, non un addio!». Stavolta è lui a dirlo con fin troppa convinzione, come se stesse cercando di convincere più se stesso che me. Quelle parole furono il colpo di grazia: ero sul punto di scoppiare, gli occhi bruciavano, la gola era stretta in un groppo che chiedeva solo di essere sputato fuori urlando. Dovevo andare via, dovevo fuggire da quel posto, dovevo


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scappare da quell’orribile momento che sapevo in qualche modo avrebbe per sempre segnato la mia vita. Dovevo fuggire da lui! «Allora arrivederci, Mark. Fai buon viaggio, quando arrivi, scrivimi un SMS così saprò che non ci sono stati problemi durante il volo». Lui però non rispose, i suoi occhi erano diventati scuri, di un colore che ricordava il mare in tempesta. Mi prese il viso tra le mani e, senza dire una sola parola, mi sfiorò le labbra con un leggero bacio. Era la prima volta che faceva qualcosa del genere. Ci conoscevamo da una vita e aveva aspettato il giorno in cui se ne doveva andare per darmi un bacio. Che senso aveva? Perché non si era semplicemente limitato ad abbracciarmi per poi lasciarmi per sempre? «Ciao Smiley!» mi salutò con il nomignolo che usava solo lui. «Anzi, ciao mia piccola Destiny Hope! Noi siamo per sempre, ricordatelo». Nonostante tutto, nonostante l’ombra che avevo sentito crescere dentro di me, riuscii a sorridere, sapendo che quelle parole mi sarebbero rimaste impresse come un tatuaggio. Ci abbracciammo e me ne andai. Poi lui andò via, portando con sé un pezzo di me.


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Sei anni dopo

CAPITOLO 1

MARK «Tu sei pazzo! Non ho bisogno di curarmi!». Jason stava ripetendo quella fastidiosa nenia da mezz’ora. Amavo il mio lavoro, volevo bene al mio amico, anche se in quel preciso istante lo avrei preso volentieri a pugni, tuttavia erano giornate come quella che mi facevano provare il bisogno di fuggire da lì, abbandonare tutto e tutti e tornare alla vecchia vita che mi ero lasciato alle spalle. «Jason, te lo ripeto per l'ultima volta, perché le tue lagne stanno iniziando davvero a farmi perdere la testa!» dissi alzando la voce, con un tono glaciale che speravo gli avrebbe fatto capire che ero stanco del suo atteggiamento da bambino piagnucoloso. «Hai la spalla lussata, la caviglia è slogata, quindi fammi il piacere di prendere l’antidolorifico che ti hanno prescritto al pronto soccorso e vedi di darti una mossa! Il nostro volo parte tra meno di un’ora e, se troviamo


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traffico, non riusciremo ad arrivare in tempo». «Se la smettessi di riempire i tuoi copioni con salti nel vuoto o voli giù dalle scale, non avrei di questi problemi!» ribatté torvo lui, dando dimostrazione di come non avesse intenzione di piantarla con le lagne. «Sai che adoro i tuoi film, ma a volte esageri con le scene pericolose!». Sospirai: avevo una voglia matta di prenderlo davvero a pugni. «Senti un po’, se non avessi cercato di fare lo spaccone per impressionare

quella

brunetta,

saresti

atterrato

nel

materasso! Quindi…» ma non finii la frase perché lui, incredibilmente, scoppiò a ridere. «Sì, lo ammetto, stavolta è colpa mia» e alzandosi dal divano, da un tavolino davanti a lui prese dalla confezione una pillola rossa e la inghiottì senz’acqua. «Contento?». «Visto che non ci voleva poi così tanto!» lo rimbeccai ridacchiando a mia volta: Jason aveva la doppia capacità innata di mandarmi fuori di testa in un attimo, ma, con la stessa facilità, era in grado di strapparmi sempre un sorriso. «Dai, dobbiamo andare, sennò si corre il rischio di perdere davvero il volo!». Jason annuì e insieme uscimmo in strada, nel caos pieno di vita che era Manhattan a quell’ora del mattino. Come sempre, non potei fare a meno di pensare che New York era


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una città unica, magica. Piena di vita, piena di umanità. Era il posto dove ero riuscito a trovare finalmente me stesso e che ormai consideravo a tutti gli effetti la mia casa.

HOPE Dicono che la vita sia composta dal bene e dal male, un principio condiviso da tutte le tradizioni e da tutte le popolazioni del mondo. È questa idea che ha dato origine allo Yin e allo Yang cinesi. Un simbolo conosciuto da tutti, ma di cui solo in pochi riescono a cogliere tutte le sfumature e le implicazioni. Erano le sei del pomeriggio e l'unica cosa che desideravo fare era dormire. Sarebbe stato un bene, ma anche un male, sarebbe stato Yin e Yang, perché da un lato mi sarei riposata, ma dall’altro avrei sprecato tempo che non potevo permettermi di perdere. «Hope! Tutto ok?» chiese Tim, il segretario, nonché mio amico. «Sì!» risposi subito. «Ho solo sonno e ancora ci sono due visite». Bevvi un sorso di caffè, nella speranza che mi desse l’energia necessaria per arrivare alla fine di quella lunghissima giornata.


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«Dai Hope, torna dentro!» fece lui comprensivo, ma irremovibile. Sbuffai. «Perché non passi questi due casi a Claire?» sfarfallai gli occhi, in un gesto un po’ bambinesco per commuoverlo. Il solo effetto fu che si mise a ridere. «Sai che è impossibile, se lo facessi, Claire ucciderebbe a entrambi!». Ci pensai un attimo: non ne sarebbe stata felice, ma restava pur sempre la mia migliore amica ed ero certa che mi avrebbe perdonata. «Nah… mi vuole troppo bene per uccidermi!» dissi sorridendo. «Invece ti sbagli!» proruppe una voce che ci fece voltare entrambi. «Ti detesto, brutta opportunista di una biondina che non sei altro!». Claire era appena entrata nello studio, i capelli corvini fluenti le ricadevano come una cascata di notte sulle spalle. Gli occhi erano due smeraldi tra i più preziosi e lucenti. Riportai la mia attenzione su Tim. «Potevi avvisarmi che era qui!» protestai, poi rivolgendomi a lei aggiunsi: «Eh dai! A buon rendere! Sono distrutta!». Lei mi sorrise. «No tesoro, io sono messa peggio di te, ho ancora tre visite!


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Rassegnati». Mi baciò sulla guancia per poi sorridere di nuovo. «Se non altro, mi conforta il fatto che farai più tardi di me!» le dissi facendo poi una linguaccia. Claire rispose mostrando a sua volta la lingua. «Bene, ora che vi siete divertite, è ora di tornare al lavoro» disse pragmatico Tim e, prendendomi a braccetto, mi trascinò in ufficio. Mi misi a sedere dietro alla scrivania, pensando ancora allo Yin e allo Yang, a come bene e male siano uno insito nell’altro, a come non possa esserci l’uno senza l’altro, anche se, per la nostra natura, tendiamo più a vedere il male che il bene, anche se, in quel momento, la prospettiva di restare al lavoro fino alle nove mi sembrava un male insormontabile. Il bip dell’interfono interruppe i miei pensieri. Schiacciai il pulsante e, con la sua solita voce spigliata e allegra, Tim m’informò che la visita delle 19.30 era già arrivata. «Può entrare in anticipo?». Sospirai: sapevo che c’era il rischio di accavallare i due appuntamenti, ma, così facendo, forse sarei riuscita a tornare a casa a un’ora decente. Yin e Yang, sempre e ovunque.


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«Fallo entrare» risposi. «Bene, Dottoressa Ride». Rimasi un istante in attesa, poi sentii bussare alla porta. «Avanti» risposi con il mio brevettato tono professionale da “sono la migliore in circolazione, è una fortuna che siate nel mio studio”, senza troppa falsa modestia. La porta si aprì di scatto. Sollevai gli occhi da alcune carte che avevo davanti a me. Per un istante, pur non capendone la ragione, il mio cuore perse un battito.


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CAPITOLO 2

MARK Quando sentii il tono con cui quella dottoressa disse “Avanti”, provai un improvviso moto di rabbia: era il tono di chi si crede insostituibile, il migliore del mondo, e se c’era qualcosa che proprio non sopportavo, era proprio la mancanza di umiltà. Soprattutto perché ancora non sapeva con chi aveva a che fare. Una volta che lo avesse capito, avrebbe fatto come tutte le altre donne: pronta e pimpante per soddisfare le mie esigenze. Aprii la porta, pronto a dar battaglia, pronto a rimetterla al suo posto, e finalmente la vidi. I suoi grandi occhi scuri erano fissi su di me, scrutandomi dalla testa ai piedi. Il suo bellissimo viso è una maschera di stupore che non prova minimamente a nascondere. Mi rendo conto di avere la bocca aperta, anzi spalancata: possibile che sia davvero lei? «Cazzo

fai,

amico?

Fammi

passare!»

sbottò

Jason


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spostandomi letteralmente di lato, facendomi sbattere contro lo stipite della porta. «Scusami» farfugliai continuando a guardarla. La dottoressa, passato l’iniziale stupore, si schiarì la gola. «Prego accomodatevi» disse indicando due sedie davanti una alla scrivania. Ci sedemmo e lei aprì una cartella marroncina. Iniziò a leggere rapidamente il suo contenuto. Dopo qualche secondo la richiuse. «Molto bene» disse fissandomi, senza degnare Jason di uno sguardo. «Sono la dottoressa Ride, ma voi potete chiamarmi semplicemente Hope» e sorrise. Fuori da ogni logica possibile, mi resi conto che avrei potuto uccidere per quel sorriso. Arrossii leggermente, sperando che non si accorgesse della mia reazione. Poi, dopo qualche istante, elaborai quello che aveva appena detto. «Tu sei Destiny Hope?» lo domandai con lo stesso stupore di un bambino che, per Natale, scartando un regalo, trova il gioco che ha a lungo desiderato. Emozione allo stato puro. Lei sollevò le sopracciglia. «Ho pregato Tim di non scriverlo sulla porta, ma a lui piace» rispose dando l’impressione di non ricordare. Di non avermi riconosciuto. «Mi ha sempre detto che è molto fine».


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C’era ironia nelle sue parole. La fissai, mi persi nei suoi occhi. Non credevo che non mi avesse riconosciuto, l’aveva tradita l’espressione stupita di quando mi aveva visto sulla porta. Bene, allora avrei fatto a modo mio, come sempre. «Concordo con lui» risposi. «Lui è Jason» indicai il mio amico, che le sorrise malizioso. «Ha avuto un problema alla spalla e alla caviglia, ma credo che lo sappia già, no?». Si limitò ad annuire. «Ho appena letto la cartella del Signor Kembak». Una pausa. «Prego possiamo darci del tu, senza troppi formalismi». «Perfetto Smiley, quindi…» lei sgranò gli occhi per poi interrompermi. «Come mi hai chiamato?». «Hope». «Sei sicuro?». Aveva l'aria perplessa, Jason mi fissava allibito, consapevole di essere spettatore di una commedia che non lo riguardava e di cui non avrebbe mai fatto parte. «Ovvio!». Hope si passò le mani sulle tempie. «Scusate, la stanchezza gioca brutti scherzi». Ed ecco di nuovo il sorriso che avrebbe fatto perdere la testa a una serie infinita di uomini. Perché ci sta girando così tanto intorno?


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CAPITOLO 3

HOPE Non avevo mai sofferto di allucinazioni in vita mia, eppure avrei giurato che l’uomo davanti a me, bello come un dio e con quegli occhi blu così intensi, i capelli castano scuro scompigliati che gli danno un’aria ancor più sexy, mi aveva chiamata Smiley. Per un attimo sentii il cuore accelerare i battiti: soltanto una persona mi aveva chiamata in quel modo, la stessa che era stata capace di distruggermi e guarirmi allo stesso tempo. Possibile che fosse davvero Mark? Erano passati sei anni da quel giorno al molo, ci eravamo sentiti per un po’, ma alla fine avevamo perso i contatti. C’erano stati gli auguri per il Ringraziamento, una chiamata per Natale, poi più niente. L’abisso del destino lo aveva inghiottito, facendolo uscire per sempre dalla mia vita. O questo era quello che avevo creduto. «Bene, allora Jason, togliti la maglietta e distenditi sul lettino» dissi in tono almeno all’apparenza noncurante. «Sai dirmi per quanto dovrà stare fermo?» mi chiese l’altro


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con voce roca e dannatamente sensuale. Mi avvicinai al lettino dove Jason era già a torso nudo. Notai i muscoli scolpiti e pensai che non era poi così male. «Posso darti una risposta precisa solo dopo la visita, però dalla cartella credo che non ci vorrà troppo tempo» gli dissi senza alzare gli occhi su di lui. «Nella peggiore delle ipotesi, dovrà stare a riposo per un mese». «Un mese?» sbottò allibito Jason. «Ma è troppo! Non possiamo perdere tutto questo tempo! Con un ritardo di un mese rischiamo di non rispettare i tempi per l’uscita! Stanno già mandando il trailer!». E, con un gesto di stizza, provò ad alzarsi. Ma fu solo un labile tentativo, perché il movimento brusco gli causò una fitta alla spalla. Imprecò per poi rimettersi giù buono e in silenzio. Io lo studiai con attenzione. Avevo visto un paio dei suoi film e dovevo ammettere che dal vivo era ancor più bello che sul grande schermo. Occhi verdi,

pelle

olivastra,

i

capelli

castano

chiaro

gli

incorniciavano gli occhi, dandogli un’aria da finto bravo ragazzo che nasconde dentro di sé uno spirito ribelle. Era uno di quegli uomini che potevano far perdere la testa a una donna senza nessuna difficoltà. «Sta zitto Jason, per favore, lasciamo che Hope ti visiti!» disse l’altro. E come pronunciò il mio nome, sentii di nuovo


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il cuore battere all’impazzata, come il tamburo di guerra delle tribù indiane. Saranno i caffè, mentii senza troppa convinzione a me stessa, ignorando qualcosa che stava urlando nella mia testa. Senza perdere altro tempo, mi detti da fare e iniziai a palpare i punti più critici dell'osso. Bastò un leggerissimo tocco per farlo sussultare. «Male?» chiesi, anche se sapevo già la risposta: non era dolore, più che altro fastidio. «No, no!» disse Jason in un sussurro, stringendo i denti. Gli sorrisi mentre, delicatamente ma in maniera decisa, feci scivolare le dita fino al centro esatto del dolore. «Cazzo! Che male!» urlò portandosi istintivamente la mano alla spalla, immobilizzandomi il polso per fermarmi. Gentilmente, mi liberai di lui e gli dissi che poteva rivestirsi. Tornai alla scrivania, aprii la cartella marrone e annotai un appunto su Jason e sulla sua spalla lussata. Feci ovviamente finta di non accorgermi che l’altro, quello che mi aveva chiamata Destiny, non mi aveva tolto un attimo gli occhi di dosso. «Allora? È grave?» chiese il moro preoccupato. «Allora, per esserne certi occorrerà una radiografia, anche se credo che non ci sia niente di serio» risposi guardando Jason che pian piano si stava rimettendo la maglietta.


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«Che vuol dire, per esserne certi?» domandò quello: adesso sembrava più irritato che preoccupato, atteggiamento che non mi piacque per niente. Fin troppi pazienti davano per scontato che potesse bastare un semplice tocco delle mani per capire l’entità del trauma. Ero un medico, non una maga. «Molte volte le ossa e i legamenti sono così sottili che possiamo individuare una lesione solo grazie a una radiografia, solo così potrò dire con esattezza con cosa abbiamo a che fare e quanto sarà il tempo di recupero» dissi usando un tono serio, quello di chi mette in pratica tutta la sua professionalità. «Comunque, nel peggiore dei casi, come ho detto, al massimo servirà un mese». Jason tornò a sedersi. Sollevai il telefono e composi il numero di uno degli interni. «Sam, sono Hope. Hai dieci minuti? Avrei bisogno di una lastra urgente, spalla destra. Perfetto Sam, sei un tesoro. Grazie!». Riattaccai il telefono. «Ottime notizie! Adesso ti faranno la lastra così domani possiamo iniziare». Sorrisi, soddisfatta e orgogliosa dell’efficienza della nostra struttura. «E la caviglia?» chiese Jason. «La caviglia va trattata con ultrasuoni, antidolorifici e ghiaccio. Se fosse stato qualcosa di più serio, non saresti riuscito a camminare, quindi non è niente di grave» e sentendoselo dire, mi ripagò con un sorriso luminoso e di


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sincera gratitudine. «È tutto?» chiese brusco il moro. Lo guardai allibita. «Sì, è tutto» risposi. «All'entrata troverete Sam ad aspettarvi per la lastra. Poi, appena avrete finito in radiologia, Tim vi accompagnerà dal dottor Spencer per gli ultrasuoni» spiegai, sperando che non facessero arrabbiare Lucas Spencer. Era uno dei migliori medici con cui avessi mai lavorato, tuttavia aveva un caratteraccio ed era capace di prendere a male parole quei pazienti che risultavano difficili e noiosi. Be’, poco male, in fin dei conti non era un mio problema. Il moro mi scrutò per qualche altro istante ancora poi, alzandosi di scatto dalla sedia, disse: «Allora a domani, Hope». Mi porse la mano, la strinsi e, non appena ci toccammo, un guizzo elettrico mi pervase sotto pelle, partendo dalle dita per diramarsi come un dolce fuoco liquido in tutto il corpo. Ritrassi subito la mano, come se avessi toccato una pentola rovente. Lui se ne accorse, perché un sorriso compiaciuto e divertito gli arricciò le labbra. In modo automatico, strinsi quella di Jason, che però non mi fece alcun effetto. «A domani» li salutai e, mentre la porta si chiudeva,


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allontanandoli da me, mi concessi un profondo respiro turbato. Era davvero lui? )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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