El Pico de Gallo, Alessio Balzaretti

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In uscita il 2 / /20 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine JLXJQR H LQL]LR OXJOLR 202 ( ,99 euro)

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ALESSIO BALZARETTI

EL PICO DE GALLO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ EL PICO DE GALLO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-473-1 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Giugno 2021


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PREMESSA

In questo romanzo ho voluto affrontare, in maniera molto parziale, la drammatica piaga del terrorismo dal punto di vista limitato del protagonista, senza addentrarmi in tutti quegli aspetti etici, morali e religiosi che vi sono alla radice e alimentano le motivazioni delle diverse parti in causa. Per caratterizzare in maniera credibile i soggetti e le situazioni ho accostato ai fatti, frutto della mia fantasia, alcune figure realmente esistite o esistenti. Tuttavia, per sentirmi libero di poter narrare gli eventi senza rischiare di scivolare nella diffamazione, ho ritenuto corretto modificare i nomi originali di alcuni personaggi.



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QUELLO CHE NON SAPEVO…

Giorgio Gardini si era avvicinato al banco del check-in dopo venti minuti di coda, una lungaggine fastidiosa, soprattutto perché sembrava impossibile pensare a Sofia come meta turistica in pieno mese di agosto. I suoi viaggi di lavoro nei paesi balcanici erano conditi di convenevoli e usanze molto anni Settanta, tra cui le visite ai clienti e le classiche bustarelle con cui ungere i manager che, come vecchi dinosauri, sopravvivevano alle giovani leve in ascesa. Fortunatamente Giorgio, che apparteneva alla loro stessa generazione, si era legato a doppio giro a quelle cariatidi e della professione ne aveva fatto una ragione di vita, una necessità fisiologica che, a settant’anni suonati era diventata a tutti gli effetti un mero divertimento. L’ultima volta che era stato nella capitale bulgara doveva essere agli inizi degli anni Ottanta, l’aveva accolto il sindaco in persona, un personaggio piuttosto istrionico. Si presentò con la fascia d’ordinanza che gli partiva dalla spalla destra ricadendogli sul fianco sinistro, accompagnato da una decina di funzionari comunali. Quella volta Giorgio aveva con sé quattrocentomila lev, più o meno l’equivalente di duecentomila euro, ed era in compagnia di un assistente personale che per puro caso possedeva una società di import/export di arredi per ufficio che sembravano calzare a pennello con le fabbriche in possesso del sindaco. Il primo cittadino, dopo averli abbracciati in mezzo al terminal desertificato dagli agenti di sicurezza dell’aeroporto, aveva battuto le mani due volte ed erano apparsi dal nulla una ventina di guardie del corpo armate di kalashnikov che li avevano scortati per tutto il tragitto.


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Il buon uomo, in barba a qualsiasi pensabile conflitto di interessi era anche proprietario delle uniche due aziende nazionali produttrici di cracker, avete capito bene, le famose gallette rettangolari con la zigrinatura al centro, un vero boom mondiale nel campo degli snack. La curiosità derivava dal fatto che la prima sorgeva nella zona industriale più centrale della città, la seconda, clandestina, era dispersa nella steppa, con un fatturato esentasse dieci volte superiore alla sua gemella. Sostanzialmente si trattava di affari, ma concretamente erano soldi sottratti alla concorrenza che aveva manifestato a più riprese di non gradire affidandosi più ai sicari che ai magistrati per risolvere la questione. Il ricordo più nitido che gli era rimasto di quel meeting furono i brindisi, infiniti e inevitabili, la cui conseguenza si tradusse in una nottata in hotel di sonno pesante con le finestre della camera spalancate e una temperatura di meno quaranta all’esterno. Lui, l’indomani, si rimise in viaggio e una volta atterrato a Mosca baciò l’asfalto della pista d’atterraggio come il Papa in Terra Santa, ringraziando il Signore di essere ancora vivo. Il suo assistente, invece, rientrò in Italia con un ordine da seicentomila euro di mobili destinati alla steppa bulgara. A distanza di tanti anni, il nuovo viaggio che si apprestava ad affrontare, sembrava non riservare le stesse emozioni. I bei tempi erano passati da un pezzo. I capi della multinazionale americana rappresentata da Giorgio, stavolta, erano molto preoccupati che l’operazione andasse a buon fine. Avevano definito di priorità assoluta un accordo, che valeva milioni di euro, con un consorzio di fabbriche. L’unica complicazione era che certi accomodamenti andavano pagati in dollari e il governo non permetteva più di introdurre moneta americana nel paese quindi, i fondi, sarebbero stati raccolti dagli associati della sede di Sofia e messi a disposizione dell’incaricato alla trattativa. In un altro gate dello stesso aeroporto, il finto signor Sergei Malinov, rispondeva alle domande di un’agente della polizia che ispezionava con curiosità l’immagine agli infrarossi del suo bagaglio a mano dalle


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sembianze di una grossa scatola di legno con una doppia maniglia al centro dove le due metà del coperchio si congiungevano evidenziando il marchio Minerva 1858. «Sono un appassionato di radio d’epoca. Più che una passione è una vera e propria malattia», puntualizzò amabilmente togliendosi il cappello e avvicinandolo al petto quasi a voler proteggere quel pezzo di cuore che pulsava per l’alta fedeltà anni Cinquanta. «E tutti quegli aggeggi cilindrici fanno parte del meccanismo che la fa funzionare?» chiese l’agente con risolutezza. «Posso chiederle di mostrarmeli?» Il sorriso paterno sul viso di Malinov si irrigidì per un istante sciogliendosi nuovamente appena la donna in divisa sollevò lo sguardo verso di lui. «Certamente, sarà un piacere svelarle i segreti di valvole e condensatori in un congegno così affascinante», disse infilandosi un paio di guanti in pelle mentre alle sue spalle si stava formando una calca di gente in attesa di poter avanzare per recuperare i propri averi. I poliziotti al metal detector si spazientirono subito facendo ampi cenni di insofferenza verso la collega. «Va bene signore è tutto molto interessante, chiuda pure.» Malinov sorrise, si rimise il cappello e, allontanandosi dal posto di controllo, ringraziò la solerzia delle forze dell’ordine italiane che gli avevano permesso di imbarcarsi sul volo per Sofia con un milione di dollari arrotolati all’interno dei bussolotti metallici che avevano suscitato tanta curiosità. La fase di decollo fu piena di turbolenze e vuoti d’aria, Gardini si contorceva nel gessato elegante alla ricerca di una posizione sulla poltrona che non gli procurasse dolori alla schiena. Quando il mal di testa arrivò come la ciliegina sulla torta, si tolse gli occhiali e cominciò a pulirli nervosamente con una pezzuola di raso. Giorgio era un maniaco dell’igiene, Malinov se ne accorse subito, un piccolo borghese in un carro bestiame diretto in uno dei paesi più poveri del vecchio continente. Con la sua professione di rappresentante, probabilmente, aveva arricchito sé stesso, figli e nipoti, partendo dal


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basso e salendo una scala sociale da cui non sarebbe sceso neanche da morto. Atterrati a Sofia, Gardini si avviò deciso al luogo dell’appuntamento mentre Sergei fece più con calma. Uno uscì dalla porta ovest trainato da una fiumana di gente carica di bagagli e l’altro dalla porta est che normalmente era quella adibita al servizio taxi. Giorgio si scrollò di dosso finalmente tutto quel proletariato di ritorno in madre patria e si posizionò impaziente sul bordo del marciapiede. Il segnale di riconoscimento era un piccolo fazzoletto bianco infilato nel taschino della giacca. Malinov si fece scarrozzare intorno all’aeroporto, lasciò passare diversi minuti, poi lo vide chiaramente e indicò al tassista di accostare per farlo scendere. Prima di allontanarsi gli allungò una banconota e depositò ai piedi del sedile posteriore il suo bagaglio dandogli istruzioni precise su chi sarebbe stato il suo prossimo passeggero. Gardini era in attesa, davanti a lui sfilava un traffico di auto piuttosto intenso e distolse l’attenzione a causa del pianto disperato di un bambino che, alle sue spalle, veniva trascinato via dalla madre che somigliava a una di quelle donnone dipinte da Botero che era uno dei suoi artisti preferiti. A un tratto un taxi gli si fermò davanti e l’uomo alla guida scese per aprirgli lo sportello. Gardini rimase immobile, fece un sorriso di circostanza, guardò all’interno dell’abitacolo e vide il bagaglio. L’accordo era stato rispettato, ora non restava che portare i soldi al suo contatto e mentre si accomodava in auto si domandava dove diavolo trovassero in Bulgaria tutti quei dollari americani. Tuttavia, non avrebbe mai saputo che quel denaro era destinato a compiere un reato.


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QUALCHE GIORNO PRIMA A MILANO…

«È testardo come sempre e la demenza senile l’ha fatto diventare ancora più gnucco …» «Quand’è che ha ripreso a dipingere?» «… se non capisce che deve usare il girello e si ostina con quel bastone, prima o poi si ammazza …» «È la mamma quella?» «… poi gli dico sempre “per dipingere siediti sullo sgabello” ma lui niente, così ci tocca, a me e alla badante, metterci lì in due a controllarlo. Che poi io, con questa artrosi, ho dolori dappertutto …» «Dall’astratto è tornato al figurativo, che strano.» «… finiremo per terra in tre e ormai ho quasi settant’anni anch’io. Non ce la faccio più Gigi.» «Ciao papà, sono Gigi, ti ricordi?» «Gigi chi, el barbè? Quand che môri te me vègnet a fa la barba, dìghel a la mè tusa!» «Allora meglio farla crescere ancora un po’ va … e quel viso lì di chi è?» «L’è de la dona püsé bèla del mùnd.»


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«Le somiglia proprio tanto, non avevi mai fatto un ritratto così bello. Questo fallo appendere, non farlo sparire in cantina come gli altri.» «No no, quest chi l’è in eredità per el mè fioeu!» «Ma non so se lo merita, forse è meglio che l’ultimo resti alla Carla che si prende cura di te tutti i giorni.» «Tì te ragiùnet cume lü che el pensa semper de rivàg no a fa i ròb, invece mi ghe fu vedè che finìsi quest chi e ne fu un alter per la Carla!» «Allora la barba la facciamo un’altra volta.» «Gh’è sempre temp … perché ricordati che sei sempre tu a decidere qual è l’ultima cosa che vuoi fare … e mì la barba la tài no! T’e capì?!»


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L’INIZIO

Era il primo sabato del mese di luglio, a Milano si boccheggiava e Marco aveva proposto un aperitivo all’aperto in uno dei posti dove era sicuro ci sarebbe stata un po’ di vita in una città svuotata dalle prime partenze per le vacanze estive. Piazza Gae Aulenti era rimasta un fiore all’occhiello dell’architettura moderna lasciato in eredità da Expo 2016, circondata da grattacieli dalle forme di design, rivestiti di vetrate in stile newyorkese. Al centro sgorgavano ampie fontane che di giorno erano un rinfrescante divertimento per i bambini e la sera inscenavano giochi di luce per i frequentatori di locali e ristoranti che migravano dalla movida di Corso Como lì a due passi. Mentre aspettava Luca, seduto sul bordo di marmo di una delle grandi vasche, Marco, si guardava in giro a caccia di qualche donzella interessante. Era pieno di giovani turisti stranieri, famiglie e, notava, diverse donne mature che mettevano in mostra un’affascinante seconda giovinezza. Poi la sua attenzione cadde su due ragazze, una nera, anglosassone, criniera afro e occhialoni da sole, che camminava a braccetto con un’araba che, da sotto il chador dai colori tenui e a suo modo elegante, mostrava lineamenti tipici mediorientali e un trucco che la rendevano davvero bella. Marco ci vide una certa guerra ideologica fra tradizione rigida e voglia di esprimere femminilità in maniera aperta, occidentale. Le due comunicavano a gesti, erano insieme, tentavano di scattarsi dei selfie come foto ricordo di una vacanza, ma non avevano una lingua comune e maneggiavano il cellulare con qualche difficoltà. Se non fosse stato per l’età vicina ai trenta, potevano sembrare due studentesse in Erasmus che si erano conosciute per caso e avevano deciso di fare quattro passi per la città.


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Comunque a Marco interessava poco, quello che macinava nella sua testa erano fantasie erotiche su un interscambio culturale da proporre a Luca, anche se l’amico era sposato con due figlie e non avrebbe mai accettato. Assurdo ma intrigante, era questo il bello di lavorare con l’immaginazione. Proprio mentre spostava l’attenzione sui cocktail che gli passavano sotto il naso, vicino al lounge bar che aveva scelto, vide, con la coda dell’occhio, la seta leggera del vestito della ragazza araba, svolazzare nella sua direzione. Aveva un passo deciso e, avvicinandosi, gli porse il suo cellulare mugugnando qualcosa senza aprire bocca, ma lasciando intendere chiaramente che lei e la sua amica volevano un ricordo. «Una foto?» chiese lui. «Sì», aveva annuito lei entusiasta, con un breve sorriso, guardandolo di sfuggita negli occhi. Accidenti se era bella. Le due si misero a cinque o sei metri di distanza, tenendosi alle spalle i palazzoni con le insegne delle banche che avevano lì la loro sede e si abbracciarono affettuosamente. Marco ovviamente, superato lo stupore iniziale, provò a fare il simpatico, scattò più foto, cercò diverse angolazioni lanciandosi in un «very beautiful woman in Milan!» che però naufragò, come tutto il resto, quando le ragazze si ripresero il cellulare e volarono via. *** «Un mese dopo, la UniCredit Tower si è sbriciolata», disse il procuratore lasciando cadere una matita che aveva tenuto in bilico con la punta delle dita sul ripiano della scrivania dietro cui era seduto. «Questo lo sanno tutti», disse Gallinari. «E tutti sanno», riprese il dottor Cervi, «che Marco Travaglini era una cellula terroristica di nuova generazione, un italiano, uno di noi, convertito all’Islam che, l’estate scorsa, in quella piazza, ha conosciuto le sue reclutatrici e con loro ha fatto un reportage fotografico


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dell’obiettivo. Un lavoro pulito, sotto gli occhi del mondo intero», disse facendo ruotare il pc portatile con le immagini che scorrevano. «Una scena ripresa in mezzo ad altre migliaia di spezzoni in cui persone si parlano, si incontrano, si salutano, si scambiano effusioni, fanno acquisti e si passano oggetti l’un l’altro. Insomma, se quella torre non fosse crollata e non fosse stato ritrovato il cellulare del terrorista con le foto che ha scattato e con le sue impronte digitali, nessuno oggi saprebbe nulla del come è successo e per mano di chi. Non avremmo in mano un bel niente, capisce ispettore?» Luigi Gallinari ci voleva arrivare per gradi. Lo avevano fottuto già troppe volte per lasciarsi chiudere nell’angolo con la scusa del “vogliamo una risposta subito e adesso”. Si accese una sigaretta con molta calma, il posto dove si erano incontrati non era un albergo a ore, nessuno li avrebbe sbattuti fuori per raggiunti limiti di tempo. «Una vecchia casa cantoniera ufficialmente abbandonata ai margini di una statale nell’hinterland milanese», disse il Gallo scostando di qualche centimetro le persiane della finestra per far uscire il fumo. «Ci sono già stato in questi posti e di solito non si tratta di raccontarsi qualcosa che è finito su tutti i giornali da un anno e che anche la puttana qui all’angolo ci potrebbe descrivere per filo e per segno.» «No infatti», disse il procuratore. «Diciamo che la situazione è stata gestita, ma le cose non sono andate esattamente così e ora abbiamo motivo di credere che l’accaduto possa ripetersi.» Dunque, il primo vero disastro terroristico che aveva coinvolto la nazione italiana provocando duecentocinquanta morti era stato spiegato con una bella messa in scena? Gallinari sbuffò l’ultima boccata scuotendo amaramente la testa: «Cristo Santo, non ce la fate proprio a essere onesti con la gente una buona volta?» Il sistema era sempre lo stesso: tenere il popolo molto tranquillo e se proprio si doveva scegliere un nemico, meglio quello che odiavano tutti e quei “tutti” si sapeva che battevano la bandiera stelle e strisce.


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«Ispettore mi risparmi la morale, io le parlo da pari a pari, ma se vuole posso diventare molto formale, sia nelle spiegazioni che nel dare ordini.» Quello era il momento in cui spesso gli avevano detto “lei non può capire” e in parte era vero, perché era impossibile immaginare fino a che punto la ragion di stato affondasse le radici nella vita quotidiana delle persone comuni. «Quanti anni ha procuratore, quaranta? … Sì», disse senza attendere risposta, «uno più, uno meno. Vede, io ne ho sessanta e non guardo troppo avanti pensando alla carriera o a quanti amici o nemici posso farmi nel futuro, perché di futuro, oggettivamente, non ne ho molto. Tutto questo sembra un limite, ma dà un certo senso di libertà, non so se mi spiego, di dire ciò che voglio e ciò che è vero. Lei se la sente di dirmi la verità o vuole aspettare di invecchiare e nel frattempo si limiterà a dare ordini? Perché in questo caso io la saluto e me ne torno nell’anonimato in cui mi avevate ordinato di rimanere.» Il procuratore si lisciò l’abito scuro e mosse qualche passo verso la porta, quasi volesse assicurarsi che l’agente di guardia non stesse origliando. «Ispettore, giusto per chiarire, il suo esilio è ben retribuito e normalmente non ci piace buttare via risorse senza il giusto ritorno. A proposito, come stanno sua sorella e suo padre? Abbiamo notato che, pur avendole chiesto di recarsi qui senza fermate intermedie, per lei è stato inevitabile trasgredire come d’abitudine. A ogni modo, avrà verificato che una parte del suo compenso viene accreditata sul conto dei suoi cari e vorremmo che le cose non cambiassero, giusto?» Era tignoso quel Gallinari, un vecchio ispettore rompicoglioni, fastidioso come un callo tra le dita dei piedi a cui Cervi poteva concedere qualcosa, ma rammentandogli comunque chi comandava. Bastone e carota, esattamente come a un somaro. Peccato che il somaro in questione avesse il cervello fino e davanti a quelle frasi si era posto con l’espressione divertita di chi voleva vedere fino a che punto arrivassero le cazzate che stava ascoltando.


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Una minaccia di quel tipo valeva poco, lo sapevano benissimo entrambi. Certi accordi erano firmati dalle più alte cariche dello Stato e la parola di un Cervi qualsiasi, non aveva alcun peso. «Marco Travaglini non era un terrorista, era lì per caso e non è morto facendosi saltare per aria. Non sappiamo esattamente chi sia il colpevole dell’esplosione, ma abbiamo davvero quel cellulare con le impronte del nostro uomo.» Il Gallo si era accomodato su una sedia di legno con le braccia conserte e una mano puntellata sotto il mento, come chi vuole godersi il film senza interruzioni: «Quindi le indagini vi hanno fatto collegare il video di una telecamera di sorveglianza puntata sulla piazza, con un cellulare, tramite un’impronta digitale di un incensurato. Perciò Marco Travaglini ce l’avete voi? Cos’avete fatto, lo avete prelevato da casa e l’avete fatto emigrare in Groenlandia? Gli avete dato una montagna di soldi per accettare di diventare l’italiano infame che ha ammazzato centinaia di persone? Oppure avete usato il buon vecchio cemento armato?» Il procuratore avrebbe voluto perdere la pazienza a modo suo, mandarlo a fare in culo e usare altri metodi. Ma i suoi superiori non avrebbero gradito, per ora la soluzione al problema era il vecchio Luigi Gallinari. Così la buttò anche lui sul sarcasmo: «Il cemento, sì, ammetto che ci abbiamo pensato, invece poi abbiamo optato per un cambio di residenza e di identità, a costi tutto sommato contenuti.» L’ispettore era sorpreso: «Contenuti? Davvero? E chi è questo tizio, un buon samaritano o uno stupido?» «Niente di tutto ciò», disse il procuratore. «Diciamo che il Travaglini è stato un colpo di fortuna, niente famiglia, genitori deceduti da anni, figlio unico, single. Tecnico in uno studio cinematografico, aveva solo amici e parenti di secondo grado che vedeva una o due volte l’anno. Dall’altra parte le sue richieste sono state, diciamo anomale, inconsuete. Inizialmente ci ha colto di sorpresa, ma col tempo ne abbiamo visto dei vantaggi.» Gallinari si sporse in avanti: «Sarebbe a dire?» Il procuratore si passò i polpastrelli sulla fronte leggermente sudata: «Ha chiesto di entrare nel programma.»


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Il sessantenne si alzò in piedi con un’espressione alla don Vito Corleone, mostrando i palmi delle mani e allargando le braccia: «A meno che vi siate presi degli spazi in tv, l’unico programma che ha un senso è quello di protezione testimoni e mi pare il minimo. Cosa ci sarebbe di inconsueto?» Senza mezzi termini, Cervi disse: «Programma di formazione per attività nei servizi segreti.» Gallinari rimase paralizzato per qualche secondo, si guardò in giro per assicurarsi di aver sentito bene, finse di tirarsi qualche schiaffo sulle guance rugose per escludere che stesse sognando e poi scoppiò a ridere. La risata più fragorosa che potesse uscirgli dalle corde vocali risuonò nel silenzio totale di quel posto abbandonato, un misto tra l’urlo di una scimmia e quello di un maiale asmatico: «… Mi scusi! Oh mio Dio!» Si asciugò le lacrime dagli occhi. «Mi dica che ha finito, perché credo mi sia uscita un’ernia dal ridere.» Il procuratore giunse le mani davanti alla faccia tirata facendo cenno a Gallinari di trattenersi. Sei mesi dopo …


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Kiev, Ucraina, un posto dove a qualsiasi essere umano gelerebbero le budella, specialmente in inverno. Ero immerso a bordo piscina e mi godevo lo spettacolo, l’acqua era perfetta, bollente al punto giusto, e la vodka scorreva a fiumi. Nikolai, un uomo incredibile, un industriale a cui avevo restituito l’amato figlio dopo mesi di angoscia, rideva come un pazzo mentre si faceva rincorrere da una giovane prostituta a bordo vasca. Dopo dieci anni di esilio mi ero ormai abituato a queste serate tra amici. In effetti non era per niente male la pensione. «Aiuto Luigi! Salvami da questa selvaggia!» Si chiamava Olga, studiava diritto all’Università di Kiev e si pagava gli studi così, nuda, rincorrendo un magnate anch’egli nudo, in avanzata età, brandendo i rami di una pianta urticante che si raccoglieva in campagna. Che strana la vita: mi ero giocato la divisa da poliziotto per distruggere un traffico di esseri umani, ricevendo dallo Stato italiano questo viaggio premio di sola andata. Va bene, diciamo che le storie a lieto fine sono un’altra cosa, soprattutto quando in mezzo ci finiscono i politici. Diciamo anche che nell’indagine i miei aiutanti erano stati: una giornalista ninfomane, un travestito e altri colleghi dal pedigree non esaltante. Ma alla fine, mi chiese Nikolai, il bastardo trafficante di bambini l’avete preso? L’abbiamo fermato… beh quasi, insomma, a dirla tutta no, non l’abbiamo preso, in galera ci sono finiti i suoi complici, gente che contava molto, moltissimo: un leader politico e un sostituto procuratore, nonché mia ex moglie.


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Comunque, l’abbiamo messo in condizione di sparire, “purtroppo” senza farci ammazzare, piegati ma non spezzati perciò pericolosi. Se leggessi i giornali dell’epoca e pensassi alla realtà mi verrebbe da ridere, qualche ritaglio lo tenni da parte, ma capisco che non si può spiegare a un popolo intero che l’alto comando della polizia, il Sismi e la mafia di mezzo mondo, erano convinti di dare la caccia a un elenco di componenti per costruire la bomba atomica quando invece si trattava di una lista di nomi coreani, figli rapiti e rivenduti che si aggiungevano ad altri figli come Ivan, divenuti loro malgrado oggetto di ricatto. Per metabolizzare una vicenda del genere, in Italia, non sarebbe bastata una vita, in Ucraina il cuore batte molto meno, i sentimenti sono assopiti dalle temperature e se cerchi di scaldarli seriamente lo fai con la vodka, non il mezzo più etico che possa venire in mente. Ciò detto io, che ero il capo di quella masnada, sono stato spedito qui, in un altro mondo, dove Nikolai mi ha suggerito da subito di non dire mai di no, perché rifiutare è disobbedire e da queste parti non piace molto: «Sarai mio ospite, io sarò in debito con te per sempre», agli ordini, per sempre. «Luigi, fratello mio, qui è normale avere donne fuori dal matrimonio», mi metteva le mani pesanti sulle spalle persuadendomi, «giovani! Ovviamente giovani!» Poi, con la bocca ancora sporca di latte: «E loro sono onorate di prendere il grande Mig Russo là in mezzo!» si indicava i gioielli sghignazzando. «Caro Niko», gli dicevo, «qui in mezzo c’è un Tornado mezzo sfasciato!» gli mimavo l’aeroplanino che precipitava. «Ma no fratello Luigi! Vedrai che Svetlana pulisce i tuoi pistoni, vero piccolo fiorellino di Siberia?» le diceva carezzandole il viso e baciandola appassionatamente. Che schifo, penserete come ho fatto io, la lingua dove ce l’ha messa lui io non ce la metto, ma poi si fa presto a capire che la vodka ha anche enormi proprietà disinfettanti, quindi, perché no? E poi, a conti fatti, quelle veramente schifate potevano essere solo Svetlana e le sue amiche costrette, gioco forza, a concedersi a un branco di vecchi lupi grigi.


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Insieme a noi c’erano sempre le guardie del corpo, militari della Specnaz, ex corpi speciali sovietici, giovanotti che a stento riuscivano a tenere i muscoli strizzati dentro abiti eleganti, rigorosamente incravattati. Noi a mollo in mezzo a nuvole di fumo e loro seduti intorno a un tavolino dove, invece di troneggiare dei bicchieri di Moscow Mule, ci avevano depositato quattro mitragliette Skorpion di fabbricazione cecoslovacca, giocattoli che con una sola sventagliata potevano dividere a metà una grigiona da latte di sette quintali. All’inizio non era stato facile abituarsi a questi accompagnatori, ma col tempo mi sono sembrati dei soprammobili. Nikolai era un maestro, sembrava che per lui non esistessero ma, se sentiva puzza di bruciato, si metteva nelle loro mani come se fossero suoi fratelli o meglio, suoi “compagni”. Saranno state le due di notte, sul fondo della piscina c’erano quattro fari che sparavano fasci di luce verso l’alto e siccome le cose da quelle parti si fanno in grande, il nostro catino si trovava sul tetto di un hotel affacciato su piazza dell’Indipendenza. Tema della riunione aziendale indetta dal magnate: revisione accordi commerciali per forniture di gas verso Russia, Polonia e Italia. Dall’altra parte della piscina, tra una nuvola di fumo e l’altra, intravedevo i volti e le sagome degli ospiti: Igor Pavlov, un ciccione sovietico con la pelata, una specie di Mastro Lindo sovrappeso; l’altro, un polacco, con un codice fiscale al posto del cognome, tale Christoph Krzystecz, baffuto e dal viso invecchiato precocemente, una sorta di contadino arricchito che, secondo Niko, aveva venduto al governo i suoi terreni per farci passare i tubi degli impianti di smistamento giocandosi bene le sue carte: «I terreni a voi e la proprietà degli impianti a me.» Il terzo era quello che mi creava qualche malumore, forse perché era italiano e, come si dice all’estero, degli italiani mai fidarsi completamente? No, più semplicemente mi infastidiva ricordare chi ero e da dove venivo, perché quel viso, seppur ricoperto da una barba folta come quella di Babbo Natale, io lo conoscevo, il suo nome non era


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Massimiliano Lodi e, a meno che la polizia non gli avesse dato un calcio nel sedere, il suo lavoro non era quello di intermediario internazionale per l’importazione di materie prime. Il gatto perde il pelo ma non il vizio e l’ispettore Lombardi, sezione tutela dei minori nonché mia vecchia conoscenza e complice nel salvataggio del figlio di Nikolai, era rimasto il maldestro gattone persiano che, a distanza di dieci anni, assomigliava di più a un ippopotamo, sempre eccessivo, disordinato e confusionario. Aveva i suoi tentacoli avvolti su due bellezze per lui inarrivabili e la terza spuntò come una sirena da sotto il pelo dell’acqua proprio davanti al suo ventre prominente. Quando chiesi a Niko cosa c’entravo io nei suoi affari, mi aveva chiesto di essere suo consigliere poiché non voleva farsi fregare dall’italiano, quindi preferiva far vedere al presunto intermediario, che era pronto a tenergli testa: «Chiederà uno sconto! E io sai dove gli infilo il suo sconto?!» Va beh, non esageriamo, in fondo un debito con l’Italia ce l’aveva, anche se temevo che avermi come ospite fisso nella sua mega villa fosse già parte del pagamento. Ovviamente lui non sapeva dell’esistenza di Lombardi e quando lo vidi nella hall dell’hotel, mi limitai ad aggrottare le sopracciglia e a fare la bocca a culo di gallina. Che cazzo stava succedendo? La nonna diceva sempre: quando non sai che pesci pigliare, stà schisc! Stai schiacciato lì nel tuo angolino e vedi cosa accade. Quindi, strettona di mano, presentazioni in pompa magna: «Ingegner Lodi Massimiliano! Max per gli amici!» e distribuzione degli accappatoi di benvenuto alla riunione. Ogni pensiero, dubbio e domanda, erano sfumati con l’arrivo delle ragazze. Svetlana si era immersa e avvinghiata a me come una piccola koala attaccata alla schiena del paparino, che vigliaccata, sentivo i suoi seni piccoli e sodi premuti sulle scapole e il bacino che mi massaggiava i reni.


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Come dire, chi se ne frega se Lombardi era venuto in incognito a Kiev per convincermi ad accettare un incarico di merda. Quando lo vidi, in estasi, cingere una delle giovincelle da dietro sbaciucchiandogli la schiena, capii che non c’era fretta. Che fine aveva fatto il marito premuroso e devoto che avevo conosciuto io? Sicuramente stava faticando a calarsi nella parte. O forse no? A ogni modo non era un mio problema, sessant’anni e non sentirli, alla faccia del procuratore dottor Cervi e dello Stato italiano, nudo come un verme, mi girai verso Svetlana, la presi per le cosce ed entrai dolcemente dentro di lei. Aveva labbra e gote rosse, boccoli biondi, sorrideva sempre come una piccola matrioska, ma quando la possedevo, per un attimo, perdeva il controllo, inspirava ed espirava velocemente, a ritmo di sesso, imbarazzata dai suoi orgasmi, e questo mi faceva impazzire.


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2.

Ci eravamo ritrovati all’ottavo piano dell’Hyatt Hotel, una splendida terrazza con vista sulla piazza illuminata dai lampioni, luci soffuse, arredamento extra lusso, il bar Na era il ristorante penta-stellato all’interno della struttura. Se c’era un industriale, un politico, un personaggio della TV o semplicemente un riccone di passaggio, si sarebbe fermato a cena qui. Scordatevi il vecchio stile barocco sovietico con decori lussuosi, velluti, drappeggi rossi, lampadari ornamentali, marmi di grande valore artistico e stucchi. Le mie stanche membra da pensionato poggiavano su un comodissimo divanetto, probabilmente in eco-pelle, dalla linea ergonomica. Al bar Na si respirava un’eleganza tutta europea, c’era il desiderio di apertura internazionale, anche verso l’acerrimo nemico americano, quasi invidiato per i concetti di libertà esportati in tutto il mondo. Galleggiavano tra i tavoli piatti delle migliori ostriche francesi alternati a tagliate di manzo del Texas, seguite da caviale nero ucraino innaffiato di Champagne Cristal del 2002, boccioni da tredicimila euro. Una location perfetta, dove anche un poveraccio qualunque si sarebbe sentito come un Re, soprattutto se a pagare era Nikolai. Pensare che qualcuno potesse essere insoddisfatto era praticamente impossibile. «Una pizza quattro stagioni, non ce l’avete?» Quasi impossibile. «Allora un bello spago alio, olio e peperoncino», si sfregò le mani il finto ingegner Lodi. «Neanche questo!?» Un bambino a cui avevano tolto il cioccolato da sotto il naso sarebbe stato meno deluso di Lombardi che, finalmente, al terzo tentativo, si era


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arrotolato le maniche della camicia, pronto a sbranare un’anatra all’arancia su letto di agrumi al Gran Marnier in salsa caramellata ribattezzata da lui: «Pollo arrosto, uno dei miei piatti preferiti!» Agitava i polpastrelli unti: «Scusate, ma da noi si mangia rigorosamente con le mani come confermerà il mio conterraneo», certo, uno dei dieci comandamenti della famiglia dei cafoni in cui mi aveva appena inserito il mio amico. Niko e Pavlov rimasero schifati, il Codice Fiscale polacco un po’ meno, anzi, si sentiva a suo agio con gente giù alla buona come lui. Che paradosso, consideravano cafone uno che mangiava a perdifiato e soprassedevano sulle loro abitudini puttanesche di poco prima – a proposito, le nostre amiche erano sedute al piano bar, tirate a lucido nei loro tubini di paillettes, lontane da noi ma pronte a scattare a un solo sguardo del magnate. Svetlana mi aveva fatto l’occhiolino e io l’avevo ricambiata mostrandole il canino come un leone dopo l’amplesso tutto sommato soddisfacente, che non era poca roba per un matusa come me. La cena andò via liscia, accompagnata da un classico dialogo tra maschi alfa: noi facciamo meglio questo, noi siamo i numeri uno in quello, e via discorrendo su chi pisciava più lontano. Da tutto ciò cercai di tenermi il più distaccato possibile, tuttavia Niko mi aveva presentato come suo braccio destro e si era speso nel decantare le mie qualità di buon ascoltatore e gran consigliere. Quante balle. «Bene signori, mentre aspettiamo il dolce, possiamo cominciare», disse snocciolando un inglese fluente, lingua comprensibile per tutti, e i giochi di potere iniziarono. Se qualcuno ha mai assistito a una riunione tra uomini d’affari dell’ex Urss, un consiglio: non abbiate paura di ubriacarvi, perché è l’unico modo per non addormentarsi. Altra cosa: non stupitevi se gli interlocutori si scambieranno sì e no quattro parole in croce, perché la differenza la fanno i fogliettini di carta che scivolano da una mano all’altra, come in una partita di poker. Terzo: la corruzione è all’ordine del giorno ed è tutto molto semplice, almeno finché la domanda soddisfa l’offerta.


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Il primo ad aprire le danze fu Mastro Lindo. Quello che ci si aspettava era che Pavlov chiedesse una sostanziosa mazzetta per rinnovare gli accordi di acquisto di gas ucraino da parte della Russia. In quel caso, gli interessi per proseguire nella collaborazione, pendevano a tutto vantaggio del russo che rappresentava il primo cliente in ordine di importanza. Invece, il pelato, aveva azzardato qualcosa di imprevedibile. Niko rimase spaesato e mi fece sbirciare l’annotazione chiedendomi se sapevo di chi si trattasse esattamente. Il cognome che lessi era terribilmente celebre da non lasciare spazio all’immaginazione. Per qualche secondo si vide del fumo sollevarsi dai nostri cervelli che stavano frullando a tutta velocità per capire cosa stesse succedendo. La definizione di mazzetta, per tutti, era sempre stata: mazzo di biglietti di banca dello stesso taglio. Nella malavita, i biglietti di banca, volgarmente definiti banconote, erano l’unica merce per cui valesse la pena trattare. Che ora, quella merce, avesse preso sembianze umane era qualcosa di totalmente inaspettato e mettendo insieme tutte le sorprese che giravano intorno a quel tavolo, la puzza di bruciato si sentiva lontano un chilometro. Si trattava forse di uno scherzo? Una riunione commerciale si stava trasformando in un incrocio di spie e spiati, dove Niko non sapeva di Lombardi e lui non sapeva di Pavlov che non sapeva dell’ingegner Lodi e io non sapevo un cazzo, esattamente come il polacco che mi guardava con gli occhi da pesce lesso? Ai russi serviva quest’informazione, o meglio, un uomo – vivo o morto sarebbe stato tutto da vedere – e mandavano un loro agente camuffato da industriale. Ma perché si muovevano in quel sottobosco? E soprattutto cosa c’era sul piatto della bilancia? «Questo», disse Pavlov guardandomi negli occhi, «vale l’amicizia tra i nostri due paesi», e fece scorrere con due dita una banconota tra me e Nikolai.


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Un dollaro significava Stati Uniti d’America e il suo sguardo su di me significava “ti conosco e nel gioco ci sei dentro anche tu”. Krzystecz nel frattempo si era infastidito, aveva un volo programmato per la notte ed era l’unico che voleva essere liquidato velocemente. Stizzito, farfugliò qualcosa di incomprensibile alzando la voce e spingendo via il braccio di Pavlov. Era mezzo ubriaco e con un cenno di Nikolai verso il cameriere, in pochi secondi, due guardie del corpo gli misero in mano una valigetta e lo accompagnarono fuori di peso. Prima che la porta della sala si richiudesse alle loro spalle, uno dei due gli aveva messo un fazzoletto impregnato di cloroformio sul naso. «Chiedo scusa, forse abbiamo un po’ esagerato con la vodka, ma Christoph è un grande amico e sono sicuro che una volta arrivato a Varsavia scoprirà di essere molto soddisfatto del nuovo accordo.» In quel clima di incertezza, silenzi, sguardi e sotterfugi, successe la cosa più imprevedibile del mondo. Forse da lui me lo sarei dovuto aspettare, tuttavia credevo ci fosse una guida alle sue spalle che avesse pianificato le cose in maniera intelligente e oculata, invece mi sbagliavo. Lombardi sfoderò un’espressione da chi la sapeva lunga, impugnò la stilografica litigando con l’orlo del taschino della giacca a cui era saldamente agganciata, prese un piccolo tovagliolo da aperitivo e ci scrisse sopra qualcosa. Inspirai profondamente mettendo in mostra il rosso doppio mento da tacchino incazzato ed emisi un suono: «Mmh…!» che nel mio gergo significava: che cazzo stai facendo Lombardi, metti via quella penna e il tovagliolo mangiatelo! Picchiò il palmo della mano sul tavolo e mi allungò il messaggio sotto gli occhi preoccupati di tutti e il testo diceva così: sto per vomitare, portami in bagno.


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3.

Da ragazzo avevo recitato in parrocchia La piccola vedetta lombarda e mi era toccata la parte del soldato piemontese che raccoglieva il corpicino del bambino a cui gli austriaci avevano sparato quando, dall’alto di un pioppo, guidava l’avanscoperta dei cavalleggeri. L’interprete era Gianluca Moretti, per tutti Luchino, a dodici anni pesava poco meno di venti chili e in quartiere gli avevamo appioppato ogni tipo di nomignolo legato al suo stato di pelle e ossa, da lo smilzo a skeletor fino a Pinocchio. A quell’età non si era consapevoli di niente, neanche di quello che si aveva nelle mutande e quando, pochi mesi dopo, al Moretti venne diagnosticata una malattia metabolica congenita, molti di noi che lo avevano sempre deriso, finsero di essergli amici, forse perché la coscienza cominciava ad aggrovigliarsi nei sensi di colpa. Quando morì, anche il più stronzo cominciò a lacrimare come la Madonnina di Civitavecchia, tutti tranne me ovviamente, che ero uno di quei pochi che ci parlava ogni tanto e che, inesorabilmente, passai per essere un “cretino insensibile”, così mi aveva definito la mia fidanzatina dell’epoca. Accidenti a lui, mentre sorreggevo quel bisonte di Lombardi sporco di vomito fin dentro i bagni del locale, vidi la Madonna, San Giuseppe e gli angeli tra cui lo smilzo che, vestito ancora da vedetta lombarda, mi diceva “io pesavo meno!”. «Gran bella sceneggiata», gli dissi depositandolo su una delle tazze del cesso. «Adesso puoi dirmi perché, dopo dieci anni, mi tocca vedere il tuo faccione qui a Kiev?» Presi una sigaretta dal pacchetto e me la infilai tra le labbra, da sbruffone. Appena accesa, tirai una profonda boccata e sputai fumo come un vecchio drago.


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Lombardi tirò su anche l’anima e srotolò un chilometro di carta igienica per pulirsi, io lo attendevo con la schiena appoggiata al muro, fissando le nostre immagini riflesse su un grande specchio posizionato sopra i lavandini. «Comunque, te lo dico, qui si mangia di merda, guarda che schifo… a proposito come stai? È passato un bel pezzo», si tolse la camicia rimanendo a petto nudo. «Se vuoi lisciarmi il pelo ti prego di coprirti, non sei il mio tipo.» Si girò di scatto piazzandosi a una spanna dalla mia faccia e mi squadrò dalla testa ai piedi. «Sarcasmo e arroganza», disse facendomi volar via la sigaretta con una manata. «Sei peggiorato, voltati e prestami la giacca.» Mi fece roteare come una giostra al luna park sfilandomi la mia gabardine blu preferita. «Ti tratti bene, che roba è?» Se la infilò contorcendosi come in una camicia di forza. «Un po’ strettina ma può andare, comunque è finita la pacchia, dobbiamo parlare, ma non qui, quel Pavlov è uno del FSB, servizi segreti della Federazione Russa, gli ex KGB.» Quindi il troglodita era ben informato. Qualcuno bussò alla porta, era Nikolai. «Tutto bene signori? Gigi, si è ripreso il nostro ospite?» «Ma sì, certo, tra l’acqua calda della piscina e il freddo fuori, gli si è mosso lo stomaco», improvvisai. Lombardi sorrise facendo ampi cenni di assenso: «Sono sicuro che con un tè caldo sarò come nuovo.» «Benissimo», disse Niko. «Senti Gigi, per cortesia, Pavlov mi ha chiesto di accompagnarlo all’aeroporto, potresti occuparti tu di quel discorso con l’ingegner Lodi, ricordi?» Certamente: di infilargli su per il culo lo sconto. «Vai tranquillo, nessun problema.» «Grazie amico, ci vediamo a casa.» Poi si rivolse a Lombardi: «Max, la lascio in buone mani, sono sicuro che raggiungeremo un’intesa, sono molto riconoscente all’Italia e Luigi è un consigliere speciale, troverà la soluzione giusta, non ho dubbi.»


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La porta si richiuse lasciando nell’aria il classico rumore cadenzato delle ante di un saloon del vecchio west. «Bene!» feci battere le mani in un singolo applauso. «La soluzione concordata con Nikolai è che lo sconto sul gas ucraino te lo puoi ficcare in quel posto, grazie e arrivederci!» Che uscita di scena, tanto valeva provarci, forse Lombardi avrebbe capito che di tornare a occuparmi di questioni poliziesche italiane non ne avevo proprio voglia. Non avevo mai preso molte decisioni nella vita, ma, nel finale, qualcosa di meglio avevo fatto, avevo deciso di svernare lì, in un paese dove non ero nessuno. Mi dedicavo alla pesca e alle passeggiate in montagna, un mio vecchio pallino. La mia pensione era dorata, l’accordo mi stava bene: sparire, punto e basta. Non sarebbe bastata la capacità persuasiva di un vecchio amico per ribaltare il mio NO secco di sei mesi prima. Era un tentativo da vecchio volpone, non c’è che dire, il procuratore della repubblica egregio dottor Cervi, faceva passi da gigante. Attraversai a lunghe falcate la sala del ristorante, se voleva fare carriera non sarei stato uno dei suoi soldatini, poco ma sicuro, e Lombardi, qualunque fosse il suo grado di coinvolgimento, aveva solo da guadagnarci nello starmi alla larga. Perché non si sceglieva anche lui un posto dimenticato da Dio dove andare in vacanza a tempo pieno con la moglie? La nostra parte l’avevamo fatta, eravamo dei giocatori d’azzardo che erano riusciti a fermarsi prima di perdere tutto, una rarità. «Gallo, mi tengono per le palle!» Cazzo. «E mia moglie è andata via, se non ho te, non mi rimane più niente.» Eccolo là con la disperata dichiarazione d’amore, quello che non volevo sentire, quel pensiero che come uno spillo sporco di sale comincia a pungerti sotto il tallone, vorresti ignorarlo ma brucia. Mi voltai per guardare dall’altra parte, verso i bagni, Lombardi era supplichevole, un po’ imbarazzato, ma si stava giocando la carta della pietà e davvero non era da lui.


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Feci roteare gli occhi inspirando profondamente, il linguaggio del corpo diceva “d’accordo seguimi grandissimo rompi palle”. La macchina era parcheggiata nel sotterraneo: vernice rosso Ferrari, assetto basso, linea perfetta anni Cinquanta, capotta in tela nera, un capolavoro. Lombardi ci mise qualche secondo a riconoscerla. «Nooo! Non ci credo! Dammi le chiavi.» Era la vettura che ci aveva salvato le chiappe dieci anni prima, un gioiello, da auto d’epoca destinata ai raduni sui passi dell’Adamello a protagonista di un inseguimento pazzesco terminato con un 747 in fiamme all’aeroporto di Linate. Un vecchio amico barista, il Mario, che a tempo perso faceva il meccanico, l’aveva rimessa a nuovo quando era sotto sequestro, poi, una volta decaduto il fermo, era bastato qualche accomodamento burocratico per farla espatriare dichiarandola rottamata. «No caro mio», gli sventolai il ditino, «stavolta la guido io», dissi soddisfatto un attimo prima di accorgermi che le chiavi erano nella giacca. «Puttana Eva!» Mi dovetti arrendere, il bisonte le faceva tintinnare sghignazzando mentre girava intorno al mezzo per guadagnare il posto del guidatore. Il motore emise un ruggito, alla seconda sgasata gratuita mi stavano già girando le palle e mentre mi rassegnavo a quell’agonia, vidi sullo sfondo il mio secondo punto debole. Diamine, ma che cazzo, doveva essere per forza una congiura. L’ombra di Svetlana era disegnata nella notte dalle luci d’ingresso dell’hotel. Con la nostra frettolosa dipartita, le ragazze si erano giocate gli extra della serata e anche un letto comodo in cui dormire. Le sue amiche erano probabilmente già partite alla ricerca di qualche palliativo, ma Svetlana no, lei era ancora lì ad aspettare me che ormai da tempo non amavo condividerla con nessun altro. Era sola, bellissima, non vedevo i suoi occhi nel buio ma potevo scommettere che stava guardando nella nostra direzione e quindi cosa potevo fare?


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Guardai il mio autista per dire “…è lì!” il quale a sua volta mi guardava per dire “…è un problema!” ma no, quale problema. Pochi minuti dopo percorrevamo l’autostrada, radio K trasmetteva un pezzo rap, in russo, praticamente inascoltabile, ma a Svetlana piaceva tanto.


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4.

«Tranquillo, non capisce una parola di italiano.» Quando Lombardi era nervoso aveva degli attacchi di fame incontrollati, aveva vomitato solo un’ora prima ma la presenza di Svetlana lo turbava e io cercavo di tenerlo a bada. Appena usciti dalla città ci eravamo infilati nel parcheggio di un palazzetto del ghiaccio a pochi passi da un baracchino da cui si alzava una colonna di vapore da far invidia alla centrale nucleare di Chernobyl, specialità: il boršč, una specie di minestrone di barbabietole e lardo accompagnato da salsiccia, midollo e mele marinate. All’interno dell’impianto si giocava una partita di hockey e l’ambulante stava friggendo di tutto in attesa dei tifosi infreddoliti all’uscita dei cancelli. Eravamo seduti a un tavolino, mentre la mia amica si era addormentata sui sedili posteriori della spider. «Squisito, ne vuoi?» Magari, quando sarò all’inferno e me lo ritroverò nel piatto tutti i giorni come punizione eterna. «No, grazie», risposi. «Ora vuoi spiegarmi cosa ci fai qui e soprattutto perché tua moglie ti ha mollato?» Risucchiò un’ultima cucchiaiata della brodaglia che aveva nel piatto e cominciò a espormi i fatti. «Dieci anni fa, dopo esserci salutati, sono rientrato a casa come se niente fosse. Ricordi quanto volevamo dei figli ma non potevamo averne per via delle mie palle a micro onde?» Lombardi ci teneva sempre a spazzare dal campo ogni dubbio sottolineando pregi e difetti dei suoi genitali. «Praticamente», continuò, «è come mettere in un fornetto un bicchiere di yogurt, accenderlo e…»


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«Sì!» lo bloccai, «me lo ricordo perfettamente!» Addentò un pezzo di salsiccia e andò avanti: «Trovai un biglietto sul tavolo e l’armadio vuoto, valige sparite, che stronza, sapeva che non ci sarebbe stato modo di farmi capire un bel niente affrontandomi faccia a faccia.» Non stentavo a crederlo. «In quei giorni d’indagine serrata ero stato fuori casa e probabilmente aveva avuto il tempo di organizzarsi. Sono sicuro che è tornata da sua madre», e si liberò le mani da un pezzo di cotenna che fece volare nel prato adiacente. Avrei voluto dirgli che era più probabile una fuga con qualche amante, perché lui era ingombrante, rozzo, uno con cui si ragiona poco, uno che non avrebbe mai capito che una donna a cui non puoi dare un figlio ha bisogno di tanto altro. Sì, sono uno cretino insensibile, non si era capito? Tuttavia non ebbi il coraggio di infierire. «Ma sì, vedrai che è una cosa passeggera.» Lui mi guardò torvo: «Dieci anni?» gettò il tovagliolo nel piatto. «Eri un pirla e sei rimasto uguale, meglio così.» In quel momento si sentì un vociare, prima lontano e poi sempre più forte, una confusione che come un’onda stava crescendo e si avvicinava. Il cuoco del baracchino diede l’allarme ai suoi aiutanti, uno si mise a rimestare la sbobba nel pentolone, l’altro aumentò il gas sotto il fornello e buttò sulla piastra due manciate di cipolle spezzettate che sfrigolarono emanando un odore tanto pestilenziale quanto gustoso. L’esca per i tifosi in uscita dal palazzetto era gettata e in pochi secondi arrivarono a decine affamati come bestie. Sembrava che Lombardi avesse aspettato quel momento di confusione per farsi serio e affrontare un discorso più importante. Dimostrava di non essere per niente stupido e allo stesso tempo teneva le orecchie di Svetlana a centinaia di decibel dalle nostre voci. «Ora ascoltami bene perché, se non ti spiego l’antefatto, non riuscirò a farti cambiare idea. L’anno scorso, il Corriere della Sera, realizzò uno speciale a sette anni dalla morte di Rayan Ben Asser e pubblicò un’intervista del Guardian con la madre e con la nonna. Con la prima si trattò più che altro di tracciare i lineamenti dell’uomo oltre che del capo di Al Queda, ma il vero scoop lo fecero con la vecchia», gli si


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illuminarono gli occhi, «la quale raccontò di Nadir, il figlio piccolo di Rayan e suo successore alla guida del movimento estremista.» Il nome di Nadir Ben Asser era lo stesso che avevo visto scritto sul pizzino che Nikolai aveva ricevuto da Pavlov e che mi aveva fatto leggere, ma non capivo ancora il nesso con la storia di Marco Travaglini che, di fatto, era il nodo su cui Cervi aveva messo in moto tutto il baraccone per riavermi in servizio. Quello che legava, alla lontana, le due figure poteva essere la strage di piazza Gae Aulenti, ma pensare di agganciare un ricercato internazionale attraverso un povero sprovveduto che aveva fatto da controfigura come attentatore, mi sembrava troppo. Mentre Lombardi continuava nel suo racconto, cominciai ad avere un brutto, bruttissimo presentimento. Ogni informazione che avevo ricevuto da quando ero stato richiamato in patria, sei mesi prima, dal procuratore, era roba top secret, affari da servizi segreti, non da poliziotto di quartiere com’ero stato io. «Me lo state mettendo nel culo, vero?» Lombardi mi guardò di traverso, ingoiò una sorsata di birra lasciando in sospeso la domanda come una sentenza. «Gigi smettila di fare la vittima una buona volta. Credevi davvero che dopo il casino di dieci anni fa, si sarebbero dimenticati di noi?» Era in vena di prediche, da questo punto di vista non era proprio cambiato, un incrocio tra frate Tac e il Grillo Parlante. «Il casino l’hanno fatto loro! Noi abbiamo ripulito la loro merda, punto e basta!» gli dissi irritato. «Quello scribacchino del cazzo ha fatto male a mandarti qui a convincermi, perché forse pensa che io abbia la memoria corta e crede che il tempo mi abbia fatto dimenticare che se sono qui è perché so cose che, se venissero a galla, farebbero incazzare un po’ di gente. E non parlo di chi occupa la stanza dei bottoni, ma di chi paga le tasse, di quelli che vanno in piazza e che se si incazzano li vanno a prendere tutti, uno a uno!» Lombardi fissava il tavolino con espressione quasi assente, come se in quel momento fosse lì solo fisicamente ma con la testa volesse arrivare altrove, là dove si trovavano tutte le soluzioni.


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In effetti, la mia nostalgia dei tempi in cui il famoso popolo italiano faceva paura, era una barca piena di buchi, dimenticata in una rimessa e nemmeno più buona per andarci a pescare al lago. «Sono giochi di potere amico mio, cose più grandi di noi. In quel momento abbiamo cambiato una storia già scritta. Forse, se davvero di quello che abbiamo fatto non fosse rimasta traccia, se nessuno di noi avesse tirato fuori la verità, avremmo potuto cavarcela.» Cavarcela, diceva, il segnale di resa per chi aveva pensato per un attimo di avere ancora il coltello dalla parte del manico, ma in realtà era rimasto con un pugno di mosche. «Quindi qualcuno ha parlato?» lo incalzai. La rivelazione del mio socio mi aveva fatto incazzare, solo un cretino si sarebbe giocato l’esistenza per rivelare ad altri che l’Italia non aveva portato a termine nessuna operazione internazionale di controspionaggio e che il Sismi non aveva sventato nessun traffico internazionale di ordigni atomici. «Abbiamo salvato dei bambini, abbiamo fatto la cosa giusta. Una cosa così non ha prezzo, lo sapevamo bene anche allora eppure siamo andati fino in fondo.» Già, fino in fondo ma puliti, con una via d’uscita buona per tutti, chi poteva intestardirsi a tal punto da non digerire lo scivolo che ci avevano preparato una volta terminati i giochi? «Bea Rancati, è lei che ha spiattellato tutto.» Il mio viso cambiò colore settanta volte, mi presi la faccia tra le mani per vedere se riuscivo a staccarmela dal cranio e feci l’elenco di tutti i porconi possibili e immaginabili dalla vacca in su, fino al padreterno. La Rancati era la giornalista di trincea, ninfomane cannaiola, che se poteva rompere ancora le palle al Papa per la storia della Monaca di Monza, lo faceva. La stronza più acida del pianeta aveva fatto la buona azione della sua vita, ma evidentemente non le era bastato! Nella masnada che avevo diretto per salvare Ivan e gli altri bambini c’era entrata, sa Dio come, anche lei.


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«So cosa stai pensando Gallo, ma ci avresti mai creduto alla sua capacità di mordersi la lingua ogni volta che avrebbe avuto l’occasione di fottersi lo Stato italiano?» «Avrei dovuto spararle», dissi sull’orlo di una crisi di nervi. «Forse mi avrebbero anche dato una medaglia!» «Stronzate, comunque, giusto per chiudere la parentesi, si è fatta un giretto negli Stati Uniti e qualcuno ha creduto alla sua storia. Questo ha creato un po’ di imbarazzo quando il nostro Presidente del Consiglio ha incontrato il loro Segretario della Difesa. A quanto si dice gli ha sussurrato all’orecchio di tenere da parte quella medaglia per la prossima volta, dandogli del furbacchione, e sto usando un eufemismo.» Un omicidio in cui mi ero casualmente imbattuto era diventato un caso nazionale che Bea si era presa la libertà di tramutare in un casino mondiale. Una pallottola per la Rancati, giuro, l’avrei tenuta sempre in canna. «Adesso che anche tu sai chi dobbiamo ringraziare, lascia che continui a spiegarti come siamo arrivati sin qui», riprese. «Come ti dicevo, la nonna di Ben Asser raccontò di Nadir che, dopo la morte del padre, fuggì in Afghanistan. È qui che la patata bollente passa nelle mani dei russi, loro sapevano che era lì da qualche parte, era molto giovane, potevano far partire una caccia all’uomo, o al bambino in questo caso. Invece aspettarono. Sono giochi di potere, come ti spiegavo. Se avessero ucciso un bambino non avrebbero potuto dirlo a nessuno, anzi, probabilmente qualche associazione ONG avrebbe fatto diventare Nadir un martire e poi, sul territorio afghano i russi ci hanno sbattuto i denti diverse volte, quindi…» «Quindi hanno aspettato di farlo diventare leader di una nuova sfornata di estremisti islamici? È una follia», gli dissi. «Non saranno certo due vecchi imbolsiti come noi a salvare il mondo da questi pazzi.» Lui scosse la testa per archiviare le mie rimostranze. «Noi siamo una soluzione, ce lo impongono gli americani con cui siamo in debito e ce lo chiedono i russi che hanno interesse a portarsi a casa un trofeo pari, se non superiore, a quello dei cugini stelle e strisce.»


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A quel punto dovevo capire le dinamiche dietro il piano architettato dal procuratore della repubblica. «Travaglini che ruolo ha in questa faccenda? Cervi temeva fosse coinvolto, stavolta in maniera diretta, in un nuovo attentato terroristico. Mi disse che era necessario rintracciarlo perché si erano perse le sue tracce.» Ridacchiai. «L’hanno integrato nei servizi segreti, ma è vera questa storia?» Lombardi decise che era meglio allontanarsi da lì. Si vedeva lontano un chilometro che non eravamo gente del posto e gli animi della tifoseria di hockey erano surriscaldati da litri di alcolici. Seppur con qualche titubanza, Lombardi decise di risalire in macchina, faceva un freddo porco. Nelle notti di Kiev la temperatura media autunnale era di venti gradi sotto lo zero. Svetlana dormiva come un ghiro, fare la puttana d’alto bordo costava fatica, soprattutto perché gli ucraini non erano esattamente dei morbidi galantuomini, così, quando a una come lei capitava un cliente come me, la vita le sembrava meno complicata di quel che era. Buona parte della mia pensione dorata finiva nelle sue tasche e aveva anche tempo di studiare all’università. Le mie esigenze erano accettabili e qualche volta le avevo anche detto in inglese di trovarsi un ragazzo che potesse mantenerla. Discorsi da padre incestuoso, una barzelletta. Lei sorrideva, forse non capiva un accidente di quello che intendevo dire o prendeva tutto per una battuta di spirito. «Sì è vero, Travaglini è a tutti gli effetti un agente segreto. Da civile svolgeva un lavoro particolare, tecnico di studio in Rai, soprattutto cinema. Era, da diversi anni, dislocato nella sede di corso Sempione proprio a Milano, ma viaggiava molto e, facendo il suo mestiere, evidentemente aveva una spiccata immaginazione. Quando ha chiesto di entrare nel programma di addestramento dei Servizi, nessuno ci avrebbe scommesso un centesimo, ecco perché hanno acconsentito. Aveva firmato un accordo segretissimo in cui, nel caso di fallimento, avrebbe accettato di farsi riposizionare all’estero, con una nuova identità, tirando una linea sulla sua vita precedente. Beh, non ci crederai, ma ha passato i test, tutti, senza la minima esitazione. Da non credere, poteva capitare un caso su un milione ed eccolo lì, una persona


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comune che aveva i requisiti per fare la spia. Comunque al Sismi non volevano correre rischi, così hanno comunque ottenuto quello che volevano e l’hanno spedito in Messico come osservatore.» Mentre la macchina imboccava una statale immersa nei boschi mi sembrò per un attimo di trovarmi all’interno di un romanzo impossibile. «Messico? Cristo Santo ma una bella scrivania in ufficio non era meglio?!» sottolineai. «L’incarico era tutto sommato a basso rischio. Doveva fare la conta dei campesiños che arrivavano nelle maggiori città messicane dai villaggi e che venivano reclutati dai padroncini per lavorare nelle piantagioni dei narcotrafficanti. Tutto filò liscio per settimane, il ragazzo ci sapeva fare spostandosi su tutto il territorio con abilità, si guadagnò la fiducia di qualche superiore, al punto che gli chiesero di provare a prendere contatti tra i manovali, niente di impegnativo, l’idea era di offrire qualche tequila in giro, giusto per diventare il compagno di bevute di qualche indio. A un tratto, il nostro uomo non si fece più sentire. Prima di sparire del tutto, però, stilò una serie di rapporti in cui segnalava la presenza, secondo lui, di un arabo che si faceva spacciare per messicano mimetizzandosi, con i suoi lineamenti, tra i braccianti della zona. Ovviamente scattarono i controlli del Sismi e, indovina un po’, l’uomo segnalato risultò essere nientemeno che Nadir Ben Asser.» Rimanemmo per qualche attimo in silenzio, dovevo mettere in ordine tutte le informazioni per capire se avevo dei margini per tenermi fuori dal polverone. In fin dei conti, il Travaglini potevano cercarselo quelli del Sismi, non servivano certamente i miei servigi, e poi in Messico, io, che al massimo avevo fatto due o tre ore d’aereo per arrivare in Ucraina. Se mi fossi rifiutato cosa potevano farmi, sbattermi in galera? Farmi eliminare? Non credo, perché la Rancati, proprio per quella sua capacità di essere una scheggia impazzita, poteva sputtanare tutti in un nano secondo. Diedi qualche indicazione stradale a Lombardi mentre salivamo in collina, all’interno della tenuta di Nikolai dove si trovava la mega villa nella cui dependance vivevo io.


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Chiamarla così era riduttivo perché si trattava di una vera e propria casa autonoma dotata di tutti i comfort destinati agli amici ricconi del magnate che si fermavano, di tanto in tanto, a smaltire le ubriacature delle cene di famiglia. La moglie e il figlio di Niko erano in vacanza da giorni, al caldo. Parlavano di Miami. Il ragazzo ormai era un ventitreenne laureato in economia e commercio, pronto ad aiutare il padre nella gestione dell’azienda. Mi chiamava zio Gigi e il suo leggero autismo, che a quei tempi non gli permetteva di esprimersi, in realtà, non gli aveva impedito di crescere, studiare e parlare ovviamente. Forse non sarebbe mai diventato il numero uno, ma la sua abilità con i numeri non era neanche avvicinabile da molti tra i migliori economisti sulla piazza. Insomma un piccolo genietto racchiuso in un guscio non proprio perfetto. In questa nube di pensieri, sbucammo su un viale alberato, la reggia era illuminata a un paio di chilometri da noi e Lombardi provò a leggere i miei silenzi. «Hanno bisogno di noi, Gigi, perché la moglie di Nadir era una delle due donne che avevano fregato Travaglini in piazza Gae Aulenti, nessuno sapeva che faccia avesse fino a quando la nonna, in quella famosa intervista, non tirò fuori una foto in bianco e nero delle nozze del nipotino.» Questo non mi diceva niente di nuovo. «Se troviamo lei, troviamo Nadir e quindi Travaglini, ma l’unica che può sapere dove si trovi la donna è la seconda ragazza della foto ritrovata il giorno dell’attentato.» Tutto chiaro, o quasi. «Quindi mi stai dicendo che nel cellulare di Marco Travaglini c’era la foto delle due vere responsabili della strage?» «Sì», rispose, «ma lo si è capito solo un anno fa.» A ogni modo perché mettere in piedi una caccia del genere con due dinosauri? «Dio Santo, ma capisci che potremmo non vivere abbastanza per trovare queste persone?»


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A quel punto Lombardi mi mise una mano sulla gamba per rassicurarmi. «La ragazza complice della moglie di Nadir in realtà ce l’abbiamo», mi rivelò, «più o meno.» «È inglese, al momento vive a Milano ed è stata assunta, con una nuova identità, come dipendente dell’ambasciata anglosassone. Prima di essere messa sotto protezione dall’MI6, aveva detto alle forze di polizia italiane, che l’avevano fermata, di essere stata reclutata a Londra proprio dalla moglie del terrorista. Il problema è che l’intelligence inglese ha tirato su un muro davanti all’ipotesi che la donna possa aver omesso qualche informazione al momento del suo arresto, quindi se il Sismi si dovesse muovere a modo suo, si rischierebbe un incidente diplomatico senza precedenti.» Eravamo in vista dei cancelli della villa e finalmente avevo capito qual era il vero lavoro in cui eravamo specializzati: ripulire. In sostanza, per sventare l’ipotesi di un secondo attentato nel nostro paese, dovevamo passare al setaccio tutte queste persone che erano fuggitive, nascoste oppure protette da soggetti diversi. Dimenticavo, possibilmente dovevamo anche avere a che fare con il leader del movimento terroristico più pericoloso del mondo, ma questo pareva un dettaglio. Tutto per arrivare a Marco Travaglini che noi stessi avevamo fatto sparire in qualche angolo del Sud America. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

PREMESSA .................................................................................. 3 Quello che non sapevo… .............................................................. 5 Qualche giorno prima a Milano… ................................................ 9 L’inizio........................................................................................ 11 1. ................................................................................................. 17 2. ................................................................................................. 22 3. ................................................................................................. 26 4. ................................................................................................. 31 5. ................................................................................................. 40 6. ................................................................................................. 44 7. ................................................................................................. 50 8. ................................................................................................. 54 9. ................................................................................................. 57 10. ............................................................................................... 65 11. ............................................................................................... 75 12. ............................................................................................... 79


13. ............................................................................................... 84 14. ............................................................................................... 90 15. ............................................................................................... 95 16. ............................................................................................. 102 17. ............................................................................................. 107 18. ............................................................................................. 114 19. ............................................................................................. 118 20. ............................................................................................. 123 21. ............................................................................................. 128 22. ............................................................................................. 137 23. ............................................................................................. 142 24. ............................................................................................. 146 25. ............................................................................................. 151 26. ............................................................................................. 154 27. ............................................................................................. 160 28. ............................................................................................. 164 29. ............................................................................................. 171 30. ............................................................................................. 180 31. ............................................................................................. 184 32. ............................................................................................. 187


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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