SIMONE GUIDI
ERAVAMO SOLTANTO AMICI
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ERAVAMO SOLTANTO AMICI Copyright Š 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-490-1 Copertina: Immagine Shutterstock.com
Prima edizione Febbraio 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
A Viola, Marika e a tutti quelli che ci vogliono bene.
“Se l’invidia fosse febbre, tutto il mondo ce l’avrebbe” Anonimo “Come fai a migliorare se ti circondi di persone peggiori di te?” Mia moglie
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Nota dell’autore
Le amicizie vere sono le più difficili da trovare. Sono quelle che durano negli anni nonostante tutto, perché il tempo le logora, le deteriora come un castello di sabbia eroso dalla marea. Molte iniziano dall’adolescenza, e proprio in virtù di questo appaiono sincere, quasi eterne. Nascono in tempi in cui il futuro sembra un enorme spazio aperto in cui tutto è possibile. Dove si è tutti uguali ed equamente disposti al nastro di partenza, senza pregiudiziali, pronti a correre incontro a un avvenire radioso che sicuramente accoglierà tutti, a prescindere dall’estrazione sociale, i gusti sessuali e l’opinione politica. Purtroppo non sempre è così. Il tempo passa, i ruoli si delineano, ed ecco che quel grande spazio aperto di un tempo si riduce man mano a un fazzoletto. L’invidia avvelena gli animi e gli interessi individuali, gli egoismi prendono il sopravvento nelle relazioni personali. Nel tempo gli amici se ne vanno, persi al pari di foglie morte strappate dal vento. Salvo poi incontrarli per caso al supermercato, cambiati, irriconoscibili, e scambiarci convenevoli che nessuno degli interlocutori riesce più a comprendere fino in fondo. È questa la cosa più triste secondo me. Il non riconoscersi più, non tanto perché non si parla, quanto perché non ci si capisce. La consapevolezza di stare dicendo cose tanto importanti da togliere il fiato mentre le persone ti guardano con perplessità, stranite, come se fossi un pesce tropicale in un acquario. Un amico vero è colui a cui puoi aprire il cuore senza vergogna, senza avere la netta sensazione di essere ignorato o peggio, compatito. È colui che ti conosce bene e ti sostiene non appena gli è possibile, ti rispetta e vince insieme a te. Perché tutti i giorni in questa vita, per quanto ingiusta sia, c’è sempre chi vince e chi rimane indietro a mangiare la polvere.
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Uno scorpione doveva attraversare un fiume, e sulla riva incontrò una tartaruga. Non sapendo nuotare le chiese: «Puoi portarmi dall’altra parte?» «Fossi matta!» rispose la tartaruga «se nuotassi con te sulla schiena mi potresti pungere sul collo, uccidendomi facilmente.» «E perché dovrei?» incalzò lo scorpione «io non so nuotare e se ti uccidessi in mezzo al fiume morirei affogato.» L’argomentazione sembrava convincente e così la tartaruga cominciò a nuotare con lo scorpione sul guscio. Ma a metà percorso avvertì un dolore lancinante; lo scorpione l’aveva punta. «Perché l’hai fatto? Adesso anche tu morirai affogato!» chiese la tartaruga morente. La risposta dello scorpione fu essenziale: «Non posso fare altrimenti, è nella mia natura.» Detto popolare
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Lunedì SQUILLA IL TELEFONO
Marco Tofanelli Era in piedi al tavolo della grande cucina e guardava i fornelli. Sua madre, ormai pensionata e in età avanzata, stava cucinando la sua famigerata torta al cioccolato. Quella delle torte era una tradizione ormai consolidata da anni. Lui e sua madre le facevano insieme non tanto per necessità, ormai entrambi erano capaci di prepararle anche a occhi chiusi, quanto per consuetudine, per ritrovarsi la domenica e scambiare qualche pettegolezzo. Fuori dalla finestra, in una mattinata piena di luce, sua zia era intenta a potare il roseto. Marco sorrise guardandola calzare i guanti da giardiniere, le facevano sembrare le mani enormi, troppo grandi rispetto a quel fisico esile e ricurvo che si ritrovava. Quelle erano le due donne più importanti della sua vita. Per la verità, le uniche che ci fossero mai state e che avessero rappresentato qualcosa. Gli faceva sempre piacere venirle a trovare e trascorrere del tempo con loro, dopotutto erano vecchie e sole, e il tempo passava per tutti. Anni prima, la dipartita di suo padre era stata una perdita solo per l’ufficio delle tasse. Lui inizialmente era rimasto freddo, insensibile al lutto. Si era sentito anche in colpa per questa sua indifferenza, non erano quelli i sentimenti che avrebbe dovuto provare un figlio di fronte alla morte del padre. Poi, col tempo, stringendosi a quello che era rimasto della sua famiglia, ne era stato quasi felice. Come se lo avessero liberato da un peso. E aveva finalmente scoperto di poter vivere la sua vita, fare le sue scelte senza più sentire quell’implacabile senso di colpa che lo opprimeva fin da quando aveva capito che gli uomini erano molto più attraenti delle donne.
10 Adesso gestiva una piccola sartoria artigianale nel centro di Riovaggio. I clienti che si rivolgevano a lui erano persone con esigenze particolari. Piccole compagnie teatrali, qualche signora bene, molti travestiti. E lui, da buon sarto quale era, sapeva bene come fare il suo lavoro e si guadagnava egregiamente la pagnotta. Una nuvola scura si portò minacciosa davanti al sole, rompendo l’incanto che stava esercitando su di lui. Ne approfittò per gettare una breve occhiata alla propria immagine riflessa nel vetro. Ne trasse un breve spasmo di orrore per se stesso; cambiò subito posizione, non più di profilo ma di fronte, succhiando in dentro le guance. Ecco, la nuova immagine era più confortante. La carne flaccida e le rughe che molti suoi coetanei esibivano, comparivano con difficoltà sul suo viso, e le creme idratanti che aveva sempre usato si erano dimostrate un investimento azzeccato. I capelli c’erano ancora tutti, lunghi fin sopra le spalle, e anche se il parrucchiere gli aveva fatto un colore più simile al mogano che al moro, rimanevano per lui uno dei maggiori motivi di orgoglio. Gli occhiali con le lenti perfettamente circolari che inforcava, gli davano un certo tono “retrò” e intellettuale allo stesso tempo. Sì, a breve sarebbe stato uno splendido quarantenne e di questo era particolarmente fiero, tanto da concedersi un piccolo premio. Sua madre gli dava ancora le spalle, occupata com’era davanti al forno. Marco agì in maniera rapida e furtiva; allungò la mano verso la scatola sul tavolo. Sollevò il coperchio e tolse due cioccolatini al rum. Se li inzeppò in bocca e si mise a masticare con furia. Il segreto stava nel consumarli il più in fretta possibile, così la mamma non avrebbe avuto l’opportunità di redarguirlo sul fatto che un buon cuoco non abusa mai degli ingredienti della sua cucina. Il dolce sapore del rum gli salì fino alle narici e lui lo assaporò con gusto, deglutendo appassionatamente il bolo. Così, quando giunse la fitta, Marco pensò che gli fosse andato di traverso. Era lo stesso tipo di dolore in fondo; lento, bruciante. Gli ci vollero un paio di secondi per capire che si trattava di qualcosa di più. Non riusciva più a respirare e il mondo intorno si mise a girare, dal profondo della gola gli salì su un disgustoso retrogusto di ferro.
11 Cadde pesantemente sul pavimento della cucina portandosi dietro la tovaglia e tutto quello che ci stava sopra. Mentre si stringeva la gola, con la faccia tutta torta da una parte, un rivolo di cioccolata e saliva gli colò dalla bocca. Sua madre gli venne in aiuto, si chinò su di lui e cominciò a urlare. A pochi metri in linea d’aria, la zia continuava imperterrita a potare il roseto.
Michele Farnocchia Milano deve essere un po’ come New York, vivici al massimo ma vattene prima che ti stritoli. Questo aveva pensato Michele quando, all’indomani della laurea in ingegneria elettronica, si era ritrovato a lavorare per un’azienda milanese e si era trasferito in quella città. Sì, certo, viveva in tempi che non erano più quelli della “Milano da bere”, però i ritmi di vita erano indubbiamente accelerati. E per un provincialotto come lui, che non si era mai mosso da casa e conosceva Pisa giusto perché ci aveva frequentato l’ateneo, quello era stato un passo da gigante. Non pago di questo, quando il suo direttore gli aveva proposto di lavorare viaggiando in giro per il mondo, lui aveva saputo cogliere l’occasione e aveva accettato subito. Del resto cosa aveva da perdere? Aveva vissuto ventisette anni diviso tra Riovaggio e Pisa, non aveva alcuna intenzione di aggiungere Milano all’elenco e aspettare la pensione bloccato nel traffico, respirando smog. Molto meglio l’aereo, quello lo guida qualcun altro, non lo devi parcheggiare quando arrivi, e in business class, a seconda delle compagnia, ti servono anche dei drink con l’ombrellino niente male. Senza contare poi gli immediati benefici economici in busta paga! Di certo non avrebbe più guadagnato come un giovane ingegnerino che sbriga un lavoro da impiegato mezze maniche. Oh no, avrebbe fatto dei bei soldoni completamente spesato dalla ditta.
12 Se non li faceva adesso che era giovane e forte quando mai li avrebbe fatti? Era quello il tempo giusto, il tempo in cui doveva correre più forte che poteva, ingordo di conoscenza e guadagno. Oltretutto il suo campo era uno di quelli che, per forza di cose, avrebbe sempre avuto un mercato fertile. Il risparmio energetico e l’energia pulita erano questioni sempre più attuali e pressanti a livello planetario, prima o poi ci facevano i conti tutti. E quando questo accadeva entrava in ballo lui, che con la sua azienda proponeva una vasta gamma di soluzioni industriali, dalla progettazione di centrali ai pannelli fotovoltaici, all’implementazione dello sfruttamento eolico nelle aree più adatte allo scopo. Insomma, le soluzioni erano tante e lui correva in giro per il mondo a pianificare e mietere guadagni, la parlantina non gli mancava e la conoscenza dell’inglese neppure, correre gli era sempre riuscito bene e lo avrebbe fatto ancora per un bel po’, nonostante avesse già trentotto anni suonati sulle spalle. E appunto correre era quello che stava facendo in quel momento. Con indosso la sua tuta da ginnastica rigorosamente griffata e al braccio una fascia elastica appositamente studiata per serrare il suo iphone. Trottava sereno con le cuffiette alle orecchie, dopato dall’effetto che aveva sul suo cervello una selezione di MP3 scaricati sul telefonino da internet. Si era preso qualche giorno di ferie, ne aveva da prendere ancora un sacco ma raramente ne approfittava, questo perché farlo avrebbe significato fermarsi, e a lui non piaceva stare fermo troppo a lungo nello stesso posto, così come nella stessa relazione sentimentale. Era un uomo inafferrabile sotto molti punti di vista, e se la sua vita si fosse potuta immortalare in una foto, be’, sarebbe venuta di certo mossa. La bella mattinata di maggio lo baciava in fronte mentre, insieme ad altre decine di milanesi, correva lungo il percorso del Montestella. Su quella piccola collina andava spesso a fare jogging al mattino, gli piaceva la vista che si godeva da lassù, ma ancora di più gli piaceva la singolare storia di quel posto e di come, per un puro caso, fosse divenuto un polo di attrattiva per tante persone nella città. I milanesi la chiamavano familiarmente “la montagnetta di San Siro”, ma in realtà quella piccola collina di quasi centosettanta metri di altezza non era altro che un mucchio di detriti bellici della seconda guerra mondiale, ammucchiati lì da un architetto, tale Piero Bottoni, che aveva
13 deciso di chiamare l’enorme cumulo con il nome di sua figlia, cioè Stella. Successivamente il comune aveva deciso di convertire l’intera area circostante a parco, realizzando dei gradoni a salire collegati da una strada panoramica che, girando attorno al monte, ne raggiungono la parte più alta. Quando arrivi in cima, puoi gettare lo sguardo su gran parte dell’hinterland milanese, e a Milano, senza pagare, una vista del genere la puoi godere solo da lì. Mentre continuava a correre, Michele sfilò l’iphone dalla fascia e cominciò a toccarne lo schermo. Aveva voglia di ascoltare un’altra canzone non elencata nel programma. Non si accorse di un paio di turisti stranieri che stavano arrivando dalla direzione opposta in sella a delle mountain-bike, e per poco non gli andò a finire addosso, occupato com’era a osservare lo schermo del telefonino. Li schivò per un soffio, e i due gli lanciarono dietro delle invettive in una lingua che non comprese. «I’m sorry!» disse distrattamente. Facendo un gesto con la mano continuò la sua marcia. Finalmente trovò la canzone che gli interessava, era dispersa in una cartellina che ne conteneva almeno un centinaio. La selezionò velocemente e altrettanto velocemente si risistemò il telefono al braccio. Ma proprio mentre si aspettava di udire le agognate note di “Baba o’riley” degli WHO, quello che le cuffiette gli rimandarono fu la suoneria delle chiamate vocali. “Cosa? Che diavolo… qualcuno mi sta telefonando!” «Pronto?» rispose al volo premendo l’apposito tasto sul filo degli auricolari. Rimase sbigottito, era una voce amica quella che stava udendo, una voce che non sentiva da parecchi anni. «Marco! Cristo… quanto tempo?! Come stai?»
14 Tommaso Rea “Certo che però è proprio assurdo eh?!” Questo pensava Tommaso, spaparanzato sul divano del salotto. In mutande, teneva i piedi neri incrostati di sporcizia poggiati sul puff. Con l’arrivo della bella stagione, più che in serra, gli sembrava di lavorare in fonderia. E la prima cosa che di solito abbandonava ai primi afrori, erano proprio i calzini. Va da sé che calzare le scarpe antinfortunistica tutto il santo giorno con i piedi nudi, faceva sì che si incrostassero di una patina di luridume nauseabondo che difficilmente se ne andava con un semplice risciacquo. Ma questo a lui non interessava. Quando arrivava alla fine di una lunga giornata di lavoro si faceva la doccia, questo doveva bastare. Che poi si dovesse lavare anche i piedi era un altro discorso. Del resto quale uomo si lava i piedi sotto la doccia? Nessuno. I piedi si puliscono da soli per decantazione del sapone. Con indosso una vecchia canottiera pubblicitaria della ditta di famiglia, smanettava freneticamente i bottoni del joypad. Croce, croce, triangolo, quadrato. Una veloce combinazione di pressioni sui tasti del dispositivo fecero in modo che, sullo schermo televisivo, Alex del Piero facesse una rovesciata al volo e insaccasse la palla in rete. «GOOOL!» urlò sollevando le braccia in segno di trionfo. «Ssshhh! CoZa urli? Vuoi sveLiare il bambino?» sibilò la sua compagna sporgendosi dall’ingresso della cucina. “Ah già!” pensò immediatamente Tommaso, mettendo il gioco in pausa e gettando un occhio nella culla a dondolo sistemata proprio accanto al divano. Suo figlio Bartolomeo si stava agitando, aveva appena sei mesi e il sonno leggero. Di certo quello schiamazzo non aveva contribuito a tenerlo tranquillo. Il pupo sollevò le manine e rivolse lo sguardo a suo padre, poi cominciò a strizzare gli occhietti. Delle sottili rughe comparvero sulla sua piccola fronte. “Oh no, no, NO!” Capì subito cosa, di lì a poco, sarebbe accaduto, e con uno scatto fulmineo allungò la gamba poggiando il piede su un arco della culla. Quest’ultima cominciò a dondolare e Bartolomeo, come preso da una strana magia soporifera, abbassò le manine.
15 Le rughette sulla fronte scomparvero subito. Tommaso si compiacque del suo operato, ancora una volta il suo fine intelletto aveva prevalso sulla situazione e poteva tranquillamente tornare a giocare con la playstation. Continuando quindi a far dondolare la culla con il piede, afferrò saldamente tra le mani il joypad e riprese la partita. La sua squadra del cuore, la Juventus, stava schiacciando il Barcellona per cinque a zero nella finale del torneo. Ormai era diventato una vera forza della natura in quel gioco. A niente era servito incrementare la difficoltà fino ai massimi livelli. Dopo tutte le ore (o giorni) di pratica che aveva fatto, quel gioco non aveva più segreti, lo conosceva fin nei minimi dettagli. Si era perfino costruito la squadra a sua discrezione, modificando i parametri dei giocatori e dando il suo nome a un calciatore, così da sentirsi ancor più partecipe del gioco. “Eh sì… è proprio assurdo” continuava a pensare mentre la sua squadra costruiva l’ennesima azione offensiva nella metà campo avversaria. Dopo tutto quel tempo trascorso a giocare non riusciva a non compiacersi della estrema potenza del suo team. Spesso si chiedeva cosa potessero provare le squadre avversarie quando entravano in campo contro di lui. Del resto era un dato di fatto che i suoi giocatori fossero i migliori, con livelli di forza e agilità altissimi. Gli avversari erano destinati inesorabilmente a soccombere ogni volta che osavano scendere in campo. Un sottile senso di colpa lo pervase. Lui avrebbe vinto sempre, inevitabilmente. Alla fine dei conti gli avversari non erano altro che dei poveracci senza alternative. Dei peones virtuali condannati al macello, incapaci di cambiare la loro condizione di perdenti anche a volerlo. “Assurdo, è tutto assurdo. Questi si sforzano di vincere ma non sanno che con me possono soltanto perdere” pensò di nuovo mentre, agitato, si sentiva addosso questo suo nuovo ruolo di despota del gol virtuale. Ma proprio mentre si apprestava a segnare l’ennesima rete, con Alex del Piero che penetrava nella difesa avversaria come un coltello rovente nel burro, un giocatore avversario con un cognome gracchiante gli rubò inaspettatamente la palla. Arrivato all’altezza del centro campo, la
16 calciò talmente forte da farle sorvolare tutta la sua metà campo descrivendo un’alta parabola nel cielo che discese rapidamente in prossimità della porta difesa da Buffon. Tommaso rimase senza parole, seduto con la bocca aperta e lo sguardo vacuo che lo facevano assomigliare a una gigantesca trota sul divano. Lì per lì sembrò che il pallone dovesse andare fuori, invece precipitò velocemente e si insaccò all’incrocio dei pali. Sotto, il portiere volò a vuoto. Il volto di Tommaso si trasformò in una maschera di cartapesta, incredula e sconcertata. “Ma come caspita è potuto succedere?” si domandò mentre contemplava sbigottito i festeggiamenti degli avversari. Suonò il telefono. L’apparecchio fisso era posizionato su un piccolo tavolino a lato del divano, decisamente a portata di mano. Ma Tommaso non si mosse, lo ignorò volutamente restando saldamente aggrappato al joypad. Doveva continuare la partita e ristabilire l’ordine costituto, col cavolo che avrebbe risposto a quel seccatore. «RiZpondi tu! Io ho da fare!» ordinò la sua campagna dagli antri misteriosi della cucina. «Uffaaa! Voglio finire la partita!» gridò di rimando con la vocetta più acuta che mai. «Ssshhh! Il bambino!» lo riprese la donna. Aveva urlato troppo forte, Bartolomeo stavolta non gliel’avrebbe perdonata. Le rughette erano già evidenti e la bocca aveva assunto la caratteristica forma a rettangolo. In un attimo il bambino proruppe in un pianto disperato. «Che palle!» sbottò Tommaso alzandosi e rivolgendo questa sua espressione un po’ alla compagna e un po’ al figlio in culla. Afferrò con forza la cornetta del telefono e se la portò all’orecchio. «Chi è?» rispose con tono scocciato. Dall’altra parte qualcuno cominciò a parlare e la faccia di Tommaso cambiò, attraversando diversi stati d’animo, dall’iniziale fastidio allo stupore, alla perplessità, per congelarsi infine in un’espressione di meraviglia. «Marco! Che bello! Era da un bel po’ che non ci si sentiva, eh?! Che dici? Il bimbo piange? Oh lascia perdere, tanto ci pensa Sveva. Ma te dimmi, dimmi tutto…»
17 Con la cornetta all’orecchio si rimise seduto e riprese in mano il joypad. Non poteva lasciare l’affronto impunito, di lì alla fine della conversazione avrebbe schiacciato il Barcellona quindici a uno, e il tutto mentre Bartolomeo urlava al soffitto la sua disapprovazione.
Gianni Serafini Il rumore della lavatrice in centrifuga lo svegliò. Mancava un quarto a mezzogiorno e sua madre non poteva aspettare oltre per fare il bucato. Era rincasato alle tre quella mattina, ma c’era abituato. Per uno come lui, senza qualifiche professionali né titoli di studio, le opportunità lavorative contemplavano sempre impieghi da espletare quando la maggior parte delle persone era in vacanza o a dormire. Si stiracchiò sotto le lenzuola e restò a osservare il soffitto. L’accecante luce del sole di maggio filtrava prepotente tra le stecche dell’avvolgibile, segandogli in due il viso con una luminescente lama. A vederlo così, abbandonato a pancia in su sul materasso, nudo e con la pelle bianchissima, lo si sarebbe potuto benissimo scambiare per un grasso lombrico albino nel bozzolo delle lenzuola. Ormai era arrivato a pesare centodieci chili, e sebbene fosse un ragazzone alto un metro e novanta, la classica scusa delle “ossa grosse” non era più praticabile da un bel po’. I capelli poi… quelli erano ormai un lontano ricordo. Aveva cominciato a perderli presto, dal compimento del sedicesimo anno di età, per colpa di un feroce squilibrio ormonale. A ventitré anni era già completamente calvo, lucido come una palla da biliardo. In compenso i bulbi caduti dalla testa avevano attecchito sulla schiena che, come uno zerbino, era pelosissima. Un unico manto di setole, fitto e nero, che si stendeva uniforme dalla base del collo fino ai lombi. «YAWN» sbadigliò Gianni mentre si alzava dal letto e si dirigeva barcollando verso la scrivania. Il PC era rimasto acceso tutta la notte. Sul monitor il sito internazionale degli scacchisti. Una sessione di chat rimasta aperta recitava alla sua ultima battuta un cordiale “Buenas noches”.
18 Sopra il piano del tavolo, nel caos totale, era disperso anche un pacchetto di sigarette, o almeno così gli sembrava. Lo cercò rovistando distrattamente tra riviste varie, libri presi in prestito e mai restituiti, avanzi di spuntini frugali consumati nella notte in balia della fame chimica, accendini più o meno scarichi e lattine di coca-cola vuote. Finalmente lo trovò. Con un gesto meccanico sfilò una sigaretta e se la mise in bocca ributtando poi il pacchetto nel marasma dello scrittoio, afferrò un accendino a caso e si diresse verso la porta-finestra grattandosi il culo. Tra ansimi di fastidio alzò l’avvolgibile e un bel cielo azzurro senza nuvole gli diede il buongiorno. “Bene, sembra una bella giornata” pensò mentre, una volta uscito, piantava i gomiti sulla ringhiera del terrazzo e si accendeva la sigaretta. In realtà per Gianni Serafini quella non era una bella giornata. Quella era una giornata in meno di lavoro prima della fine della stagione. Nella fattispecie, quell’anno gli era toccato fare il cameriere al ristorante “La conca d’argento”, e a lui il titolare stava pure sui coglioni, quindi il lavoro gli pesava il doppio. Ma del resto, cos’altro si poteva fare durante l’estate in una piccola località turistica come Riovaggio? Le sue uniche opzioni erano il cameriere o il bagnino, c’era poca scelta per uno che aveva abbandonato gli studi dopo la terza media e non si era mai preso la briga di imparare uno straccio di mestiere. E l’inverno poi era ancora più tragico. Con la fine di settembre gli stabilimenti balneari chiudevano e i ristoranti si ridimensionavano drasticamente. A quelli come lui non restava altro che incassare l’assegno del sussidio di disoccupazione per sei mesi, e magari partire, zaino in spalla, verso qualche lido asiatico dove poter trascorrere l’inverno a prezzi modici, spassandosela e compatendo la popolazione rurale com’è d’uso per i buoni occidentali con la coscienza sporca. Il tutto fino al ritorno della bella stagione l’anno successivo. Solo allora la grande giostra del turismo avrebbe cominciato a girare di nuovo. Fortunatamente disponeva di un’altra fonte di introiti. Lo spaccio di stupefacenti gli permetteva di arrotondare il reddito e tirare avanti dignitosamente in quei mesi di magra. Aveva iniziato a maneggiare droga che era appena maggiorenne e non aveva più smesso. Adesso, con trentotto anni all’anagrafe e venti di esperienza sulle spalle, poteva contare su un discreto parco clienti,
19 fedeli e riservati, accuratamente selezionati nel corso degli anni, che non si sarebbero mai sognati di denunciarlo alla polizia, neanche sotto interrogatorio. Il segreto di tanto successo tra i tossici della città era tutto sintetizzato nell’antico motto dei cesari: Dividi et impera. Lui, prima di tutti, aveva capito l’importanza delle regole nel commercio, e del fatto che i clienti sono sempre e solo clienti. Non è necessario stimarli o rispettarli, basta che paghino e tornino sempre da te a comprare. In fondo non faceva altro che dar loro quello che volevano, cioè veleno. Un esempio? Quando un comunista andava a chiedere cocaina, lui lo accoglieva con filippiche sui bei tempi andati di Stalin e con rivelazioni - in via strettamente confidenziale - su molte fedi politiche antagoniste che si annidavano tra le loro conoscenze comuni. Quando un fascista dichiarato andava a chiedere eroina, lui lo metteva a suo agio tirando fuori il busto del Duce e scambiando due chiacchiere confidate in nome della fraterna amicizia che c’era tra loro - sui molti conoscenti condivisi che manifestavano simpatie di sinistra. Quando un marocchino andava a rifornirsi di hashish, lui glielo procurava decantando i valori della società multi-etnica e facendo i nomi - qui lo dico e qui lo nego - dei razzisti di sua conoscenza. Quando un razzista andava in cerca di marijuana, gliela vendeva celebrando la necessità di preservare le radici italiche e spiattellando soltanto per fare due chiacchiere s’intende - i nomi degli extracomunitari che usufruivano del suo servizio. Insomma, questa sua costante doppiezza era il segreto del suo successo. Tutti i suoi clienti erano convinti di conoscerlo bene, e di aver trovato in lui un valido confidente nonché fornitore. Tutti erano disposti a difenderlo con le unghie e con i denti perché lo credevano un sincero amico, mentre in realtà tutti erano tenuti costantemente in uno stato di tensione strisciante. Sarebbe bastato che uno solo di loro parlasse con gli altri per rompere l’incantesimo e far cadere tutta quell’impalcatura di finzioni, ma questo non accadeva mai. Gianni, da buon conoscitore dell’animo umano, sapeva che raramente gli uomini di buona volontà vengono apprezzati. Sono piuttosto le chiacchiere, le cattiverie, il veleno appunto, a permeare la società e prevalere nell’animo umano.
20 E lui non faceva altro che procurare il veleno, in tutti i sensi. Dall’alto del terrazzo al terzo piano della palazzina, gettò un occhio giù in strada e la sua attenzione fu catturata da un’auto nuova fiammante che stava parcheggiando proprio di fronte all’ingresso del condominio. Era una monovolume, e sembrava appena uscita dalla catena di montaggio tanto brillava al sole. “E questo chi è? Non l’ho mai visto prima” pensò tirando una boccata alla sigaretta. Appena il veicolo si fu arrestato, la portiera del guidatore si aprì e ne scese il suo vicino di casa del piano di sotto: Flavio Battaglia. “Guarda, guarda. Abbiamo fatto i soldi! Ci siamo comprati la macchina nuova!” Dal lato opposto uscì la moglie del Battaglia che, felice come una Pasqua, si precipitò ad aprire la portiera posteriore per cominciare a rimuovere la navetta contenente il figlio neonato. “Che bella famigliola” osservava Gianni dall’alto continuando a fumare. Un sottile velo di tristezza gli coprì il volto. Come sarebbe stata la sua vita se avesse avuto una famiglia e dei figli a cui badare? Si era fatto mille volte quella domanda senza mai trovare il coraggio di darle una risposta. E mentre lui temporeggiava tra lavori stagionali e qualche legame sentimentale senza futuro, gli anni erano volati via senza che combinasse niente. Dopo tanto tempo era sempre al punto di partenza, nella stessa stanza in cui aveva vissuto da trentotto anni a quella parte. Mentre sotto, a pochi metri in linea d’aria, Flavio Battaglia, più giovane di lui di quattro anni, aveva moglie e figlio, un lavoro in cantiere e il mutuo da pagare. “Ma ne vale la pena?” Gianni non riusciva a rispondere neanche a quella domanda. E nel frattempo faceva quello che gli riusciva meglio: temporeggiava. Almeno finché di tempo ce ne sarebbe stato. Nella camera da letto dietro di lui, risuonò il trillo del suo cellulare. “No! L’ho dimenticato acceso!” «E chi cazzo può essere adesso?» bofonchiò mentre prendeva il telefonino dalla tasca dei jeans appallottolati su una sedia. Dopo una rapida occhiata al display esclamò: «Tommaso! Naaa!»
21 Con un gesto di stizza gettò l’apparecchio sul letto disfatto e se ne tornò sul terrazzo visibilmente seccato. “Ma figuriamoci se adesso ho voglia di ascoltare i discorsi bislacchi di quel cervello allentato” pensò tornando a osservare la famiglia Battaglia, intenta a montare la navetta col pupo sul passeggino. «Proprio una bella scena di vita familiare» mormorò tra sé. Abbozzò un sorriso di sincera invidia e diede un altro tiro alla sigaretta che ormai era prossima al filtro. Dietro di lui, sul letto, il cellulare emise ancora qualche squillo e poi tacque. “Bene, l’hai capita finalmente.” Passarono appena dieci secondi prima che, attraverso la porta chiusa, sentisse squillare il telefono fisso in salotto. “No!” pensò, intuendo la natura della telefonata “fa che non sia quello che sospetto” si raccomandò nel suo intimo. Udì chiaramente lo scalpiccio di sua madre che andava a rispondere, e subito dopo l’inevitabile epilogo. «Gianniii, c’è Tommaso al telefonooo!» gli gridò la mamma dal salotto. «Merda!» Si accorse subito di aver alzato la voce e si chiese se la famigliola in strada lo avesse udito. Si sporse per controllare ma non c’era più nessuno. I Battaglia erano sicuramente già nell’ascensore. “Ufff! E adesso cosa vorrà quello svitato” pensò ciondolando la testa. «Va bene, va bene, vengo!» Gianni rientrò in camera contrariato. Ormai avrebbe ascoltato quello che Tommaso gli voleva dire. Ma prima di abbandonare il terrazzo, ebbe cura di gettare il mozzicone della sigaretta esattamente sul tettuccio della monovolume del Battaglia, con l’intima speranza che ci lasciasse un bel segno sopra.
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Martedì DI NUOVO INSIEME
“Il mare! Cosa potrebbe essere questa città senza il mare?” Michele Farnocchia fu subito catturato dalla splendida visione del sole morente che, ormai al crepuscolo, tingeva la spiaggia al di là degli stabilimenti balneari di vividi toni rossi e viola. Si chiuse la portiera dell’auto alle spalle e mosse due passi nel parcheggio, traendo dei profondi respiri che gli riempirono i polmoni di aria salmastra. Quanto tempo era passato dall’ultima volta che aveva fatto un giro a Riovaggio? Quanto dall’ultima volta in cui aveva ammirato il mare? Parecchio. Escludendo le feste comandate, quando veniva a far visita ai suoi vecchi. In quelle occasioni non vedeva l’ora di andarsene via di nuovo, rattristato dal clima che regnava nella sua famiglia. I suoi genitori, ormai avanti con l’età e oppressi dall’arteriosclerosi, non riuscivano a comunicare con lui se non per necrologi. «Figliolo, ti ricordi di Franco Manetti?» «No.» «Come no? Franco Manetti! Era in classe con te alle superiori! Suo padre faceva il calzolaio!» «No, scusa pà, veramente non ricordo.» «Ah, eppure ero convinto che quel ragazzo fosse in classe con te.» «Aspetta! Io un Manetti lo conoscevo. Ma non era in classe con me. Frequentavamo la stessa scuola. Semmai ci conoscevamo di vista. Sì, credo di sapere chi è. Perché…?» «Ah, ecco, mi sembrava che tu lo conoscessi. È morto.» Oppure più semplicemente: «Allora Michele, usi sempre l’aereo per lavoro?» «Certo mà, lo sai che senza combinerei ben poco.» «Ah. Questo mese ne sono caduti quattro. Ne sono morti quasi trecento!»
23 Per loro l’idea stessa della morte era ormai ordinaria amministrazione, attualità, ne parlavano con distacco. Una specie di conta delle uova nel frigorifero. «Quante ne sono rimaste tesoro?» «Quattro.» «E quanti ne sono morti oggi?» «Dieci.» Michele aveva tentato di dare una spiegazione a quel comportamento aberrante dei suoi genitori. Quel continuo parlare di morte, in tutti i modi e di chiunque. Dopo diverse elucubrazioni, escludendo lo scarso apporto di ossigeno al cervello e un principio di Alzheimer, era arrivato a giustificare la cosa come un perverso meccanismo psicologico per facilitarne la prospettiva. Ne parlavano spesso perché la sentivano vicina. E così facendo la rendevano più familiare, abitudinaria, facile da sopportare quando si sarebbe presentata. Va da sé che quando questo accadeva, cioè quasi sempre, a Michele interessava soltanto togliere il disturbo il più in fretta possibile. Avvilito dalla sua impotenza di fronte a quel naturale scorrere degli eventi. E l’ultima cosa che gli passava per la testa era di farsi un giro in città, figuriamoci vedere il mare. Lui era anche un tipo che quando decideva di andare in spiaggia faceva un paio di telefonate e se ne andava in vacanza in Messico in dolce compagnia o, al limite, se proprio sentiva la necessità di rinfrescarsi, si sforzava di fare qualche tuffo in piscina o all’idroscalo. Insomma, Riovaggio e le sue spiagge non rappresentavano esattamente una meta irrinunciabile nella sua movimentata vita. In fondo l’odore del salmastro era quasi sempre lo stesso, sia che lo si respirasse a Rimini che a Playa del Carmen. E per quanto riguardava i tramonti poi… be’, su quello c’era molto da discutere e paragonare. Ciò nonostante quella sera c’era di più, la percezione di qualcosa di incombente. In quel momento, nel mezzo del parcheggio del disco-pub “Il Corsaro”, Michele sentiva che c’era qualcosa di diverso. Qualcosa che lo riportava indietro negli anni, ai tempi della sua gioventù quando, scapestrato e senza una lira, trascorreva le giornate in compagnia della persona che si accingeva a incontrare di nuovo.
24 E gran parte di quella sensazione era sollecitata proprio dal tramonto riovaggino. Infilò la mano nella tasca e la Volvo XC60 che aveva preso all’autonoleggio dell’aeroporto risuonò dello scatto della chiusura centralizzata. Voltò le spalle al mare e si diresse verso l’ingresso del locale. Marco gli aveva dato appuntamento alle nove e mezza, e lui era in anticipo di una decina di minuti. Chissà poi cosa voleva dirgli di così importante? Con il fatto che se ne era andato, si erano persi di vista da almeno dieci anni. Escluso qualche SMS di auguri scambiato per i reciproci compleanni, i loro contatti erano cessati. Al telefono poi, il suo amico era stato parecchio vago. «Vorrei che tu venissi domani, ho una cosa importante da dirti. Fallo in nome della nostra vecchia amicizia» gli aveva detto. «Mi puoi anticipare qualcosa?» «No, ma tu fidati. Se riuscissi a venire mi dimostreresti ancora una volta di essere un vero amico.» «E allora ci sarò, tranquillo.» Amico, Amicizia. Marco aveva fatto un uso spregiudicato di quelle parole. Lo aveva messo quasi in ansia. Ma nonostante tutto non aveva fatto una piega. Appena qualche secondo dopo che la conversazione fu finita, stava già navigando sul sito dell’aeroporto di Malpensa con il suo Iphone, giusto il tempo di acquistare il biglietto con la carta di credito e pianificare l’arrivo a Firenze per il giorno dopo. “Per un amico questo e altro” aveva pensato. Michele entrò nel locale e dette una rapida occhiata in giro. Il disco-pub, ancora semi-deserto, era interamente rifinito in legno. Sembrava l’interno di una cambusa. La gente avrebbe cominciato ad affollarlo solo in tarda serata. In quel momento, dietro a un massiccio bancone, due baristi si stavano dando da fare, preparando l’occorrente per la grande erogazione di alcolici che si sarebbe verificata da lì a poche ore. L’impianto stereo era acceso e diffondeva una canzone dei Clash che rimbombava nel locale vuoto. Giusto due o tre tavoli erano occupati, a uno era seduto un ragazzo dai capelli castano-ramati lunghi fin sulle spalle, con indosso una t-shirt di Madonna e dei jeans stretti pieni di strappi. Era intento ad analizzare il
25 menù, e un paio di occhiali tondi, alla John Lennon, gli poggiavano sulla punta del naso. Michele si avvicinò per vedere meglio, e quando quello alzò lo sguardo verso di lui, sorrise. «Michele, ciao!» esclamò Marco Tofanelli. Rimase spiazzato, ancora non riusciva a decidersi se quello fosse veramente il suo amico oppure no. «Sì, sono io, Marco! Non mi riconosci?» «Certo che sì!» rispose con ipocrisia. Gli andò incontro a braccia aperte. Si abbracciarono stretti per qualche secondo, poi finalmente si separarono ammirandosi a vicenda. «Allora? Quanto tempo è passato? Dieci anni come minimo!» disse Marco. «Sì, Dieci. Hai contato bene. Ma cosa hai fatto ai capelli? Ti ricordavo biondo.» «Sai com’è, ogni tanto uno ha voglia di cambiare. Tu piuttosto, ti sei conservato proprio in ottima forma! Senti che muscoli in queste braccia!» gli palpò con forza il bicipite e poi si voltò di lato coprendosi parzialmente il viso con la mano «non mi ci far pensare altrimenti potrei fare una pazzia!» Michele scoppiò a ridere. «Dai Marco, non farti illusioni, lo sai che a me piacciono le donne» gli disse bonariamente. «Peccato. Quanto ben di Dio sprecato, ma prima o poi te ne renderai conto vedrai…» «Seee. Sempre il solito tu. Lo sai che con me non attacca!» L’altro sorrise e gli occhiali gli risalirono dalla punta del naso. Poi, invitando il suo amico ad accomodarsi con un ampio gesto della mano, disse: «Vieni Miky, sediamoci, così potremo scambiare quattro chiacchiere tra noi prima che arrivino gli altri.» «Altri? Quali altri?» * * *
26 Alle dieci meno un quarto di quella stessa sera, un motocarro Piaggio Quargo della rinomata floricoltura Rea sostava a lato del grande piazzale nella darsena Europa. Sul cassone del veicolo, una pianta invasata di palma Trachycarpus svettava sopra la cabina di guida con larghe frasche agitate dal vento. Due figure ammiravano l’ultimo chiarore del giorno morente attraverso il parabrezza incrinato. Per una di loro l’abitacolo sembrava calzare stretto come una scatola di latta per una sardina. Davanti a loro, l’ormeggio dei pescherecci risuonava del cozzare metallico di carrucole e pinnacoli sbattuti dalla brezza. «Dai Gianni, muoviti! Marco ci sta aspettando già da un quarto d’ora!» incitò Tommaso Rea visibilmente seccato. «Daiii Gianniii muovitii! E che palle! Se aspetta un po’ non muore mica, eh? Per chiudere uno spinello come si deve occorre il suo tempo!» protestò Gianni Serafini, continuando a lavorare alla canna come niente fosse. «Lo sai che ci tengo! Non ci vediamo mai, e quando succede lo facciamo aspettare!» «Ma dico io, cosa vorrà mai quella checca? Sono anni che non ci considera, e adesso tutt’a un tratto vuole incontrarci e pretenderebbe anche che fossimo in orario?» continuò Gianni. Adesso stava battendo la canna sul quadrante del suo orologio da polso. «Non parlare così di Marco capito?! Anche se è finocchio è una brava persona, e a me non ha fatto mai niente di male, anzi…» sbottò nervosamente Tommaso. «Ehi, ehi, calma! Non ti scaldare. Guarda qui piuttosto, che ne pensi?» Gianni esibì lo spinello come se tenesse tra le dita un anello con incastonato il più grosso smeraldo del mondo. Gli occhi del compagno brillarono, e il suo largo sorriso ebete si dischiuse sotto al cesto di capelli fulvi. «Beeellaaa. Dagli fuoco dai, che aspetti?» L’altro sogghignò, soddisfatto come uno che conosce perfettamente i suoi polli, poi accese il torcione con un accendino Bic regolato al massimo. Dopo una profonda aspirata, un grosso sbuffo di fumo si propagò nell’aria, fuggendo immediatamente dai finestrini aperti.
27 Gianni si distese, o almeno tentò per quanto lo stretto abitacolo glielo permetteva. Numerosi scricchiolii di plastica in trazione e di molle in compressione scaturirono da sotto il suo sedile. «Sai che penso, Tommy?» disse sporgendo il gomito fuori dal finestrino. «No, cosa?» «Che questa città è veramente un posto di merda.» «Che dici? Riovaggio è il meglio posto del mondo! Dove lo trovi un panorama del genere? Guarda che spettacolo!» rispose l’altro riferendosi alle barche oscillanti davanti ai loro occhi e alle prime stelle che comparivano timide. «Vabbè. Dici così perché non ti sei mai mosso di qui. Ti assicuro che ci sono molti altri posti migliori di questo.» «Ma anche peggiori se è per quello!» «Sì, ho capito, ma io mi riferivo ad altro. Qui non ci sono opportunità, non cambia mai nulla, non c’è niente! L’unico modo per svoltare sarebbe vincere un superenalotto!» Espirò un lungo e prolungato sbuffo di fumo misto ad amarezza. «Oh! Tu ci giochi sempre al superenalotto! Ti ci accompagno tutte le settimane! Prima o poi qualcosa vincerai, no?» Gianni si voltò lentamente verso di lui e lo guardò malissimo, incenerendolo sul posto. Quello era uno di quei momenti in cui Tommaso sottolineava il suo status di coglione col botto. «Toh! Tieni, fuma che è meglio va’» disse acidamente porgendogli lo spinello acceso. Fu la volta del compagno di provare a distendersi nel claustrofobico abitacolo. I rumori che ne conseguirono non ressero minimamente il confronto con quelli prodotti dal grasso compare. «Ci vorrebbe di fare un colpaccio» continuò Gianni «qualcosa da fare una sola volta nella vita, ma che ti sistemi per un bel po’ di tempo. Ho un amico in Spagna che fa il corriere. Gli portano la roba poi, ogni tre mesi, si fa un viaggetto in aereo per spostarla in giro per l’Europa. Guadagna un pacco di soldi e non fa praticamente un cazzo. L’unico sbattimento è quello di ingoiarsi gli ovuli, ma alla lunga uno ci fa l’abitudine. Qualche ora prima di partire si piazza sul divano con un casco di banane e un buon film in DVD. Tranquillo come un Buddha, dà un morso alla banana e manda giù un ovulo, un morso alla banana e giù un altro ovulo. Alla fine del film le banane sono finite e lui ha nello
28 stomaco più di cinquanta ovuli. Poi se ne parte alla volta dell’aeroporto. Per i voli europei i controlli sono al minimo. Un grande. Lui sì che ha capito tutto!» Tommaso apprezzò distrattamente la riflessione dell’amico. «Ah sì? Forte!» disse emettendo anelli di fumo. Gianni si accorse di non essere considerato e si spazientì. «Ma tu che ne vuoi sapere! Tanto con la ditta di tuo padre sei sistemato per generazioni.» «Oh, e che vorresti dire?» «Voglio dire che non te ne frega un cazzo di queste cose, tanto c’è sempre qualcun altro a pensare per te.» «Ma che dici? Non è vero! VAFFANCULO!» esplose l’altro, punto nell’orgoglio. Gianni intuì di aver passato il segno e smorzò immediatamente la conversazione. «Ehi, ehi, non te la prendere! Facevo tanto per dire. Tu piuttosto ridammi lo spinello che te lo stai fumando tutto!» «Tientelo!» disse arrabbiato restituendo la canna «adesso dobbiamo andare, sono stufo di aspettare, siamo troppo in ritardo. Marco ci aspetta e io lo voglio vedere!» Girò la chiave nel cruscotto e il motore del Quargo fece caracollare per qualche secondo l’abitacolo prima di mettersi in moto. Gianni scelse di rimanere in silenzio, in fondo non poteva esigere che una mente semplice come quella del suo amico potesse metabolizzare progetti più elaborati del concimare le piante. Con una veloce manovra in due tempi, il motocarro lasciò l’ancoraggio della darsena per dirigersi al luogo dell’appuntamento. Il vaso con la palma indietreggiò lievemente sul cassone, spinto dalla forza dell’accelerazione. Non appena si immise sulla strada principale, Gianni giocò disperatamente le sua ultima carta e propose: «Senti… mandiamo a quel paese Marco e fumiamoci un’altra canna!» * * * Intanto, al tavolo del disco-pub “Il corsaro”, Michele Farnocchia e Marco Tofanelli erano intenti a recuperare e aggiornare dieci anni delle rispettive vite.
29 «E così ti sei sposato!» esclamò meravigliato Marco. «Sì. E anche divorziato se è per quello…» Michele precisò il suo stato civile con una punta di tristezza, fuggendo lo sguardo dell’amico e facendo vagabondare gli occhi in giro per il locale. All’interno i clienti si stavano materializzando lentamente e il brusio delle chiacchiere saliva, ancora un’altra mezz’ora e avrebbero dovuto cominciare ad alzare la voce per riuscire a capirsi. «Non avevo dubbi, le donne sono tutte uguali» disse lapidario Marco. «Ma che ne sai tu di donne? Sei gay!» «Esatto, proprio perché sono gay! Voi etero siete tutti uguali, pieni di stereotipi da rispettare. Non parliamo poi dei tabù, quelli ve li inculcano da piccoli…» «Seee. Qui gli stereotipi non c’entrano niente. Eravamo semplicemente due persone troppo diverse per stare insieme, tutto lì. Poi lei era pure svedese, altro che tabù…» Un ghigno sulla sua faccia non mascherò un certo orgoglio maschilista. «Accidenti!» esclamò Marco «svedese te l’eri trovata! Allora a letto doveva essere esigente! Ma conoscendoti quanto è durato il matrimonio? Sei? Otto mesi? Un anno?» «POCO» «E figli? Hai dei figli?» «MA UFFF… mi hai fatto venire da Milano per ficcare il naso nella mia vita privata?» domandò ruvido Michele. «Certo! Sono dieci anni che non ti vedo. Adesso che sei qui voglio sapere tutto!» rispose l’altro sfoderando un sorriso accattivante. Il suo viso appuntito era rimasto lo stesso di quando erano bambini. Il broncio di Michele crollò quasi subito di fronte a quell’atteggiamento scanzonato. «Sei incredibile Marco, quando ti ci metti sei un vero martello pneumatico e, come al solito, hai la tua buona dose di ragione. Comunque no. Non ho figli purtroppo.» «Be’… su questo non amareggiarti. Possono essere un vero problema per la parte che riguarda l’affidamento e gli assegni. Ma lei che tipo era? Cosa ti ha fatto capire che era quella da… sì insomma… da sposare?» Michele si ritrovò a fissarsi riflesso nelle lenti del suo interlocutore, e dopo essersi trastullato le mani nelle mani, quasi con timidezza rispose:
30 «Non lo so. Mi sembrava la cosa più giusta da fare al momento.» Seguì un silenzio di qualche secondo, in cui solo il chiacchiericcio prodotto dagli avventori e il sottofondo musicale diffuso dall’impianto stereo li trattennero fuori da un’era glaciale. «Tutto qui? Nient’altro?» esclamò meravigliato Marco «ma com’era questa donna? Avrà avuto un nome, un aspetto fisico. Delle qualità particolari. Dei pregi e dei difetti che ti hanno colpito e ti hanno fatto desiderare di sposarla.» Lui rimase perplesso di fronte a quella domanda. Corrugò le folte sopracciglia scure cercando di investigare nella memoria e ricordare qualcosa di particolare sulla sua ex-moglie. Dopo una riflessione che sembrò molto impegnativa disse: «No. Niente di particolare. Era bella e a me andava di fare così.» Marco, dopo un primo momento di sconcerto, cominciò a ridere sommessamente. «E adesso perché ridi?» «Oh, scusami gioia. Rido perché ti riconosco! Sei sempre il solito vecchio Michele con cui giocavo a campana nella strada davanti casa. Quello che non ci pensava due volte a irrompere a passo di carica dove neanche gli angeli osavano entrare. Che bello ritrovarti. Mi sembra che il tempo non sia mai passato!» «Magari! E invece il tempo passa anche troppo alla svelta per i miei gusti. Ma dimmi di te piuttosto. Di donne non posso certo chiederti quindi… a uomini come stai messo?» Marco lo guardò un po’ di traverso, studiandolo, e poi rispose con affettata serietà: «Non sarai mica venuto da Milano per ficcare il naso nella mia vita privata, vero?» Una breve risata complice li contagiò entrambi e si perse nelle tante altre che ormai echeggiavano tra i tavoli del locale. Un orologio della Guinness appeso dietro al bancone segnava già le dieci e un quarto. Michele lo guardò e poi di rimando squadrò il suo orologio da polso come per trovarne riscontro e controllarne l’esattezza. «Ehi! Ma a che ora dovevano venire gli altri?» «Alle nove e mezza, come te.»
31 «E allora vedo che non sono soltanto io quello che è rimasto sempre il solito» ironizzò «come stanno quei due? Sono dieci anni buoni che non li vedo e non li sento. Tu cosa mi dici?» Marco inarcò le sopracciglia e sporse il labbro inferiore. «Non molto in realtà. Anche se viviamo ancora tutti a Riovaggio, i nostri contatti si sono parecchio affievoliti. Ogni tanto vedo Tommaso. Passa sempre dalla sartoria a farmi un saluto quando fa le consegne lì vicino, ma è giusto un saluto accompagnato da quattro chiacchiere e niente più. Vive con una ragazza russa, non so dove l’abbia pescata, qualcuno pensa su internet. Dicono che sia una che sa come amministrarsi, e soprattutto come amministrarlo. Con uno come Tommaso ha trovato l’America. Ha anche un figlio di pochi mesi: Bartolomeo. Ma non credo che la paternità lo abbia coinvolto molto. Sa dirti esattamente da quanti giorni ha acquistato il suo nuovo scooter ma fa fatica a ricordare l’età di suo figlio. Per il resto è sempre il solito Tommy. Da quando il vecchio è andato in pensione, suo fratello Lucio dirige l’azienda, e a lui l’hanno lasciato a fare il suo solito lavoretto, dove può fare danni limitati: le consegne.» «E che mi dici di Gianni? Ho saputo di suo padre e mi è dispiaciuto moltissimo.» Marco abbassò lo sguardo, in segno di luttuoso rispetto. «Ha passato dei brutti momenti. Poi perderlo in quel modo è stato ancora più tragico. Dico io, ma cosa gli è saltato in mente? Ha tentato di mettere sotto quel carabiniere! Un semplice posto di blocco si è trasformato nella sua esecuzione. E sai qual è il lato drammatico di questa storia? Quella sera era pulito. Non aveva niente né in macchina né addosso. Se la sarebbe cavata! Ma no, lui no. Ha voluto provarci per il gusto di provocarli. Quell’uomo ha vissuto una vita al limite. Ha sempre sfidato la sorte fregandosene della famiglia e delle responsabilità.» «Già!» convenne «mi dispiace per Gianni. È un amico e nonostante il nostro rapporto sia stato spesso conflittuale, gli voglio bene. Non vedo l’ora di rivederli quei due, sai?» Marco sorrise bonariamente, poi la sua attenzione si spostò verso l’ingresso del locale e alzò la mano in segno di saluto. «Eccoli! Sono arrivati! Guarda!» esclamò. Michele si voltò e vide entrare dalla porta una bassa caricatura di Stanlio e Ollio.
32 Erano loro. Erano proprio loro: Gianni e Tommaso! I dieci anni trascorsi dall’ultima volta che si erano visti ne avevano cambiato notevolmente l’aspetto, ma non abbastanza da renderli irriconoscibili. Gianni era sicuramente quello grasso. La sua stazza in fondo si era solo accentuata perché calvo se lo ricordava già a quei tempi. Indossava un paio di pantaloni corti color cachi stile coloniale pieni di grosse tasche, e una maglietta nera (sempre troppo stretta) con stampata una buffa fantasia di teschi umani. Ai piedi un paio di sabot di cuoio. I suoi occhi azzurri e luciferini, che ricordavano vagamente quelli di Jack Nicholson, si fissarono nei suoi, e un buffo sorrisetto impertinente gli deformò il volto mettendo in risalto il doppio mento. Sì, quello era indiscutibilmente Gianni Serafini. Altro discorso era invece per Tommaso Rea. Molto più basso di Gianni. Di primo acchito chiunque lo avrebbe scambiato per un pazzo appena fuggito dal manicomio. Una cesta ingovernabile di capelli rossi sagomava la sua testa come se fosse la cappella di un fungo, e il buffo movimento delle sopracciglia insieme a quello dei suoi occhi, uno verde e uno azzurro, alla rapida esplorazione dell’interno del locale, lo facevano apparire come uno schizofrenico in balia di una crisi. Una maglietta del tour “Harvest” di Neil Young con un paio di jeans e delle infradito dozzinali ai piedi coronavano il tutto. Michele era eccitatissimo, quasi non ci credeva; a distanza di quasi trent’anni dal loro primo incontro, quando da bambini scorrazzavano per i campi e si divertivano a costruire capanne improvvisate, erano di nuovo riuniti insieme, allo stesso tavolo. Rivedere quei vecchi amici con cui tanto aveva condiviso nel corso delle prime fasi della sua vita, lo faceva sentire bene, più giovane. In quell’istante Milano, con il suo lavoro e la sua vita frenetica, divenne lontanissima, era come se il tempo non fosse mai passato. Si alzò in piedi di scatto facendo gemere la sedia, e si mosse verso i due nuovi avventori che a loro volta gli venivano incontro. Per un attimo la sua attenzione fu catturata da un albero di palma che svettava dietro di loro, proprio nel parcheggio. Era sicuro di non averlo notato quando era arrivato. * * *
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Cinque minuti prima, Tommaso Rea premeva a tavoletta il pedale dell’acceleratore e il suo Quargo Piaggio sfrecciava sulla carreggiata alla fantasmagorica velocità di novanta all’ora. Tra vibrazioni, cigolii, scricchiolii e rumori di ogni tipo, l’interno dell’abitacolo risuonava come di un delirante concerto di strumenti scordati. Ovviamente la rapidità del veicolo non era direttamente proporzionale al chiasso prodotto. Se così fosse stato, il motocarro avrebbe tranquillamente abbattuto la barriera del suono. Per il momento invece, riusciva solo a produrre lo scoppio sonico. «Ma che ci sarà mai da correre in questo modo?» osservò nervosamente Gianni. «Oh, ma allora sei sordo! Siamo in ritardo! C’è Marco che ci aspetta!» starnazzò l’altro. I suoi occhi bicolori erano incollati sulla strada. «Ma se neanche sappiamo cosa andiamo a fare. Tu lo sai perché ci vuole vedere? Io no! Sicuramente avrà bisogno di qualcosa» continuò Gianni. Lui, al contrario del suo amichetto, avrebbe volentieri fatto a meno di quell’incontro. «E allora? A me non interessa. Io voglio andarci!» e così dicendo sterzò seccamente a destra per entrare nel parcheggio del disco-pub “Il Corsaro”. Il Quargo curvò così bruscamente da ritrovarsi entrambe le ruote laterali di destra sollevate da terra. Ciò era dovuto anche al fatto che la pianta invasata che trasportava si era spostata sulla sinistra a causa della forza centrifuga. «Ma che cazzo fai!» urlò Gianni in preda al panico. Con le braccia tese e le mani serrate sul cruscotto, tentava di ormeggiarsi per non debordare addosso al guidatore con i suoi non indifferenti centodieci chili. Non fece in tempo a finire la frase che Tommaso, con un veloce controsterzo a sinistra, recuperò, se pur brevemente, il controllo del mezzo. Le ruote che prima si erano sollevate, ricaddero sbattendo sull’asfalto. Quello che però il guidatore non aveva minimamente calcolato - fin dall’inizio, per la verità - erano i movimenti in scivolata che la palma continuava a effettuare sul cassone del furgoncino. Il vaso, con tutto il
34 suo peso, continuava a pattinare completamente privo di impedimenti di sorta. E in questo caso scivolò nuovamente sulla destra del cassone, facendo in modo che le ruote dalla parte opposta si sollevassero a loro volta. A quel punto, rendendosi conto di essere totalmente incapace di mantenere il controllo, frenò. Sperando di non aver guadagnato una tale velocità da non riuscire a scongiurare il ribaltamento. E fu fortunato, gli andò bene. Il motocarro si ritrovò con tutte e quattro le ruote a terra e si andò a incagliare in un’aiuola, tra lo stupore e gli sguardi esterrefatti delle persone che cominciavano ad affluire nei locali del lungomare. Il moto del micidiale furgonato si era arrestato. Dentro, Gianni e Tommaso rimasero immobili e in silenzio. Nell’abitacolo non volava una mosca, regnava solo la religiosa constatazione della reciproca incolumità. «No, ma ti rendi conto di quello che hai fatto?» sbottò Gianni. Tolse le mani dal cruscotto, e questo ringraziò producendo una serie di gemiti plastici. «Scusa. Non credevo che il motocarro si ribaltasse così! È la prima volta che mi capita, giuro su Dio!» pigolò Tommaso. Era sconvolto dall’accaduto, incredulo di quanto una semplice manovra, che aveva sempre fatto con abitudinaria frequenza, avesse rischiato di trasformarsi, se non in tragedia, in qualcosa di molto doloroso per entrambi. Gianni si prese la faccia tra le mani. «Stupido idiota, ma non hai capito? È la pianta qui dietro! Non l’hai ancorata e quella ti va a spasso per il cassone sbilanciando tutto!» Tommaso si voltò indietro e allungò il collo come una tartaruga che sporge la testa dal guscio. Dal piccolo lunotto posteriore vide palma. «Ah già! È vero! Non l’ho fissata!» «Bravo!» esclamò ironicamente l’altro facendo seguire un piccolo battito di mani alla volta dell’amico. «Vabbè, però ci è andata bene. Voglio dire… poteva andarci peggio!» «Certo! E meno male! Se così non fosse stato avremmo dovuto ringraziare una checca e la sua voglia di rimpatriate. Che motivo stupido per finire in ospedale!»
35 Gianni aprì la portiera e uscì. Poi si voltò verso il suo compagno che invece non si era mosso dal posto di guida, con le mani ancora ben salde sul volante. «Datti una mossa, esci! Andiamo a recitare questa farsa. Vuoi rimanere lì fino a mezzanotte?» «Ah sì, sì, vengo!» Insieme si incamminarono verso l’ingresso del disco-pub, dal quale provenivano intriganti note di jazz. * * * “Quello io lo conosco!” pensò Gianni quando si vide venire incontro quella specie di volto da copertina che era Michele. La faccia aveva qualcosa di familiare, soprattutto quelle sopracciglia nere, così folte e quasi perfettamente orizzontali. E poi il sorriso, fatto di tanti denti piccoli e regolari, identici uno all’altro. “Sembra il Farnocchia!” Ma no, non poteva essere lui. Gianni se lo ricordava lungo e fine come uno spaghetto. Con quell’aria da saccentino supponente che spesso lo faceva irritare. Il tipo che gli stava venendo incontro invece era atletico. Era chiaramente uno che faceva attività fisica regolarmente. L’aria da saccente però ce l’aveva! “E allora chi cazzo è?” A dissipare tutti i suoi dubbi ci pensò Tommaso, che accanto a lui esclamò: «MICHELE!» e cominciò a ridere con quella sua risata malata: “Eeeeee-eee-eee”. Solo il Signore sapeva quanto Gianni lo detestasse quando rideva in quel modo. Il tipo si approcciò a Tommaso con la mano tesa e un sorriso smagliante da pubblicità televisiva. «Ciao, era da un po’ che non ci si vedeva eh?» disse stringendogli la mano. Poi con uno strattone lo abbracciò. «Oddio, oddio. Non ci credo che sei tu! Sono contento da morire, giuro su Dio!» mugolò Tommaso con la faccia sprofondata nel petto di Michele. Gianni osservò la scena in disparte.
36 Dunque quello era veramente Michele Farnocchia. Ma quanto era cambiato? Dieci anni lontano da Riovaggio lo avevano trasformato. Adesso sembrava uscito da una rivista di moda. Capello corto, abbronzatura, e tanto di completo di lino con mocassini! Se lo ricordava molto diverso. Un trasandato che stava sempre chiuso in casa a studiare, praticamente un topo da biblioteca. L’unica attività fisica che si concedeva era farsi fare le seghe da quelle troiette con le quali filava. Per Gianni era sempre stato inspiegabile come facesse un tipo come lui ad avere tante donne - pure carine - intorno. Cosa diavolo ci trovavano le ragazze in Michele Farnocchia? “Boh?” Mistero della fede. «E tu Gianni come te la passi?» gli chiese tendendo la mano. Lui restò imbambolato di fronte a quel gesto. Poi, dopo un breve attimo di esitazione, gliela scansò di lato con una pacca e tese entrambe le braccia verso di lui dicendo: «Abbracciami, stronzo!» Michele non se lo fece ripetere due volte e lo assecondò. Fu così che i due si unirono in un fraterno abbraccio che, paradossalmente, segnò la fine di un armistizio decretato da Michele dieci anni prima, con la sua dipartita da Riovaggio. Dietro di loro, Marco assisteva a quella scena toccante con il cuore colmo di gioia. Felice per la ritrovata unità della vecchia compagnia. E a quel punto poté tranquillamente dire: «Bene ragazzi, credo che sia giunto il momento di accomodarci. Ho una cosa importante da dirvi.» Poi, da perfetto anfitrione quale era sempre stato, indicò il tavolo verso il quale si diressero. Era felice che alla fine si fossero ritrovati tutti insieme. Dispensò pacche sulle spalle e sorrisi ammaliatori, confidando più che mai nella lealtà dei suoi amici. * * * Erano da poco passate le undici quando, sul piccolo palco all’interno del disco-pub, i musicisti cominciarono ad accordare i loro strumenti per l’esibizione della serata.
37 Nonostante fosse soltanto un martedì sera di inizio maggio, il pub era quasi pieno. Segno che i ritmi di vita della popolazione di Riovaggio si stavano rapidamente modificando, per adattarsi a quelli più frenetici e nottambuli della stagione estiva. I quattro erano seduti allo stesso tavolo da più di mezz’ora, e gli amarcord tra loro non accennavano a esaurirsi. Fu a quel punto che Marco rivolse la fatidica domanda ai suoi tre amici: «Vi state chiedendo perché siete riuniti qui stasera, vero?» Tre paia d’occhi si concentrarono sul suo volto con intensità. La riunione inaspettata aveva generato euforia nei loro cuori. Ma la soluzione a quell’interrogativo era diventata un’esigenza palpabile per tutti. «Mmmh… sì, perché?» fece Tommaso. Interruppe repentinamente di bere la birra che aveva ordinato, e un sottile strato di schiuma gli incorniciò la bocca donandogli un paio di sottili baffetti bianchi. «Alla buon’ora finalmente! Vai Marco, illuminaci!» incitò Michele. Gianni non disse niente, si sporse in avanti poggiando i gomiti sul tavolo e fece semplicemente un gesto circolare con il dorso della mano per invitare l’amico ad andare avanti. Alcuni secondi di silenzio carichi di aspettativa anticiparono la dichiarazione. «Ragazzi… mi sposo!» proclamò Marco, sfoggiando un sorriso che risplendette di luce propria. Seguirono altri secondi di silenzio, ma stavolta carichi di imbarazzo e smarrimento. Stallo. E mentre i tre amici si guardavano reciprocamente negli occhi senza riuscire a trovare le parole adeguate all’unicità della situazione, il batterista sul palco provò una rollata accentuando ulteriormente il clima di ansiosa attesa, come quando un mago sta per mostrare al pubblico che la valletta non è stata segata in due. Fu il solito Tommaso a rompere l’empasse con la sua risata. «Eee-eee-eee-eee, ma chi vuoi prendere in giro? Lo sanno tutti che a te le donne non ti tirano» «E chi ha detto che mi sposo con una donna?» «Come sarebbe? E allora che matrimonio è?» continuò perplesso. «Sì Marco, vai avanti, spiega meglio» chiese Michele.
38 Gianni continuò a rimanere in silenzio, con le mani unite come in preghiera. Fissava l’anfitrione in attesa di un’ulteriore rivelazione. Marco si accomodò meglio sulla sedia e spiegò: «Non credo di sorprendere nessuno di voi quando dico che a me piacciono gli uomini. Tutta Riovaggio sa che sono gay, da anni ormai. Anni di battutine e sogghigni. Anni in cui sono stato sempre additato e talvolta anche emarginato per come vivo la mia sessualità. Anni duri.» «Sapete anche che ho avuto molti partner. Alcuni occasionali, altri sono durati di più. Diciamo pure che la mia vita sentimentale è stata abbastanza movimentata. Ecco. Adesso, in vista dei quarant’anni, mi sono reso conto di aver trovato la persona giusta. Una persona con la quale mi piacerebbe passare il resto della vita, e abbiamo deciso di sposarci. Lui si chiama Carlo. Non so se qualcuno di voi lo conosce. Credo di sì. Gestisce il negozio di giocattoli accanto alla chiesa di San Paolino.» Tommaso fece un salto sulla sedia. «Oh, io lo conosco! È il nipote di Callino! È un bravo ragazzo. Lo dicevano che era un po’ finocchietto…» Michele lasciò partire uno schiaffone che schioccò contro la sua nuca. «Ahi! Ma che, sei scemo?» starnazzò. «Modera i termini Tommy. Almeno adesso…» ringhiò Michele. «Oh, va bene, scusate tanto. Che sarà mai?» «Io non lo conosco, ma sono sicuro che sia un’ottima persona. Complimenti, sono veramente contento per te» disse Gianni interrompendo il suo silenzio monastico e alzando il calice. «Neanch’io lo conosco» aggiunse Michele «ma a questo possiamo rimediare. Tantissimi auguri a voi due» e anche lui si unì al brindisi proposto da Gianni. «Auguri» disse Tommaso. Avvicinò il suo bicchiere agli altri mentre si massaggiava la nuca dolorante. I calici vennero svuotati e riposti sul tavolo in tempi diversi, producendo suoni simili a una breve raffica di mitra. «Avete già deciso dove sposarvi?» domandò di getto Michele. Marco contemplò i suoi tre amici con un sorriso materno. Gli occhiali tondi scintillarono di riflessi mentre rispondeva. «Certo che sì. Ed è qui che entrate in ballo voi.» «Noi? Cioè?» chiese meravigliato Gianni.
39 «Vedete, in Italia il matrimonio omosessuale non è riconosciuto, ma in Spagna sì. Abbiamo deciso di sposarci a Madrid, sabato prossimo, e sarete voi a portarmi laggiù, in qualità di invitati alle nozze e miei testimoni.» La perplessità attanagliò i costruttori di capanne. «Ma aspetta, aspetta. È tra quattro giorni! E la tua famiglia? Tua madre e tua zia vengono con noi?» chiese Michele. «Saranno già laggiù ad aspettarmi. Loro partono in aereo con Carlo, i suoi invitati e la sua famiglia.» «Ma perché non partite tutti insieme con l’aereo? È più facile!» chiese Tommaso, scosso dalla novità come uno che ha appena scoperto di avere una multa sotto il tergicristallo. «Sì, sarebbe più facile» continuò Marco «ma in tal caso non riuscirei a stare con voi come ho intenzione di fare» Poi trasse un grosso respiro e il suo tono si fece grave. Le dita lunghe e bianche si strinsero intorno al bicchiere. «Vedete ragazzi, purtroppo Riovaggio non è New York. È una piccola cittadina di provincia dove la gente mormora, e a quelli come me può riservare dei trattamenti che non raccomanderei a nessuno. Ho centinaia, forse migliaia di conoscenze, ma non ho amici. Non ho amici che riesca a definire tali senza provare sconforto, o peggio, un repellente fastidio. E quando penso a cosa sia per me l’amicizia, non riesco a fare a meno di pensare a voi tre. A quando da piccoli giocavamo per strada, e costruivamo capanne, e ne combinavamo di cotte e di crude. È per questo motivo che vi vorrei presenti a uno dei momenti più importanti della mia vita. Fatelo in nome di quello che eravamo, del nostro vecchio legame. Non voglio regali, non voglio stupide feste di addio al celibato dove mi portereste in uno squallido locale a veder ballare un energumeno unto d’olio. Non m’interessa. Chiamatemi pure nostalgico ma io vorrei soltanto stare bene con voi. Come ai vecchi tempi.» «Quindi noi tre dovremmo accompagnarti a Madrid?» chiese conferma Michele. «Sì. Prendetelo come una specie di regalo. Niente lista nozze. Da voi vorrei essere portato all’altare con una bella gita internazionale. Un lungo addio al celibato su gomma. È troppo?»
40 Altro imbarazzo serpeggiò attraverso il tavolo. Se non ci fosse stato quel guazzabuglio di schiamazzi e risate che risuonava nell’intero locale affollato, l’atmosfera sarebbe stata cimiteriale. «Ti rendi conto di cosa ci stai chiedendo Marco?» disse Gianni. «Sì. Me ne rendo conto benissimo. Ma non riesco a pensare a nessun altro al quale chiederlo se non voi. Siete i miei più vecchi e cari amici.» «Be’, se le cose stanno così, a questo punto non resta altro che organizzarci per intraprendere il viaggio!» disse Michele rompendo ogni indugio. Allungò la mano verso Marco e gli strinse bonariamente la spalla. «Grazie Miky, sapevo di poter contare su di te» disse Marco ricambiando quell’affettuoso gesto con uno sguardo riconoscente. «E voi due cosa ne dite?» aggiunse rivolgendosi agli altri due. Gianni Serafini di fronte a quella domanda restò imbalsamato. Poi, come per iniziare un discorso, aprì e richiuse la bocca tre volte. Infine la voce riuscì a uscirgli, impastata come se avesse mangiato una cipolla cruda. «Senti Marco… davvero non lo so. Io ho un sacco di cose da fare al momento. La stagione sta iniziando. Sai com’è… ho appena ripreso a lavorare. Per ora faccio solo i fine settimana, ma se mi assento qualche giorno già adesso, ho paura che il principale non la prenderebbe molto bene. Poi come facciamo ad arrivare fino a Madrid? Prendiamo un altro aereo? Andiamo in macchina? Io la macchina non ce l’ho! La benzina? Chi la paga la benzina? La dividiamo?» «Calma Gianni!» lo interruppe Marco «il viaggio non è un problema. Ho già organizzato tutto. Andremo in camper. Ho contattato l’autonoleggio Farnesi e il mezzo è già pronto e pagato. Da domani possiamo partire. Divideremo solo le spese vive, come il gasolio, i pedaggi autostradali e quello che mangeremo per strada. Mi sembra una proposta ragionevole no?» Gianni si bloccò nuovamente. Ma fu solo per riprendere fiato, perché quando parlò continuò sulla stessa linea: «Ah… in questo caso la cosa sembra più abbordabile, però rimane comunque la spesa per il carburante, che da qui a Madrid e ritorno potrebbe essere consistente e io al momento…» «Se anche quello deve essere un problema, allora il gasolio lo pagherò io!» sbottò Michele «sarà un mio personale regalo di nozze per Marco.»
41 Ma Gianni era ancora arroccato sulle sue posizioni, lo si capiva benissimo. Il suo sguardo contratto continuava a passare dal volto di Marco a quello di Michele e viceversa, come se stesse seguendo un combattuto incontro di tennis. Temporeggiava. Temporeggiava in attesa di sfruttare una buona via d’uscita da quella scomoda situazione, agognando una scappatoia che gli permettesse di salvare capra e cavoli, senza schierarsi e compromettere i rapporti. Perché si sa, nella vita prima poi tutti possono tornare utili. E prendere posizioni nette non conviene mai. Volesse mai il destino che in futuro Marco e Michele servissero a qualcosa… Ma al momento la cosa non era affatto facile. Sembrava proprio che quei due avessero fatto comunella per incastrarlo in quella stupida gita. E per rincarare la dose a suo discapito, Marco sottolineò: «Allora divideremo in quattro solo i pedaggi autostradali e le spese per mangiare. È ancora così difficile dire di sì?» Scacco al re. Gianni buttò a monte la partita alzandosi in piedi. «Non lo so Marco. Scusa tanto ma non lo so. Devo pensarci. Vado un attimo in bagno, scusa» e così dicendo si intrufolò tra la folla in direzione della toilette. Seduti al tavolo, erano rimasti in tre. Ma uno di loro avrebbe voluto nascondercisi sotto. Tommaso era rimasto muto da quando Marco aveva rivelato il suo progetto. Si era fatto piccolo piccolo sulla seggiola. Aveva seguito la discussione con attenzione. Niente era sfuggito alle sue orecchie. Ma al momento stava guardando sotto al tavolo alla ignota ricerca di qualcosa che, a giudicare dall’intensità con cui analizzava il pavimento, poteva essere soltanto una lente a contatto. Era un peccato che lui ci vedesse benissimo e non avesse mai avuto bisogno di lenti in vita sua. «E tu Tommaso? Cosa ne dici? Vieni?» «Io?» sobbalzò. Alzò la testa di scatto e strappò via l’attenzione dalla conta delle mattonelle. «Sì tu! Proprio tu Tommaso! Sta parlando con te!» lo rimproverò Michele.
42 «Ma io… non lo so. Il lavoro è tanto. Lucio non mi lascerà mai venire in questo periodo. Poi Sveva. Chi glielo spiega a Sveva? Anche lei non lo permetterebbe mai. Insomma, la vedo dura riuscire a venire. Anzi, così su due piedi penso proprio di no!» La delusione si dipinse a tinte forti sul volto di Marco. Forse Tommaso se ne accorse, e un flebile senso di colpa gli fece aggiungere: «Però mi piacerebbe venire. Forse potrei lavorarci un po’ sopra. Noi quattro col camper, fino a Madrid. Sarebbe forte! Voglio dire… sesso, droga e Rock’n’Roll! Sì, sì. Mi piacerebbe proprio! Giuro su Dio!» Marco si riprese aggrappandosi a un filo di speranza. «Allora? Sicuro che proprio non riesci?» Tommaso abbassò di nuovo lo sguardo tornando a fissare il pavimento. «Però è un casino» disse piano. Poi si alzò di scatto e anche lui scappò via in direzione del bagno, infilandosi tra la gente. Al tavolo, i due amici rimasti presero amaramente atto della loro solitudine. * * * FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...