Collana LaGialla Serie BIG‐C Grandi Caratteri La serie Big‐C, Grandi Caratteri, grazie all’alta leggibilità del carattere utilizzato in stampa e alle sue dimensioni (generalmente 13 o 14), propone testi di agile lettura rivolti in particolare a lettori con problemi visivi (ipovedenti). Assieme a questo libro e fino a esaurimento scorte, viene dato in omaggio un audiolibro su CD che permette in particolare a persone non vedenti o con problemi di dislessia, di ascoltare il racconto anziché leggerlo. Precisiamo che per i lettori con problemi di dislessia sono in commercio pubblicazioni a stampa realizzate con caratteri e accorgimenti particolari, che i libri della nostra serie non utilizzano. Tuttavia, il carattere utilizzato nella serie Big‐C (Candara) si presta comunque molto bene allo scopo. La presente opera è stata realizzata SENZA alcun finanziamento o contributo statale, pubblico o privato, ma esclusivamente con il capitale della Casa Editrice. Gli audiolibri forniti, offerti in omaggio a scopo promozionale e realizzati in collaborazione con l’Associazione Servizi Culturali, sono narrati da non professionisti dalla voce chiara e gradevole. Grazie a una particolare e rivoluzionaria iniziativa, JukeBook, i CD allegati ai libri possono essere scambiati con altri CD.
All’interno del CD sono presenti tutti gli approfondimenti sull’argomento. www.jukebook.it www.labandadelbook.it www.0111edizioni.com
DAVIDE GORGI
FARFALLE A MILANO
www.0111edizioni.com
www.0111edizioni.com www.labandadelbook.it
FARFALLE A MILANO Copyright © 2011 Zerounoundici Edizioni Copyright © 2012 Davide Gorgi ISBN: 978-88-6307-417-8 In copertina: disegno di Oliver “Psycho” Catenacci
Finito di stampare nel mese di Febbraio 2012 da Logo srl Borgoricco - Padova
A Gaia,
a Simona
«Passi la vita a farti dire che prima sei troppo giovane, poi troppo vecchio: mi dico, ci sarà una fase intermedia in cui si devono godere le cose, no? L'effetto velocità... ci sarà una ragione.» (dal film: Turné)
9
14 febbraio ‐ Sabato ore 13:47 La Ford Taunus del ’74 è rossa con le bande laterali bianche, se ne sta ferma in mezzo alla strada, i quattro cilindri del motore che gira al minimo borbottano segnali di noia sprezzante soffiando, nell’aria ferma, leggeri sbuffi di un fumo bianco, denso, impregnato di benzina e olio non combusto. Il fanalino posteriore destro ciondola malamente, in terra ci sono schegge di plastica rosse e arancioni. Il cielo è un panno bianco, lattiginoso, che ti si appiccica addosso come un pigiama di quelli 100% acrilico. Il silenzio che si respira intorno è un’immersione nei mari del sud: profondo, caldo e irreale. La sensazione è quella di trovarsi di fronte a un fotogramma di un B‐movie, uno di quei film a basso costo con immagini e sentimenti nudi e crudi tipo “Milano a mano armata”, un unico francobollo di pellicola, un frame al quale hanno tagliato
10 le braccia, le gambe e tappato la bocca: sai che prima c’è stato per forza qualcosa ma non ti è dato sapere cosa, hai solo quello che vedi per capire e non basta. Allargando il campo visivo compaiono altre macchine, anch’esse ferme, persone accovacciate ben nascoste dietro a portiere aperte, pistole puntate, occhi socchiusi nella concentrazione
del
momento,
respiri
spaventati
trattenuti a mezz’aria. Un poliziotto nano ha lo sguardo famelico di un lupo che sta per azzannare la preda. Puzza di gomma bruciata e di polvere da sparo, bocche che si muovono con effetto slow‐motion, suoni ammutoliti persi nel vuoto come stelle alla deriva. Nell’auto rossa, due grossi dadi di pelo viola ondeggiano imperturbabili appesi allo specchietto retrovisore; dalla vecchia autoradio Philips accesa fa capolino una musicassetta; sul divanetto posteriore dell’auto, coperto da un vecchio plaid a scacchi rossi, una rivista aperta su una foto a doppia pagina di una ragazza bellissima e molto nuda, che sorride con quella tipica e sofisticata malizia femminile che annichilisce il sesso debole maschile al freddo obiettivo del fotografo. C'è poi un cuscino sgualcito che ritrae il logo dei Pink Floyd, sul quale sono appoggiati due grossi zaini. Per terra, sui tappetini sporchi
11 da decenni di aria inquinata, pioggia e vita di strada, due lattine di birra parzialmente schiacciate e una di acqua tonica. L’uomo alla guida è reclinato mollemente sul volante; sulla maglietta, sporca di qualcosa di scuro che dall’altezza delle spalle scende fino al petto, l’immagine di un Cristo sofferente o forse di Jim Morrison. È un ragazzo ed è immobile. L’uomo al suo fianco ha la testa appoggiata al finestrino appannato e tiene gli occhi chiusi, un sorriso sereno attraversa il viso ben rasato. È vecchio ed è immobile. Il parabrezza davanti a loro ha crepe minacciose come fiordi ghiacciati e quattro buchi dalla forma irregolare, che come occhi di uno spirito maligno scrutano l’interno dell’abitacolo dal vetro sbeccato. Sangue scuro come un pozzo asciutto da millenni si spande lento, arrogante e irriverente tra la plastica consumata dal tempo, il velluto dei sedili, malridotto come la faccia di un pugile suonato, e la finta radica di scarsa qualità.
12
9 febbraio ‐ Lunedì Il ragazzo cammina guardando distrattamente la merce esposta nelle vetrine riccamente colorate di Corso Buenos Aires, dove cuori dalle forme e dalle dimensioni più
improponibili
la
fanno
da
padrone,
visto
l’approssimarsi della festa degli innamorati o presunti tali. Il solo pensiero di questa ricorrenza così sciocca e commerciale fa storcere, in una smorfia di disgusto, la bocca al giovane. Il traffico caotico è un serpente di lamiere, acciaio e plastica, che non arriva a disturbare le sue
orecchie,
troppo
abituate
al
rumore
e
irrimediabilmente vaccinate al caos frenetico e dodecafonico di Milano per farci realmente caso. Nuvole di smog aleggiano minacciose nell’aria immobile ad altezza passeggino, per la quotidiana, barbara strage degli innocenti. Clacson barriscono nevrotici in faccia a
13 mamme dagli occhi spiritati che, dominatrici di una mobilità invariabilmente immobile, osservano la plebe dall’alto dei loro immancabili SUV, agili come elefanti senza zampe, appropriati come cravatte blu su t‐shirt viola. A bordo i loro piccoli pargoli, palesemente obesi, ipervitaminizzati e play‐station dipendenti, pronti per un’altra giornata nella loro bella scuola privata. Padri tachicardici urlano bestemmie al telefonino da centinaia di euro, le vene sulle fronti pronte a esplodere insieme alle corde vocali strizzate dall’orgasmo spasmodico di una comunicazione ritenuta vitale, che non riesce però a comunicare nulla, perché ormai non c’è nessuno che si prenda la briga di ascoltare veramente. Il piccolo e sconfortato neurone ancora attivo nel cervello del ragazzo è impegnato a dettare ordini alle gambe per schivare le merde di cane in bella e massiccia presenza sul marciapiede lurido; inoltre regola il ritmo del respiro, due attività che lo impegnano completamente: non c’è posto per pensieri o ragionamenti complicati. L’espressione sul volto del ragazzo è assimilabile a quella che avrebbe uno scimpanzé davanti al Vaso di girasoli di Van Gogh: neutra, indifferente e vuota.
14 Il ragazzo è lungo come una malattia incurabile e secco come una risaia fuori stagione. I capelli biondicci e lunghi sulle spalle non riescono a nascondere una calvizie che ha vinto la sua battaglia spietata con le tempie, e sta marciando trionfalmente verso il resto del cranio. Il giubbotto di pelle nero e la vecchia maglietta dei Doors non sono un riparo sufficiente al freddo pungente della tarda mattina a Milano, in questo lungo inverno che sembra non volersi arrendere alla primavera. Una pioggerellina fastidiosa come la sabbia nelle mutande cade sulla città e sui pedoni, accartocciati su se stessi per evitare di bagnarsi troppo con gocce impestate di pesticidi, scorie radioattive e porcherie altrettanto velenose e letali. Ombrelli neri, gialli, verdi o rosa sono un’armatura inutile e ingombrante nello spazio affollato da pedoni ammalati di una fretta che li sta conducendo giorno dopo giorno alla morte: ci arriveranno di corsa, contenti loro. Il ragazzo tiene le mani affossate nelle tasche dei vecchi jeans e le spalle curve, le All Star rosse alte hanno visto tempi migliori, hanno quell’aria sbiadita e stanca di chi sta per lasciare questa desolata landa di lacrime, troppi chilometri sotto le suole, troppe volte
15 sono state annodate le stringhe ormai mortalmente, irrimediabilmente sfilacciate. Oggi sarebbe dovuto andare all’ufficio di collocamento, forse sarebbe stata la volta buona, magari un posticino mal pagato sotto un capo bastardo e vessatorio si sarebbe finalmente reso disponibile. Forse. Sua madre sarebbe stata, almeno per una volta, fiera di lui e si sarebbe evitato la ramanzina giornaliera, traboccante di delusione e di ansia materna, sul suo stato catatonico di giovane smidollato senza orizzonti. Solo che oggi proprio non ha voglia di andare a farsi sbattere sul muso la realtà di un’esistenza grigia come il cielo sopra di lui, oggi no, vorrebbe solo camminare, camminare all’infinito. E non importa se non arriverà da nessuna parte, non conta la strada, non contano i muri, gli ostacoli, la gente, conta solo il movimento. Muoversi significa vivere, vivere significa avere uno scampolo di futuro da sfruttare, uno scopo. Il suo non gli è ancora ben chiaro, ma pensa di avere tempo per pensarci con calma, del resto è così dannatamente giovane, non ha ancora compiuto ventiquattro anni: il futuro è la speranza di un sole tiepido seduto su una spiaggia di sabbia fine a osservare il mare calmo, il presente è l’angoscia di infinite giornate tetre e
16 solitarie, il passato è la malinconia di un bosco rinsecchito in una foto in bianco e nero sgualcita dal tempo. Il vecchio è seduto su una sedia di formica gialla affiancata ad altre sedie di formica gialla addossate alla parete, gialla anch’essa. È di corporatura media, i capelli brizzolati ben pettinati, negli occhi scuri un’espressione di malcelata rassegnazione. Legge un libretto che ha raccolto con timore da una vecchia scrivania traballante, che nella logica delle cose dovrebbe avere una persona seduta dietro pronta a dare informazioni utili e invece è sempre immancabilmente vuota; è completamente avvinto dalla lettura, la gente intorno è silenziosa, rassegnata alla noia, sconfitta dall’attesa di un lavoro che non arriva mai: una terra promessa, ma a qualcun altro. Ha aspettato a lungo, in piedi, per strada al freddo per quasi un’ora che aprissero quel cancello arrugginito, poi si è unito alla calca di questa moderna e scalcagnata armata Brancaleone ed è entrato nel palazzo al cui confronto le rovine di Pompei sono un Hotel di lusso. Corsi per idraulici, falegnami, contabili, elettricisti, operatori sociali, addetti a paghe e contributi, specialisti nel settore finanza, pony express, pizzaioli su navi da
17 crociera, informatici: tutti mestieri onorevoli ma al di là delle possibilità dell’uomo strenuamente concentrato sulle pagine plastificate del libricino colorato che tiene in mano come una reliquia preziosa, ancora di salvezza che in quanto ancora lo trascinerà verso fondali di una disperazione profonda e paludosa. Una vita passata su una macchina; ogni singolo ingranaggio, ogni pezzo, ogni piccolo componente, ogni rumore, tutto di quella macchina aveva un senso, un odore, un suono per lui familiari, chiari, ogni sua azione sincronizzata come il passo di una danza che solo i suoi occhi potevano vedere. Un tango dalla sensualità nascosta ai non addetti ai lavori. Un’intimità dettata dall’esperienza di un intenso e felice sodalizio uomo‐macchina durato venticinque lunghi, meravigliosi anni. Getta uno sguardo malinconico alla gente che si affanna alla disperata ricerca di un impiego stabile, neanche fosse il sacro Graal, nella moltitudine disordinata di corridoi e uffici dall’aria dismessa da secoli di incuria, dai quali esce un odore di carta stracciata, timbri fuori corso, macchine da scrivere senza lettere, computer senza CPU, stanchezza e disillusione. Quando si alza sente come una morsa allo stomaco che lo costringe ad appoggiarsi alla parete scrostata alle sue spalle per
18 non cadere; manda giù un groppo, l’ennesimo di quei groppi che lo stanno soffocando giorno dopo giorno; getta nel cestino il libretto che tiene tra le mani, utile per migliorare il suo futuro come potrebbe esserlo un Tampax usato e si incammina verso l’uscita di quella torre di Babele. Il ragazzo arriva in Piazzale Loreto, scende gli scalini grigi resi scivolosi dalla pioggerella vischiosa, che cade imperterrita con un peso impercettibile, si addentra nelle viscere della capitale economica d’Italia e prende la metropolitana, linea rossa. Passa in corridoi lerci, dove la puzza di piscio toglie il respiro, circondato da cartelloni pubblicitari dove le donne sono sempre praticamente nude, a prescindere dal prodotto pubblicizzato. Il progresso. Sul treno ci sono zombie in giubbotti caldi, imbottiti come panini stantii, cappelli di lana calati fino agli occhi socchiusi, scarpe pesanti come i loro cuori, cuffie che sparano musica a palla dentro cervelli in naftalina. Diretti verso mete grigie come i loro pensieri, popolano i vagoni che sferragliano sinistri verso la periferia della grande città, uomini e donne appesi agli appositi sostegni come ubbidienti salami e formaggi
19 lasciati lì a invecchiare per diventare migliori ma, a differenza di insaccati e latticini, gli uomini col tempo difficilmente migliorano. Il ragazzo scende alla sua fermata, San Leonardo, far west di Milano. La banchina è vuota, la scala mobile non funziona da settimane. Quando esce alla luce fioca del giorno ritrova il suo habitat naturale, un cumulo di casermoni ben allineati, tutti uguali in un dedalo di vie tutte uguali, dove vivono persone tutte uguali; sorride amaramente al paesaggio un po’ sinistro eppure così familiarmente accogliente. Cammina in compagnia di una sorta di angoscia cupa dalla quale si vorrebbe liberare e che invece è sempre lì a fargli da fastidiosa scorta: come vorrebbe starsene da solo, finalmente da solo senza dover fare i conti con quel peso sul petto. Sale le scale del suo palazzo facendo i gradini uno alla volta, evitando l’ascensore dalle pareti arancioni che lo rende claustrofobico, fino a raggiungere il secondo piano; estrae dalla tasca del giubbotto le chiavi, apre la porta ed entra in casa. L’appartamento è silenzioso, sua madre è andata a lavorare: fa i mestieri per quelle famiglie che possono permettersi qualcuno che badi alle loro case al posto loro. Entra nella piccola cucina e prende dal vecchio frigorifero una birra in lattina, poi va in camera
20 sua; la sua cameretta arredata ancora come quando aveva nove anni. Quei mobili di quell’arancione così intenso non li ha mai sopportati, la libreria con le assi piegate dal peso di libri polverosi, il poster di Patsy Kensit quando era l’ottava meraviglia del mondo, un po’ scolorito; macchinine senza portiere, ammaccate, con ruote storte, in diverse scale. Due foto sulla mensola sopra il letto: una ritrae un bambino con un sorriso un po’ storto vestito da Zorro, l’altra ritrae lo stesso bimbo un po’ più grande, seduto con sguardo fiero su una macchina di quelle degli autoscontri. Quello stesso bimbo che ora si è fatto uomo accende il vecchio giradischi, lo sfrigolio della puntina sul vinile è una sensazione di benessere che parte dall’attaccatura dei capelli sul collo e finisce in fondo alla schiena; prende una sorsata di birra fredda mentre la voce di Jim Morrison trascina le note di The end con un misto di agonia dolorosa e di liberazione. Il ragazzo si sfila il giubbotto nero e lo lancia sulla poltroncina rossa, sotto la finestra. Si sdraia nel suo letto, ancora sfatto dalla notte precedente, si sfila le scarpe da ginnastica usando i due piedi come leva e le scaglia lontano, poi chiude gli occhi.
21 Quando il vecchio arriva a casa lancia un saluto dall’uscio che cade nel vuoto di un silenzio composto. Martina è chiusa nella sua camera con un’amica: chiacchierano di abiti, vacanze in posti inarrivabili e di quel figo che incontrano ogni mattina all’ingresso della facoltà di architettura. Edoardo è fuori chissà dove, in compagnia di teenager pieni di ormoni impazziti e di brufoli a macchia di leopardo sui loro corpi che portano ancora il cartello work in progress. La moglie, Vittoria, è al lavoro, responsabile di un’agenzia di assicurazioni in Corso Magenta. Si dirige lentamente verso lo sgabuzzino, trascinando i piedi. Toglie le scarpe e infila le pantofole. Poi in camera da letto si sfila camicia e pantaloni per indossare una più comoda tuta, neanche dovesse andare a correre, e inizia un altro pomeriggio da passare in casa. In sala, sul divano a tre posti color crema, il giornale della settimana scorsa; lo prende e inizia a leggere le offerte di lavoro, anzi, a rileggerle per l’ennesima volta: sembra che a Milano, in Lombardia, in Italia, nel mondo, nessuno abbia bisogno di un capo tecnico con esperienza ventennale, di soli quarantanove anni. Piega il giornale e finalmente si decide a metterlo nel cesto della carta da buttare che è fuori sul balcone;
22 passando dalla cucina raccoglie un pezzo di pane dal cestino di vimini sul tavolo e lo addenta senza voglia. Quando torna a sedersi sul divano lo schermo grigio della televisione spenta di fronte a lui assorbe ogni suo residuo di forza, ogni stilla di energia lo abbandona all’improvviso lasciandolo inerme come un cencio umido; chiude gli occhi e si addormenta di un sonno pesante, senza sogni, neutro come il detergente intimo di un neonato. Il turno è appena finito: Achille è nello spogliatoio della caserma, si toglie la divisa di ordinanza e infila felpa, pantaloncini e scarpe da jogging. Il parco di Trenno si apre proprio davanti alla caserma della polizia nella quale è di stanza ormai da tre anni. Una grande comodità per lui, ci ha sempre tenuto a tenersi in forma: corsa tre volte la settimana intervallata da esercizi di body building in palestra. Achille ha ventisei anni, viene dalla Calabria, una manciata di case malandate arroccate sulle pendici della Sila, dove i colpi di un kalashnikov hanno reso illeggibile il nome sul cartello di benvenuto all’ingresso del paese. Ha capelli scuri, fitti fitti e tagliati corti a spazzola, occhi scuri espressivi come quelli di un bue, un fisico molto ben definito grazie alle tante ore trascorse ad allenarsi. Ma
23 Achille ha un problema, un suo tallone, un grosso cruccio che si porta dentro da quando era un adolescente: è basso. Al concorso per entrare in polizia ha mentito e poi ha pagato un medico avido e accondiscendente per nascondere quel suo metro e sessantadue centimetri che non gli avrebbe consentito di entrare a far parte del corpo di pubblica sicurezza che tanto lo aveva sempre affascinato. La palestra e la ricerca insistente di un fisico perfetto sono un’amara medicina contro quei centimetri che non sono mai arrivati a dargli le dimensioni di un uomo come Dio comanda. Ma forse non è questo il vero problema di Achille o, meglio, non quello principale. Cresciuto con i miti dell’ispettore Callaghan e di Steven Segal, ha come unico Dio le armi e la violenza. Nel recente passato è già stato richiamato dai superiori per l'uso di “metodi troppo energici” durante un paio di arresti di extracomunitari: in un caso, si trattava di un tizio senegalese che stava vendendo elefantini di legno all’angolo di Piazza Leonardo da Vinci, attività oltre che indubbiamente illecita, sicuramente grave e pericolosa per la comunità. Per questo si era beccato un paio di ceffoni e un bel calcio nel culo, oltre a perdere per sequestro tutta la sua mercanzia; l’altro caso invece,
24 accaduto l’estate appena trascorsa, riguardava una coppia mista, lei bianca, lui di colore, a spasso mano nella mano dalle parti di Piazza De Angeli, intenti a gustarsi un gelato. Per qualche motivo inspiegabile la scena di quei due, così affettuosamente legati in un’intimità a lui sconosciuta, aveva generato in Achille una sete di sangue accecante: aveva lasciato sul posto il suo compagno di pattuglia e aveva affiancato i due con le sue piccole falcate veloci. Dopo aver chiesto i documenti all’uomo e aver verificato la rispondenza di questi ai termini di legge, era passato agli insulti, prima dando della “puttana che va coi negri” alla ragazza e poi prendendosela col ragazzo, che a suo dire sarebbe dovuto starsene “nel tuo paese di merda a scopare le vacche negre come te”. A quel punto il ragazzo, giovane brillante studente al terzo anno di ingegneria al politecnico di Milano, aveva reagito con un timido “si può sapere cosa le prende? È forse impazzito a trattarci così?”. Questo era bastato per far scattare la bestia in Achille che con due pugni ben assestati, uno alla figura e uno in faccia, aveva steso il povero ragazzo. Per fortuna il collega, accorso con un po’ di ritardo, era riuscito a fermarlo prima che potesse andare a finire peggio. Il procedimento interno, in seguito alla vicenda
25 incresciosa, aveva insabbiato l’accaduto affermando che il giovane si era dapprima rifiutato di consegnare i documenti richiesti e aveva poi offeso pesantemente il pubblico ufficiale con frasi ingiuriose nei confronti della madre e del corpo di polizia tutto. La ragazza era stata ritenuta testimone non attendibile in quanto, oltre che come parte in causa, era stata vittima di uno shock traumatico che l’aveva resa a tutti gli effetti incapace di intendere e di volere. Che gran cosa la giustizia italiana. Achille corre, corre sotto una pioggerellina fine di quelle che entrano nelle ossa e ci rimangono per ore anche dopo che hai finito e sei a casa al caldo. Corre e pensa che questa città sta diventando uno schifo, piena di neri, di musulmani, di ebrei, di musi gialli, di froci, di stupratori, di ladri, di assassini e di prepotenti. È arrabbiato Achille, una rabbia che nasce da lontano, dalla sua infanzia poco felice. Veniva tormentato dai suoi amici, che poi definirli amici era quanto di più lontano dalla realtà: erano solo suoi compagni di scuola, vicini di casa, nient’altro. Lo avevano sempre preso in giro per la sua statura, si era sempre sentito inferiore, diverso, solo. Così, quando decidevano di giocare a guardie e ladri, a lui toccava sempre l’odiosa parte della guardia. Lo sbirro infame. E a
26 poco a poco quel ruolo se lo era sentito addosso: come guardia poteva dire e fare cose senza onore, con cattiveria; quando prendeva i ladri, ragazzini come lui, ci si accaniva con un furore bestiale, colpendoli e insultandoli fino allo sfinimento. E questo lo faceva sentire bene, migliore di tutti gli altri. Da lì a decidere di entrare in polizia il passo era stato breve e in fondo in paese i suoi “amici” se lo aspettavano: se giochi a fare l’infame è perché dentro sei un infame. Se solo potesse fare quello che vuole con qualcuno di quelli che stanno avvelenando la sua vita, se solo lo lasciassero dieci minuti in una stanza con uno appartenente a quella feccia, lui sì che saprebbe cosa fare. Lui sì che avrebbe la soluzione. Quando si ferma per riprendere fiato e bere un sorso d’acqua dalla fontanella in mezzo al parco, sente il cuore che batte all’impazzata ma non per lo sforzo fisico, per quello è allenato: è l’istinto alla violenza pura, convogliato in ogni sua fibra dai pensieri, tutt’altro che puri, che lo hanno avvolto come una placenta nell’ultima mezz’ora, da quando ha iniziato a correre. È così eccitato che sente distintamente il martellio delle pulsazioni a centosettanta battiti al minuto. Un po’ di stretching, qualche flessione
27 appoggiato a una panchina di cemento e un centinaio di addominali e l’allenamento quotidiano può considerarsi concluso. Adesso una bella doccia calda in caserma e poi a casa, solo, come sempre, nel suo monolocale in Via Carlo Marx, a due passi dal commissariato. Una scatoletta di tonno e due sottaceti quasi sicuramente scaduti, seduto sul divano letto sfondato con la compagnia altrettanto immancabile di un programma stupido quanto lui in televisione. Il tutto nella sua unica grande stanza, zeppa di armi da fuoco e non, tra poster di donne nude e un mezzo busto di marmo di una ventina di centimetri del Duce, in ricordo dei bei tempi andati, che per sua sfortuna ha mancato di una cinquantina d’anni. La giornata volge al termine, il buio fuori è assoluto, nel cielo non c'è una stella a rinfrancare lo spirito, nessun puntino luminoso al quale spedire un desiderio, una luce che possa dare un’idea di un mondo vivo da un’altra parte, lontano milioni di anni luce da lì. Il giovane è ancora sdraiato nel suo letto, sulla testa delle grosse cuffie si avvinghiano come artigli coprendogli le orecchie. La musica che sta ascoltando ha un volume così alto che si può benissimo sentire anche standogli solo
28 vicino. L’urlo acuto e aggressivo di Ian Gillan sulle note di Child in Time invade la stanza, pervadendola con il suo drammatico riff. Gli occhi del giovane sono chiusi, il corpo immobile, i pensieri fermi in uno stand‐by dal sapore metallico del piombo di un proiettile vagante. Il vecchio, seduto sul divano di fianco alla abat‐jour gialla accesa, sta leggendo o per lo meno mantiene lo sguardo fisso sul libro che tiene tra le mani. Il resto della stanza è buio, la moglie è andata a letto, stanca per l’intensa giornata di lavoro appena trascorsa. Beata lei. Perché sta dormendo e perché ha lavorato: due cose così semplici, istinti primari di ogni essere umano normale, che a lui non riescono più ‐ pensa il vecchio con una smorfia di sarcasmo sul volto stanco. I figli sono nelle loro camere, dormono, ascoltano musica, guardano la televisione, sono al telefono, giocano, si masturbano: lui non sa cosa stiano facendo i suoi figli, non lo sa più da tanti anni. Sfoglia svogliatamente le pagine ingiallite di “Il fu Mattia Pascal”, invidiando Adriano Meis per la sua fortuna e la per la scaltra prontezza nel cogliere le occasioni che gli si
29 sono presentate nella vita, inventandosele anche, se era il caso. A volte basta solo allungare la mano, sfilarla dalla tasca dell’apatia e stringere forte, con tutta la forza che si ha dentro, la maniglia di un treno chiamato salvezza, che spesso passa una volta sola e se lo perdi… l’hai perso per sempre! Achille, con un manubrio da dieci chili in mano, è giunto alla terza e ultima serie di sollevamenti; ora gli sembra, studiandosi il corpo completamente depilato, che le braccia vadano bene e un sorriso soddisfatto si dipinge sul suo volto. La definizione muscolare degli avambracci è vicina alla perfezione, i bicipiti sembrano scolpiti nel marmo. Come degno sottofondo a tanta virilità in televisione gira un film porno, che scorre veloce con la sua trama avvincente, ricca di colpi di scena e di dialoghi brillanti. Certo che bionde con quelle tette e con quei culi scolpiti, anche loro nel marmo, che però deve essere del tipo pregiato, quello rosa di Carrara, non se ne vedono tante in giro. Almeno nel suo di giro. Appoggia il peso a terra, di fianco al divano, si alza di scatto, si mette il giubbotto sopra la tuta ed esce di casa in tutta fretta. Ha
30 una voglia disperata, bestiale, di una donna. Via Novara è lì a due passi, sicuramente troverà una puttana nera da quattro soldi che lo renderà felice per una manciata di minuti, degna conclusione della fine di una giornata come tante altre di quelle già passate e di quelle a venire. FINE ANTEPRIMA CONTINUA...