Girl's fight, Claudio Felici

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In uscita il 31/10/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine ottobre e inizio novembre 2018 ( ,99 euro)

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CLAUDIO FELICI

GIRL’S FIGHT

ZeroUnoUndici Edizioni


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GIRL’S FIGHT

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-237-9 Copertina: illustrazione di Claudio Felici

Prima edizione Ottobre 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Lucrezia, Licia e a tutte le ragazze dello Shoot Team Modena che mi hanno dimostrato come questo non sia solo uno sport da uomini.



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CAPITOLO 1

L’ambulanza brucia il semaforo rosso procedendo spedita come se per strada non ci fosse nessun altro. Le auto si aprono al suo passaggio come il Mar Rosso di fronte a Mosè, il rumore della sirena mi entra fin dentro le ossa, ero abituata a sentirlo ogni tanto, di passaggio, convinta che fosse qualcosa che mai mi avrebbe interessato più di tanto se non per quei pochi secondi in cui ci si deve spostare per far passare il veicolo in emergenza per poi tornare come se niente fosse alla propria vita di tutti i giorni. Era divertente sentire come il suono della sirena cambiava di intensità quando l’ambulanza riusciva a sorpassarci e da veicolo in avvicinamento con suoni veloci che trasmettevano un senso di agitazione come per invitarci a lasciare libero il passo nel più breve tempo possibile si trasformava in veicolo in fuga, con suoni più lunghi, rilassanti, come se il pericolo fosse finito, almeno per noi, trasmettendoci una sensazione di relax, come quando sai di aver finito un lavoro e di averlo svolto bene. Stavolta però non è così, stavolta il suono resta costante, incessante, sempre maledettamente uguale, trasmettendoti un senso di ansia soffocante, lasciandoti galleggiare in un limbo fatto di dubbio e angoscia perpetui. La mamma ha gli occhi colmi di lacrime che, però, ancora non ha versato. Si sforza di rimanere forte, lo fa per noi, lo fa per se stessa, perché sa che se soltanto una piccola goccia rigasse il suo viso questa creerebbe un solco profondo pronto ad accogliere il fiume in piena che da lì a poco distruggerebbe gli argini della sua integrità mentale. Io e mia sorella Laura capiamo bene quello che sta succedendo. Non siamo più delle bambine, io ho tredici anni e Laura quindici, ma, nonostante questo, siamo sempre state convinte che nostro padre fosse invincibile, una specie di supereroe che qualsiasi avversità affrontasse alla fine l’avrebbe sempre spuntata uscendone vittorioso e con il sorriso sulle labbra.


6 È un poliziotto il mio papà, uno di quelli che ogni giorno affrontano in strada i problemi più grandi per poter garantire a tutti di vivere serenamente e senza paura che qualche squilibrato possa fare del male a te o alla tua famiglia. Fin da quando siamo bambini ci vengono raccontate centinaia di storie in cui le persone come mio padre, i cosiddetti buoni, escono sempre vincitori da qualsiasi sfida la vita decida di mettergli davanti. È un bombardamento mediatico così intenso da convincerti che la realtà sia esattamente tale e quale a quelle storie. Sapevo che mio padre non avrebbe mai potuto essere ferito gravemente da qualcuno, perché lui era il migliore in quello che faceva, perché era ben addestrato, perché era intelligente, perché aveva promesso a noi e alla mamma che sarebbe sempre tornato da noi. Ma questa volta non si tratta di lavoro, non si è trovato davanti uno scippatore armato di coltello o una folla di manifestanti infuriati che scagliano pietre contro le forze dell’ordine. Non portava la sua pistola d’ordinanza sul fianco, né il manganello e neanche la divisa. Portava una vecchia tuta grigia con l’elastico lento che stava per cedere del tutto. Ai piedi un paio di calde pantofole color cachi che mi avevano sempre fatto orrore. Era appena tornato su in casa, infreddolito, dopo aver spalato la neve tutto intorno alla macchina. Ieri notte ne era caduta molta, e ci aveva promesso che saremmo andati al centro commerciale in tarda mattinata, così era sceso ancora in pigiama, con sopra il giaccone di piume d’oca e un berretto di lana e si era messo a liberare la macchina e il vialetto del nostro cortile dalla neve. Tornato a casa si era sdraiato sul divano, esausto, la mamma intanto gli preparava un tè caldo. Aveva cominciato a sentire un senso di malessere, come qualcosa che spingesse sullo stomaco. «Il freddo deve avermi fatto rimanere la colazione sullo stomaco», aveva detto con la faccia sofferente. Aveva bevuto il suo tè, ma il dolore sembrava non passare. Aveva provato ad alzarsi dal divano.


7 «Apri leggermente la finestra, mi manca il respiro», mi aveva detto mentre con le braccia si reggeva sul tavolo del salotto, la testa incassata nelle spalle. Non ho fatto in tempo neanche ad arrivare alla finestra, il tonfo sordo di qualcosa di pesante che cadeva a terra mi ha fatto scattare indietro come una molla. Ho chiamato mia madre urlando così forte che è arrivata quasi potesse volare. L’ambulanza ci ha messo più di cinque minuti ad arrivare, un tempo che a me è sembrato non finire mai. Non ci hanno permesso di salire insieme a lui, così li abbiamo seguiti in macchina. Abbiamo bruciato semafori, sorpassato contromano decine di macchine in coda per dare la precedenza. Neanche dieci minuti e arriviamo in ospedale. Scendo dall’auto prima che sia totalmente ferma e mi scaglio contro l’ambulanza. I portelloni posteriori si aprono e gli infermieri tirano giù la barella, ma qualcosa va storto, la barella scivola dalle loro mani e comincia a correre acquisendo sempre più velocità. Punta verso di me, dietro gli infermieri fissano la scena della barella impazzita che mi corre incontro con espressione impassibile. Cerco di allontanarmi il più possibile, ma le gambe pesano come macigni e non riesco quasi a muovermi. La barella mi è quasi addosso, porto le mani incrociate davanti la faccia e grido con tutto il fiato che ho in gola. Mi ritrovo seduta, sul mio letto, con le mani che tremano e un senso di angoscia che mi pervade. La mia testa scatta in tutte le direzioni e con la mano tasto il letto per rendermi davvero conto di dove sono. È la mia camera. È quasi mattina. Ho di nuovo sognato quella notte. Di riaddormentarmi non se ne parla nemmeno. Poco importa, tanto tra poco più di un’ora dovrei svegliarmi ugualmente. Sono completamente sudata, neanche avessi fatto un’ora di allenamento. Vado in bagno, ho bisogno di farmi una doccia, per lavarmi il sudore di dosso e per ritornare completamente alla realtà. Apro l’acqua calda e mi ci butto sotto, gli occhi chiusi, la schiena appoggiata al muro. Il getto mi massaggia il corpo e mi rilassa, ogni litro


8 d’acqua che cade sul mio corpo è un elisir per il mio fisico e la mia mente. Tempo fa dopo una nottata del genere avrei aspettato mattina piangendo su me stessa, finché gli occhi non avessero cominciato a farmi male, ma oggi no, le lacrime sono finite, rimane solo un contenitore vuoto che non può essere più riempito. Mi piace stare sotto la doccia calda; è come ritrovarsi improvvisamente in un universo parallelo. Il rumore dell’acqua, il calore che ti avvolge; ti distacchi completamente dal mondo e dai tuoi problemi. Dieci minuti in cui sei sola con te stessa e tutto il resto non esiste. Peccato non possa durare in eterno. Esco fuori controvoglia, mi infilo l’accappatoio e corro a cercare qualcosa di più pesante con cui coprirmi. Avrei dovuto cogliere l’occasione per allenarmi un po’, ma non ne ho davvero voglia in questo momento. Ho una fame boia, vado a prepararmi qualcosa da mangiare, oggi sarà una giornata impegnativa. La porta della camera della mamma è aperta; sta ancora dormendo, si sente la puzza di alcol in tutta la stanza, anche ieri sera deve averci dato giù pesante con la bottiglia. E pensare che prima era quasi astemia. Entro in camera per prendere il suo giubbino di pelle nero, oggi servirà più a me che a lei. Non mi preoccupo di fare piano, è talmente sbronza che non si sveglierebbe neanche se organizzassi un concerto all’interno della stanza. Per terra vicino al letto ci sono avanzi di cibo che sembrano avere una settimana, sommersi da una infinità di cicche di sigaretta. Il pavimento è coperto di cenere e sporcizia varia sulla quale sono adagiate un paio di bottiglie del tutto vuote. Che schifezza. Raccolgo il grosso e lo porto via. Casa è in uno stato disastroso, fatico a trovare una tazza pulita; ce n’è una che sembra meglio delle altre, le do un colpo con uno strofinaccio e ci verso dentro il caffelatte caldo. Prima o poi devo decidermi a dare una bella sistemata, ma non oggi, oggi ho altro a cui pensare. Il colloquio inizia tra meno di un’ora.


9 È il primo che faccio da sei mesi a questa parte, trovare lavoro è diventato più difficile che vincere alla lotteria. Già sento le parole di Maruska, avresti dovuto continuare a studiare anziché mollare dopo il primo anno di liceo. Parla lei che dentro un’aula di liceo non c’è nemmeno mai entrata. Io almeno ci ho provato, ma non faceva per me. E poi ci servivano i soldi, il premio dell’assicurazione sulla vita di papà non bastava e sulla mamma, purtroppo, non potevamo contare. Eravamo io e mia sorella Laura a dover prendere le redini della nostra vita. Non potevamo fare altro, vivere o morire, e anche se per un certo periodo ho trovato la seconda ipotesi più che allettante alla fine ho scelto la prima. Anche stavolta il colloquio è per il solito posto da barista. Arrivo puntuale, il proprietario invece si fa attendere. Non mi offrono neanche il caffè, me ne sto seduta in un angolo con le cuffie nelle orecchie ascoltando musica ad alto volume. Il posto non sembra male, è un bar non molto grande, ha solo tre tavolini all’interno con forse la possibilità di metterne qualcuno esterno durante la bella stagione, però è abbastanza centrale quindi dovrebbe avere un bel po’ di clientela, il che vuol dire un buon numero di mance che sono quelle che veramente fanno la differenza in lavori sottopagati come questo. Dietro il bancone c’è una ragazza orientale, credo cinese, che non mi degna di uno sguardo o di una parola. Poco male, non sono qui per fare amicizia, non so nemmeno se saremo colleghe o no. Finalmente dopo circa quaranta minuti entra un uomo sulla quarantina, capelli e pizzetto neri, il proprietario del locale. Dice qualcosa alla ragazza cinese che mi indica con un cenno della testa, avrà chiesto se fossi arrivata o meno. Certo che sono arrivata coglione, ben quaranta minuti fa, puntuale come un orologio all’orario che tu mi avevi dato per telefono. Viene verso di me, mi tolgo le cuffie dalle orecchie e tiro giù il cappuccio della felpa. Vedo la sua espressione cambiare leggermente, probabilmente non si aspettava di trovarsi davanti una ragazza con i capelli rasati ai lati e la cresta viola.


10 «Tu devi essere Alexia! Tanto piacere, io sono Francesco, il titolare del bar.» «Piacere mio», rispondo stringendogli la mano, ma in realtà avrei voluto cantargliene quattro per il tempo che mi ha fatto aspettare. «Vieni, andiamo in ufficio, staremo più tranquilli.» Entriamo in una piccola stanza di fianco al bancone che funge sia da magazzino, con casse di bottiglie di ogni tipo accatastate, sacchi di caffè, patatine e chewing gum, sia da ufficio, con una piccola scrivania al centro e una mini libreria di quelle economiche di Ikea sulla quale sono appoggiati dei faldoni per l’archiviazione di documenti. Mi fa accomodare su di una sedia liberandola da una cassa di Heineken, lui rimane in piedi con le spalle appoggiate al muro e le braccia conserte. «Allora Alexia, parlami un po’ di te. Dimmi chi sei, quanti anni hai e cosa hai fatto fino a oggi.» «Mi chiamo Alexia Torrisi, ho ventidue anni sono originaria di Verona.» «Ah, quindi non sei di Roma.» «No, con la mia famiglia ci siamo trasferiti qualche anno fa.» «Molto bene. Continua.» Comincio a raccontare gran parte della mia vita dai quattordici anni in poi, ovvero da quando ho lasciato la scuola per iniziare a lavorare, elencando tutto quello che avevo fatto, dalla magazziniera alla shampista, dalla centralinista a, per l’appunto, la barista. Non sembra molto interessato. Cioè, sembra come se si stesse sforzando di ascoltarmi, annuendo con la testa e mugugnando dei versi come Ahah, uhm, oh e cose simili, ma ho come l’impressione che non gli importi nulla delle mie esperienze lavorative. Guarda in continuazione l’orologio e sembra un po’ agitato. Avrà i cavoli suoi. A un tratto dà un brusco stop al mio racconto. «Scusa se ti interrompo, ho capito che sei una che ha fatto moltissimi lavori e questo è sicuramente uno dei punti a tuo vantaggio, ma… posso chiederti per quale motivo hai interrotto gli studi?» Rimango un paio di secondi a fissarlo come un ebete. La domanda era lecita, ma avevo comunque paura di averlo annoiato con i miei racconti o di aver detto qualcosa di sbagliato. Mi dico tra me e me che è tutto normale e rispondo. «Avevo bisogno di lavorare. Mio padre è venuto a mancare quando avevo tredici anni ed era lui a portare l’unico stipendio in casa. Per forza di cose io e mia sorella abbiamo dovuto prendere in mano la situazione.»


11 «Ah, non lo sapevo», risponde imbarazzato, come se avesse appena fatto una gaffe. L’imbarazzo però dura un attimo, poi le domande riprendono. «Quindi ora siete solo tre donne in casa?» «Due. Mia sorella è andata a vivere per i fatti suoi. Siamo solo io e la mamma.» «E lei non lavora?» Istintivamente abbasso lo sguardo e comincio a sfregarmi le mani tra di loro. «No. Diciamo che lei non sta molto bene. Sono io che bado a casa.» L’uomo mi guarda come se stesse cercando di scrutare dentro la mia anima. Si accarezza il pizzetto con le dita e continua per un po’ a fissarmi senza dire nulla. «C’è qualcosa che non va?» chiedo. «No, assolutamente», risponde scrollando le spalle. «Certo, a parte il fatto ovviamente che non hai un titolo di studio», replica camminando all’interno della stanzina con gli occhi che guardano il soffitto. La risposta esce spontaneamente dalla mia bocca senza neanche bisogno di pensare. «Beh, non serve una laurea per servire dietro il bancone di un bar.» L’uomo si gira di scatto verso di me e la sua espressione severa non fa presagire nulla di buono. «Stai scherzando spero!» sbotta. «Sai quante norme di igiene bisogna conoscere per poter servire da mangiare e da bere alle persone? Per non parlare della conoscenza dei macchinari e del modo corretto di relazionarsi con la clientela. Secondo te quelli che si diplomano nell’alberghiero sono tutti degli idioti? Sai quanti ragazzi ho già visto che avevano competenze maggiori delle tue?» «Ti chiedo scusa, io non intendevo…» «Le.» «Cosa?» «“Le” chiedo scusa, non “ti”. L’educazione quando si è a contatto con il pubblico è tutto, è quella che garantisce che la clientela ritorni soddisfatta. Se non riesci neanche a dare del lei al tuo futuro ipotetico datore di lavoro la prima volta che vi incontrate, come ti rivolgerai ai clienti del mio bar una volta che ci lavorerai dentro?»


12 Rimango di stucco. Quell’uomo all’apparenza mite e tranquillo si era appena trasformato in un severissimo dittatore fanatico delle regole. Ma aveva ragione. Ero stata una stupida. «Le chiedo scusa. È che fino a oggi con tutti i miei ex datori di lavoro c’era sempre stato un rapporto meno… formale.» «E forse è proprio per questo che hai cambiato così tanti lavori nonostante la tua giovane età. «Non sei la prima che viene qui vantandosi di aver fatto dozzine di esperienze lavorative credendo che questo influisca positivamente sull’andamento del colloquio; in realtà per me è tutto il contrario. Se tu avessi lavorato nello stesso posto per anni, questo per me sarebbe stato una garanzia che sai fare bene il tuo lavoro, perché evidentemente c’è qualcun altro che ha riposto in te la sua fiducia per molto tempo. Ma il saltare da un lavoro all’altro, beh… chi mi dice che non sia il risultato di un pessimo attaccamento al lavoro, o dell’incapacità di svolgere in maniera ottimale i propri compiti?» Non so davvero cosa rispondere. Mi aveva messa all’angolo e mi aveva sferrato una serie di colpi inaspettati. Il tipo si sfrega gli occhi con le dita, poi ricomincia a parlare. «Ti chiedo scusa, non era mia intenzione aggredirti. Dopotutto sei una ragazza giovane e alla tua età si ha ancora molto da imparare. «Devo dirti la verità, non mi dispiaci come ragazza, ormai ho una certa dimestichezza nel capire le persone già dal primo sguardo e tu mi sembri una a posto, solo che devo anche badare ai miei interessi e se mi sbagliassi per una mia leggerezza nel giudicare il personale ci rimetterei io e le persone che lavorano con me. «Hai ragione, non serve necessariamente una laurea per servire dietro a un bancone, ma questo non vuol dire che si tratti di un lavoro facile o che vada preso sotto gamba, se vuoi lavorare qui dovrai fare ciò che ti dirò di fare, e dovrai essere disposta a fare dei sacrifici.» Ora era completamente diverso rispetto a un paio di minuti fa, del tutto calmo e con un’espressione pacifica come se avesse appena fatto pace con il mondo intero. «Non mi spaventano i sacrifici», gli rispondo. «Bene. Perché non accetto che i miei dipendenti non si presentino a lavoro perché hanno fatto le ore piccole o perché devono uscire con il proprio ragazzo per festeggiare l’anniversario.» «Le assicuro che da me non avrà di questi problemi.»


13 Ora sul suo volto si era dipinto un sorriso ammiccante. «Certo, ora mi dici così, ma il tuo lui sarà d’accordo?» «Non c’è nessun lui, quindi siamo a posto.» «Vuoi forse raccontarmi che una bella ragazza come te non ha un fidanzato?» «Non al momento.» Di nuovo quel sorriso. «Questo è un bene, c’è tempo per certe cose. Così potrai dedicarti al cento percento al tuo lavoro. Io avrei bisogno già da domani mattina, diciamo dalle sei in poi.» Rimango ancora una volta di stucco. «Sta dicendo che il posto è mio?» «Certo!» risponde lui. «Sempre se ancora ti interessa lavorare per il sottoscritto.» Strabuzzo un po’ gli occhi per l’incredulità. «Oh… ma certo, io… credevo che… certo! Alle sei in punto, può contare su di me!» «Bene. Allora ci vediamo domani.» Si avvicina verso di me. Io mi alzo in piedi e allungo la mano per stringergliela, ma lui mi cinge in un abbraccio inaspettato, poi mi bacia sulla guancia e mi guarda negli occhi tenendomi con le mani per le spalle. «Sono certo che faremo grandi cose io e te. E, a proposito, puoi chiamarmi Francesco, dammi pure del tu. Non mi piacciono certe distanze nel mio locale», dice strizzandomi l’occhio. Devo essere rimasta immobile a fissarlo come uno stoccafisso, tutta quella polemica sull’educazione e sul dare del lei e poi… bah! È un tipo strano, questo è certo, ma l’importante ora è che dopo mesi di ricerca infruttuosa ho finalmente un nuovo lavoro.


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CAPITOLO 2

Io e Maruska siamo amiche ormai da una vita. Ci siamo conosciute in seconda media. Ricordo ancora il suo primo giorno; l’anno era già iniziato da un mesetto, quel giorno la porta della classe si aprì ed entrò il preside con a fianco mio padre. Era veramente strano perché non era mai venuto a trovarmi prima di allora, e poi era in divisa, e c’era un altro collega con lui e tra di loro, quasi nascosta, con lo sguardo basso e terrorizzato c’era una bambina dai lunghi capelli neri corvini. Entrarono tutti quanti, per un paio di minuti il preside parlò con la professoressa e con mio padre mentre l’altro agente sembrava voler tranquillizzare la bambina. Per tutto il tempo mi chiesi cosa stesse succedendo, la risposta arrivò presto. «Ragazzi lasciate che vi presenti Maruska Galinka», esclamò il preside mettendo una mano sulla spalla della nuova ragazza. «A partire da oggi Maruska sarà una vostra compagna, vi prego di accoglierla nel migliore dei modi. Maruska non parla moltissimo la nostra lingua, ma sono sicuro che con il vostro aiuto riuscirà a integrarsi in fretta e a diventare una perfetta veronese! Mi raccomando, conto su di voi.» Il preside salutò la classe e si allontanò insieme a mio padre e al suo collega. «Maruska, prendi pure posto lì vicino alla Torrisi», disse la prof indicando il posto vuoto di fianco a me. La ragazza si sedette senza nemmeno salutarmi. Era visibilmente spaventata, rimase per tutta la giornata in completo silenzio. Quel giorno non avrei pensato neanche lontanamente che tra noi potesse in qualche modo nascere un minimo di feeling, e invece da lì a poco Maruska divenne la mia migliore amica, eravamo inseparabili, due sorelle nate da genitori diversi. A scuola sembrava che nessuno sapesse nulla di lei, io venni a conoscenza di qualcosa di più su Maruska solo qualche giorno dopo il


15 nostro primo incontro. Era domenica, papà era a casa di riposo, io erano giorni che morivo dalla voglia di chiedergli come mai avesse accompagnato quella strana ragazza nella nostra scuola il primo giorno, ma non dissi niente fino ad allora, quasi avessi paura delle risposte che avrebbe potuto darmi. Fu lui a iniziare. Mi chiese come andava con la nuova ragazza, se si fosse già integrata, se avesse problemi con la comprensione della lingua o altro. Sembrava molto interessato a lei. Io risposi senza fare ulteriori domande. «Devi cercare di stare vicina a quella ragazza. Ho chiesto io alla professoressa di farla sedere di fianco a te, perché so che tipo di persona sei, quanto è grande il tuo cuore, e il fatto che su di te si può contare.» Ancora non capivo il perché di tutto questo attaccamento verso quella ragazza. La spiegazione arrivò a breve. Maruska era figlia di un criminale entrato illegalmente nel nostro paese. Sua mamma era morta quando era piccola e l’unico parente che aveva era suo padre. Un paio di mesi prima c’era stata una rapina a un furgone portavalori, da parte di una banda di criminali, il papà di Maruska era uno di loro. Mio padre faceva parte della squadra che lo arrestò due giorni dopo in una operazione di polizia nella quale un suo collega venne ferito gravemente proprio da un colpo di arma da fuoco esploso dal padre di Maruska. L’uomo era stato arrestato e processato per direttissima, prendendosi quindici anni di reclusione. Quando papà venne a sapere dell’esistenza di Maruska che nel frattempo era stata affidata agli assistenti sociali si sentì in qualche modo responsabile per quella ragazza, così prese a cuore la questione, si mosse per accelerare il più possibile l’affidamento e nel frattempo la iscrisse nella mia scuola. Inizialmente non capivo perché mio padre si servisse di me in quel modo, solo col tempo realizzai che grande persona fosse e quanta fiducia aveva riposto nei miei confronti. Maruska divenne la mia migliore amica. Diventammo inseparabili, ci vedevamo praticamente tutti i giorni anche fuori di scuola. Le volevo bene tanto quanto a mia sorella e lei forse me ne voleva ancora di più, tanto che quando le dissi piangendo che mi sarei trasferita a Roma lei


16 non ci pensò due volte e mi disse: «Che problema c’è, trovami da lavorare e vengo con te. Tanto avevo già in mente di andare a vivere da sola.» E così fece. Fui io a portare in giro il suo curriculum (e anche a scriverlo ingigantendo le sue conoscenze e capacità) e non appena la chiamarono per un colloquio lei prese il primo treno e venne da me. Un legame del genere non poteva essere spezzato da niente e da nessuno, neanche per le motivazioni più serie. Lei sapeva che era stato mio padre ad arrestare il suo, e penso che l’abbia anche odiato per questo, però grazie al mio affetto e a quello dei suoi genitori adottivi, l’odio scomparve completamente dentro di lei, capì che la vita le aveva donato una seconda opportunità, la possibilità di essere migliore di suo padre e a me quella di poter continuare l’opera del mio. Arrivo di fronte al centro estetico nel quale ancora lavora, sono le sei meno dieci, tra non molto dovrebbe finire. Non sto più nella pelle dalla voglia di raccontarle del mio nuovo lavoro. Eccola che esce. Le vado incontro saltellando come una scema. Devo avere un’espressione da completa idiota. «Ciao gallina!» la saluto scherzosamente. «Ehi svampita, cosa diavolo hai fatto, ti sei drogata prima di venire qui?» fu la sua risposta al mio strano comportamento. «Ma quali droghe, questa è pura adrenalina che mi scorre nelle vene.» «Adrenalina? Ma si può sapere cosa accidenti ti è successo?» «Prova a indovinare.» Lei continua a guardarmi come se fossi pazza, nel frattempo si accende una sigaretta. «Hai incontrato qualcuno?» domanda. «Diciamo di sì… ma non nel modo che pensi tu», le rispondo rubandole la sigaretta di bocca per fare un bel tiro. «Non prendermi la sigaretta, lo sai che mi fa imbestialire», esclama riprendendosela. «Dunque… hai incontrato qualcuno, ma non c’entra niente l’amore o il sesso… ti ha dato dei soldi?» «Ancora no, però dovrebbe darmene tra non molto.» Maruska aggrotta le sopracciglia mentre prende un altro bel tiro dalla sua sigaretta. «Non avrai mica trovato lavoro?» esclamò come se le fosse appena arrivata l’ispirazione del secolo.


17 Comincio a saltellare e battere le mani come un’idiota, una di quelle cose odiose che fanno le ragazzine sceme nei film, ma in questo momento è proprio così che mi sento, come la protagonista di una sitcom per teenagers. Le racconto del lavoro, un semplice impiego da barista, ma che al momento per me vale come la presidenza del consiglio dei ministri, e le racconto anche dello strano colloquio con il mio datore di lavoro. Anche lei conviene sul fatto che è stato davvero strano, ma l’importante è aver portato a casa il posto. «Prima o poi cerco anche io qualche altra cosa», esclama Maruska con la faccia mezza disgustata. «Perché, non ti trovi bene dove sei ora?» «Oh, certo», risponde portando gli occhi al cielo. «Tutto il giorno a fare pulizie del viso, sopracciglia, unghie e depilazioni. Per non parlare poi di tutte le storie di vita patetiche che ogni giorno mi tocca ascoltare. «C’è quella che tradisce il ragazzo e quella che non viene capita dagli uomini, il dongiovanni rubacuori e lo sfigato che cerca di farsi bello per poter rimorchiare (ed entrambi che ci provano con te ogni volta), la signora con tre figli che le danno problemi, quella che ne vorrebbe ma non riesce ad averne, problemi di mutuo, di tasse, di lavoro… con tutto quello che ho dovuto ascoltare nei due anni da quando lavoro qui credo di aver diritto almeno a una laurea ad honorem in psicologia.» Scoppiamo entrambe a ridere come due oche, di quelle risate che partono per una piccolezza e poi si protraggono per un’infinità di tempo, sempre più forte, in maniera sempre più ridicola, fino a quando non ricordi nemmeno perché avevi iniziato a ridere e l’unica certezza è che non riesci più a fermarti. Tra me e lei era così, a volte bastava un nonnulla per accenderci e non c’era niente che potesse spegnerci. Una vera amica è quella che non si vergogna di essere idiota insieme a te e noi lo eravamo. Passiamo tre quarti d’ora buoni a parlare del nulla, un nulla per noi ricco di significato, poi lo sguardo mi cade sull’orologio, le sette meno cinque, merda come è tardi! Per fortuna avevo già preparato il borsone, stavolta Max mi farà il culo nero!


18 Saluto di corsa la mia amica e parto sgommando con la mia vecchia carretta rattoppata, una fiat punto con quasi quindici anni di servizio sulle spalle. Arrivo in palestra come un fulmine, non saluto neanche il vecchio Elvezio alla reception, mi fiondo nello spogliatoio e in un paio di minuti sono pronta. La lezione è già iniziata da un quarto d’ora, Max è girato dall’altra parte, entro con il passo felpato cercando di rendermi invisibile, ma quell’uomo credo che abbia una specie di sesto senso quando si tratta di cogliermi in flagrante. Cerco di unirmi al gruppo per il riscaldamento, ma non appena il mio alluce tocca il tatami Max si gira di scatto, come una belva feroce che ha appena fiutato la preda. «Ma guarda un po’, la principessa ci ha finalmente degnato della sua presenza. Cominciavamo a pensare di essere troppo poco interessanti per un’atleta del tuo calibro.» Tutti i ragazzi si girano verso di me sghignazzando. «Scusa Max, davvero non mi ero resa conto…» «Non ti eri resa conto di cosa? Che tra poco più di una settimana hai un incontro? Oppure non ti eri ancora resa conto di essere un’atleta? Perché ultimamente comincio a dubitarne anche io!» Le sue parole colpiscono duro più di qualsiasi avversaria che abbia mai affrontato. Non ho mai capito perché, ma quell’uomo ha sempre avuto su di me un potere immenso, una sua parola è capace di condizionare totalmente la mia giornata. So che mi vuole bene, che ci tiene a me, ma ho sempre paura che prima o poi possa rimanere in qualche modo talmente tanto deluso da qualche mia frase o comportamento da abbandonarmi del tutto al mio destino. Continuo il riscaldamento a testa bassa senza replicare. Max mi lancia un paio di occhiatacce dure, poi si gira dall’altra parte, verso la gabbia, dove un paio di ragazzi si stanno allenando nello sparring, il combattimento tra compagni di corso. Appena si gira gli lancio una smorfia facendogli il verso, un po’ per mio sfogo personale, un po’ per farmi vedere e farmi due risate con gli altri compagni che si prendono gioco di me. Tempo un quarto d’ora e Max mi chiama a sé per cominciare l’allenamento vero e proprio.


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Il primo giorno che misi piede in palestra tre anni fa e mi dissero che lui era il maestro di MMA, le arti marziali miste, uno degli sport da combattimento più duri e completi del mondo, quasi mi venne da ridere. Un uomo sui cinquanta alto un metro e sessantacinque, a malapena arrivava a sessanta chili, e una faccia che sembrava la persona più buona e gentile del mondo. L’istinto fu quello di andarmene e cercare da qualche altra parte, ma ormai avevo iniziato la mia lezione di prova, non volevo sembrare troppo scortese, così decisi di finirla il prima possibile per poi ringraziare e non farmi più vedere. Invece, in poco più di un’ora, quell’uomo mi conquistò totalmente. Da ragazzina avevo studiato judo per qualche anno. Ero anche bravina, avevo vinto qualche gara. Poi, dopo la morte di papà, avevo abbandonato del tutto lo sport. Quando ci trasferimmo da Verona a Roma per me fu un ulteriore brutto colpo; ero già abbastanza chiusa in me stessa, trovarmi improvvisamente in un posto nuovo senza conoscere nessuno e con la consapevolezza di essere un po’ la “straniera” della situazione mi creava non poco disagio, ma soprattutto faceva crescere dentro di me un senso di rabbia che difficilmente riuscivo a controllare. E qualche volta questa rabbia prendeva il sopravvento, come quella volta in discoteca, quando un ragazzo ubriaco cominciò a essere troppo molesto con Maruska. Avevamo cercato di allontanarlo con le buone, ma anziché capire la situazione lui divenne ancora più insistente, tanto che arrivò ad afferrare la mia amica, trascinarla a sé e tentare di baciarla più volte contro la sua volontà. Per un attimo qualcosa dentro di me si spense, non ero più io, non ricordo di aver pensato a qualcosa in particolare, il mio corpo si mosse in automatico senza bisogno di nessun comando da parte della mente. Afferrai quel maledetto maiale e lo catapultai a terra. Lui si rialzò e mi si scagliò incontro cercando di colpirmi, una pessima idea che pagò a caro prezzo. Lo afferrai per i lembi della camicia e puntando la mia gamba dietro le sue feci leva per farlo cadere di nuovo a terra, ma questa volta non potevo rischiare che si rialzasse e tentasse di nuovo di fare del male a me o alla mia amica, così istintivamente lo afferrai per il polso e con le


20 gambe gli avvinghiai il braccio facendo leva con il bacino e tirando l’arto verso di me finché non sentii il rumore secco di ossa che si rompono. Alla vista del suo braccio che si piegava al contrario le persone attorno intervennero per togliermi da sopra a lui; se non ci avessero pensato loro, non credo che mi sarei fermata, di fronte a me avevo una schermata rosso sangue che mi impediva di ragionare. Un omone gigantesco, sicuramente il buttafuori del locale, mi afferrò per le spalle immobilizzandomi per evitare che nell’impeto della mia collera facessi del male ad altre persone e mi accompagnò fuori dal locale. Una volta calmati gli animi spiegammo al gigante cosa era successo. Lui si fece una risata, a detta sua era la prima volta che aveva assistito a una scena del genere. «Hai della stoffa ragazzina, perché non cominci a fare MMA? Chi lo sa, magari se diventi brava potresti anche guadagnare dei bei soldini.» Quella fu la prima volta che sentii parlare di MMA. A tempo perso mi informai, cominciai a guardare qualche video su internet, controllai se davvero si poteva guadagnare bene combattendo e in effetti ad alti livelli le borse non erano male. Così decisi di provare. Per cercare di guadagnare qualcosa e perché l’aver steso quell’idiota ubriaco mi aveva regalato un’emozione che da troppo tempo non provavo: ero tornata a sentirmi viva! Quando si parlava di combattimenti tutti erano d’accordo su una cosa: se volevi combattere davvero a Roma dovevi frequentare la “Fight Arena”, una delle palestre più malfamate della città, e fu lì che mi diressi per la mia prima lezione di prova. Nella mia mente quando cercavo di raffigurarmi un insegnate di una disciplina del genere vedevo un uomo di una certa stazza e con la faccia da sergente maggiore dei marines, tutto il contrario di quello che era Max. Mai come in questo caso ho capito che l’abito non fa il monaco. Lui amava veramente questo sport, e la sua stazza lo aveva da sempre abituato a misurarsi con persone più grosse di lui, costringendolo a sviluppare una forza e una tecnica invidiabili. In palestra non era raro vederlo atterrare e finalizzare, ovvero costringere alla resa, bestioni di ottantacinque chili con la metà dei suoi anni. Grazie ai suoi insegnamenti e al mio trascorso nel judo, in poco tempo riuscii a disputare il mio primo incontro e a vincerlo, replicando poi


21 diverse volte a livello amatoriale, fino ad arrivare a oggi, a poco più di una settimana dal mio debutto da professionista. La mia avversaria ha un solo incontro da pro, ma dicono che sia molto forte. Quando si passa al professionismo, il ranking, ovvero lo storico dei risultati dei propri incontri si azzera. Si comincia a fare sul serio, non importa quello che hai fatto prima, se hai vinto un centinaio di incontri da dilettante ma perdi i tuoi primi tre incontri da professionista sei una merda, non vieni nemmeno considerata nel panorama nazionale, figuriamoci in quello internazionale. Ma se al contrario cominci una serie di vittorie dimostrando di essere un’atleta “scomoda”, allora è il momento in cui puoi entrare a far parte del giro buono, quello dove si vedono i bei soldi. Max era più nervoso di me per il mio debutto. Non sembra, ma un bravo allenatore fatica e soffre tanto quanto gli atleti che porta in gara. Ora che le cose si facevano serie sapeva che entrambi dovevamo dare il massimo, per questo con me era ancora più severo che con gli altri. E poi c’è da dire che comunque io sono davvero brava a fargli perdere le staffe. Ci alleniamo come dannati, metto l’anima in ogni singolo esercizio, ma non è sufficiente, Max chiede, anzi esige ancora di più e io non mi tiro indietro. A fine serata sono così stremata che resterei accovacciata in un angolo sotto la doccia fino al mattino dopo. Mi rivesto controvoglia e mi trascino fuori dalla palestra con lo stesso entusiasmo di un condannato a morte mentre si dirige verso il patibolo. Quando arrivo a casa non ho neanche voglia di cenare, tanto dopo un allenamento del genere il mio stomaco è completamente chiuso. Mi butto sul letto togliendomi solo le scarpe. L’adrenalina è ancora in circolo, fatico ad addormentarmi, ma non ho la forza di alzarmi. Rimango in quella posizione fin quando finalmente il sonno e la stanchezza prendono il sopravvento.


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CAPITOLO 3

Manca poco più di una settimana a Natale. Rufus, il nostro gatto, un vecchio randagio bianco latte che avevamo salvato dal freddo tanti anni fa accogliendolo nella nostra famiglia sta di nuovo litigando con l’albero di Natale. Mia sorella Laura è in camera sua che ascolta la musica, la mamma è in cucina intenta a preparare la colazione. Io sono sul divano in pigiama e calzettoni di lana, avvolta in una copertina in pile mentre guardo la tv ancora insonnolita. È domenica, avrei voluto dormire di più, ma la mamma ha organizzato un’uscita tutti insieme al centro commerciale, quindi stamattina sveglia presto e poche storie. Stanotte ha nevicato parecchio, il vialetto è completamente coperto di neve, papà ha provato a far cambiare idea alla mamma cercando di convincerla a rimanere a casa e rimandare per quando le strade sarebbero state più praticabili, ma lei non ha voluto sentire ragioni; quando la mamma si mette in testa una cosa non c’è nulla che riuscirebbe a scombussolare i suoi piani. Per certi versi questo è un lato del suo carattere che ho preso anch’io, testarda come un mulo come mio padre mi definisce sempre. Io e mia sorella adoravamo la domenica, perché era l’unico giorno in cui stavamo con papà dalla mattina alla sera, gli altri giorni tra il suo lavoro, i compiti, lo sport ecc. non lo vedevamo quasi mai. «Ha smesso di nevicare da poco», esclama mio padre guardando fuori dalla finestra verso il vialetto. «Vado a liberare la macchina finché la neve è soffice altrimenti se ghiaccia sono dolori.» Mio padre ha sempre avuto una forza di volontà invidiabile, io non avrei abbandonato la mia copertina per tutto l’oro del mondo, figuriamoci andare fuori al freddo in mezzo alla neve. Esce fuori, prende la pala e comincia a spalare neve. Dopo più di un quarto d’ora rientra in casa. Deve aver faticato molto, sembra distrutto.


23 La mamma ci chiama per fare colazione, mi alzo controvoglia dal divano e vado in cucina, papà invece prende il mio posto con la faccia sofferente. «Tu non mangi?» chiede la mamma. «Ho mangiato del panettone prima di uscire, non è stata una grande idea. il freddo deve avermi fatto rimanere la colazione sullo stomaco.» La sua faccia è sempre più dolorante. «Bevi un goccio di tè caldo, ti farà bene», gli dice la mamma porgendogli una tazza fumante. Comincia a berlo, ma il dolore continua. Sì alza in piedi reggendosi al tavolino del salotto sul quale sono intenta a consumare la mia colazione. «Apri leggermente la finestra, mi manca il respiro», mi dice senza neanche la forza di guardarmi. Mi alzo e vado subito verso la finestra. Non riesco neanche ad arrivarci, il forte tonfo di un corpo pesante che cade a terra esanime mi fa gelare il sangue nelle vene e mi riporta immediatamente alla realtà. Apro gli occhi di scatto, ho il respiro affannato. Ho di nuovo sognato quella maledetta mattina. Il tonfo era reale, nel divincolarmi ho urtato il borsone della palestra che avevo lasciato sul letto. Il rumore è combaciato proprio con quel momento esatto del sogno, fa quasi paura. Oggi è il giorno del match, stasera farò il mio debutto come professionista. Sono parecchio agitata, forse è per questo che ho fatto quell’incubo, sento il peso dell’incontro sulle mie spalle. Ho puntato troppo su questa cosa, ho versato lacrime, sudore e sangue per arrivare dove sono ora, sento la responsabilità del mio futuro addosso e sento anche quella del non deludere tutti quelli che mi hanno supportato e sopportato durante questo periodo. E pensare che questo sarà solo il primo match ufficiale della mia carriera da pro, la strada è ancora tutta in salita. Oggi mi sono presa una giornata di riposo dal lavoro, per fortuna Lin, la ragazza cinese che lavora con me, ha accettato di sostituirmi. Lei ha bisogno di soldi, vive con non so quante persone in un piccolo appartamento in affitto, ogni euro che guadagna lo mette da parte per potersi un giorno permettere una vita migliore, la cosa bella è che se le


24 chiedo di prendere anche più di una delle mie giornate costringendola a turni assurdi lei non se lo fa ripetere due volte. Mando un messaggio a Maruska per vedere se è sveglia, dovevamo far colazione insieme e io ho una fame che mangerei un brontosauro intero. Finalmente posso ingozzarmi con quello che voglio, ieri c’è stata la cerimonia del peso, ero di cinquanta grammi sotto al limite, stavolta ci sono arrivata per il rotto della cuffia, dovrò stare più attenta in futuro. Quello che conta, però, è di esserci stata dentro e soprattutto che adesso posso sfogarmi come si deve. Ci diamo appuntamento al “caffettino”, il bar dove lavoro. Avevo voglia di farle vedere il posto e anche come si sta dall’altra parte del bancone. Saluto Lin al bancone e le presento Maruska. «Cosa fa tu qua? Tu no dovere picchiare oggi?» La risposta mi fa dedurre che non aveva capito molto di quello che le avevo detto, ma dopotutto la capisco, non è da molto che è in Italia e anzi, parla anche troppo bene la nostra lingua. «L’incontro è stasera. Mi sono presa la giornata perché ho bisogno di rilassarmi prima del match. Non voglio arrivare lì con una giornata di lavoro sulle spalle.» Come al solito fa segno di sì con la testa, chissà se ha veramente capito quello che le ho detto. «Tu no preoccupare. Io comodo lavorare. Servire soldi», mi risponde strofinando tra loro pollice e indice freneticamente, poi scoppia in una sonora risata a bocca aperta che mette in mostra una dentatura sproporzionata rispetto alla grandezza della sua testa che sembra minuscola. Getto uno sguardo a Maruska per farglielo notare e mi capisce al volo senza bisogno di proferire parola. Soffochiamo entrambe la nostra risata, altrimenti c’è il rischio di continuare per mezz’ora. Ci mettiamo sedute a un tavolino, io mi prendo un bel pezzo di torta al cioccolato e un cappuccino, Maruska aveva adocchiato i muffin alla nutella, ma le ho fatto cambiare idea, sono lì da quando ho iniziato a lavorare, e alla fine si è presa una brioche con la crema, almeno quelle vengono portate tutti i giorni dalla pasticceria. Le spiego che stamattina non c’è molta gente, che di solito a quest’ora è pieno imballato e del mazzo che mi devo fare ogni giorno per arrivare a sera.


25 Lei si guarda intorno studiando ogni angolo del locale come suo solito, guarda dappertutto commentando quello che vede, suggerendo soluzioni di arredo per migliorarne l’estetica o l’efficienza di spazi e servizi. Dopo un quarto d’ora di studio arriva inevitabile il suo responso. «Beh, dai, non è male. Da quello che mi avevi descritto mi ero immaginata una bettola maleodorante e con i topi che correvano liberi sul pavimento.» «In effetti una volta un topo c’è stato davvero», esclama una voce maschile proveniente da dietro le mie spalle. Il cappuccino che stavo finendo di bere per poco non mi va di traverso, sbarro gli occhi e guardo Maruska come per capire da lei chi avesse fatto quell’intervento, lei mi guarda a bocca aperta non capendo chi fosse quell’uomo, io purtroppo invece dalla voce l’avevo riconosciuto subito, ma avrei tanto voluto essermi sbagliata. «È stato un paio di anni fa», continua l’uomo, «avrei dovuto chiamare la disinfestazione, solo che non me la passavo benissimo e dovevo cercare di risparmiare anche il centesimo, così escogitai una trappola. Per un paio di giorni, dopo la chiusura e prima dell’apertura, me ne rimanevo almeno un’oretta fermo immobile sopra una sedia, con le luci spente e una mazza da baseball in mano. «Avevo messo del cibo al centro della stanza, proprio in quel punto dove c’è quella scheggiatura sul pavimento. «Me ne restai lì appollaiato nella penombra, in silenzio, ad aspettare che il piccolo lestofante si facesse vivo, e la sera del secondo giorno lo vedo avvicinarsi lesto alla trappola che avevo preparato. «L’ho lasciato mangiare per circa un minuto, ho aspettato che si rilassasse riempendosi la pancia di buon cibo, poi, con un gesto fulmineo, l’ho colpito con la mazza fracassandogli il cranio sul pavimento. «È per questo che il pavimento è scheggiato in quel punto. Da quel giorno non abbiamo più avuto problemi di topi.» Francesco, il mio datore di lavoro, mi mette una mano sulla spalla e mi sorride sfoggiando i suoi trentadue denti color bianco latte. «Ciao Francesco! Cosa ci fai tu qui di sabato mattina?» balbetto nervosamente cercando di fingere un sorriso a mia volta. «È il mio locale, non penso ci debbano essere particolari motivi per venire qui», risponde.


26 Che idiota, stavo complicando la situazione. Ero appena caduta sopra una montagna di merda e stavo scavando a fondo per sotterrarmici. «Certamente, non intendevo questo, ovvio che tu puoi venire tutte le volte che vuoi… io intendevo dire…» «Tu piuttosto», mi interrompe. «Non dovevi fare quella gara di karate…» «MMA», lo correggo. «Già, MMA. Scusami se non sono molto ferrato, ma non ho mai seguito le arti marziali. Beh, comunque sempre di pugni e calci volanti si tratta, giusto?» Non mi piaceva molto quando la gente sminuiva anche solo involontariamente il mio sport. La maggior parte delle persone ne parlava come se fosse un gioco per bambini, non immaginando nemmeno lontanamente quale fosse realmente la pericolosità dei combattimenti. «Diciamo che è una disciplina molto diversa e più complicata rispetto al karate. Comunque combatto stasera, oggi mi sono presa un giorno di riposo per non arrivare affaticata all’incontro.» Francesco prende una sedia e si siede insieme a noi senza neanche chiedere il permesso. «Oh, deve essere una cosa seria quindi. Raccontami allora, di che tipo di sport si tratta?» «Beh, la sigla MMA sta per Mixed Martial Arts, arti marziali miste. Innanzitutto si tratta di uno sport da combattimento vero e proprio, i colpi vengono portati con tutta la forza per cercare di mettere KO o di finalizzare l’avversario, ovvero farlo arrendere tramite una tecnica di sottomissione. È una disciplina che unisce i colpi in piedi della boxe e della kickboxing alle tecniche della lotta libera. Al momento è lo sport da combattimento più completo e popolare del mondo.» «Uhm, tecniche di sottomissione hai detto, sembra interessante. Devo ammettere che mi piacerebbe assistere a due donne che lottano tra di loro cercando di ridurre all’impotenza l’altra, deve essere, come dire… abbastanza eccitante!» I suoi occhi, mentre mi dice quelle parole, sono quelli di un maniaco sessuale. Chissà cosa diavolo gli sta frullando per la testa. «Se vuoi puoi venire a vedermi questa sera. Combatto al teatro “Tendastrisce”, su via Togliatti.»


27 «Mi piacerebbe davvero», dice afferrandomi la mano, «ma purtroppo per stasera ho già un impegno. Sarà sicuramente per la prossima volta.» Rimane qualche secondo a fissarmi negli occhi, poi finalmente mi lascia la mano e si alza. «Ora devo andare. Signorina è stato un piacere», dice rivolgendosi a Maruska. «Noi due ci vediamo lunedì mattina puntuali.» «Certo, puoi contarci.» «La colazione delle ragazze è offerta», dice a Lin mentre si allontana. Mi giro verso l’ingresso del bar per sincerarmi che Francesco sia veramente andato via. «Dio che figura di merda!» esclamo portandomi le mani nei capelli. «Scusa Alexia, ma davvero non potevo immaginare che quello fosse il tuo datore di lavoro», interviene Maruska affranta. «Ma no, non è mica colpa tua. Io piuttosto; “cosa ci fai qui di sabato mattina”… merda che idiota sono stata!» «Va beh, non sapevi che dire. Io avrei fatto anche di peggio. Poi alla fine non si è capito, che diavolo è venuto a fare di sabato mattina?» Per un attimo ci fissiamo negli occhi con aria seria e preoccupata, poi la nostra idiozia prende il sopravvento e cominciamo a ridere. Ormai quello che è fatto è fatto. E poi non gli abbiamo mica offeso la mamma o pisciato dietro al bancone. «Secondo me quello è un porco», se ne esce Maruska. «E da cosa l’avresti dedotto?» «Ma non l’hai sentito? Come si è esaltato alla parola “sottomissione”, e il fatto che due donne che lottano doveva essere “eccitante”… cerca di non restare sola con lui.» «Ma smettila. È un uomo, anche il pensiero di due donne che giocano a pinnacolo per lui sarebbe interessante!» Mi guarda poco convinta. «Sarà… però ti guardava in modo strano.» «Non mi guardava in modo strano.» «Scherzi? Ti stava mangiando con gli occhi.» «Sì, come no, la mia leggendaria bellezza l’avrà conquistato», dico in tono sarcastico. «Beh non sei mica brutta, anzi. Sei un gran bel pezzo di ragazza.» «See, come no. Con la faccia da slava tossica che mi ritrovo, il fisico mascolino e la cresta viola sono tale e quale a Jessica Alba.» E come al solito, ci scappa da ridere.


28 Rimaniamo ancora una decina di minuti poi lasciamo il bar. Salutiamo Lin, cerchiamo di scambiare due chiacchiere prima di andar via ma è inutile, avrà capito al massimo il cinquanta percento di quello che le ho detto anche se continuava a fare di sì con la testa e a sorridere, si vede che non stava seguendo il discorso. Quella ragazza è completamente matta. Il resto della giornata passa in fretta, senza nessun particolare degno di nota e in men che non si dica arriva la sera, la sera del match. Sogno di diventare professionista da quando ho iniziato questo sport, e ora finalmente eccomi qua, ho raggiunto il mio primo importante traguardo. È difficile spiegare la valanga di emozioni che ti assalgono in momenti come questo, anche perché non riesco a rendermene pienamente conto nemmeno io. Credevo di aver superato l’ansia da match, ma evidentemente non è così dato che vado a fare pipì ogni quarto d’ora. Vedo la mia avversaria passare di fronte a me, non so se è suggestione o cosa, ma sembra il doppio di me, più forte, più cattiva, più motivata di quanto lo sono io. Cerco di convincere me stessa a non pensarci, ma è più forte di me, la cerco continuamente con gli occhi per trovare qualche segnale di debolezza, qualcosa che mi faccia ben sperare in un esito positivo dell’incontro, ma non trovo niente, anzi, ogni nuovo elemento che mi sembra di scovare va a suo favore. «Smettila di fissarla», la voce di Max mi riporta improvvisamente alla realtà. «Cosa? No, io… non la sto fissando, sto solo…» «Certo, certo. Non pensare di farmela ragazzina, so benissimo quello che provi, ci sono passato anche io a suo tempo, quindi a me non la dai a bere.» Ha ragione, come al solito. Non posso sperare di dargliela a bere. «Ascolta attentamente quello che ti sto per dire e prendilo come puro vangelo: il vero incontro, la vera sfida che devi superare non è quella dentro la gabbia, non inizierà con il suono della campanella. Per quello sei allenata, ti sei fatta il mazzo, hai immagazzinato dentro di te tutte le tecniche e le strategie di difesa e attacco necessarie perché tu esca vincitrice da questo match.


29 «Quello che devi superare adesso, il vero nemico da sconfiggere per il quale non c’è strategia, non c’è tecnica vincente è quello nella tua testa. «Io ti ho insegnato tutto quello che sapevo, ogni colpo, ogni trucchetto che ho imparato durante la mia carriera. Ti ho accompagnato durante tutto il tuo percorso, ma adesso purtroppo non posso più aiutarti; è rimasto un ultimo grande ostacolo, il più ostico, e sta a te trovare il modo di superarlo. «Io posso garantirti soltanto una cosa, che la tua avversaria se la sta facendo sotto tanto quanto te. «La vostra gara è iniziata già da ieri, alla cerimonia del peso. È una gara di nervi che avrà il suo apice all’interno della gabbia; è lì che devi dimostrare di essere migliore di lei. Durante un incontro non vince sempre necessariamente il più forte, vince chi riesce a far credere all’avversario di essere il migliore. «Quando ti sentirai debole, quando le gambe ti cederanno e la stanchezza prenderà il sopravvento, quando accuserai un colpo duro in pieno volto fai finta di nulla, convincila che ha di fronte una macchina da guerra invincibile e la vedrai cadere di fronte a te come un castello di carte fatto male.» Le parole di Max mi entrano dentro e mi danno una carica mai sentita prima. Non è solo per quello che ha detto, ma per il modo in cui l’ha fatto, per il suo sguardo mentre mi parlava, era lo sguardo di chi sapeva quello che stava dicendo e so che posso fidarmi di lui più che di me stessa. Cominciamo il riscaldamento, i muscoli rispondono in maniera ottimale, l’ansia che mi pervadeva sembra essere sparita del tutto, sono concentrata al massimo, voglio diventare la numero uno e per farlo non posso assolutamente permettermi di perdere questo incontro. Un ragazzo dello staff entra nello spogliatoio: «I prossimi siete voi.» Metto la felpa con il cappuccio per tenermi calda e mi avvicino al corridoio d’ingresso alla sala principale del palazzetto. Max mi dà le ultime raccomandazioni, sento i rumori della folla sugli spalti, le luci si abbassano e due fari illuminano la gabbia. L’annunciatore fa il suo discorso di presentazione tra il brusio del pubblico, poi finalmente chiama il mio nome e uno dei fari che illuminavano la gabbia punta dritto verso di me. «Andiamo», esclama Max e comincia a camminare di fronte a me.


30 La luce ci accompagna durante tutto il tragitto, sento il frastuono della gente che grida il mio nome, è qualcosa di sensazionale, del tutto diverso rispetto a quello che avevo vissuto da dilettante. Vengono effettuati i regolari controlli, poi entro in gabbia. È il turno della mia avversaria, l’annunciatore chiama il suo nome e la folla esplode in un unico grande boato. Deve avere almeno il doppio dei miei sostenitori. L’arbitro ci chiama al centro dell’ottagono per le ultime raccomandazioni, poi ci rimanda ai nostri angoli e dà il segnale ai giudici che fanno suonare il gong. La mia avversaria si scaglia contro di me come un treno in corsa, io mantengo la distanza girando intorno nella gabbia. Ci studiamo per qualche secondo cercando un buco, una falla nella guardia dell’altra, poi lei prende l’iniziativa e comincia ad attaccare di braccia portando una serie di colpi dritti cercando di colpire, uscire e rientrare colpendo di nuovo. Sa che vengo dal judo, non vuole rischiare di rendersi la vita difficile andando a lottare. I suoi colpi sono duri e ha un ottimo tempo, non riesco ad anticiparla, né a colpire di rimessa. Incasso un diretto destro che mi stordisce per un secondo, per fortuna non riesce a centrarmi con il gancio altrimenti non so come sarebbe andata. Indietreggio alla svelta, lei mi si scaglia addosso sotto l’incitamento del suo angolo che si dimena come un forsennato. Sto perdendo! Quel colpo a segno le dà una carica come se avesse appena montato delle batterie al plutonio, alzo le braccia al viso e continuo a muovermi cercando di vedere uno spiraglio in quella raffica di colpi. Comincia a salirmi addosso il timore di non farcela e la paura mi impedisce di pensare a una strategia, anzi, in realtà non riesco a portare neanche un colpo, penso solo a non prenderle bloccando i suoi pugni e muovendo le gambe per continuare a girare all’interno della gabbia. Riesco a tenerla a bada e a restare in piedi nonostante i suoi attacchi. Mi sento completamente rimbambita per i colpi presi, le orecchie mi fischiano e il cervello fa fatica a ragionare.


31 Devo calmarmi, continuo a muovermi e faccio dei respiri profondi, la mia avversaria ha mollato la presa per un attimo, avrà qualcosa in mente? La guardo negli occhi cercando di capire quali siano le sue intenzioni e quello che vedo mi riporta finalmente con i piedi per terra: ha il fiatone! La sfuriata che ha portato all’inizio l’ha stremata, ha puntato tutto su quei colpi cercando subito il KO, ma così facendo si è giocata in pochi secondi tutta la sua autonomia. Riacquisto lucidità e improvvisamente cominciano ad arrivare al mio orecchio i boati del pubblico e subito dopo la voce di Max. Da quando è suonato il gong non ricordo di aver sentito neanche una parola da parte sua, evidentemente ero così concentrata sulla mia avversaria che mi ero isolata da tutto il resto. «Ora falle capire chi comanda, è già stanca, conduci tu il gioco, falle vedere che sei migliore di lei», sono le parole che il mio coach mi urla da fuori la gabbia. È vero, è un’avversaria dura, probabilmente fisicamente è anche più forte di me, ma non sempre vince il più forte, giusto? A volte basta convincere il proprio avversario che il più forte sei tu! Abbasso le braccia scrollando le spalle e il collo e guardo la mia avversaria negli occhi lanciandole un sorriso di sfida. Lei dapprima sbarra gli occhi come se non credesse a quello che stava vedendo, poi la sua espressione si fa rabbiosa. La invito con le mani ad attaccare, lei non se lo fa ripetere due volte, mi si scaglia addosso con la stessa foga di prima, ma stavolta me lo aspetto, stavolta la mia mente è lucida. Colpisco con un veloce jab, il diretto sinistro, e vado via dalla sua traiettoria come un torero farebbe con un toro. Il colpo viene bloccato dalle sue braccia, ma di sicuro l’ha per un attimo disorientata. Torna di nuovo alla carica. La mia tattica è sempre la stessa, la faccio avvicinare quel tanto che basta per toccarla con colpi superficiali e scappare via. Il pubblico non gradisce molto la mia tattica, pensano che sia vigliaccheria, che rifiuti lo scontro, non riescono a vedere quello che sta succedendo all’interno della gabbia, ma non me ne meraviglio, fino a qualche secondo fa non riuscivo a vederlo nemmeno io e invece ora mi sembra così scontato.


32 I primi cinque minuti terminano così, niente di spettacolare, abbiamo giocato al gatto con il topo dove il topo stuzzicava il gatto per farlo infuriare il più possibile. Torno al mio angolo, Max entra in gabbia, mi dice che sto andando bene, ma che ovviamente non posso continuare così per tutte e tre le riprese, se si dovesse andare ai punti probabilmente perderei, l’atteggiamento remissivo non paga in questi sport, e comunque c’è sempre il rischio di essere incrociata da qualche colpo duro che potrebbe spegnermi la luce in un attimo. L’arbitro chiama fuori i “secondi”, Max mi infila il paradenti ed esce dalla gabbia. Suona il gong, è la seconda ripresa. La scena è la stessa, lei che mi rincorre come una pazza sul ring portando colpi alla rinfusa, mettendoci tutta la cattiveria che ha in corpo, io che mi limito a bloccarli con le braccia, girare all’interno della gabbia e rimettere qualche colpo di tanto in tanto, soprattutto in quei momenti dove lei deve riprendere fiato, e stavolta sono più numerosi rispetto alla ripresa precedente. Allo scadere della seconda ripresa io sono ancora completamente in forma e le lancio un altro sorriso beffardo fissandola negli occhi mentre lei si trascina al suo angolo ansimando e con la faccia stravolta dalla fatica. Max mi fa le ultime raccomandazioni, entrambe le riprese sono state vinte dalla mia avversaria, questo vuol dire che se non termino l’incontro prima del limite quasi sicuramente il verdetto sarà a suo favore. Fuori i secondi, è l’inizio della terza e ultima ripresa. Stavolta attacco io, comincio a tempestarla di colpi lunghi alternando dei veloci jab a dei pesanti low kick, i calci sulle gambe specialità della kickboxing. Non è più veloce e reattiva come all’inizio, stavolta le ho preso il tempo, non riesce a colpirmi mentre io continuo a stuzzicarla costantemente con dei colpi poco efficaci ma che le fanno sprecare parecchia energia. Attendo il momento giusto che non tarda ad arrivare, le porto tre jab di fila al termine dei quali mi si lancia addosso mettendo tutta la sua forza in un terribile gancio che mando a vuoto facilmente facendola sbilanciare. Non spreco l’occasione, la incrocio con un diretto destro che va a segno facendola barcollare all’indietro, abbasso il baricentro e mi scaglio addosso a lei andandole all’altezza della cintura, la afferro stringendo le braccia in una morsa che non dà via di scampo, carico il


33 peso sulle gambe e la stacco da terra per poi proiettarla al tappeto con tutta la mia forza. Lei cerca in qualche modo di difendersi, ma sappiamo entrambe che a lottare sono più brava io, soprattutto ora che ha il fiato corto e ha incassato un duro colpo. Sento il suo angolo sgolarsi per cercare di darle consigli su come difendersi e le urla degli spettatori nel palazzetto in delirio per il ribaltamento di situazione. Ormai è nelle mie mani, tempo pochi secondi e vado in monta con le gambe a cavalcioni sopra di lei che prova un paio di volte a ribaltarmi puntando i talloni a terra e spingendo in alto il bacino, ma non c’è nulla da fare, ormai tutto quello che fa serve solo a stancarla ulteriormente. Comincio a tirarle una raffica di pugni all’altezza del viso, i primi vengono bloccati, ma quando il primo va a segno lei perde la cognizione di cosa stia succedendo e tutti gli altri raggiungono il bersaglio. L’arbitro mi afferra per le spalle e mi trascina via da lei, vinco il match per ground & pound. Alzo le braccia e gli occhi al cielo, penso a mio padre, a quanto amasse lo sport, ma anche a come probabilmente non avrebbe condiviso la mia scelta di diventare una lottatrice di MMA. Chissà se, vedendomi, sarei riuscita a fargli cambiare idea. Max si scaraventa all’interno della gabbia e mi solleva da terra afferrandomi per le gambe, il primo passo è fatto, ma la strada è ancora lunga e io ho ancora tanto da lavorare.


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CAPITOLO 4

La mattina dopo un match assomiglia a un dopo sbornia: ti fa male la testa e il resto del corpo non è da meno, sai che la sera prima ti sei divertita, ma giuri che non vuoi più stare male come stai ora, anche se sei consapevole che invece lo rifarai di nuovo tante volte. Mi guardo allo specchio per vedere come è ridotta la mia faccia; devo dire che non sono proprio uno splendore. Ho un occhio nero e gonfio, quella maledetta mi ha centrata per bene, mi rincuora solo il fatto che lei in questo momento starà decisamente peggio. Scendo per fare colazione, la mamma è in piedi ed è in cucina, che diavolo di ore sono? Mezzogiorno, alla faccia della dormita, appena ho toccato il letto sono caduta in coma profondo. La saluto e prendo la scatola dei cereali e una tazza di latte. «Ti sembra questa l’ora d’alzarsi?» domanda con tono alterato. «Ero stanca, avevo bisogno di dormire, ieri sera ho fatto tardi», rispondo mentre addento una cucchiaiata di cereali. Non appena cerco di far forza con i denti per masticare una scossa elettrica parte dalla mandibola e arriva fino al cervello. Questo è un gancio destro accusato in pieno! «Sei senza lavoro e puoi permetterti di fare baldoria al sabato sera? Cos’è, sei andata a ballare?» L’odore di alcol ormai è parte di lei. Come diavolo si fa a puzzare in quel modo dalla mattina alla sera? «No mamma, non sono andata a ballare, ho fatto un incontro ieri sera, e per la cronaca lavoro già da una settimana.» «Un incontro? E chi avresti incontrato, il principe azzurro?» «Un incontro di MMA mamma, un combattimento all’interno di una gabbia.» «Di una gabbia? Per cosa vi hanno preso, per animali?» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.



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