Il sentiero interrotto, Silvia Faini

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In uscita il 31/4/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine maggio e inizio giugno 2018 ( ,99 euro)

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SILVIA FAINI

IL SENTIERO INTERROTTO

ZeroUnoUndici Edizioni


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IL SENTIERO INTERROTTO

Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-207-2 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Maggio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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UNO

La giovane donna, piccola, minuta, con una gran massa di ricci biondi trattenuti in una coda di cavallo, stava in piedi davanti a lui e lo guardava, oltre la barriera della scrivania. A destra e a sinistra, aggrappate alle sue mani, due bambine, i cui occhi – chiari come quelli della madre – lo scrutavano corrucciati. «Buongiorno maresciallo, il suo collega…» mormorò la donna, poi serrò le labbra. Sembrava prossima al pianto. «Sì, mi dica, di cosa si tratta?». «Mia madre…». «Uno scippo? È stata ferita?» chiese stancamente Brizzi. La giornata gli pesava sulle spalle come cemento: dodici ore, era lì dentro da dodici ore senza nemmeno un pasto decente. Dodici ore ad ascoltare problemi e risolvere guai. Nulla di interessante. Piccolo cabotaggio, avrebbe detto il collega Bellomo di La Spezia. Quella sera l’avrebbe chiamato, magari gli avrebbe chiesto di prenotargli per luglio un alberghetto fuori dal traffico, uno di quei posti tranquilli, con una manciata di tavoli al massimo e una bella terrazza da cui godersi il mare leggendo un libro. «No, è scomparsa». La giovane donna sussurrava più che parlare. «Scomparsa?». Lei annuì, poi voltò il viso verso una delle bambine, che le strattonava il braccio come per andarsene: «Un attimo, tesoro, abbi pazienza». Poi riprese: «Sì, mia madre stamattina non è andata al lavoro, ma non è neppure a casa». «Quando l’ha sentita l’ultima volta?». «Ieri sera, verso le dieci». «Era a casa?». «Sì, l’ho chiamata sul fisso». «Quindi, se ipotizziamo che sia sparita ieri sera, possiamo dire che manchi da meno di ventiquattro ore…». «Sì, lo so, mi ha già spiegato il suo collega che non si può ancora parlare di scomparsa, ma mia madre…». Non finì la frase, scosse il capo e abbassò il viso per nascondere le lacrime che le erano spuntate negli occhi.


4 Brizzi era stanco: perché Marescalchi non aveva sbrigato quella faccenda da solo? Perché gliel’aveva mandata di lì? Il cellulare vibrò sulla scrivania per ricordargli che doveva andare a cena da Emma: socchiuse gli occhi per un istante pregustando le melanzane alla parmigiana, pensando ai nove anni di Giulio complicati dall’autismo e alla gentilezza un po’ ruvida di Toni, che avrebbe preso dalla cantina una delle migliori bottiglie per accompagnare la cena e che solo sulla soglia, accomiatandosi, gli avrebbe borbottato, come sempre: «Torna quando vuoi, Alfio, sei sempre il benvenuto e… be’, lo sai, questa è casa tua». «Vede, signora» disse alzandosi e sorridendole, «non possiamo proprio fare nulla; sua madre non sarà anziana, immagino, e quindi, a meno che non soffra di disturbi di memoria, possiamo solo ipotizzare che si sia allontanata volontariamente. Sa, a volte, il peso della quotidianità… Torni a casa e stia serena, vedrà che si risolverà tutto prima di quanto lei creda». La giovane donna scosse la testa, deglutì e sussurrò: «Ho paura… che… Ha lasciato a casa anche il cellulare, perché, vede, siccome non riuscivo a rintracciarla, sono già passata da casa sua: l’avevo cercata durante le ore di lavoro, ma non rispondeva, però capita, se ha una riunione… in ogni caso, quando vede la chiamata, poi mi fa uno squillo o mi telefona. L’ho cercata sul numero dell’ufficio e al terzo tentativo mi ha risposto un collega: mi ha detto che mia madre non si era presentata al lavoro e allora mi sono preoccupata, ho pensato che stesse male. Ho telefonato al pronto soccorso dei due ospedali, alle sue amiche, alle ex colleghe di cui conosco il nome: nessuna sapeva nulla. Ha preso la macchina ed è sparita. Non so neppure se sia sparita già ieri sera, dopo che ci siamo sentite… E… no, non è anziana, ha cinquantasette anni». «Cinquantasette… » ripeté Brizzi sedendosi. «Si accomodi» aggiunse poi indicandole una seggiola. La giovane donna prese in braccio la bambina più esile, quasi a trovare conforto dal contatto con quel piccolo corpo, e Brizzi si alzò, prese una poltroncina e l’accostò all’altra bambina: «Vuoi sederti qui? Ti aiuto?». La piccola s’inerpicò e si sedette, poi guardò sua madre: «Sono tanca». «Sì, amore, tra poco andiamo. Il fatto è che non avevo nessuno a cui lasciarle: mio marito questa sera torna tardi». «Sua madre sta bene? Non aveva mai manifestato disturbi, comportamenti che potessero far pensare che fosse irritata o preoccupata per qualche ragione?».


5 «Sì, no… il lavoro in questo periodo è difficile, c’è molta pressione, piccoli dissapori con alcuni colleghi, con il suo superiore…». «Ma non aveva mai detto di volersene andare?». La donna scosse il capo e si chinò a raccogliere il fazzoletto che la bambina aveva lasciato cadere a terra. *** Cinquantasette anni, pensò Brizzi, cinquantasette come sua madre trent’anni prima. Lui non la vedeva da un anno, da quando lei – che stava lavando i piatti – si era girata come una furia verso di lui: «Che cosa le hai fatto?». Era stata tale la violenza di quella domanda che lui, seduto sullo sgabello, si era ritratto e aveva appoggiato la schiena alla parete piastrellata, fresca in quella giornata di fine agosto. Suo padre, immerso nella lettura del quotidiano, aveva alzato il capo di botto, il viso pallido e tirato, la bocca serrata in una smorfia. Sua madre, invece, sembrava una mitragliatrice gonfia di parole velenose e lui, in quel momento, aveva capito quello che per tutta l’infanzia, l’adolescenza e la giovinezza aveva solo intuito: lei lo amava solo finché lui si comportava decorosamente, finché non commetteva errori. «Ma ti rendi conto, Alfio, ti rendi conto?» gridava sua madre, trattenendo le parole fra i denti, per espellerle poi con furia. «Ti rendi conto dell’ambiente in cui viviamo? Sai chi sono i nostri vicini di casa, i nostri amici, i nostri conoscenti? Non hai pensato a tua figlia, eh, a tua figlia? Con tutto quello che abbiamo fatto per te, tu adesso ci ripaghi in questo modo!». «Cosa c’entrano i vicini, l’ambiente? Vi sto dicendo che Sara ha chiesto la separazione con un pretesto, solo perché l’ho afferrata per un braccio per impedirle di spaccare un piatto… Avevamo litigato, ma capita a tutti, no?». «Appunto, capita a tutti e poi le cose si sistemano. Credi che tuo padre e io non abbiamo mai litigato, eh? Ma poi, ogni volta, per tenere insieme la famiglia, per te, solo per te, ognuno di noi ha rinunciato a qualcosa! E tu te ne vieni fuori a dire che hai accettato la separazione! Bell’esempio per tua figlia, bell’esempio davvero!». «Mia figlia ha solo undici mesi e per lei è certo meglio che il papà e la mamma smettano di urlarsi addosso, e se per far questo dobbiamo separarci va bene così».


6 «No che non va bene, no, no e ancora no! Quando si saprà per quale motivo Sara ha chiesto la separazione, noi saremo sulla bocca di tutti! Grazie, grazie tante davvero!». Era ammutolito: sentiva un dolore acuto che gli levava il fiato, un mastino che gli maciullava il cuore, e sua madre si preoccupava per quello che avrebbero detto i vicini… Aveva cercato lo sguardo di suo padre, il quale aveva scosso la testa dichiarando: «Non è certo questo che ti abbiamo insegnato!». «Cosa mi avete insegnato?» aveva replicato lui a mezza bocca. «Credete che mi sia dimenticato le vostre liti? Le discussioni rabbiose, i musi lunghi della mamma, le sue uscite di scena quando, davanti alle argomentazioni razionali, non trovava più parole e se ne andava in cortile a fumare? Credete che abbia dimenticato i mutismi e i furori sordi, l’aria pesante che si respirava in casa, il rancore che vedevo covare nel vostro atteggiamento?». «Ma noi siamo qui! Noi siamo ancora qui!» era sbottata sua madre, battendo con furia l’indice bagnato sul tavolo di formica. «Noi non abbiamo fatto parlare nessuno. Col tempo i dissapori si appianano e tu invece… tu hai malmenato tua moglie!». «Non l’ho malmenata, l’ho trattenuta per evitare che spaccasse qualcosa!». «Devi averla portata all’esasperazione! Hai un’altra, eh? È quello il problema, vero?». «No, io… Ma perché ti viene in mente una cosa del genere?». «Perché Sara piangeva quando ci ha telefonato l’altra sera e a me non sembrava il pianto di una donna irritata, ma tradita». «Sara vi ha telefonato? Ma lei…» e aveva taciuto scuotendo la testa. Aveva girato lo sguardo oltre la finestra, ricordando – di quei quattro anni di matrimonio – tutte le passeggiate domenicali con i suoi genitori alle quali Sara non aveva partecipato, le cene, i pranzi, i compleanni ai quali si era sottratta con la scusa ora del mal di schiena, ora dell’emicrania, ora dei turni in ospedale. Ricordava le sue assenze e le sue presenze fugaci, giusto un saluto, e ora… ora telefonava ai suoi genitori. «Devi aver fatto qualcosa di molto più grave di quello che dici, se quella ragazza si è decisa a un passo simile. Deve aver macinato dolore per giorni, per settimane, per arrivare a una scelta simile! Piangeva l’altra


7 sera, piangeva, proprio lei! E tu, un carabiniere! Uno che porta la divisa!». «Ripensaci, Alfio, rimettete insieme i cocci. Non sarà stata la prima volta, non sarà l’ultima» aveva suggerito suo padre, il viso congestionato dall’ansia. «Non puoi buttare all’aria un matrimonio in questo modo! Vi siete sposati in chiesa!». Si era girato lentamente verso suo padre e aveva aperto la bocca per chiedergli dove fosse stato Dio in quei quattro anni, ma il dolore che provava era tale da impedirgli di parlare: Sara si sarebbe presa la bambina, accadeva sempre così. Lui avrebbe incontrato solo una volta a settimana la sua piccolina dai ricci castani che cominciava a camminare appoggiandosi ai muri e alle poltrone, che gli sorrideva e si addormentava sudata fra le sue braccia. Aveva rivisto in un lampo le piccole, quotidiane umiliazioni, i modi sottili con cui Sara riusciva a farlo sentire una nullità, un incapace, un incompetente, anche davanti agli altri, anche davanti ai suoi. Si era alzato lentamente, aveva rimesso a posto lo sgabello, si era diretto verso la porta e se n’era andato con quel peso in più da reggere: sapeva che i suoi sarebbero stati un muro, ma non pensava che sbatterci contro gli avrebbe fatto così male. Aveva camminato a lungo, senza meta, nell’afa di quel tardo pomeriggio, asciugandosi meccanicamente le lacrime. Era tornato a casa solo a tarda sera. Sul tavolo del soggiorno c’era un biglietto: “Me ne vado perché ho paura di te. Il mio avvocato ti farà sapere”. Era corso nella camera di Jasmine: il lettino era vuoto, i suoi peluche erano spariti e dall’armadio mancavano tutti i suoi indumenti. Allora era esploso in un urlo, perché il dolore aveva artigliato più a fondo. «Dora» aveva balbettato al telefono chiamando la cugina. «Per favore, Dora, vieni ad aiutarmi: Sara è sparita con la bambina». *** «Mi scusi…?». La giovane donna lo osservava con sguardo esitante. «Mi scusi lei, i pensieri… Senta, facciamo così: non vorrei trattenerla, perché penso che le bambine abbiano fame…». «Sì, io ho fame» replicò la più esile annuendo vigorosamente. «Ecco» riprese Brizzi. «Facciamo in questo modo: mi lasci il numero di targa dell’auto di sua madre; posso chiedere alle pattuglie di dare


8 un’occhiata, in via del tutto informale, però non sappiamo neppure in che direzione potrebbe essersi allontanata». «Alto Adige». «Perché pensa che si sia diretta là?». «Ha sempre detto che quello è il suo luogo del cuore, il posto in cui le piacerebbe vivere e morire». «D’accordo, è già qualcosa, anche se si rende conto che non possiamo setacciare un’intera regione, montuosa per di più». La giovane donna annuì. «Se domani ancora non ci fossero segnali, telefonate, messaggi, magari un rientro, ci risentiamo. Chieda pure di me. Per la denuncia dobbiamo comunque aspettare quarantotto ore». «Va bene, grazie; ecco, questo è il numero di targa, è una vecchia Clio color sabbia. E il nome della mamma: Iris, come il fiore, Iris Delugli». «Ha con sé per caso una fotografia o sua madre le assomiglia?». «No, non mi assomiglia: io e i miei fratelli siamo stati adottati da piccoli, perché la mamma sapeva di non poter avere figli. I miei avevano presentato la richiesta di adozione ancora prima di sposarsi e fecero il viaggio di nozze venendo a prendere noi tre in Ucraina…». Scosse la testa, si spostò meccanicamente una ciocca sfuggita dall’elastico. «Io ho pochi ricordi dell’orfanatrofio, avevo solo due anni quando ci portarono in Italia, ma i miei fratelli non l’hanno dimenticato» sorrise amaramente. «Forse è per questo che lavorano per Onlus che si occupano di infanzia». «Mmh, ho capito. Un’ultima domanda». «Dica…» rispose lei alzandosi. «C’è stato qualcosa nella vostra telefonata di ieri sera, qualcosa che abbia lasciato trapelare dell’irritazione, una preoccupazione?». La giovane donna esitò un istante, poi scosse il capo: «No, non mi sembra… Certo, ieri sera non siamo state al telefono a lungo: io ero sfinita. Le gemelle dormivano da poco e io ero a pezzi; lavoro part-time, però, insomma, le cose da fare, dopo il lavoro, non finiscono mai… In breve, non me la sentivo di stare al telefono a lungo e adesso rimpiango ogni minuto… Non so, a volte si è poco attenti e poi, poi gli altri ci sgusciano via…». «Stia tranquilla, vedrò cosa posso fare. Venga, la faccio accompagnare. Ci sentiamo presto». ***


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Afferrò al volo la giacca e passò in bagno a lavarsi le mani. Il viso che vide riflesso nello specchio non gli piacque per nulla: era un volto inaridito, appassito, invecchiato, non per le rughe che lo segnavano, ma per l’espressione avvizzita che gli era cresciuta dentro. Grigio. Doveva andare al mare e non pensare a nulla per un po’. Per quella sera sarebbe bastata la cena da Emma e la quiete che si respirava in quella casa, da quando Emma e Toni avevano costruito attorno a Giulio un ambiente a sua misura, in campagna, perché potesse vivere lontano dal traffico e dalla folla che gli scatenavano crisi di terrore, accanto ai due asini mansueti e al grosso cane nel cui pelo folto Giulio affondava le mani e il viso nei momenti di tristezza. Brizzi amava quel bambino: lo sentiva così simile a sé, così incerto nel muoversi nella vita, così bisognoso di sponde e di argini, che spesso gli si sedeva accanto, sul gradino che dalla cucina portava nel frutteto dietro casa, e non diceva nulla: se ne stavano lì, Giulio intento a disegnare sul suo album e lui perso a contemplare il sole che scendeva pigro dietro i pioppi.


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DUE

Era partita perché la sua resistenza era ormai alla fine. Ogni giorno la lotta la stremava. Andava al lavoro, passava a trovare sua figlia, telefonava a uno dei figli, sentiva un’amica, poi si sedeva. E in quel momento la tentazione era lì, pronta ad agguantarla. Allora doveva imbottirsi la testa e il cuore di occupazioni: cucire, lavorare a maglia, leggere, cucinare... Doveva essere sfinita per non cedere al richiamo dei sonniferi nascosti fra i pigiami o del fiume poco lontano, nel quale scivolare e perdersi per sempre. In quelle sere nemmeno i libri servivano a distrarla da se stessa e a placare l’angoscia. Il malessere cresceva, saliva e scendeva come una marea slegata dalla luna; per settimane intere ascoltava la stessa canzone, con la dolorosa consapevolezza di non aver saputo cogliere dei segnali, di essersi lasciata sfuggire qualcuno o qualcosa che avrebbe potuto renderla serena per tutta la vita. Non c’era nulla, in quei momenti, che avesse un significato: non il lavoro, non quella casa che le stava stretta, non le piccole distrazioni di un film, di una serata a teatro, di una cena con gli amici. Solo la compagnia delle gemelle riusciva a distoglierla per qualche ora dall’abisso. Forse, se avesse vissuto all’aperto, anziché in ufficio – appollaiata davanti allo schermo, con la mano incollata al mouse e le orecchie frastornate dal vuoto chiacchiericcio delle colleghe –, non avrebbe avuto la costante sensazione di nausea che si presentava, puntuale, dal lunedì al venerdì, o l’inquietante percezione di terremoto che ogni giorno, senza preavviso, la scuoteva, facendole temere che qualcosa di tremendamente possente avrebbe stravolto nuovamente la sua esistenza, ne avrebbe scardinato i fragilissimi equilibri penosamente raggiunti. Poi, subdola, strisciante, era ricominciata la tentazione, che già anni prima l’aveva adescata, nei periodi drammatici della separazione, nell’inizio terribile della nuova vita. La morte andava a stanarla tutti i giorni, la stuzzicava e l’attirava a sé: un bel salto nel vuoto – le sussurrava nel silenzio – e si sarebbero dissolti i


11 ricordi tormentosi e le parole sbagliate, i silenzi insidiosi, i legami difficili, la ricerca della serenità e la fatica continua del tentativo di rinascere. Però non voleva che la morte la cogliesse impreparata: ricordava con tristezza la casa della zia colpita dall’ictus, rammentava le povere cose quotidiane che lei e altri avevano dovuto esaminare, scegliere, suddividere, buttare. Sul piccolo scolapiatti scrostato del cucinino c’erano gli esempi di una vita parsimoniosa, abituata a non sprecare, a risparmiare fin dall’infanzia poverissima: un bollitore di alluminio dall’impugnatura bruciacchiata, due tazzine sbeccate, una tazza senza manico, due fondine segnate da crepe. Iris aveva accantonato con delicatezza quei pochi oggetti e le era costato fatica accettare che venissero buttati: era come rinnegare una vita che si era regalata assai pochi piaceri. Ed era stato imbarazzante dover mettere le mani negli armadi, togliere lenzuola e coperte, abiti e biancheria, scegliere cosa tenere, cosa impacchettare e relegare sugli scaffali di un garage. Una vita non si butta via così. Perciò ogni mattina, prima di uscire, controllava che in casa tutto fosse in ordine. L’unico posto in subbuglio era la scrivania, con gli appunti per i racconti da scrivere: lì, come nella sua testa e nel suo cuore, regnava lo scompiglio. *** Non si era coricata. La pioggia incessante caduta durante quell’ultima settimana di maggio aveva spazzato via l’ondata anomala di afa che per alcuni giorni aveva tormentato la città: aveva lasciato le ante chiuse e aperto solo i vetri, per godersi il silenzio della notte fredda. Aveva messo nel trolley pochi indumenti, aveva riempito uno zaino con un po’ di provviste e poi aveva ripulito a fondo la casa. Lenzuola, pigiama, vestaglia ripiegati nel cestone della biancheria da lavare. Pasta, riso, zucchero e farina nei vasi di vetro per evitare l’attacco delle tignole. Il frigorifero svuotato. Il freezer ordinato. Non voleva che la morte, in agguato alle sue spalle, pensasse a una fuga. Doveva credere che si sarebbe allontanata solo per un paio di giorni. Forse, muovendosi qua e là, l’avrebbe ingannata e sarebbe riuscita a sottrarsi ai sogni che la inquietavano: case di cui non riusciva ad aprire le porte, appartamenti dai quali veniva cacciata, abitazioni che le sembrava di conoscere, ma collocate altrove nello spazio e nel tempo, treni che si disgregavano appena dopo la stazione.


12 Lasciò i suoi pochi monili sul ripiano dell’armadio e indossò solo il piccolo pendente di labradorite, come faceva sempre quando viaggiava. Dalla libreria prelevò il barattolo di metallo e ne tolse le banconote: quei cinquemila euro, uniti ai diecimila prelevati la settimana precedente, le avrebbero permesso di fare un lungo viaggio e poi… Bagnò i fiori, andò a gettare carta e plastica nei cassonetti, tornò in casa e si sedette. La disperazione, come ogni giorno, era lì, imperiosa e potente. Appoggiò il cellulare sul copriletto, portò il trolley e lo zainetto all’esterno e si chiuse delicatamente la porta alle spalle. Stava per dirigersi a sud, verso l’autostrada, quando la sagoma del Montedus, ancora velata dalla foschia dell’alba, si profilò in lontananza. Accostò l’auto al marciapiede e restò a guardare la sommità morbida del massiccio che sembrava chiudere la valle, quindi, anziché rivolgere la macchina a sud, imboccò la provinciale sulla destra e si diresse verso nord. Percorse la valle per un lungo tratto, superò alcune vecchie case abbandonate, valicò il ponte romanico e rimontò nell’angusta Valle del Mò, guidando lungo gli stretti tornanti viscidi di pioggia, finché raggiunse il parcheggio deserto di Massavino. Da alcune abitazioni si levava un filo di fumo, ma non c’erano voci, suoni di motori o di campane a spezzare l’immobilità del luogo. Risalì attraverso il bosco, lungo la mulattiera appiccicosa di fango morbido come creta, che rendeva pesante il cammino. Oltre una sbarra, la mulattiera s’interrompeva per diventare un sentiero sempre più stretto, preda dell’incuria, con radici sporgenti e lunghi rami di noccioli e di rovi che graffiavano il viso. Ci vollero quasi due ore per raggiungere la vasta radura attorniata dai faggi, oltre la quale ritrovò la grande roccia accanto al larice, dove suo padre avrebbe voluto essere sepolto. Il luogo era ancora integro, gli alberi erano cresciuti di poco e la fonte, alla quale si erano abbeverati decenni prima lei e il padre, tuttora buttava acqua a breve distanza dalle radici di un faggio centenario. Iris si chinò a terra, appoggiò la bocca alla polla e bevve una sorsata d’acqua, poi si sedette su un tronco abbattuto da un fulmine. L’aria, fresca e umida, sfiorava i faggi ancora spogli, enormi scheletri dalle lunghe braccia. Il muschio verdissimo aveva ricoperto radici, sporgenze, macigni, creando cuscini soffici al tatto.


13 La nebbia prese a scivolare lungo le pendici del monte, intrufolandosi tra i faggi, impigliandosi fra gli aghi degli abeti, accarezzando i massi ricoperti di licheni rugginosi. Iris tornò rapidamente sui propri passi, scendendo quasi a memoria lungo il sentiero che aveva percorso decine di volte con il padre; si fece preparare un panino nel minuscolo negozio e uscì a mangiarlo sotto il platano, davanti alla piccola scuola. Alcune abitazioni sembravano abbandonate, corrose dall’umidità e dall’incuria di decenni; altre, invece, avevano i tetti nuovi, come se i giovani, emigrati in città per lavorare nelle fabbriche, fossero tornati, per nostalgia o per la crisi, a dimorare nelle vecchie case dei genitori. Quando calò il buio Iris si spostò a Solano, una decina di case addossate le une alle altre sul passo fra la Valsmorta e la Valgera. Parcheggiò nello slargo accanto alla chiesa romanica dal grande nartece, decorato dall’affresco sbiadito di un enorme san Cristoforo. La canonica sembrava deserta: nessuno, perciò, sarebbe venuto a disturbare il suo riposo. Un’insegna stinta campeggiava sopra un androne: “Premiata trattoria Al Cavallino”: doveva essere stata la meta dei pellegrini che salivano al santuario per chiedere la grazia di un buon raccolto e di un’estate senza grandine. Accese la radio, lasciò un’impercettibile apertura nel finestrino, reclinò il sedile e attese: poco alla volta vide spegnersi le luci azzurrate dei televisori oltre i vetri delle case vicine. Rare automobili passavano, rallentando nell’affrontare la curva che scendeva verso la Valgera. Ascoltò il campanile che suonava le ore, le mezze e i quarti, senza provare irritazione per quel disturbo che era andata a cercarsi; poi si addormentò d’un sonno affollato da brevi sogni faticosi: vassoi di cibo da portare in equilibrio su anguste terrazze che diventavano sempre più strette, scale e scale da scendere per poi risalire utilizzando una corda da alpinista… Infine, quando si svegliò, il cielo era ancora buio ma l’orologio segnava le quattro: presto sarebbe spuntato il sole. Furtiva come una ladra, sgusciò all’esterno, si sciacquò il viso alla fontanella, rimontò in macchina e partì. Quando imboccò l’autostrada, il cielo era velato e il traffico era scarso: solo qualche camion procedeva ad andatura sostenuta. Si accodò a un Tir e si lasciò trainare: non aveva voglia di correre, di superare, di stare attenta.


14 Sentiva una sensazione di sollievo che non provava da tempo, il sottile piacere di essere riuscita a farcela. Forse aveva raggirato la grande tentatrice.

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TRE

«Brizzi, l’ho fatta accomodare da te. Mi ha detto che preferisce vederti anziché parlarti per telefono» disse Marescalchi. Brizzi gettò un’occhiata oltre la vetrata: la giovane donna era seduta di tre quarti, il volto, ombreggiato dai ricci biondi, chino verso le proprie mani, come se guardasse le unghie corte, dipinte di verde cupo, forse l’unico vezzo che si permetteva con due bambine piccole. Alzò il viso verso di lui quando ne scorse l’ombra oltre la porta a vetri. «Buongiorno» le sorrise Brizzi tendendole la mano. «Buongiorno» rispose lei con un sorriso stanco. Brizzi notò i denti bellissimi, regolari, candidi e le profonde occhiaie che le segnavano il volto. «Non ha dormito?». «Non molto. Le gemelle hanno il raffreddore e poi…» e abbassò lo sguardo sulle mani che stava tormentando. «Ci sono novità da sua madre?». «No, speravo che stanotte chiamasse. Non capisco, è così affezionata alle bambine, come ha potuto andarsene in quel modo?». «Lei è sicura che sia partita volontariamente?». La giovane aggrottò la fronte. «Mah… Chi avrebbe potuto costringerla a partire, e perché?». «Sua madre è ricca?». «Ma no, assolutamente! Dai miei nonni ha avuto in eredità un po’ di denaro, sufficiente, forse, a comprare un appartamento, che però, in questi due anni, non è riuscita ad acquistare. Non credo che qualcuno possa averla costretta… per i soldi». «Si può fare una verifica». «Sì, certo». Sorrise debolmente. «Mia madre ha una banca online… So che non fa operazioni, i soldi sono sul conto corrente. Per accedere ci vogliono password e altro… tutte le indicazioni sono a casa. Ho le chiavi, se vuole andare là». Brizzi annuì e sfogliò l’agenda: c’era una riunione nel pomeriggio, ma fino a mezzogiorno avrebbe potuto trovare spazio per quel grattacapo. «Come si chiama?» domandò alzando il viso. «Iris Delugli, cinquantasette anni».


16 Brizzi sorrise: «No, non sua madre, quello me lo ricordo. Lei, come si chiama?». «Eva Sampietri». «Dove ha lasciato le bambine, Eva?». «Oh, mio marito ha chiesto un giorno di ferie. Voleva che io riposassi, ma non riuscivo a stare in casa; ho preso la macchina e ho fatto un giro... Ho parcheggiato l’auto al cimitero, sono passata alle tombe dei nonni. Non so, ho pensato che la mamma potesse essere là. A volte, quando si sta male, si spera che chi ci ha amato possa darci un consiglio. Invece… c’erano solo i fiori nuovi, che aveva piantato due settimane fa. Ho tolto qualche foglia appassita, poi sono andata a casa della mamma. Dal cimitero non è lontana. Era tutto come ieri. Non ho toccato niente… Si fa così, vero?». «Sì, si fa così, come nei film, anche se questa non è un’indagine per omicidio. Comunque ha fatto bene. Vuole che andiamo là?». «Sì, grazie, lei potrebbe vedere qualcosa che io non ho notato». Brizzi si alzò, aprì la porta a vetri. «Marescalchi, esco un paio d’ore per questo caso. Ci vediamo alle due per la riunione. Venga» disse poi a Eva. «La sua auto è rimasta al cimitero, dunque?». «Sì». «D’accordo, andiamo con la mia macchina». La guardò salire, le gambe affusolate chiuse nei jeans chiari, dai quali sbucavano piccoli piedi ossuti infilati in sandali quasi inesistenti. Il traffico era lento sotto il cielo grigio, noioso. La vide digitare rapida un messaggio sul cellulare. Le arrivò una chiamata dopo pochi istanti. «Sì, sto bene, stiamo andando là. Le piccole hanno fatto colazione? Sì, ti chiamo dopo... Per pranzo arrivo, va bene? Sì, stai tranquillo, poi mi metto nel lettone con le bambine, facciamo tutte e tre un riposino». Chiuse il cellulare e lo infilò in borsa. «Scusi, mio marito è preoccupato e le gemelle hanno chiesto di me». «Sono un gran conforto quando si è assillati dai problemi, vero?». «Sì, basta un loro abbraccio per cambiarmi l’umore in meglio». Esitò un momento, lo guardò di sottecchi. «Lei ha… figli?». «Figli? Sì, ho… avrei una figlia, diciamo più o meno della sua età. Jasmine, si chiama Jasmine». «Un bel nome, particolare».


17 «Sì, mia moglie all’epoca aveva letto un libro… non ricordo assolutamente il titolo… si era fissata su quel nome, perché la protagonista era una donna forte e determinata». Il semaforo era diventato arancione. Brizzi si fermò e lo sguardo gli corse alla vetrina di un negozio: scrutò la propria immagine riflessa e quella della giovane donna seduta al suo fianco. Avrebbero potuto essere padre e figlia, se le cose fossero andate diversamente. *** Quando Sara era sparita, dopo i primi giorni di disperazione lacerante, di bottiglie svuotate con rabbia e di notti passate in bagno a vomitare, una mattina aveva aperto la porta al suono insistente e prolungato del campanello. Il postino, un ragazzo dal viso paffuto con guance rosse da bambino, era letteralmente indietreggiato e aveva spalancato la bocca. «C’è… una raccomandata da firmare» aveva mormorato infine tendendogliela, ma senza avanzare di un passo; si era levato la biro dal taschino della divisa, gliel’aveva allungata. Brizzi aveva annuito, aveva firmato ed era rientrato in casa, sentendo i passi precipitosi del ragazzo lungo le scale. Doveva avere un aspetto spaventoso. Si era guardato allo specchio, aveva gettato le bottiglie nella spazzatura e si era preparato un caffè; aveva levato le lenzuola dal letto e infine si era fatto una doccia senza riuscire a trovare il coraggio di aprire quella busta con il nome di un avvocato. Gli faceva troppo male immaginare cosa potesse esserci all’interno. E così, rasato, ripulito, rivestito, era andato a suonare il campanello di Dora. Lei doveva essere ancora al lavoro e solo il suo enorme gatto tigrato si era fatto avanti lungo il vialetto. Si era seduto sulla panchina del parco davanti all’abitazione e aveva atteso, le mani irrequiete che stropicciavano la busta. Dora stava rientrando con due sacchette della spesa quando l’aveva scorto, seduto come un vecchio, spalle curve e sguardo perso a osservare i bambini che passavano per mano alle madri. «Come stai?» gli aveva chiesto sedendoglisi accanto. Brizzi le aveva mostrato la raccomandata. «D’accordo. Saliamo, che il latte mi si rovina a star qui». Lui aveva scosso la testa. «Andiamo su da me. Non ti fa bene rimanere qui a guardare i bambini. Andiamo, troveremo una soluzione». La soluzione non l’aveva trovata Dora e non l’aveva trovata lui. Ci aveva pensato poi un giudice: era stata sancita la separazione. Sara l’aveva


18 formalmente accusato di violenza, aveva asserito di temere per la propria incolumità e per quella della bambina, visto che lui aveva abitualmente in dotazione l’arma di ordinanza e i turni notturni lo rendevano psichicamente instabile. Doveva aver avanzato dubbi sulle sue qualità professionali, perché il suo superiore l’aveva convocato e Brizzi non si era nemmeno preso la briga di indagare in che modo l’avesse saputo. «Stia a riposo per qualche tempo, Brizzi» gli aveva detto Ducali con tono paterno, accarezzandosi i baffi grigi. «Non le farò difficoltà. Siamo esseri umani e, a volte, quando veniamo colpiti da una grave preoccupazione, è meglio che ci prendiamo una pausa di riflessione. È per il suo bene, glielo garantisco, e anche per il bene del suo collega e dei cittadini con i quali lei ha a che fare ogni giorno. Quando si maneggia un’arma, la mente deve essere sgombra da ogni pensiero». Brizzi aveva annuito senza guardarlo negli occhi, mentre il dolore, fra lo stomaco e il cuore, azzannava e scorticava. «Dia retta a uno che potrebbe esserle padre. Vada via per qualche giorno, vada al mare, in montagna, al lago, dove preferisce. Si svaghi un po’. Non risolverà i problemi, ma li vedrà con maggiore chiarezza e forse riuscirà a trovare una strada in mezzo al suo tormento. E… le storie dei maltrattamenti sono vere?». Aveva negato con un movimento del capo, serrando le labbra con forza per non cedere alle lacrime. Il maresciallo Ducali si era alzato, gli aveva messo una mano sulla spalla. «Vada adesso, vada. Ci rivediamo fra un paio di settimane, pensa possa andar bene?». Aveva mormorato un grazie incerto ed era praticamente fuggito dalla stanza, temendo che, se Ducali l’avesse abbracciato in un moto di premura paterna, sarebbe scoppiato in singhiozzi. Perché di un padre avrebbe proprio avuto bisogno in quel momento, e di una madre, e di un rifugio che lo accogliesse e lo facesse sentire amato nonostante tutto. Dora era stata assai più di una cugina: l’aveva accudito, sfamato, confortato, rimproverato e, quando i suoi rimbrotti non bastavano, faceva un cenno al marito, che si alzava, prendeva Brizzi per le spalle e gli diceva. «Vieni, andiamo a fare due passi» e, uomo di poche parole, se lo portava appresso, allo stadio, dove Brizzi non era mai andato e dove, da allora, non era più tornato, al bar a giocare a biliardo, al cinema a vedere un film d’azione.


19 C’era voluto ben più delle due settimane che il maresciallo Ducali aveva ipotizzato: c’erano voluti mesi e mesi di dolore, anni di sofferenze e rimpianti, ma comunque, dopo quindici giorni, si era ripresentato in caserma e aveva ripreso servizio, stampandosi sulla faccia un sorriso che gli moriva non appena i colleghi volgevano lo sguardo altrove. C’erano volute settimane, mesi, anni per suturare in qualche modo la ferita. Ma, con il passare del tempo, quella bambina lontana, ormai donna, gli mancava sempre di più e si chiedeva come sarebbe stato, adesso che ne aveva l’età, diventare nonno. *** «Siamo arrivati, la casa è quella» disse Eva indicandogli, con un cenno del mento, una palazzina scura a due piani. Brizzi parcheggiò all’ombra di una grande conifera e si guardò attorno: una strada tranquilla, residenziale, palazzine a due o tre piani, giardinetti ben curati e balconi con panni stesi. «Possiamo salire…» disse Eva con un filo di voce. «D’accordo» rispose Brizzi notando un rigoglioso papiro accanto all’ingresso. «Gli appartamenti sono tutti occupati?». «Sì, tutti, erano tre per piano, poi qualcuno, al pianterreno, anni fa ne aveva comprati due e li ha uniti». «E i campanelli senza nome?». «Ah, quelli» sorrise Eva girandosi verso di lui. «Sono due donne sole, anziane; hanno paura di tutto e, dopo un furto subito anni fa, hanno preferito togliere i nomi. Tengono le tapparelle abbassate anche quando sono in casa, per non dare nell’occhio». «Nell’abitazione di sua madre non manca nulla?». «No, niente, credo… Ho dato solo un’occhiata superficiale» rispose lei aprendo la porta blindata e accendendo il lampadario del piccolo ingresso che dava direttamente sul soggiorno. «Sollevo le tapparelle, faccio luce…» mormorò spostandosi in una stanza accanto. «Vede, è sconcertante» dichiarò poi. «È tutto in ordine, non c’è una cosa fuori posto, come se…» non terminò la frase e si morse le labbra. «Sua madre teneva dei soldi nascosti? C’è forse una piccola cassaforte?». «No, lei lascia tutto in banca, una banca online, come le dicevo. Ci deve essere da qualche parte… aspetti, qui, nel libro sotto il televisore. Ecco, vede, qui ci sono i codici di accesso».


20 «Potrebbe verificare se sua madre ha fatto dei prelievi consistenti ultimamente?». «Sì, c’è il computer di là». Brizzi si guardò attorno nella stanza, sollevò i cuscini del grande divano vellutato, spostò i quadri, aprì i pensili della cucina, scosse i barattoli di pasta e di riso, cercando un suono diverso che gli svelasse che lì, fra maccheroni e penne, c’era un piccolo segreto: nulla. Spalancò il frigorifero e restò di stucco: l’interno era completamente vuoto, pulito, candido, come appena uscito dalla fabbrica. Quindi la partenza non era stata una scelta improvvisa, ma meditata. Nel freezer, invece, ben sovrapposti e con le etichette chiaramente leggibili, c’erano piatti preparati in casa: lasagne, peperoni ripieni, mezza torta salata con radicchio e ricotta, spezzatino alla birra, melanzane alla parmigiana. Richiuse il freezer, si sedette al tavolo d’angolo e lasciò correre lo sguardo sul piccolo soggiorno: il mobilio aveva un che di disomogeneo, come se non fosse stato pensato per creare un insieme armonioso; sembravano pezzi d’arredo comperati in momenti diversi e con intenti diversi. Solo il grande sofà verde acido dava l’idea di essere nuovo. Il balcone si affacciava sul giardino di un’altra villetta: la pioggia aveva smesso di cadere e il sole, in parte ancora nascosto dietro le nubi, gettava la sua luce sulle foglie rilucenti di un’enorme magnolia. A breve i fiori si sarebbero schiusi e il loro profumo avrebbe invaso tutte le stanze della casa. Doveva essere bello cenare su quel terrazzino, godendosi il fresco, il fruscio delle foglie e gli scrosci della pioggia di primavera. «La mamma ha fatto un solo movimento bancario insolito, un prelievo di 10.000 euro alcuni giorni fa. Non ci sono altre uscite straordinarie» disse Eva arrivando dallo studio. «Venga» aggiunse poi precedendolo nella stanza colma di libri fino al soffitto. «Vede?» ribadì indicando lo schermo del computer. Brizzi annuì. «Se sua madre non ha mai fatto prelievi così consistenti, è probabile che avesse in mente qualcosa. Aveva forse un debito con qualcuno?». Eva scosse la testa: «Mia madre detesta i debiti. Aveva preso a rate la macchina, quando dovette vendere la sua, dopo l’incidente, ma l’anno successivo riuscì a saldare il debito e chiuse quella pratica». «Quale incidente?». «Una cosa da poco: lei non si fece nulla, ma la macchina ne uscì molto male, da buttare».


21 «E come mai riuscì a saldare il debito prima del tempo? Grazie ai suoi nonni?». «No, ai nonni non aveva mai voluto chiedere niente, anche se il nonno si era offerto di aiutarla. Il nonno me lo raccontò un giorno e mi disse che mia madre era testarda e orgogliosa, che avrebbe preferito dormire sotto i ponti piuttosto che chiedergli un aiuto economico. So che comunque, con i nonni, non aveva avuto vita facile, dopo la separazione, intendo… Non hanno mai digerito l’idea che lei abbia lasciato la famiglia». «E suo padre può averla aiutata in qualche modo? Dandole del denaro per la macchina?». Eva scosse la testa. «Mio padre si è sempre ritenuto la parte lesa. Prima che mia madre trovasse un lavoro fisso – e sa il cielo quanta fatica ha dovuto fare per ricominciare alla sua età! – mio padre le passava solo ciò che il giudice aveva stabilito e che, in realtà, era veramente poco. Mia madre poi, quando era venuta a sapere che su quel poco denaro avrebbe anche dovuto pagare le tasse, era scoppiata a piangere. Me lo ricordo bene perché stavo scendendo dalla mia camera e lei era sulla soglia di quella che, fino a pochi mesi prima, era stata la casa di noi tutti. Mio padre era in piedi davanti a lei e le stava confermando che, in effetti, lui era a conoscenza della tassazione. Lei non riuscì a rispondergli, mi guardò con gli occhi gonfi di lacrime e mormorò che non se la sentiva di stare lì quel giorno, con me e i miei fratelli. Era venuta per noi, passava a trovarci ogni pomeriggio, ma io stavo male ogni volta, non sapevo cosa dirle, mi sembrava un’estranea ostile. Il giudice ci aveva affidati a mio padre e io non sopportavo quello che lei ci stava infliggendo». Tacque per un istante, scrollò la testa. «Ci sono stati momenti difficili allora, non solo per lei, anche per noi. Ci siamo ritrovati senza di lei da un giorno all’altro. Lei si era trasferita nella sua nuova casa ma ogni mattina, per molto tempo, non aveva abbandonato l’abitudine di prepararci la colazione e allora tornava, gli occhi pesti, lo sguardo che cercava il nostro e il nostro che sfuggiva il suo. Non so perché lo facesse, io e i miei fratelli non avevamo bisogno di lei per la colazione… Io avevo bisogno di lei e basta… Pier e Dan avevano bisogno di lei… Vederla in quel modo ci irritava e ci faceva male. Lei non ci aveva fornito molte spiegazioni sulle ragioni della separazione, non so se per pudore o per tutelarci in qualche modo. E noi, che eravamo rimasti con mio padre, sentivamo solo la versione che ci forniva lui e lo vedevamo quando, a tavola, appoggiava di colpo la forchetta sul piatto e si prendeva la testa fra le mani mormorando: ‘Non le ho mai fatto mancare niente… niente…’». Tacque e guardò Brizzi. «Ci sono voluti anni per capire


22 qualcosa, per renderci conto che mio padre era… è… una persona difficile, molto difficile. È un uomo estremamente rigido, concentrato sui propri bisogni e lontano anni-luce dai bisogni degli altri, quelli profondi, veri, quelli del cuore. E poi è convinto di avere sempre ragione… Ho anche saputo, da altri, che perfino il suo avvocato si era stupito che un uomo così ricco non avesse intestato nulla alla moglie e le passasse degli alimenti modestissimi… Mi scusi lo sfogo» concluse sorridendo. «Non ha niente di cui scusarsi. Tutto ciò che può contribuire a produrre un quadro della situazione può essere d’aiuto per rintracciare sua madre, ammesso che voglia essere rintracciata…». Eva non replicò, si guardò attorno, allargò le braccia. «Non c’è nemmeno un biglietto, una piccola indicazione, un saluto frettoloso. Se n’è andata anche stavolta» concluse con tono amaro. Il sole illuminò all’improvviso lo studio ed Eva si voltò di scatto, poi scosse la testa. «Che scema, di colpo ho pensato che fosse tornata». Scoppiò in lacrime e andò a sedersi accanto alla finestra. «Ma se stava così male da dover scappare, perché non ha detto niente?» chiese, alzando gli occhi umidi verso Brizzi. Lui si sedette e sfiorò con le mani le venature e i nodi del tavolo di abete. «Mi è capitato di tutto, in tanti anni di lavoro: c’è chi urla il proprio dolore ai quattro venti, c’è chi si appoggia emotivamente anche a degli sconosciuti pur di placare l’agitazione, c’è chi si tiene tutto nel cuore e si consuma… Sua madre non aveva nessuno con cui parlare?». «Oh sì, lei ha diverse amiche e amici, e qualche collega con cui si trova bene». «Proverò a sentirli. Mi potrebbe scrivere i loro nomi?». Eva prese un foglio e una biro e cominciò a stendere un elenco di nomi, poi si fermò, si asciugò le lacrime che ancora le scivolavano lungo le guance e mormorò: «Ma perché a me non ha detto niente? Né a me né ai miei fratelli? Loro lavorano lontani, ma la mamma li sente un paio di volte alla settimana e poi si vedono in Skype; e loro tornano almeno una volta al mese…». «Possiamo solo azzardare delle ipotesi, per esempio che un vecchio dolore, che riguardava anche voi figli, sia rispuntato senza preavviso. Sa, le vecchie ferite, se non sono state curate adeguatamente, se non sono state medicate, disinfettate, suturate, si riaprono a distanza di anni. A volte basta un nonnulla, un’occhiata per strada che ci ricorda qualcuno,


23 un sogno, una casa, un odore, una frase sgarbata e il dolore riparte, fresco e pungente come allora…». Quando si chiusero la porta alle spalle le nubi erano scomparse e il sole splendeva chiaro sulle pozzanghere. L’aria aveva un buon profumo e Brizzi, istintivamente, voltò il viso verso il Montedus: sulla cima c’erano ancora alcune lingue di neve. Un collega gli aveva detto che perfino a luglio, in certi anfratti a settentrione, si potevano trovare i resti delle slavine invernali. Non era mai salito fin lassù, lui era uomo di mare, ma con quella montagna ormai aveva confidenza: gli dava un confine, un orizzonte chiuso e, al tempo stesso, gli faceva fantasticare che ci fosse un varco verso altri mondi, che stavano oltre quelle vette e quei valichi. «Vorrei lasciarle le chiavi della mamma» disse Eva, gli occhi ancora umidi, accomiatandosi. «Non crede che sia prematuro? Potrebbe tornare…». «Vorrei che lei entrasse senza di me; forse così non la fuorvierò con le mie impressioni. Per piacere…» disse porgendogli il portachiavi. «D’accordo, andiamo».


24

QUATTRO

Alcune settimane prima aveva cercato il suo nome sulle pagine bianche di Lecco: Curzio c’era ancora. L’aveva preso come un buon segno. Aveva chiuso la pagina di internet e aveva ripreso il lavoro. Ma quel nome era rimasto lì e il ricordo la consolava. Poteva essere un buon posto dal quale cominciare. Forse il figlio si era trasferito da lui dopo la morte della madre, mancata molti anni prima. Un tumore al pancreas, se non ricordava male. Eppure era giovane, una quindicina d’anni meno di lui, le aveva raccontato Curzio. Era una bella donna, l’aveva vista in una fotografia del giorno delle nozze che Curzio teneva nel portafoglio; bella però – aveva commentato Curzio – lo era rimasta per poco tempo, perché dopo la nascita del bambino aveva continuato a ingrassare, mangiando in maniera smodata, dando la colpa alla mancanza delle sigarette. «In realtà si rimpinzava di dolci fin dalla nascita di Giovanni. Non muoveva un passo senza la macchina e poi… poi ha cominciato a bere; prima era una cosa da poco, diceva che, finito l’allattamento, aveva bisogno di regalarsi quei piccoli piaceri che le erano stati negati per tanti mesi e poi…» aveva aggiunto Curzio amareggiato, «poi dal bicchiere di vino è passata ai superalcolici. E purtroppo, spesso, a causa mia…». Erano seduti, in quell’estate lontana, ai tavolini del bar nel parco del castello, e lui aveva allungato una mano per farle una carezza. Lei era arrossita e aveva abbassato la testa, nelle orecchie la canzone di Ivan Graziani che una radio, dall’interno, mandava fino a loro: “Le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse… e la giacca a vento… Oh, Marta io ti ricordo così…”. Avevano ascoltato l’intero brano in silenzio. Nei mesi successivi, quando da lui arrivavano cartoline dagli angoli più disparati della provincia di Lecco, lei ascoltava in maniera ossessiva quella musica, fantasticando sulla passeggiata a lago dove lo immaginava al braccio della moglie nelle domeniche di sole. Negli anni successivi, quando la vita aveva cominciato a farsi fosca, non aveva


25 perso la speranza che accadesse una magia, che Curzio le comparisse davanti e la strappasse da una realtà dolorosa. Erano passati quattordici anni dall’ultima telefonata muta che Iris gli aveva fatto. Al suo «Pronto?» non aveva poi trovato il coraggio di rispondere: aveva sentito il cuore liquefarsi e aveva serrato le labbra senza riuscire a dire una parola. «Pronto?» aveva ribadito con tono infastidito la voce di Curzio. Poi, dopo un istante, aveva chiesto: «Iris?». C’era un velo di speranza in quella domanda e lei, tremando, aveva spento il cellulare. Era tutto così difficile in quei giorni, disperatamente difficile! Lei si aggirava da sola nel piccolo appartamento dove ogni cosa le risultava estranea; Eva, Pier e Dan erano stati affidati al padre e lei si sentiva come una mosca prigioniera in un bicchiere capovolto. Sui muri da ridipingere c’erano decine di piccoli fori, i segni dei chiodi lasciati da chi aveva vissuto lì prima di lei, e quei buchi, silenziosi testimoni della vita di altri, le procuravano un dolore insormontabile. «L’altro ieri ha telefonato un tuo conoscente di molti anni fa» le aveva comunicato Dan, giorni dopo, con il tono asciutto e prudente che usava con lei da quando se n’era andata. «Voleva parlarti». Lei aveva annuito, ma non aveva chiesto nulla. «Ha detto che richiamerà. Devo dargli il tuo numero di cellulare?». «No, grazie». No, si era detta allora, non poteva appoggiarsi a lui. Doveva provare a camminare da sola. *** Quando arrivò a Lecco il lago era immobile, grigio e lustro come se qualcuno ci avesse steso sopra una pellicola trasparente. Parcheggiò in una piazzetta tranquilla, periferica. Una panetteria stava aprendo la saracinesca e il profumo allettante di pane appena sfornato inondò le vie circostanti. Iris entrò, si guardò attorno nella piccola bottega, scorse il panettiere che lavorava oltre una porta, udì un ciabattare indistinto e vide comparire una donna dallo sguardo assonnato. «Cinque di quelli, ben cotti» chiese Iris, indicando dei panini tondi, lucidi e dorati. «Non se li mangi caldi!» le gridò appresso la bottegaia e lei si voltò e le fece un cenno con la mano, poi andò a sedersi su una panchina poco lontana, tenendo il sacchetto aperto tra le braccia. Ogni poco avvicinava


26 il naso e inspirava la fragranza tiepida, che la riportava all’infanzia, all’irresistibile “pane di padella”, tondo, basso e lustro come una padella di rame, dorato all’esterno e soffice all’interno, che sua nonna teneva in una sporta di tela, appesa a un gancio dietro la porta del cucinino. Da quanto tempo era morta sua nonna? Trentadue anni, calcolò, eppure quasi ogni giorno le tornava alla memoria. Le vacanze da lei, in paese, rappresentavano la libertà assoluta: lunghe strade bianche sulle quali correre, campi di granoturco da attraversare per stanare nemici immaginari, angurie dolci di sole, more di gelso da gustare a manciate e da spremere per farne inchiostro con cui scrivere mappe del tesoro… Alcuni operai, con i pantaloni da lavoro macchiati di pittura e calce, si muovevano lenti in bicicletta, chiacchierando fra loro. Il lago aveva preso delle sfumature rosate: in breve il sole lo avrebbe illuminato in pieno. Staccò un pezzetto di pane e lo portò alla bocca, lasciandosi inondare dalla malinconia. «Va tutto bene, mama?» chiese una voce accanto a lei. Si voltò e sorrise al ragazzo africano: poteva avere sì e no vent’anni. «Sì, grazie, sono solo… stanca… stanca…». «Non puoi dormire?». «Io…» scosse le spalle. «Tieni» disse lui levando da un mazzo un braccialettino di stringhe multicolori che le legò al polso sinistro. Iris fece per prendere il portafoglio, ma il ragazzo la fermò con un cenno: «Tu non devi pagare per questo, questo è regalo. Porta fortuna, vedrai! Ciao, mama!». Le sorrise e si allontanò. «Grazie» mormorò lei, poi gli fece un saluto con la mano quando lo vide salire al volo su un autobus. Il lago, illuminato dal primo sole, aveva bagliori grigi e verdi. «Le scarpe da tennis bianche e blu, seni pesanti e labbra rosse e la giacca a vento» le risuonò dentro all’improvviso. «Oh, Marta, io ti ricordo così, il tuo sorriso e i tuoi capelli, fermi come il lago…». Anche lei, come Marta, a vent’anni aveva labbra rosse e seno prosperoso e capelli lunghi e diritti, che scendevano senza alcun fascino sulle spalle, anche lei indossava scarpe da tennis e aveva un padre severo che degli anni di lotta partigiana parlava poco, solo brevi accenni, quasi a voler cancellare i ricordi peggiori, le paure, le preoccupazioni, gli abusi dei tiranni.


27 «E adesso?» si chiese alzandosi. Cos’avrebbe dovuto fare? Presentarsi a casa di Curzio, scrutarlo per capire se il ricordo di lei era ancora vivo, osservarne lo stupore, cercare una nuova possibilità? La passeggiata lungo la riva era gradevole: doveva aver piovuto fino alla sera prima, perché in molti punti, dove l’asfalto cedeva spazio alla ghiaia, c’erano profonde pozzanghere nelle quali merli e passeri si avventuravano per bere e lavarsi. Tornò alla macchina, appoggiò il sacchetto del pane e riprese la passeggiata. Il centro ancora non si era svegliato, ma i bar avevano già aperto i grandi ombrelloni candidi. Un uomo con un grembiule grigio spazzava il marciapiede, riunendo foglie e rami spezzati, carte portate dal vento e mozziconi. Iris compì un lungo giro, senza mai arrivare alla strada in cui sapeva che abitava Curzio. Comprò un giornale, si sedette a un bar e ordinò cappuccio e brioche. Quando se ne andò levò dalla borsa il contenitore dei cd e lo appoggiò sopra un cestino dei rifiuti. Quella musica aveva senso con il suo passato. Adesso doveva cercarsi altri suoni. Quando lo vide non ebbe dubbi: camminava con la schiena diritta che sempre gli aveva invidiato, gettando occhiate noncuranti a destra e a sinistra. Si levò il cappello per salutare una coppia di conoscenti e Iris notò che i capelli gli erano diventati completamente bianchi. Lo vide dirigersi verso i tavolini di un bar, in un angolo riparato della piazza, e sedersi accanto a un altro uomo, capelli bianchi e viso rubizzo. La barista doveva conoscerli, perché si avvicinò, disse qualcosa e si allontanò. «Il solito?» era parso a Iris di leggere sulle labbra della ragazza. Quindi era un frequentatore abituale di quel bar: magari ci andava tutte le mattine a fare colazione e a leggere il quotidiano. Perciò avrebbe potuto trovarlo lì anche nei giorni successivi. Perché ora non ce la faceva. Non ce la faceva proprio. Il cuore le stava andando in pezzi. Prese un respiro profondo. «Non ho nulla da perdere… Nulla da perdere… Anche se non mi riconosce, che importa? Sono passati più di trent’anni, le mie guance rotonde sono scomparse, ho tagliato i capelli, ho le rughe… Cosa diavolo ci sto a fare qui?». Appoggiata a uno dei pilastri in pietra che sostenevano un portichetto, osservava Curzio senza essere vista.


28 E se fosse partito il giorno seguente per quella sua casa ai piani dei Resinelli? No, non poteva perdere l’occasione, doveva provare, ma il cuore le faceva così male che dovette prendere fiato un paio di volte prima di avvicinarsi lentamente ai tavolini e scivolare su una seggiola. Curzio e il suo amico stavano leggendo i quotidiani e non la notarono. Fu solo quando la barista le si avvicinò per l’ordinazione che i due uomini gettarono un’occhiata distratta verso di lei per sprofondare poi nuovamente nella lettura del giornale. Curzio però, dopo un istante, alzò la testa e, da sopra gli occhiali, la osservò stupito. Poi si levò gli occhiali, si guardò attorno sconcertato, quasi a chiedere conferma dei suoi dubbi a qualcuno, e la osservò nuovamente. Un’improvvisa vampata di rossore gli coprì il volto. Iris arrossì a sua volta e sorrise. «Ciao Curzio» mormorò a fior di labbra. Lui appoggiò una mano sul braccio dell’amico e gli disse qualcosa. L’uomo levò lo sguardo in direzione di Iris, le fece un cenno con il capo, poi scambiò alcune parole con Curzio, che si alzò e si diresse lentamente verso di lei. Iris avrebbe voluto restare signorilmente seduta ad aspettarlo, ma non riuscì: si alzò, sentì che gli occhi le si riempivano di lacrime, scostò la seggiola e mosse un passo verso di lui. Quando Curzio l’abbracciò, si lasciò avviluppare dall’aroma delicato di colonia, poi si scostò e lo guardò in viso senza riuscire a dire nulla. «Iris… Iris. Stai bene? Santo cielo, sei… sei davvero tu! Solo un po’ più magra» le sussurrò Curzio tenendole le mani. «Sono invecchiata» aggiunse lei sorridendo. «Anch’io, più di te! Santo cielo, santo cielo, io… io sono felicissimo di vederti. Come stai?». «Bene, e tu?». «Per i miei settantatré anni me la cavo». «Vai ancora in montagna?». «Sì, quando comincerà il caldo mi trasferirò ai Resinelli. Tu sei in vacanza?». «Diciamo di sì». Curzio si guardò attorno: «Sei qui da sola?». «Sì, in tutti i sensi». «E quanto ti fermi?». «Non ho ancora deciso».


29 Curzio dovette leggere qualcosa nel tremolio del sorriso. «Va tutto bene?» chiese. «Hai dei problemi? Sei ammalata?». «No, no, no, avevo solo bisogno di cambiare aria, anche se, ogni volta in cui penso che, andandomene per un po’, le cose si sistemino, mi viene in mente quell’aforisma di Orazio che mi declamasti tu allora: Coelum, non animum mutant qui trans mare currunt». «Non cambiano il loro animo, ma solo il cielo, coloro che attraversano il mare!» recitò Curzio. «Oddio, Iris, ancora te ne ricordi?». «Sì, perché probabilmente andava a colpire un punto dolente già a quei tempi. L’inquietudine mi ha sempre accompagnata». Le prese nuovamente le mani: «Sono stati anni buoni?». «C’è stato del buono e del cattivo; molti buoni ricordi e molte ferite. E tu?». «Sai quanto mi sei mancata? Non sai che per anni ho sperato… Avevo richiesto più volte che mi mandassero di nuovo nella tua città, ma non è più capitato». Iris annuì: «Allora, se oggi hai tempo e ti va possiamo passare qualche ora insieme». «Sono un pensionato, ho tutto il tempo del mondo. Tu quanto puoi restare?». «Non ho programmi». «Allora, senti, la casa su ai Resinelli è libera; mio figlio ci è stato un paio di settimane fa, perciò sarà pulita. Ora lo avviso che salgo, che non mi cerchi qui in città; accendiamo la grande stufa e, intanto che l’appartamento si scalda, ce ne andiamo a mangiare fuori, in una bella trattoria, e ci raccontiamo questi anni. Oddio Iris, mi hai ridato la giovinezza».


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CINQUE

Brizzi aveva seguito la riunione distrattamente, sentendo in tasca il peso di quel portachiavi non suo, rimuginando su quella Iris Delugli, alla quale non sapeva neppure dare un volto. A casa sua non aveva visto fotografie, nessun altarino autocelebrativo con le immagini del diploma, della laurea, del matrimonio… Neppure lui aveva fotografie proprie in casa e i suoi le avevano tolte anni prima, quando Sara era sparita con Jasmine… Jasmine aveva un enorme elefante giallo, non se ne separava mai, adorava i colori brillanti. Anche l’ultima volta in cui l’aveva vista, ormai donna – anni prima – aveva fra le mani un mazzo di fiori gialli. Un bel colore, un colore adatto alla giornata estiva della Liguria. Perché era là che Jasmine viveva. Da sempre. Da quando se n’erano andate, da quando Sara gliel’aveva portata via. I maltrattamenti, in realtà, non c’erano mai stati. Solo uno strattone, solo parole urlate uno in faccia all’altro, quelle sì, quasi ogni giorno, e porte sbattute, quando non se ne poteva più. Ma perché non aveva capito subito che lui e Sara non erano fatti per stare insieme, per creare una famiglia? Eppure i segnali c’erano stati: quelle domeniche noiose, perse a passeggiare sul lungolago, senza dirsi nulla se non banalità, quelle serate insulse a guardare sciocchi programmi in televisione, perché lei non amava né il cinema né il teatro; il sottile disprezzo di lei, quando, alzando impercettibilmente il sopracciglio sinistro, lo presentava a dei conoscenti e diceva, quasi scusandosi: «Eh lui, sai, è un tutore dell’ordine». Ma perché lei aveva insistito? Perché aveva voluto sposarlo, se poi aveva cercato in tutti i modi, ogni giorno, di cambiarlo? E perché lui si era supinamente adagiato in quel matrimonio, arrampicandosi sugli specchi per adeguarsi all’impossibile, incomprensibile modello di uomo che lei doveva avere in mente? Erano trent’anni che se lo chiedeva, ma ogni volta evitava di andare a fondo.


31 E poi lei era scomparsa. Via, lei e Jasmine; lontane, in Liguria, dove le avevano scovate i colleghi, perché lui non si era dato pace: aveva assillato a tal punto Davide, l’amico e collega di allora, finché lui l’aveva rintracciata. «Però ora che sai dove abita, e sai che stanno bene entrambe, non la devi chiamare; ci siamo capiti? Nemmeno telefonate mute le devi fare, non la devi minacciare, non devi andare a passeggiare sotto le sue finestre; siamo d’accordo?» aveva esclamato Davide tenendogli una mano sul braccio. Erano seduti al bar del castello, in fuga dal caldo del pomeriggio: dalla fossa dei daini saliva l’afrore di selvatico che Brizzi avrebbe associato per sempre a quella giornata. Strano come gli fossero rimasti in testa alcuni particolari di quei momenti: dal bar arrivava attutita una canzone di Ivan Graziani e poi… poi c’era una coppia al tavolino accanto al loro, una coppia insolita, lui oltre la mezza età, forse il padre, lei una bella ragazza con un abito giallo leggero, svolazzante, che le ricadeva lungo le gambe e si muoveva a ogni alito di vento. Ma l’uomo non poteva essere il padre: lo sguardo che le rivolgeva non era quello di un genitore. Davide aveva preso una granita alla menta e lui aveva bevuto l’ennesimo caffè della giornata. «Ti ci rovinerai il fegato…» aveva borbottato Davide. «Mangiaci almeno qualcosa, che sei magro come una sardina!». Brizzi aveva preso fra il pollice e l’indice una patatina, l’aveva guardata come fosse stata la prima volta che ne vedeva una e infine l’aveva lasciata ricadere nella ciotola di terracotta che la barista aveva messo loro davanti. Non aveva fame. In mensa piluccava quello che si vedeva nel vassoio senza riuscire a ricordare come ci fosse finito. La sera cercava di rammentare i piatti preparati da Sara ma non gli veniva in mente niente di speciale. Le pietanze di sua madre erano una lontana memoria, alla quale ripensava con malinconica irritazione. Doveva rifugiarsi nel ricordo dei piatti di nonna Berta per sentirsi consolare e allora rammentava le polpette sapide dorate nel burro, le frittate con la cicoria di campo, le insalate di pomodori e cetrioli appena colti nell’orto, croccanti e ancora tiepidi di sole… Nei giorni dell’abbandono, lontani e dolorosi, era andato al paese, era passato fra le vecchie strade ad annusare i profumi di cibo che uscivano dalle case: socchiudeva gli occhi quando sentiva l’aroma dell’aglio rosolato che lo riportava ai gesti, lenti ed energici, della nonna che preparava il ripieno per la gallina, a quel suo impastare gli ingredienti tritati, sminuzzati e grattugiati fino ad amalgamarli in un insieme verde-


32 giallo, dal quale, con gesto complice, staccava un boccone che gli porgeva con la punta delle dita: «Su, assaggialo, dimmi com’è», gli chiedeva. Era sempre ottimo, col pizzicorino dell’aglio e del prezzemolo raccolti nell’orto. Il profumo dolce dei mandarini gli riportava alla memoria certe sere d’inverno in cui, ancora bambino, tornava verso casa con suo padre che guidava in silenzio, teso e preoccupato, scrutando, alla propria destra, la riga bianca che segnalava il ciglio della strada oltre il quale scorreva, invisibile e insidioso, il profondo canale d’irrigazione. Erano sere di nebbie fitte e fra un paese e l’altro i campi fumigavano nel gelo che intirizziva la Bassa per settimane intere. Lui, abitualmente ciarliero, poco alla volta si lasciava conquistare dal sonno, scivolava sul sedile posteriore e, coprendosi con il cappotto di suo padre, si addormentava. Quando si risvegliava, il mattino successivo, apriva gli occhi nella propria camera in città senza nemmeno ricordare come ci fosse arrivato. *** «Brizzi, sei ancora fra noi?» udì alla propria destra. Annuì, sentendosi crescere dentro una stanchezza enorme, e cercò di dissimulare lo sbadiglio sfregandosi il viso con le mani. «Allora…» riprese il suo superiore. «Se il comma 5 dell’articolo 7 della legge in oggetto modifica come segue il contenuto della legge precedente…». Il dirigente aveva una voce cantilenante, che cullava più che tener desto l’interesse. Era friulano, come sua madre, ma sua madre a Grado ci era solo nata e aveva perso l’accento, così diceva lei, fin da bambina, perché andare a scuola con i bresciani le aveva modificato il tono, che era diventato brusco. I nonni, poi, a Grado erano tornati, ma sua madre, ormai legata alla città lombarda, era rimasta a vivere in un piccolo appartamento in centro. A Grado si era ripresentata solo per sposarsi in pompa magna nonostante la timida opposizione del futuro marito – così ricordava Brizzi dai racconti della sua infanzia – che avrebbe preferito una cerimonia più sobria. Dei parenti del padre, infatti, nelle foto del matrimonio compariva solo una dozzina di persone, mentre quelli di sua madre occupavano una tavolata infinita. Di quei legami familiari, da piccolo, aveva capito ben poco e quando andava a Grado in vacanza confondeva le persone; erano tutti zii e cugini, tutti lo conoscevano, lo


33 abbracciavano, gli scompigliavano i capelli e gli pizzicavano le guance ma lui riconosceva solo lo zio mutilato, che gli metteva una gran paura con quella manica vuota, che pendeva come l’abito di un burattino. Di loro, negli anni adulti, aveva perso ogni traccia, ma ancora rammentava le barche tirate a riva, le vele insolite, quadrangolari, multicolori, l’odore forte del vino nelle bettole in cui entrava con nonno Tino, il profumo aspro, che gli metteva l’acquolina in bocca, del pesce salato tolto dai barili e l’aroma del vento che accarezzava la laguna. Nel corso degli anni i campi in cui correva con i cugini erano stati invasi da brutti condomini e villette pretenziose e il mare si era fatto via via più lontano, fino a essere nascosto da palizzate, da muri, da siepi. Ma, sapendoli scovare, c’erano angoli in cui, infilandosi sotto una rete, lui e gli amici riuscivano a sfuggire alle maglie della sorveglianza per correre a raccogliere conchiglie da conservare poi, come un tesoro prezioso, una volta tornati in città. Non erano ricordi netti, ma frammenti, lampi nel buio. Alcune visioni tornavano però spesso a visitarlo, come quella di sua madre, giovane e bellissima, con un abito candido dalla gonna a ruota, una gran chioma di capelli ondulati, d’un biondo ramato, appoggiata al parapetto del ponte, sotto la scritta “Comune di Grado”. Chissà chi aveva scattato quella fotografia dai colori ormai stinti… La ricordava nell’album che suo padre ogni tanto sfogliava dopo la morte di lei. E poi c’era l’immagine dei tavolini all’aperto, dove i turisti centellinavano bibite colorate, trattenendo il giornale sfogliato da un alito di vento. Nonno Tino, in quei momenti, doveva riscuoterlo dal suo stupore perché lui si attardava ad ammirare le tovaglie agitate dalla brezza, i bicchieri di cristallo sfavillante e le cameriere con il grembiulino di pizzo candido; se ne fosse stato capace avrebbe voluto avere dei pennelli per riproporre sulla tela quei momenti... E ogni tanto tornava il ricordo di una chiesetta scrostata, modesta, dalla facciata semplice, senza un rosone ad adornarla, dove sua nonna lo portava la domenica per la messa: l’interno odorava di cera sciolta, per le molte candele poste davanti al quadro di Santa Tecla, e di cera per pavimenti che lustrava l’impiantito di cotto. C’era una lastra di marmo a terra, una tomba consumata dal calpestio, con un grosso anello di ferro infisso nel mezzo: lui si perdeva ad almanaccare, in quelle remote, sonnolente domeniche estive, e immaginava un cavaliere con la sua armatura, un crociato che avesse difeso il sepolcro di Cristo e fosse poi morto in patria per una misteriosa malattia contratta nelle terre del


34 Saladino, e fantasticava su anelli e pettorali d’oro e pergamene ingiallite scritte con il sangue… C’era il ricordo del Gran Hotel Metropole, forse il più bello negli anni della sua infanzia, maestoso e imponente; c’erano le decine e decine di cabine di tela nelle quali, a volte, si riusciva a gettare uno sguardo curioso per scorgere le nudità vietate; c’era il ricordo delle corse lungo l’argine, stretto alla mano del nonno, per sfidare il mare in burrasca che gettava spruzzi salmastri sulla passeggiata… Forse da allora gli era nato l’amore per il mare. O forse perché Sara si era trasferita in Liguria. «Non ci andare» lo aveva pregato Davide serrandogli il braccio quasi con rabbia. «Solo per la bambina, per rivederla un attimo, da lontano» gli aveva risposto spostando con la scarpa la ghiaia sotto il tavolino. «Non fare stupidaggini, Alfio. Non metterti nei guai. Sono passate settimane, se Sara avesse avuto ripensamenti ti avrebbe telefonato». «Sara non mi vedrà nemmeno. E comunque le sue accuse sono false: l’ho solo strattonata, ma c’eravamo unicamente io e lei, la sua parola contro la mia. Jasmine dormiva, altrimenti sarebbe scoppiata in lacrime, come sempre quando noi litighiamo… litigavamo». Davide non aveva detto nulla. «Ho comprato un giocattolo per Jasmine, guarda» aveva detto Brizzi aprendo un sacchetto. «E quindi vuoi incontrare Sara?». «No, lo lascerò in portineria, perché Sara sappia che sono passato ma che non avevo intenzioni cattive…. Magari ci ripenserà». «Senti, Alfio, c’è una cosa che non ti ho detto, che è risultata dalle indagini». Il tono di Davide era nervoso, il viso tirato. «È successo qualcosa alla bambina? Dio, se le è successo qualcosa…» ed era balzato in piedi per sedersi quasi subito: Davide gli aveva afferrato un braccio con energia. «Jasmine sta bene, stava bene, quando i colleghi di là mi hanno informato. Il fatto è che Sara non vive sola…». «Ottimo! Ha fatto in fretta!» era sbottato Brizzi passandosi una mano sul viso. La ragazza dal vestito giallo, al tavolino accanto, aveva alzato gli occhi verso di lui ed era arrossita guardandolo. Davide non aveva replicato, aveva bevuto l’ultimo sorso di menta, aveva appoggiato una banconota sul tavolo e aveva atteso che l’amico,


35 ammutolito, lo sguardo rivolto a terra, assorbisse il colpo. «Magari…» aveva mormorato Brizzi. «Magari quello esisteva già prima di me o durante la nostra storia. Magari è lui il vero padre di Jasmine…». Aveva serrato le labbra per fermare il tremolio del mento. «Ma cosa vai a pensare? Quella bambina è il tuo ritratto: ha i tuoi occhi, i tuoi ricci, avrà anche i tuoi difetti, no?» aveva cercato di scherzare Davide, ma Brizzi si era portato una mano al viso come per trattenere le lacrime. «Ti ringrazio. Ci vediamo fra un paio di giorni» aveva detto e si era allontanato di furia. Pioveva quando era arrivato ad Alassio; una pioggia sottile, leggera, vaporizzata. Si era appostato di fronte alla casa in cui Sara era andata ad abitare, ma per alcune ore non era accaduto nulla. Era uscito il sole e una brezza leggera aveva spazzato via nuvole e pioggia. Verso l’una era arrivata un’utilitaria: Sara era scesa dalla parte del passeggero, aveva preso Jasmine da dietro e l’aveva passata all’uomo che, dopo aver parcheggiato, era sceso a sua volta. Brizzi si era sentito morire: Jasmine stava in braccio a quello sconosciuto con tranquillità, gli tirava i capelli e lui fingeva di arrabbiarsi, poi la baciava sul collo e lei rideva, rideva felice. Brizzi avrebbe voluto precipitarsi là e strappargli la bambina dalle braccia, urlando: «Lei è mia figlia, mia figlia, capito?». E invece si era accasciato sul muretto, lasciandosi cadere come un vecchio privo di forze. Aveva seguito con lo sguardo la coppia felice che saliva in casa con la sua bambina e i sacchetti della spesa; aveva visto aprirsi le finestre del secondo piano, Sara che usciva a toccare i panni stesi sullo stendibiancheria, la piccola che trotterellava avanti e indietro sul balcone lungo e stretto. Poi le finestre si erano chiuse e lui era rimasto inerte, abbandonato. Provava una gran debolezza e sentiva la testa martellare come un tamburo. Si era avvicinato ai campanelli, aveva visto il cognome di Sara insieme a quello dello sconosciuto e si era allontanato di furia, inferocito; poi era tornato sui propri passi: non c’era portiere in quello stabile modesto, non c’era modo di far avere il suo piccolo regalo a Jasmine. Aveva scorto un negozio di fiori ed era entrato. La ragazza, che stava sistemando dei gigli dentro un vaso, doveva essersi spaventata


36 vedendoselo davanti con gli occhi da spiritato e, quando lui le aveva chiesto per favore di consegnare quel pacchettino all’indirizzo scritto sopra, aveva annuito intimorita, con la speranza di allontanarlo rapidamente dal negozio. Brizzi aveva ripreso la macchina, sentendo sul dorso e sulla nuca un peso insopportabile, come se un sacco colmo di pietre gli fosse stato appoggiato sulle spalle. Aveva guidato a lungo, allontanandosi il più possibile da quel luogo che lo aveva ferito. Aveva parcheggiato l’auto in uno spiazzo ed era rimasto immobile, lo sguardo perso nel vuoto, la mente fissa su un solo pensiero: Jasmine in braccio a quell’uomo. Poi delle grida gioiose di bambini l’avevano attirato all’esterno: scendendo una scaletta di pietra, si era diretto verso il mare. C’erano dei bambini che si rincorrevano lungo la riva e scappavano quando le onde stavano per lambire loro i piedi. Lui non avrebbe mai potuto giocare con Jasmine; non avrebbe potuto insegnarle a nuotare, a rincorrere una palla, a costruire castelli di sabbia. Non avrebbe corretto i suoi compiti, firmato le verifiche, bussato, irritato, alla porta del bagno per farla uscire. Non avrebbe potuto guidarla sulla strada della vita, irta di pericoli e fitta di insidie. L’altro sarebbe stato accanto a lei, le avrebbe tenuto la mano, l’avrebbe consolata, accarezzata, ripresa, rasserenata. L’altro, non lui. Era rimasto per alcuni minuti, col cuore stretto, a guardare i bambini, poi si era levato le calze e le scarpe, si era rimboccato i pantaloni e aveva cominciato a camminare. Aveva vagabondato fino a sentirsi sfinito, finché in testa gli erano rimbombate le parole di Davide: «Lasciala in pace, Alfio. Se non ti ha chiamato non ha avuto ripensamenti…». La sua bambina in braccio a quell’altro. La sera lui le avrebbe rimboccato le coperte, le avrebbe raccontato una favola per farla addormentare, l’avrebbe abbracciata… La sua Jasmine... in braccio a quell’altro… Il dolore gli mordeva lo stomaco e il cuore. Aveva dovuto sedersi sulla panchina accanto a una piccola chiesa candida dai muri rosi dalla salsedine. Aveva posato gli occhi sulla banderuola fissata sopra il crocifisso, seguendone i bizzarri movimenti dettati dai capricci del vento che arrivava a raffiche lievi. C’era qualcosa che lo avvinceva in quegli


37 spostamenti irrazionali, forse perché la sua stessa vita era così, strattonata a destra e a sinistra da forze che lui non riusciva a governare. Si era riscosso quando aveva sentito freddo alla schiena. Un piccolo gatto grigio, magro come un selvatico, gli si era avvicinato e si era strusciato alle sue gambe. Brizzi aveva allungato una mano e gli aveva fatto una carezza delicata sulla testa: il gattino aveva emesso un debole miagolio. «Ehi, vieni qui, vieni in braccio» gli aveva detto sollevandolo e ponendoselo sulle ginocchia. Il gatto doveva aver apprezzato quel gesto perché si era accoccolato mettendo le zampe sotto l’addome. Erano rimasti lì, il felino a farsi accarezzare e l’uomo a consolare il proprio dolore con le carezze. «Senti, adesso dobbiamo andarcene, qui ormai è in ombra, fa freddo» gli aveva sussurrato senza rimetterlo a terra. Si era infilato calze e scarpe e si era avviato verso il paese; era stato solo nel vedere l’insegna “Focaccia” che si era reso conto di non aver mangiato nulla dalla sera precedente. Aveva comprato un pezzo di schiacciata e si era seduto fuori dal negozio, su una panchina di legno, a sbocconcellarla: un boccone per sé e uno per il micio, che mangiava con la voracità di chi conosce la fame. Il negoziante era uscito a fumarsi una sigaretta e gli aveva fatto un cenno con il capo, una sorta di saluto. Brizzi non ricordava come mai l’uomo fosse poi venuto a sedersi accanto a lui. «Bello il gatto… come si chiama?». «Non è mio. Mi ha seguito, mi fa compagnia». L’uomo aveva annuito e aveva rivolto lo sguardo verso il mare. «Già, brutta cosa la solitudine… Farei bene anch’io a prendermi un animale, se non fosse che devo stare in negozio tutto il giorno…». Brizzi aveva assentito. «Il fatto è che mia moglie se n’è andata sei mesi fa…». Brizzi si era girato verso di lui. «Eh, sono stati mesi difficili… Prima le cure, le speranze, le attese, poi la sentenza: non c’era più nulla da fare e il tumore se l’è portata via. Mio figlio era imbarcato su una portacontainer, non ha potuto nemmeno tornare per i funerali: era dall’altra parte del mondo». Raccontava con frasi brevi, con la voce cantilenante dei liguri che a Brizzi piaceva tanto. Il dolore era lì, glielo si leggeva nelle rughe attorno agli occhi e nelle pieghe della bocca, ma cercava di sorridere quando gli mostrava la foto del figlio lontano e della moglie morta.


38 Non gli aveva domandato nulla, intuendo forse che anche in lui c’era un dolore profondo. «E ora che fa?» gli aveva chiesto quando Brizzi si era alzato per andarsene. «Eh, torno a casa, ho un viaggio lungo davanti…». «Ma vuol guidare col buio? Poi magari dalle sue parti trova anche la nebbia…». Brizzi aveva allargato le braccia. «Se vuole fermarsi da me, la stanza di mio figlio è libera e sempre in ordine, perché non si sa mai…». Brizzi, sorpreso dall’offerta e indeciso, aveva sollevato da terra il micio che giocava con le stringhe delle sue scarpe: «Il fatto è che domani a mezzogiorno devo presentarmi al lavoro e in più c’è il gatto, mi sembra che si sia affezionato…». «Può portare su anche il gattino. Qualcosa per cena preparerò, se mi dà dieci minuti: devo solo chiudere il negozio». *** «Direi che quanto abbiamo condiviso va bene a tutti, anche a te Brizzi?» chiese il dirigente. Brizzi annuì, pensando ai testaroli col pesto e ai pansoti alla salsa di noci che Armando gli aveva preparato in quell’occasione. Era stata una bella sera, uno squarcio di serenità in quei mesi difficili. Armando raccontava della moglie, dei dottori, dell’ospedale scomodo da raggiungere, del figlio che sarebbe tornato a breve, delle olive che quell’anno avevano reso bene. Brizzi, gettando ogni tanto un’occhiata al micio che leccava il piatto ai suoi piedi e giocava con le frange del tappeto, gli aveva fatto vedere la foto di Jasmine, gli aveva parlato del lavoro, di Sara, della reazione dei suoi, di Davide, di Dora… A mezzanotte le bottiglie vuote sul tavolo erano tre, il gatto dormiva rannicchiato su un vecchio panno di lana e Armando gli aveva mostrato la sua camera. Quando era ripartito, il mattino seguente, Armando lo aveva caricato di verdure dell’orto e lo aveva abbracciato. «Non farti abbattere, Alfio» gli aveva borbottato. «Ce la possiamo fare. Scrivimi ogni tanto e torna a trovarmi».


39 Quanti anni erano passati da allora? Una trentina‌ Armando era invecchiato bene, era sereno, circondato da una folla di nipoti, via via cresciuti. La piÚ piccola aveva dodici anni: doveva portarle un regalo, compiva gli anni proprio in quei giorni. E doveva telefonare a Bellomo, perchÊ gli cercasse un albergo. Era stanco. Quelle chiavi non sue gli pesavano in tasca. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


AVVISO NUOVO PREMIO LETTERARIO: In occasione del suo 10° anniversario, la 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio "1 Giallo x 1.000" per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2018) http://www.0111edizioni.com/

Al vincitore verrĂ assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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