Il bacio del diavolo

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In uscita il 28/4/2017 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2017 ( ,99 euro)

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ALEXANDRO BONANNO

IL BACIO DEL DIAVOLO

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IL BACIO DEL DIAVOLO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-092-4 Copertina: immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Aprile 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Agli amici, quelli veri che mi hanno sostenuto e aiutato in questa grande avventura.



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CAPITOLO I

Sophie Il sole bussava alla finestra. Lo ignoravo, così come il calore che penetrava i vetri e raggiungeva il letto dove ero sdraiata e dal quale non volevo alzarmi. Fissavo l’acchiappasogni che Daniel mi aveva regalato per il mio compleanno; mille fili attorcigliati attorno a un fiore viola nel mezzo. La mia immaginazione si era intrecciata a quelle cordicine e aveva dato loro la forma di una margherita. L’ennesima bella giornata; non pioveva da settimane ormai, e il caldo era torrido. Guardai lo schermo del telefono, che segnava le 12:36 e la notifica di un sms: “Sono usciti i quadri, ti passo a prendere tra poco”. “Bene! È il gran giorno” pensai. Tuttavia neanche l’idea di aver finito la scuola mi strappò un sorriso; forse solo un sospiro di liberazione. Mi girai cercando la parte fresca del lenzuolo, ma Daniel suonò il campanello dopo qualche secondo. “Non può essere già qui” borbottai nella mia mente scagliando il lenzuolo per terra. «Sophie, è arrivato Daniel» esclamò mia zia avvicinandosi alle scale del piano di sotto. «Lo so, digli di aspettare» risposi con la voce seccata e ancora un po’ stordita dal sonno. Entrai in bagno e per un attimo sobbalzai quando lo specchio mi restituì la sagoma del mio aspetto; ero orribile. Mi avvicinai per tracciare con le dita i solchi delle occhiaie grigie che evidenziavano senza pietà gli occhi rossi. Sbuffai distogliendo lo sguardo dal mio riflesso sgualcito e mi buttai sotto la doccia; palpebre serrate e acqua fredda. Poi mi trascinai nella mia camera e presi i primi abiti che mi capitarono sotto tiro: top, pantaloncino e converse. I capelli li avrebbe asciugati il vento piatto e afoso. Presi la borsa al volo e nell’impeto feci cadere per sbaglio la foto che era sulla scrivania. Solo un tonfo sordo, nessun vetro infranto. La raccolsi, spaventata che la cornice si fosse rovinata. Ci passai attorno le dita, quasi che accarezzandola riuscissi a chiedere perdono a quel ricordo per averlo maltrattato senza volerlo. Sentii che gli occhi mi si stavano allagando, potevo percepire il rossore farsi intenso, bruciarmi le ciglia. Alexander mi mancava ogni giorno e io, piuttosto che voltare pagina e farmi una ragione


6 della sua scomparsa, avevo preferito mettere un bel segnalibro proprio nel capitolo della mia vita in cui lui aveva deciso di fuggire. Smisi subito di lisciare i lati lignei della cornice e la posizionai quasi con forza sul comodino, girandola per non vederla, voltando le spalle al ragazzo che mi stava accanto nell’immagine. Scesi di sotto percorrendo i gradini velocemente e sorpresi Daniel a parlare con la zia. Appena mi videro abbassarono il tono, smorzando il discorso prima che potessi sentire. Avevano preso la brutta abitudine di parlare della mia fantomatica depressione quando non ero nei dintorni. Al diavolo loro e le loro preoccupazioni. Non ero depressa, semplicemente al momento non avevo molto per cui sorridere. Fissai Daniel turbata, e lui subito si mise sull’attenti scaraventandomi addosso la solita espressione preoccupata. Si confidava troppo spesso con la mamma di Alexander, e la cosa non mi piaceva affatto. «Andiamo!» gli dissi seccata. «Sophie, non vuoi mangiare qualcosa?» chiese lei. «No, grazie zia. Mangeremo qualcosa per strada» tagliai corto lasciando cadere lo sguardo sulla tavola stracolma. Si guardarono e si strinsero nelle spalle. Mi sentivo un po’ in colpa per essere così fredda, per non essere più io. Era come se fosse colpa di tutti se lui era andato via, ma in realtà ce l’avevo solo con me stessa. Avrei dovuto fare di più, l’avrei dovuto fermare subito. A quel punto non mi restava che mantenere la promessa fatta a mia zia a suo tempo. La macchina era parcheggiata sotto al sole. Appena presi posto, il sedile in pelle bollente mi fece balzare in aria. «Cazzo Daniel!» sbottai tirando su le gambe e facendo leva con i piedi sul cruscotto. Daniel perse un attimo il respiro alla vista delle suole sul pianale della Mercedes, ma non proferì parola. Pigiò stizzito il tasto d’accensione dell’aria condizionata e deglutì con amarezza l’ennesima mandata a quel paese che sapevo di meritarmi. Io deviai lo sguardo chinando rammaricata la testa su un lato, senza dire più nulla. Mi limitai a passare la mano sul filo di polvere che avevano lasciato le mie scarpe in segno di scusa. Daniel non parlò molto; quando mi vedeva così stizzosa non osava nemmeno interrompere i miei silenzi. Anche lui era cambiato. Non mi faceva più la corte in maniera spudorata, non era di quello che avevo bisogno. Era diventato una spalla su cui piangere, un sacco da prendere a pugni per scaricare la mia rabbia, qualcuno con cui potevo mostrarmi debole senza paure. Un amico. Parcheggiammo davanti all’ingresso. Frank, come un guardiano, era fermo di fianco allo stesso vecchio portone. Tutti i maturandi erano lì ad aspettare


7 che le porte si aprissero e il gruppetto delle nostre compagne di classe venne a salutarci. In realtà erano venute a salutare Daniel, la Mercedes con cui arriva ogni mattina era un ottimo mangime per le oche che sguazzavano nella scuola. Ciao Daniel come va? Ciao Daniel finalmente il grande giorno. Ciao Daniel! Ciao di qui, ciao di lì. Tutte con la stessa fastidiosa voce in falsetto. Lui ricambiò il saluto cordiale come sempre. Non ero gelosa, odiavo semplicemente il loro modo di approcciarsi e ancora di più il motivo del loro interesse. Daniel era un bellissimo ragazzo, ma fosse stato un poveraccio, loro non lo avrebbero degnato nemmeno di un distratto quanto veloce cenno del capo. «Ciao Sophie. Anche oggi col broncio? Sorridi ogni tanto» disse l’oca regina notando la mia espressione schifata. Tra il pensiero di metterle la testa sotto i piedi e quello di baciare Daniel sotto i loro occhi per farle morire d’invidia, vinse la terza opzione: la verità. «Tu sei sempre così troia o solo quando senti profumo di soldi?» Innalzai il tono a sfottò celando, neanche tanto, le parole. Lei mi guardò incerta, senza riuscire a realizzare se fosse possibile che io le avessi rivolto quella frase. «Scusami?» rispose assumendo un’espressione più agguerrita. «Tu continuerai ad andare a scuola o lavorerai per guadagnare subito dei soldi?» rettificò Daniel prima che potessi scandirle meglio ogni sillaba. «Hanno aperto le porte, meglio andare prima che si formi la fila» aggiunse portandomi via sottobraccio e sottraendomi alla mia stessa voglia di creare un inutile scompiglio. «Sophie, la smetti di litigare con tutti?» Mi voltai di scatto, infastidita. «E mollami!» gli ordinai dopo avergli lanciato un’occhiataccia per il suo rimprovero. Tirai via il braccio e allungai il passo lasciandolo indietro. Entrai nella scuola sentendo addosso il peso delle avventure che premevano su quei muri, eco di un passato recente. Avrei visto i quadri, mandato una foto a mia zia e, con lo stesso passo pesante, sarei uscita di lì. Non avrei permesso a nessuno di fermarmi. Non avrei permesso a nessuno di seguirmi. Nessuno. Avevo deciso. Giò era davanti alla bacheca ad aspettarci, dalla sua espressione di sollievo capii che ce l’aveva fatta. «Andata bene?» «Settanta! Meglio di così…» affermò con un gran sorriso. Tirai su una guancia cercando di ricambiare, ma era così finto che lo feci perdere anche a lui. Mi voltai verso la lista dei nomi ed eccomi lì.


8 Voto finale: 100. Qualche nome più giù c’era Daniel. Voto finale: 85. Daniel prese Giò e si lasciarono trasportare da un urlo di euforia. La maturità era passata e finalmente si aprivano le porte del futuro. Io non riuscivo a pensarci più di tanto. Il mio sogno di iscrivermi a psicologia l’avevo già accantonato, mi sarei presa un anno sabbatico. Il rumore delle loro risa e la gioia che pullulava dai loro volti felici mi contagiarono strappandomi un sorriso. Sicuramente era la cosa giusta da fare, sorridere. Avevo concluso i miei studi al meglio, avevo davanti a me una vita che attendeva solo di essere presa in mano e portata via, magari altrove. Finalmente ero libera. Libera di andare, libera di fare quello che desideravo. Rientrammo tutti a casa. Quando varcai la soglia di quella che era ormai diventata da tempo la mia abitazione, fui accolta dal profumo di dolci che la zia aveva preparato per festeggiare. Odore di forno misto a mele e cannella. Nell’aria potevo quasi intravedere la spruzzatina di cacao marroncino. «Cento» le comunicai passandole di fianco e prendendo un muffin al cioccolato. «Sei stata bravissima Sophie. Tua madre sarebbe orgogliosa» provò a commentare sperando in un dialogo. Io restai in silenzio mentre percorrevo le scale che portavano alla mia camera. Mi faceva male riservarle quel rancore, ma non riuscivo a farne a meno. Salii di sopra e chiusi fuori dalla porta della mia stanza il suo affetto, mettendo distanza fra me e le emozioni che mi venivano rivolte, tracciando attentamente tra me e loro una riga fatta di lacrime amare. Lei restò di sotto col sorriso interrotto dall’ennesima delusione. Mi odiavo e odiavo chiunque dimostrasse di volermi bene, specialmente lei, l’unica responsabile secondo la mia mente troppo offuscata da dolore e rabbia per essere obbiettiva. Aveva ragione, l’aveva sempre avuta, e io rifiutavo di ammetterlo. *** Un anno prima. «Lasciami zia, non posso restare qui mentre lui va chissà dove convinto di fare la cosa giusta. È solo uno stupido!» «Sophie, ti prego. Sono sua madre, credi che lo avrei lasciato andare se non pensassi che avesse ragione? Ho provato a proteggerlo con tutti i mezzi che avevo a disposizione, ma sono inutili. Non c’è niente che possiamo fare. Ha preso una decisione difficile, dobbiamo solo fidarci e sperare che trovi una soluzione. Dobbiamo credere in lui, è l’unico che può risolvere tutto.» «Bel modo che hai avuto di proteggerlo! Nascondendogli la verità e permettendo a chiunque di prendersi gioco di lui. Se avesse saputo non si


9 sarebbe mai ritrovato in questa situazione e avremmo potuto aiutarlo… avrei potuto fare qualcosa…» «Sophie, non possiamo fare nulla, gli siamo solo d’intralcio. Come fai a non capirlo?» «Ma come fai a vivere sapendo che dovrà affrontare il Diavolo in persona? Non hai paura che gli possa succedere qualcosa? Che possa morire? Che madre sei?!» Uno schiaffo sul viso mi zittì. «Ora basta, Sophie! Non ti permetto di parlarmi così! Alexander sa bene che il Diavolo non gli farebbe mai del male, al contrario lo farebbe a chi gli vuole bene per raggiungere i suoi scopi. Saremmo solo un peso per lui, qualcuno da proteggere mentre combatte qualcosa più grande di lui. Non gli serviamo a nulla, lo vuoi capire?» Non riuscii a replicare, fui in grado solo di poggiare il palmo della mano sulla guancia che mi pizzicava, quasi che quella sberla avesse messo un blocco alla mia capacità di raziocinio. «Mi dispiace Sophie, ma non posso permettere che tu te ne vada. Sei sotto la mia tutela e da qui non ti muoverai.» Mi avviai verso la porta fermandomi sull’uscio. Non ricordavo nemmeno l’ultima volta in cui mia madre aveva alzato un dito su di me e lei si era addirittura arrogata un diritto che non le spettava. «Tu non sei mia madre!» urlai a voce piena, chiudendo nello sguardo tutto l’odio che mi saliva da dentro. Vidi i suoi occhi inclinarsi, le pupille farsi oblique, la riga delle labbra assumere la forma di una parentesi sghemba. Si era resa conto dell’errore, e in fondo sapeva che non poteva porvi rimedio. Non poteva più tornare indietro e optò per rincarare la dose di durezza. «Legalmente sì, quindi si farà come dico io. Resterai un altro anno qui, compirai la maggiore età, e solo dopo aver preso il diploma potrai fare ciò che vuoi. Te lo prometto. Solo un anno e poi andrai ovunque tu voglia. Ti prego, Sophie.» *** Era giunto il mio momento. La zia non aveva più scuse per trattenermi. Ripensai a quella scena prendendo la valigia vuota dall’armadio. La posai sul letto e iniziai a metterci dentro le prime cose quando Daniel entrò in camera. Era stato a cena col padre ed era passato per darmi la buonanotte e fare pace dopo che per tutto il viaggio non gli avevo rivolto parola. Non ce l’avevo con lui in realtà, mi indispettiva solo la confidenza che aveva con mia zia, che molto probabilmente l’aveva chiamato nonostante fosse già tardi. Forse intuiva quello che stavo facendo e le serviva un pretesto, o un complice, per non lasciarmi andare. «Non hai perso tempo…» mi disse vedendo il trolley sul letto.


10 «Che ci fai qui?» risposi scostante. «Non mi piace andare a letto senza la tua buonanotte.» Lo fissai sollevando un sopracciglio, cercando di trasmettere a lui la poca credibilità che aveva quell’uscita ridicola. Come se non immaginassi cosa ci fosse sotto. «Ti ha chiamato lei? Le puoi dire che mi sto portando avanti con il lavoro, se sapessi dove andare partirei stasera stessa.» «Lo sai che non ti lascerei andare da nessuna parte da sola» disse chinando la testa su un lato. Gli lanciai una maglia invitandolo a darmi una mano. Nonostante il mio pessimo carattere degli ultimi tempi, era sempre lì pronto a lisciare i solchi che mi corrugavano la fronte. «Scusami per oggi, ero un po’ nervosa.» «Solo un po’?» «Daniel, vuoi fare pace o vuoi continuare? Lo sai che non ho problemi, vero?» replicai ironica. Per un attimo mi lasciò credere che volesse darmi una mano. Afferrò una maglia a caso dal mucchio e prese a piegarla prima in due poi in tre. Alla fine me la lanciò contro. «Allora? Quando hai intenzione di partire?» «Non appena troverò qualcosa, quindi tieniti pronto se vuoi venire anche tu» affermai concedendogli uno sguardo affettuoso. «Allora sei decisa?» continuò titubante. «Sì, assolutamente! Ci vediamo domani, buonanotte Daniel» conclusi prendendo il pigiama e dirigendomi verso il bagno. Lui restò un attimo lì a rimuginare su cosa potesse dire o fare per indurmi a cambiare idea. «Daniel… a domani» ribadii dalla porta appena prima di chiuderla. Una decina di secondi e sentii partire la mia suoneria. «Sophie, ti sta squillando il telefono» mi avvertì lui prima di andare. «Rispondi tu Daniel, sono nuda.» «Chi cavolo può essere a quest’ora?» borbottò afferrandolo. Guardò lo schermo, ma il numero era nascosto. «Ancora fanno questi scherzi anonimi?» proseguì seccato. Non sentendolo rispondere, aprii leggermente la porta facendo uscire solo il viso. «Perché non rispondi?» «Sarà uno di quegli stupidi scherzi, Sophie» tagliò corto lanciando il telefono sul letto. «Rispondi e metti il vivavoce» gli ordinai cercando di mascherare la speranza nei miei occhi. Daniel eseguì il comando alquanto scocciato. Fece scorrere il tasto verde sullo schermo e attivò il vivavoce.


11 Silenzio. Mi guardò con un’aria di sfida, quasi a sottolineare che ci aveva visto giusto, a sbattermi in faccia l’inutilità delle mie speranze, ché tanto era solo uno scherzo. «Rispondi» gli intimai sottovoce. «Pronto?» chiese poco convinto, intimorito dal mio sguardo. «Pronto?» ripeté più forte seguendo i miei gesti incalzanti e insistenti. «Ciao Daniel.» Due parole a labbra serrate, un tono quasi irriconoscibile. Quasi. Ero sicura che il turbinio che sentivo dentro si allacciava a quel tono, ricollegandolo al volto di chi lo aveva pronunciato. Qualcuno che così irriconoscibile non era. «Alexander?» invocai dalla porta «Alexander?!» Presi al volo un asciugamano attorcigliandomelo attorno alla meno peggio. In due secondi mi ero fiondata sul letto, ma la chiamata era già stata interrotta. Nell’aria solo un tu-tu-tu-tu rapido, un ronzio fastidioso come la speranza che avevo nel cuore e che, in quel momento, faceva lo stesso rumore. «Era lui, vero? Era lui?» dissi aprendo e richiudendo le varie funzioni del telefono in cerca di un numero che non c’era. «Sophie, sarà stato uno scherzo. Non è detto che fosse lui» asserì provando a farmi tornare con i piedi per terra. «Daniel, era lui, ne sono certa» esclamai consapevole che nessuno mi avrebbe portato via quel pallido raggio di luce che aveva squarciato il cielo tetro della mia testa. Corsi alla scrivania a prendere il portatile, dovevo subito trovare il modo di rintracciare quella telefonata. Schiacciai il tasto d’accensione. Due secondi, poi il primo schiaffo sulla scrivania. «Dai, accenditi!» Altri due o tre secondi e questa volta colpii il computer. «Quanto cavolo ci mette ad avviarsi!» ripetevo mentre le dita tamburellavano frenetiche sulla scrivania. «Sophie, calmati!» «Finalmente!» sospirai aprendo il browser. Google. Pagina bianca. Barra di ricerca. Risultati: denuncia all’arma dei carabinieri e una prassi lunghissima, ecco la risposta. «Che palle!» sbottai. Non sapevo nemmeno io cosa stessi facendo, ero inciampata nel filo logico della situazione, accecata dall’emozione, dai sentimenti, dalle mie stesse insensate connessioni mentali.


12 «Sophie, smettila. Non sappiamo chi ha chiamato, finiscila!» mi disse Daniel preoccupato dalla mia nevrosi. «No Daniel, era lui, lo sento. Lo sai anche tu che ha bisogno di noi. Ti prego, lo dobbiamo trovare!» Mi venne vicino e l’abbracciai sfogando tutte le lacrime che si erano accumulate dietro alle mie palpebre durante la lunga giornata. Lui mi stringeva senza dire nulla. In quel momento avvertii che in fondo anche lui aveva la mia stessa convinzione e in quella stretta realizzai di quanto anche lui non si rassegnasse all’idea di restare con le mani in mano. Ricambiai più forte, affondando la guancia sulla sua spalla. Non potevamo più aspettare, dovevamo rintracciare la chiamata. Dovevamo rintracciare lui. Da qualche parte «Non hai resistito vero?» «Stai zitta.» «È normale che ti manchino, sono la tua famiglia, non è…» «Ho detto zitta! Dobbiamo andarcene.» «Che sta succedendo?» «Stanno arrivando.»


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CAPITOLO II

Sophie Non chiusi occhio per tutta la notte, nella speranza che nel buio si facesse spazio la luce fioca e debole di un’idea. Aiutami era la richiesta che rimbombava da una parte all’altra della mia testa. Non riuscivo a elaborare un piano, una teoria, uno straccio di punto di partenza. Erano da poco passate le cinque, e con lo sguardo aspettavo un sole ritardatario. Fissavo le montagne, i profili ondulati assumevano un contorno a mano a mano che un tiepido azzurro colorava il cielo alle loro spalle. Ero imbambolata da quei colori che trasmettevano serenità, quando di scatto balzai come se qualcuno mi avesse punta con uno spillo. Qualche sinapsi ribelle aveva inviato al mio corpo il segnale: sveglia! Non sarei rimasta lì immobile ad attendere che la soluzione cadesse dal cielo. Ero sempre stata in grado di cavarmela da sola, trovare il modo di affrontare le cose, e quella volta non sarebbe stato diverso. Proprio mentre cercavo di raccogliere i miei pensieri, una voce venne a farmi compagnia. «Non riesci a dormire?» domandò ferma sulla porta del bagno. «Non mi ero accorta che eri lì» risposi abbassando lo sguardo e deviando il discorso che sapevo stesse per fare. «Ho sentito qualche rumore e ho pensato di venire a dare un’occhiata.» «Sto bene, puoi star tranquilla.» «Stai facendo le valige? Hai deciso allora» mi chiese con voce malinconica. «Ti prego zia, avevamo un patto. Prima il diploma, poi sarei andata via. Io ho mantenuto la mia promessa, ora tu mantieni la tua» replicai pregandola di non perseverare. Stavo facendo la scelta giusta, non era quello il momento di cedere ai sensi di colpa. «La sto mantenendo come vedi. Sei libera di andare, anche se non sono d’accordo. La vita è tua. Voglio solo che tu sappia una cosa…» Si avvicinò afferrandomi la mano e portandosela al petto. «Io ti voglio bene come se fossi mia figlia, voglio che questo non lo dimentichi. Alexander è andato via e ora anche tu. Non dimenticare che io sarò qui ad aspettarvi in ogni momento, perché ho solo voi nella mia vita.» La sua voce era timida e spezzata da un pianto che non concedeva lacrime, soltanto occhi lucidi.


14 «Zia, non fare così… mi puoi chiamare ogni volta che vuoi. Io tornerò, devi stare tranquilla. Vado solo a prendere quell’incosciente e… ingrato di tuo figlio prima che finisca in qualche guaio.» Per un attimo fu come dimenticare mesi di guerra fredda. Sul suo viso, l’abbozzo di un sorriso. Sul mio, un’increspatura altrettanto breve. Pochi secondi, poi lei si alzò di scatto e andò via prima che il suo dolore evadesse prepotentemente dalla prigione nella quale lei lo aveva imprigionato. Immaginavo non volesse rendermi partecipe delle forme che avrebbero assunto i suoi occhi, o la profondità dei solchi che la rabbia avrebbe scavato nella sua fronte. Cercava di nascondersi da me, e allo stesso tempo sapeva di non riuscirci. Ero furibonda. Mi sentivo sola, la sola a portare il peso della scomparsa di Alexander, la sola a essersi fatta carico della volontà e della speranza di ritrovarlo e salvarlo da se stesso più che dal male che, come diceva lui, poteva provocare standoci vicino. Raccattai qualche altro indumento e finii ciò che avevo lasciato a metà la sera prima: ormai la valigia era pronta. La zip chiusa dopo aver circumnavigato i confini del bagaglio era il segnale. Tutto era pronto per andare. Mi sedetti sul letto stringendo i pugni chiusi sulle gambe, gettai una rapida occhiata dalla finestra, speranzosa ma consapevole che non avrei di certo ancora visto arrivare Daniel. “Da dove comincio?” pensai lasciando correre le pupille da destra a sinistra, in salita e in discesa sui profili dei monti come altalene. Non potevo pescare un posto a caso sulla cartina, mi serviva un punto dal quale iniziare e l’unica cosa che sembrava un indizio era la telefonata. Balzai dal letto alla scrivania scattando come una molla, aprii il portatile e, a mente lucida, cercai di capire in che modo avviare la mia indagine. In pochi istanti Google mi aveva restituito un reticolo di pagine, una ragnatela di informazioni più o meno ufficiali. Cercai di andare oltre ai primi deludenti risultati, ricordando a me stessa che in una delle O colorate in basso, con un po’ di pazienza, si poteva nascondere ciò che cercavo. Non potevo rinunciare. Dovevo spulciare tutti i siti. Finalmente, alla sesta o settima O colorata, mi arrestai. Ero finita su un forum in cui le donne si scambiavano suggerimenti su come spiare il proprio compagno. Quelle righe erano un vero e proprio indice di pratiche per violare la privacy di una persona. Saltai le varie parti che riguardavano appostamenti e finte corteggiatrici e andai diretta alla sezione sul cellulare. A una prima lettura non riuscii a trovare nulla che facesse al caso mio. Con un gesto di leggera stizza feci scorrere la pagina fino alla fine. Notai che in basso, finito l’articolo, c’era un riquadro dedicato ai commenti delle varie utenti. Fin dal primo mi resi conto che tra una di quelle frasi ci sarebbe stata la risposta che cercavo.


15 Infatti, quasi che emergesse dalla confusione dello schermo, a metà della sfilza di pareri c’era la mia ipotetica soluzione: “Ho fatto finta di attivare una promozione sul telefono del mio ragazzo. In questo modo, essendo stata io a registrarlo, tutti i dati e i numeri provenienti dal suo cellulare arrivavano direttamente a me. L’unica pecca di questo metodo è che le ultime tre cifre di un telefono sono oscurate”. «Grazie svitata!» esultai rivolgendomi al monitor. Aprii immediatamente il sito del mio gestore e feci la registrazione. Scorrevo il mouse tra le varie opzioni e poi eccola: visualizza i tabulati telefonici. Andai in basso, i pensieri al ritmo del lento gracchiare della rotella. Poi giunsi all’orario in cui avevo ricevuto la telefonata. 12 secondi > Numero sconosciuto > Scopri a chi appartiene questo numero. Cliccai senza pensarci un attimo e si avviò la pagina del servizio. Il costo per rendere visibile il numero era di pochi euro, ma anche fossero stati tanti, non mi sarei di certo fermata per taccagneria. L’unico problema erano le tre cifre finali. Oscurate. Tre asterischi a separarmi dal primo tassello del mio mosaico. Non mi lasciai scoraggiare. Secondo l’esattezza della probabilità matematica, avrei dovuto comporre circa mille combinazioni e, tra quelle, ci sarebbe stata quella giusta. Rubrica> Nomi> Daniel> Chiamata inviata. «Sophie? Sono le sei, cosa vuoi?» biascicò Daniel in modalità “sono sveglio ma sto dormendo”. «Ho trovato un modo per ritracciare Alexander, ho bisogno che vieni qui.» «Va bene, arrivo.» Me lo immaginavo, ancora sotto il piumone in piena estate, al freddo e al gelo del condizionatore che, stando a una delle sue teorie, era un metodo infallibile per combattere le zanzare. La simulazione dell’inverno. Mi meravigliai che avesse risposto subito; molto probabilmente, se non ci fosse stato il mio bel faccione a illuminare lo schermo avrei sentito solo un tuuu prolungato che teneva in sospeso la mia telefonata. “Wow, credevo opponesse più resistenza.” Passai di sfuggita davanti allo specchio e notai che stavo sorridendo. Non ci avevo fatto caso durante la telefonata, non avevo avvertito che all’improvviso le mie labbra avevano assunto la forma di una parentesi a pancia in giù. Credo che anche Daniel lo avesse avvertito. Il minimo che potevo fare era preparargli la colazione. Mi precipitai di sotto e iniziai ad armeggiare. Latte nel microonde, caffè sul fornello, qualche scatola di biscotti in tavola. Nemmeno la zia rimase impassibile al mio buonumore quando entrò in cucina, e per un istante l’unico in cui i nostri sguardi sfuggenti si incontrarono - ebbi chiara e netta


16 la sensazione che lei riconoscesse un po’ di se stessa e delle sue movenze in quel mio breve accesso di serenità. Daniel mi fece uno squillo sul cellulare quando fu davanti casa. Vista l’ora insolita, temeva di disturbare. Corsi ad aprire e lo accolsi con un sorriso. «Ti ho preparato la colazione, entra che il latte è pronto.» Il bip del microonde mi obbligò a concludere il nostro dialogo. Varcò l’ingresso con passo insicuro. Squadrava l’ambiente, quasi fosse alla ricerca di una trappola. Il mio umore destava sospetti e, quando salutò la zia, l’inarcamento delle sue sopracciglia si fece ancora più irregolare. Provava a capire con un gioco di sguardi cosa fosse successo, senza trovare certezze nella scrollata di spalle che gli rivolse mia zia Anna. Mi accorsi dei loro sguardi dubbiosi, ma preferii restare in silenzio. Morivo dalla voglia di dargli la notizia, ma dovevo resistere e aspettare che fossimo stati da soli. «Non basterà la colazione per farti perdonare, dimmi cos’hai scoperto» mi chiese curioso. Feci finta di non sentire. «Parla Sophie!» esclamò più forte rendendomi più difficile essere indifferente. «Ho trovato qualcosa» tagliai corto e a bassa voce non appena la zia si distrasse. La sua fronte si distese, sgranò gli occhi, quasi vidi dilatarsi le pupille e il colore delle iridi farsi più intenso. Mi afferrò per un braccio e mi trascinò verso la cucina, abbandonando la mamma di Alexander in soggiorno. «Allora, cos’hai trovato?» domandò impaziente. Esitai un secondo prima di replicare, il tempo che mi era necessario per soffermarmi sulla sua voce, poi sull’espressione del suo viso. Faceva di tutto per tenermi con i piedi per terra ma poi, alla prima vera occasione di rivedere Alexander, la spontaneità lo tradiva. Proprio come accadeva anche a me, nemmeno lui si era mai dato pace per la sua scomparsa; al contrario di Giò, che sembrava averla presa come la zia. Erano rimasti impassibili, rassegnati all’idea che aspettare fosse la cosa giusta da fare. «La telefonata dell’altra sera ti ricordi?» Daniel alzò gli occhi al cielo, deluso. «Perché fai così?» esordii sconsolata. «Dai Sophie, quante probabilità ci sono che sia stato davvero lui a chiamare? Sei troppo presa, hai talmente tanta voglia di trovarlo che non sei più lucida!» rispose freddando ogni entusiasmo. Presi qualche secondo, come se stessi davvero riflettendo sulle sue parole. «Daniel, ho una sensazione. Non posso trascurarla. Guardami.» Il suo sguardo restò basso.


17 «Daniel! Ho detto guardami!» ordinai alzando il tono e attirando a me tutta la sua attenzione. «Da quanto tempo non mi vedevi così? Vedi questo?» Indicai con gli indici il mio sorriso. «È da quando è partito che era sparito. Non so spiegarti cosa sia, ma ho un presentimento che mi rende fiduciosa e non posso smorzarlo, ne ho troppo bisogno. Sono stanca di essere la Sophie triste e malinconica che odia tutti. Voglio ritornare la spensierata ragazzina che ero, la ragazza intrepida che si lanciava dalle cascate. Voglio tornare a sorridere Daniel, lo voglio davvero!» Pronunciai quelle parole in un soffio, senza lasciare ai miei polmoni o al mio cuore una tregua. «Ti odio lo sai?» si limitò a dire Daniel, che anche quella volta non riuscì a dirmi di no. «Cosa facciamo?» domandò ondeggiando la testa in segno di resa. «Ricordi la telefonata di ieri sera? Adesso so il numero dal quale è partita» iniziai, fiera del mio operato. «Hai richiamato allora? È lui?» rispose tradendo il suo finto scetticismo. «Ma non avevi detto che era impossibile che fosse lui? Che era sicuramente uno scherzo?» «Dai muoviti e parla» replicò, colto in flagrante. «Non posso… ho il numero, ma le ultime tre cifre sono oscurate con l’asterisco.» «Come sarebbe a dire? Mancano gli ultimi numeri?» «Sì. Ma se ci pensi, facendo due calcoli, sono appena mille combinazioni. Nel giro di un paio di giorni potremmo trovare il numero giusto.» Mille chiamate in fondo non erano poi così tante da fare. Daniel mi fissava. Per qualche istante se ne rimase con un ghigno indecifrabile agli angoli della bocca. Non riuscivo a capire se stesse per avere un’illuminazione o si stesse facendo beffa di me e delle mie “sole” mille telefonate. «Cambiati che ti porto in un posto.» «Proprio ora? Dobbiamo fare le telefonate!» «Ora! Muoviti!» concluse deciso. Accettai senza indugiare oltre. Quando aveva quello sguardo determinato significava solo una cosa, che mi avrebbe stupito. Non esitai a eseguire il suo comando. Incrociai la mia immagine allo specchio, intuendo dagli occhi di Daniel riflessi dietro di me che forse sarebbe stato il caso di cambiarmi. Avevo addosso una tuta di Alexander e una maglia della Juventus vecchia di qualche scudetto. «Faccio in un secondo» sentenziai alludendo al mio abbigliamento.


18 Lui mi rivolse un’occhiata scettica. Conosceva bene i miei tempi “tecnici”, e di sicuro si aspettava di rimanere lì impalato per almeno un paio d’ore mentre mi cambiavo. Quel giorno però ero troppo eccitata per prendermela comoda; in pochi minuti ero già al piano di sotto. «Allora tutte le volte che mi hai fatto aspettare per ore cosa facevi?» «Ti sembra il momento di stare a polemizzare? Dove mi porti?» chiesi deviando il discorso ad arte. «A risolvere il tuo problema senza dover infastidire mille persone» chiarì con il tono di chi sapeva il fatto suo. Una volta usciti, presi a squadrare la strada alla ricerca della solita auto. «Vieni, è questa» mi disse Daniel fiero e orgoglioso del suo nuovo acquisto. «Bella, ma non è troppo da signore per te?» replicai mentendo per sgonfiare il suo ego. «Sei sempre la solita» concluse corrucciato. «Che fine ha fatto quella di ieri?» «È andata via con papà, che in compenso mi ha portato questa. Erano mesi che l’aspettavo!» Gli sorrisi rivelando la mia bugia. Era davvero bella, non sapevo che marca fosse o che modello in particolare, ma lo stemma era composto da quattro anelli argentati che davano luce alla tinta completamente bianca. I vetri erano scuri, non lasciavano intuire nulla di come fosse fatto l’interno. Aprendo la portiera silenziosa, però, il rosso dei sedili rendeva gli interni quasi accecanti. La pelle elegante emanava un odore intenso e piacevole, un po’ soppresso dal profumo per ambiente alla fragola. Avevo sempre pensato che l’odore naturale dei rivestimenti delle auto fosse depurante. Ero impaziente di provare a sedermi, e quando lo feci sentii gli occhi di Daniel seguire il moto del mio fondoschiena fino al posto del passeggero. Lo fissai fino a che non distolse lo sguardo e ritornò a guardarmi negli occhi, carichi di tacito disappunto. «Non ti sto guardando il culo Sophie, sto solo controllando i tuoi jeans per vedere se ci sono cerniere.» La mia fronte si aggrottò ancor di più. «I sedili, Sophie, si rigano con le cerniere. È vera pelle!» rivelò spazientito. «Non iniziare a rompere con questa macchina!» esclamai mettendo subito le cose in chiaro e strappando quel deodorante dal retrovisore per ristabilire le gerarchie. Lui mi guardò intensamente, riducendo gli occhi a due fessure. Poi mise in moto l’auto e partimmo. «Ok, è bellissima. Contento?» «Contentissimo!» «Non mi hai detto com’è andata con tuo padre alla fine…»


19 Approfittai di quel momento per capire se avesse risolto la loro disputa personale. «Mi ha portato la macchina nuova, va bene dunque…» La risposta era arrivata tra le righe, ed era quella che mi aspettavo. Non era cambiato nulla. Per un attimo gli lessi nelle pieghe ai lati degli occhi la delusione che non ero ancora stata in grado cogliere. Stava lì, nelle profondità delle zampette di gallina del suo profilo aggrottato. Non voleva niente più che presenza. Voleva un rapporto fatto d’affetto, non di regali. Invece no, suo padre era convinto di cavarsela con qualche marchingegno costoso per tenere a bada un figlio che non sentiva d’avere un padre. Lui andava via per mesi, come sempre, oltreoceano. Nessuna possibilità di sentirsi, vedersi, raggiungersi. Con il corpo, con la mente, con il cuore. Daniel nell’ultimo periodo si era addirittura convinto che il suo vecchio si fosse rifatto una vita e una famiglia nella destinazione di quei viaggi sempre più lunghi e frequenti. Ed era quello, più che l’assenza, a fargli del male. L’ipotesi di un rimpiazzo. Preferii cambiare argomento. «Allora… mi stavi dicendo che non volevi importunare nessuno. Dunque cosa si fa?» chiesi prima che potesse intristirsi ulteriormente. «A Genova c’è un negozio in cui lavora un mio amico. Lui è la nostra soluzione» disse in maniera convincente scrollandosi di dosso l’espressione cupa. «Ci possiamo fidare?» «È un genio.» Mi voltai verso il finestrino e iniziai a sperare, ma dopo qualche minuto a fissare gli alberi che via via superavamo lungo la statale, Daniel cominciò a tempestarmi con una serie di domande. «Se dovessimo scoprire dove vive cosa faresti? Arriveresti lì e poi? Lo trascini a casa? Resterai là con lui? Se avesse sistemato la questione con suo padre sarebbe già tornato non credi? Quindi come pensi di fargli cambiare idea?» I suoi interrogativi mi infastidivano, a volte pareva che non ci credesse quanto me, che la sua presenza al mio fianco fosse di pura sorveglianza. Se non lo avessi conosciuto bene e non avessi saputo che in fondo nutriva le mie stesse speranze, seppure con più obiettività, l’avrei già abbandonato proseguendo le mie ricerche da sola. Però aveva ragione. Non mi ero ancora posta il problema del cosa fare e di come farlo. «L’importante è trovarlo in questo momento, poi si vedrà. E comunque devi fare qualche lezione di italiano perché hai sbagliato tutti i verbi.» Daniel non capì a cosa mi riferissi e fui più precisa.


20 «Arriveresti… trascini… resterai… Sono tutti sbagliati, li devi mettere al plurale perché lo faremo insieme» esclamai alzando una guancia. «Tu sei pazza!» replicò fingendo che non gli importasse. «Quindi vuoi farmi credere che tu, Daniel Fata, mi lasceresti andare da sola, chissà dove, senza preoccuparti un attimo di quello che potrebbe succedermi?» «Te l’ho già detto che ti odio vero?» «Sì!» Quando arrivammo a Genova e aprii lo sportello, un odore nauseabondo mi perforò le narici. Parcheggiammo vicino a una banchina, zona porto, e l’odore della pioggia appena passata misto a quello del pesce mi costrinse a coprirmi il naso con la maglia. Tuttavia, nonostante l’impatto con l’olfatto, quella città mi incantava ogni volta. Il panorama e i colori delle case sembravano dipinti a olio, uno scorcio di un quadro di qualche pittore anonimo. I miei occhi furono rapiti da una villa antica. Mattoni rossi e bianchi delineavano il profilo della torre. Un mosaico impreziosiva l’entrata del balcone che dava sul mare e la veranda sembrava perfetta per una cena magica. Il negozio era poco distante e non appena fummo lì capii subito chi fosse l’amico di Daniel. «Come stai?» esclamò balzando fuori dal bancone per abbracciarlo e palesando nella voce un sincero affetto. «Bene, bene. E tu Fabri, come va il lavoro?» «Si tira avanti. Per fortuna che questi nuovi tablet si rompono in continuazione, quindi il lavoro non manca. Ma dimmi, cosa porta questo montanaro a venire quaggiù al mare?» «Mi serve un favore. Devi levarmi questi tre asterischi da questo numero.» Daniel prese il telefono e gli mostrò l’elenco dei tabulati, indicandogli col dito la chiamata che ci interessava più di tutte. «Mi dispiace Daniel, ma non si può aggirare la privacy. C’è l’arresto per questo» rivelò lui mortificato. Un bambino e il suo castello di sabbia. Un’onda un po’ arrabbiata. Il mare che si trascina dietro l’architettura giallo ocra. Daniel avrebbe avuto la stessa espressione di frustrazione. Io mi limitai a guardarlo e non aggiunsi commenti per evitare di sovraccaricarlo anche del mio dispiacere. Mi consolai pensando che avevo ancora la possibilità di fare le mie mille chiamate… ma se non fosse stato suo, il cellulare? O se avesse risposto qualcun altro al posto suo? Restava quell’unica remota possibilità, e andava tentata. Ci speravamo entrambi troppo e alla stessa maniera per fermarci a un “mi dispiace ma c’è l’arresto per questo”. «Era così importante?» chiese leggendoci negli occhi la stessa reazione.


21 «Sì, purtroppo ci serviva davvero. Un nostro amico è scomparso e non riusciamo più a metterci in contatto con lui. Pensiamo sia stato lui a fare quella telefonata, per questo è così importante» continuò Daniel. «Va bene così, non ti preoccupare» incalzai per esonerarlo dalla nostra richiesta che, ormai, aveva dipinto tra le sue iridi una sfumatura di indecisione. Avrei voluto forzare la mano, ma non a spese di qualcun’altro. «Se volete posso trovare la cella dalla quale è partita la telefonata. Può esservi d’aiuto?» «Quanto è precisa?» aggiunse Daniel. «Qualche isolato, dipende dalla zona.» «Va benissimo» intervenni sfoderando un sorriso sincero. «Ok, lasciatemi il telefono e ci risentiamo appena ho finito» pronunciò un po’ imbarazzato dallo slancio con cui gli porsi il cellulare. Lo prese avvisandoci che sarebbe andata via qualche ora. Io lo ringraziai stringendogli la mano. Daniel invece lo abbracciò, celando nelle mani che affondavano nella schiena dell’amico già tanta gratitudine. «Dici che ci sarà d’aiuto?» commentò lui per nulla soddisfatto quando fummo lontani. «Forse è anche meglio» dissi euforica. «Che intendi?» «Metti caso che avessimo il numero completo e, sempre posto che ci risponda lui, metti caso che riconosca la chiamata e decida di ignorarla. Che si fa dopo? Almeno, se capiamo da quale buco ci stava contattando, possiamo andare lì a controllare. Certo, numero e posizione sarebbero il massimo, ma speriamo bene.» La mia spiegazione lucida e razionale lo convinse. Il viso di Daniel si scrollò di dosso il velo di perplessità che lo oscurava. «Come lo conosci? Non è che ti abbia mai sentito parlare di lui…» chiesi per curiosità. «Quando ero piccolo mio padre mi portava al mare qui a Genova, passavo l’estate nei vari campus e l’ho conosciuto in uno di quelli.» «E siete rimasti in contatto per tutto questo tempo?» «Sì, giusto un messaggio ogni tanto, ma ogni volta che ci vediamo è come se tornassimo ai tempi di quel campus.» Mi tornò in mente la mia amica Elisa; negli ultimi mesi l’avevo trascurata. Sapevo che non se la prendeva, che comprendeva ogni mia assenza o sparizione. Le scrissi subito un sms: “Mi manchi”. Nel frattempo, un passo dopo l’altro, arrivammo sul lungomare seguendo la strada che portava in centro. Non proseguimmo. Ci fermammo in una focacceria. L’odore di pomodoro fresco e pasta morbida appena sfornata


22 correva lungo la via. Ne prendemmo due tranci e stavamo iniziando a mangiarli quando Fabrizio ci chiamò. «Pronto Fabrizio; cos’è successo, ci sono problemi?» «Ma va, lo sai che la tecnologia non ha segreti per me. Se vuoi tornare ho già fatto tutto. Ti dirò di più, ti ho anche scritto su un foglio l’indirizzo esatto da dove è partita la telefonata. Lo lascio al cassiere. Io devo andare via che devo risolvere delle cose. Mi raccomando, vieni a trovarmi più spesso e non solo quando ti serve qualcosa!» «Hai ragione, scusami e grazie ancora!» Avevo ascoltato tutta la telefonata e, impaziente, afferrai Daniel per un braccio e lo obbligai a correre insieme a me. Verso il negozio, verso il tabulato. Forse già verso Alexander. La gente ci guardava sorridendo mentre lo invitavo a sbrigarsi, incitandolo nonostante lo vedessi bordeaux. Entrammo spediti e con il fiatone scaraventandoci verso la cassa. «Gli amici di Fabriz…» «Sì, sì, sì!» risposi senza dargli nemmeno il tempo di finire, fermata solo dal fiato corto. Strappai quel biglietto dalle mani di quell’impiegato e mi precipitai fuori dirigendomi sulla spiaggia, sentendo alle mie spalle la voce di Daniel che ringraziava e si scusava, sempre più bassa man mano che mettevo distanza fra me e lui. Era il momento che aspettavo da un anno, in quel foglio avrei trovato il luogo nel quale Alexander aveva eretto la sua solitudine. Per rispetto, per necessità forse, decisi che quel momento doveva essere mio, intimo. Non volevo escludere Daniel per gelosia; piuttosto, volevo ritagliarmi uno squarcio di terra, uno spazio dove gli scogli si mischiavano alla sabbia e di fronte avrei avuto solo il mare. Piano piano, aprii il bigliettino. «Vengo a prenderti» dissi piano, a me stessa. La voce di Daniel in lontananza mi fece voltare e non esitai a tornare da lui. «Perché sei scappata?» «Sentivo il bisogno di scoprire da sola se mi ero sbagliata.» «Dunque?» «Era così ovvio Daniel, dove altro poteva andare il figlio del Diavolo a cercare delle risposte?» Presi il foglio e gli mostrai l’indirizzo. «Cosa facciamo quindi?» mi interrogò lui in attesa di comandi. «Semplice… Partiamo per Roma!»


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CAPITOLO III

Lara Gerusalemme, la città santa. La fede passeggia per le vie, si infila nei muri, scorre nella terra. I pellegrini la toccano, la respirano, la assaporano nutrendosene. Come fiumi, ne attingono tutte le altre religioni e, come fiume, ne attingevo anche io. Ogni mattina aprivo il mio armadio cercando un’ispirazione che mi guidasse. “Dai Lara, oggi è il giorno giusto” mi ripeteva il mio inconscio. Era diviso in tre sezioni: a sinistra gli indumenti ebraici; a destra i veli islamici. Nel mezzo poi, simile a uno spartiacque, una gradazione di blu e colori, jeans e t-shirt, le sfumature e i tessuti che rappresentavano me stessa, chi ero veramente. Ogni giorno avrei interpretato un ruolo diverso, addentrandomi nei luoghi più sacri della città. Badavo bene a coprire il mio volto come meglio potevo, non volevo destare sospetti; l’unica parte sempre ben in evidenza sarebbe stata la mia mano e quel marchio maledetto. Cercavo chiunque riconoscesse quel simbolo, non importava il Dio al quale porgeva le sue preghiere, avrei lodato chiunque avesse potuto darmi qualcosa in più di quello che avevo io: niente. Avevo affittato una casa su due livelli di fronte a una delle porte d’ingresso della città antica, un appartamento piccolo, spartano, essenziale. La camera copriva l’intero piano superiore e due fragili pareti di cartongesso dividevano il letto da un piccolo bagno nascosto da una porta a soffietto. Di sotto, un’entrata minuscola con qualche gancio per appendere il giubbotto e una cucina improvvisata e molto rustica. Non mi importava se avevo dovuto rinunciare agli agi o alla carta fondo illimitato che l’Ordine mi aveva messo a disposizione. Avevo chiuso con loro, e di certo non me ne sarei mai andata in giro a loro spese dopo aver voltato loro le spalle. Pensavo spesso a Margot, specialmente durante le notti più difficili. Pensavo alla determinazione che aveva cercato di trasmettermi fin da quando ero bambina e, forse proprio per quel motivo, proprio perché mi sentivo più che mai simile a lei, non le feci mai una telefonata. Avevo preso la mia strada ed era il momento di fare i conti con le mie azioni. Non dovevo mostrare il minimo segno di cedimento; non una chiamata, neppure un messaggio.


24 Puntualmente cancellavo ogni traccia che le mie debolezze digitavano sul cellulare in forma di numeri o lettere. Avevo trovato un lavoro part-time in un bar aperto fino a notte tarda in periferia; mi consentiva di mantenermi e restare nell’anonimato dentro alle mura antiche. Il proprietario era un italiano che aveva trovato moglie durante uno dei suoi viaggi all’avventura. Niente prenotazioni, zaino in spalla e una buona preparazione agli imprevisti. I suoi primi giorni a Gerusalemme erano stati torridi ed entusiasmanti. L’unica difficoltà di quella sua avventura improvvisata era stata la scarsa conoscenza della lingua. Si era avventurato all’interno di un bazar colorato e pittoresco, richiamato dagli incensi e dal vociare. Poco oltre la soglia s’era reso conto di essere capitato in uno spazio femminile che, stando alle scarse conoscenze che aveva di quella cultura, non poteva essere invaso dagli uomini. Il caso volle che le forze dell’ordine avessero notato l’intrusione fortuita e fossero immediatamente accorse per sventare una possibile violazione, magari anche una possibile violenza. Se non fosse stato per una ragazza un po’ insolita rispetto alle altre, Damiano non ne sarebbe uscito vivo, non avrebbe potuto usare l’italiano per giustificare in maniera convincente la sua presenza lì. Khalida aveva preso le sue difese, lo aveva tirato fuori da quel guaio e da quel bazar. Quando furono lontani, in un italiano un po’ incespicante, gli aveva spiegato cosa era successo. Poi c’era stata una timida stretta di mano. Dopo ancora, l’amore. Litigavano spesso, e sempre più spesso lei malediceva se stessa per averlo salvato piuttosto che fatto arrestare. Salvato da che cosa? Non lo avevo mai capito. Sapevo solo che alla fine di ogni battibecco tornava tutto normale. Non si erano mai lasciati e gestivano insieme il locale che in un certo senso aveva salvato me. Khalida mi veniva a prendere e mi riportava a casa in auto ogni giorno. All’inizio ero un disastro dietro al bancone, ma col tempo avevo imparato a muovermi bene tra cocktail e narghilè. Lui non parlava ancora molto bene l’arabo, io invece lo studiavo da quando avevo sei anni, e fu quello l’unico motivo per cui si convinse a darmi quel posto nonostante il mio pessimo colloquio. Ero a Gerusalemme da pochi giorni quando notai il suo volantino fra gli annunci svolazzanti appesi sui muri rossicci di alcuni edifici accanto alla fermata dell’autobus. Ce n’erano diversi, ma il nome Damiano mi fece ben sperare in un connazionale. Non persi tempo e mi presentai direttamente all’indirizzo riportato, il nome del locale era KhaliDami. Non appena entrai, pur non avendolo mai visto e nemmeno immaginando quali fossero i suoi


25 tratti, lo riconobbi. Era seduto a un tavolo nel suo completo bianco da cuoco. Era alle prese con il suo aiutante, scherzava accusandolo di sabotare i suoi prelibati piatti italiani. Avrei riconosciuto il suo accento e i continui errori ovunque. Mi feci coraggio e mi piazzai davanti a lui con un semplice “buonasera”. Lui si girò accogliendomi come se fossi una turista che si era allontanata un po’ troppo dal suo gruppo. «Salve, si è persa? Ha bisogno d’aiuto?» domandò in italiano, restituendomi con gli occhi e il tono caldo della voce la nostalgia della sua nazione. «No, mi chiamo Lara Innocenti e sono qui per il lavoro» risposi mostrando il pezzo di carta che stringevo nelle mani. «Perdonami, pensavo fossi una turista; non se ne vedono tutti i giorni di italiane in cerca di lavoro qui» concluse invitandomi a farmi spazio insieme a lui dietro al bancone. «Sono qui per studio, mi serve un lavoretto per mantenermi.» «A noi serve una ragazza che faccia dalle sei a chiusura. Intanto, fammi vedere come te la cavi» propose entusiasta. Piano piano però, a ogni richiesta, vidi il suo volto farsi più cupo, la contentezza si spegneva facendogli prima le pupille, poi le iridi, poi l’intero sguardo bui. Non ero in grado di soddisfare le sue prove. La mia totale mancanza di esperienza non era affatto trascurabile e così, dopo aver spillato una birra che aveva più le sembianze di un cappuccino, si limitò a rivolgermi un sorriso obliquo e triste. Capii che avrei dovuto pensare a un’altra strada, probabilmente quel tentativo era fallito prima ancora del tempo. In quel momento entrò nel locale Khalida. Non avevo idea di chi fosse, ma dal modo in cui scaraventò la borsa dietro alla cassa intuii che fosse una dei titolari. Era nervosa e non si accorse nemmeno della mia presenza. «Maledetti fornitori, mi hanno fatto arrivare tardi» esclamò in arabo, parlando velocemente. «Puoi parlare italiano così ti capisco?» rispose scocciato Damiano. «Sei tu che dovresti parlare arabo. Siamo a Gerusalemme se non te ne sei accorto» ribatté baciandolo frettolosamente. «Allora?» sbottò vedendola andare in cucina. «Ha avuto problemi con i fornitori» tradussi io andando in suo soccorso. Di colpo vidi il buio di poco prima sparire di nuovo dal suo volto, dove ritrovò spazio non solo la soddisfazione di avere davanti a sé una connazionale, per di più in grado di parlare una lingua che lui ancora faceva fatica a sentire sua. «Quindi hai capito cos’ha detto?» «Sì, studio arabo da tanti anni.»


26 Lui mi guardò con gli occhi a forma di punto interrogativo. Stava per prendere una decisione e probabilmente non era nemmeno sicuro di fare la mossa giusta. Probabilmente aveva pensato che non gli sarebbe capitato tanto facilmente di trovare un’altra persona che potesse fargli da interprete oltre che da cameriera. Quindi, consapevole che avrebbe dovuto insegnarmi un mestiere dalle basi, mi diede una possibilità. «Una settimana in prova, ma ti avverto che se non impari alla svelta dovrò trovare qualcun altro.» Bastò pochissimo per diventare indispensabile. Ero dentro. Quel giorno terminai il turno alle cinque. Khalida mi accompagnò a casa aspettando che entrassi prima di andar via. Era molto premurosa, mi chiedeva sempre se avessi bisogno di qualcosa. In realtà non ero mai stata del tutto convinta che si spiegasse il motivo per cui una ragazza della mia età avesse fatto una scelta di vita del genere. Ovviamente lei non conosceva le mie attività giornaliere. Pensava che fossi un’appassionata di storia dedita agli studi, o almeno era quello che le avevo sempre raccontato. Una parte di verità, quella che mi faceva comodo. Qualsiasi cosa pur di apparire normale ai suoi occhi. Non era mai entrata in casa, e io non facevo nulla per cambiare la situazione. Non volevo legarmi a nessuno; l’unica ancora alla verità, l’espediente con cui non avrei mentito nemmeno a me stessa, erano le pagine bianche di un diario. Nient’altro. La copertina era scura in pelle, rovinata dal tempo e dai nascondigli in cui veniva puntualmente nascosto. I fogli erano stropicciati dai sentimenti che non riuscivo a riversare fuori di me e che non avrebbero visto la luce. Non rileggevo nulla di quello che mettevo nero su bianco, non ritornavo mai due volte sulla stessa potente emozione. L’unico pezzo di carta che veniva sgualcito dai miei occhi e dai miei baci qualche volta di più era una foto. La nostra foto. La guardavo, ci affondavo le pupille, mi concentravo per vedere se si creasse uno spazio temporale in cui tuffarmi per tornare indietro nel tempo. A giorni felici. A giorni migliori. La baciavo, sperando di sfiorare delle labbra familiari e lontane. Mi addormentavo stringendola, illudendomi che almeno così avrei potuto rifugiarmi in un sogno lungo, a più livelli, talmente profondo da far fatica a ritornare nella realtà. Ma i sogni non arrivavano e le notti duravano sempre troppo poco. Mi svegliavo per le otto, le dieci al massimo se al bar era stata una serataccia. Quel mattino l’orologio segnava le sette, gli occhi aperti simili a dei fanali accesi, come se due ore potessero bastare per riposare. Andai in cucina per far colazione: latte nel microonde e biscotti in gran misura. Il resto della giornata l’avrei trascorso con una barretta che portavo sempre in borsa, poi avrei cenato al KhaliDami come tutte le sere. Scelsi lo chador


27 nero che lasciava scoperti solo gli occhi e una veste scura che mi copriva dalla testa ai piedi fatta eccezione per la mia mano in bella vista. Andava contro la loro credenza e mi imbattevo spesso in sguardi di odio per il mio malcostume, ma era proprio in quegli sguardi che avrei trovato risposte. Uscii di casa, in apnea nel caldo asfissiante. Respirare sotto quel velo era ancora più difficoltoso e cercavo di camminare nell’ombra per trovare refrigerio. Arrivai davanti alla moschea di Al-Aqsa. Quel luogo metteva pace, tranquillità. Sembrava di essere in orbita all’interno di un altro sistema solare. La cupola dorata lanciava raggi in tutte le direzioni, illuminando i fedeli di tutta la piazza come fossero pianeti e asteroidi sospesi nel silenzio delle loro preghiere. La parte superiore dell’edificio, di un tenue celeste, somigliava a qualche riverbero di cielo che sfumava nel giallo ocra della parte inferiore, quella che poggiava sulla sabbia. Ogni volta che passavo davanti alla moschea la immaginavo sempre allo stesso modo. Passeggiare lungo le arcate e le colonne allontanava la mia mente dalla realtà, mi sentivo proiettata in una specie di universo parallelo. Facevo sempre il giro intorno alla spianata, accompagnata da una sensazione di empatia e spiritualità. Osservavo la devozione delle mie vicine. Non parlavano, erano tutte chine sulle ginocchia, con gli occhi quasi socchiusi. Uscii a passo leggero e, passando attraverso i soldati, tornai nelle vie della città. L’esercito circondava la moschea e spesso impediva ai turisti di avvicinarsi alla piazza. I mitra e lo sguardo attento dei militari trasmettevano la tensione di una guerra senza fine. Mi avventurai come al solito tra le strade più affollate proseguendo la mia ronda. Si dice che l’abito non faccia il monaco, ma tutti quelli che fino al giorno prima mi guardavano in cagnesco alla vista di un jeans, erano gli stessi venditori che oggi, in tunica e velo, mi restituivano un sorriso. Passavo ore fra la gente, scrutavo i personaggi che più attiravano la mia attenzione e spesso mi soffermavo lungo il muro del pianto in cerca dei più fanatici. Le volte che ero entrata al suo interno non avevo ottenuto molto. Non riuscivo a trovare i più credenti, quelli che in qualche modo avrebbero avuto modo di aiutarmi loro malgrado a ottenere quello che volevo. Donne a destra, poco esaltate in apparenza, in tacita e discreta preghiera. Uomini a sinistra, esseri dall’atteggiamento superiore. Ero obbligata a incanalarmi nell’ala riservata alle mie simili, cieca rispetto al punto in cui avrei potuto incontrare i fedeli più fervidi. Eppure dovevo provarci. Era l’ultimo step del mio tour, avrei dovuto solo aspettare il primo volto che soddisfaceva il mio istinto. Aspettai una decina di minuti prima di individuare il mio uomo. Indossava una giacca color argilla e uno shashia verde sul capo. I baffi neri su labbra finissime color caffè. Nella mano stringeva dei libri di culto e furono proprio quei volumi a farmi da richiamo,


28 a spingere la mia volontà e le mie gambe a seguirlo. Sembrava non aver molto tempo da perdere, voltò a destra e a passo svelto s’incamminò in direzione della sua probabile destinazione. Io restai a qualche metro di distanza senza farmi vedere e, non appena rallentò, imboccai la strada che mi permise di arrivargli di fronte. «Mi perdoni» esordii fingendo di urtarlo. «Mi perdoni lei» rispose gentilissimo, senza azzardarsi a guardarmi dritto negli occhi. «Non sono della città, sa dirmi un luogo dove posso rivolgere le mie preghiere che non sia colmo… insomma…» «Di profani?» completò lui rivolgendo il suo sguardo al cielo sgombro da nuvole. Tentennai di proposito per capire la sua linea di pensiero, ma non palesò disgusto nelle parole, solo un leggero disappunto, l’ombra della sua filosofia di tolleranza. «Sì, mi ha letto nel pensiero» replicai abbozzando un sorriso cordiale e discreto. Senza premeditarlo, mi fissò nelle iridi blu, rarissime nella sua terra. Arrossì, gli lessi in volto l’intenzione di deviare quel suo imprevisto scrutare. Ne approfittai all’istante; con un gesto delicato sistemai lo chador sulla fronte stando attenta a mettere bene in vista il segno che portavo sulla mano. La fronte gli si macchiò di goccioline luminescenti in contrasto con il colore olivastro della pelle, tutta la sua difficoltà imprigionata in lacrime di sudore rarefatte tra le pieghe dello spazio tra i capelli e le sopracciglia folte. «Riconosci questo segno?» chiesi andando dritta al punto. «È un tatuaggio?» azzardò lui imbarazzato. «Non è un tatuaggio, è una maledizione. Conosci qualcuno che potrebbe aiutarmi?» replicai infastidita dall’ennesimo buco nell’acqua. Spaventato dalle mie parole, si lasciò scivolare i libri dalle mani. Mi chinai per provare ad aiutarlo, ma lui mi respinse. «Non si avvicini, faccio da solo» disse terrorizzato, come se io fossi il demonio e lui la vittima della mia tentazione. Lo lasciai lì a raccogliere i suoi testi e andai via colma di frustrazione. Anche quel giorno era stato inutile, l’ennesimo vicolo cieco di un labirinto nel quale vagavo senza capire come uscirne. La città era arida di sviluppi, i miei studi si erano arenati, conoscevo ogni sito che parlasse di occulto, e in tutto ciò nemmeno un accenno al mio problema. Avrei voluto tornare a casa, ma la realtà era che ormai non ne avevo più una. Non avevo nessuno che aspettasse il mio ritorno, né a Roma, né a Triora. Ero completamente sola. Davanti agli occhi mi scorrevano le parole del suo addio. Fatti una vita. Sii felice. Non ci sarei riuscita senza di lui, ero in balia di me stessa. L’unica


29 persona che rappresentasse una casa, un abbozzo di serenità, era sparita. Non sapevo nemmeno dove fosse. Ero stanca, demoralizzata. Accelerai il passo senza badare al peso della fatica che si riversava nelle gambe, fino alle caviglie e ai piedi pesanti. Non potevo affrontare una nottata di lavoro in quelle condizioni, dovevo riposare. La strada del ritorno era sempre diversa, la testa bassa quasi a tutelarsi da nuove delusioni. Mi fermai solo nel piccolo supermercato davanti alla mia baracca per comprare poco cibo per la colazione. Varcai l’ingresso spedita e mi spogliai di quell’abito che il mio corpo non sopportava più. Presi la barretta che avevo dimenticato di mangiare a pranzo e mi buttai nella doccia sotto il getto freddo dell’acqua per stemperarmi. Il mio corpo ne uscì rigenerato. La mia anima no. Rimasi per qualche secondo nuda, in piedi sul tappetino. Guardavo le goccioline di acqua scendermi lungo le gambe e formare ai miei piedi una pozzanghera lucida nella quale avevo annegato ancora altre speranze. Con un balzo la lasciai lì e mi rintanai nel mio unico rifugio: il diario incastrato tra il muro e la spalla del letto. Impugnai la penna sul comodino e sfogliai le pagine piene di parole nere fino alla prima riga bianca. Poi, dopo un respiro profondo, presi a imprigionare le mie frustrazioni come facevo da mesi. Un altro giorno lontano da te, un altro giorno in cui non capisco il senso di questa vita. A cosa è servito trovarti per poi perderti. Un bacio sulla nostra foto prima di riporlo di fianco al cuscino a farmi compagnia. Erano ancora le quattro e Khalida non sarebbe passata prima delle cinque. Mi spogliai dell’accappatoio e, coprendomi con il solo lenzuolo, provai ad addormentarmi sperando di riposare quel tanto che bastava da togliermi la pesantezza nelle palpebre. Poggiai la testa sul cuscino e la mano sopra il mio fedele compagno crollando come un sasso finché il suono del clacson non interruppe il mio sonno e i sogni che lo accompagnavano. Mi bagnai le labbra e aprii gli occhi lentamente. L’avevo sognato, la sua immagine era lì insieme al suo profumo. Chiusi gli occhi forte sperando che quel sogno riprendesse da dove si era interrotto, nei prati verdi sui quali avevamo trascorso la maggior parte del nostro tempo. Il clacson suonò ancora. Con i palmi delle mani mi strinsi forte gli occhi, quasi a voler arginare una diga e il fiume in piena che minacciava di straripare. Un sospiro rabbioso a scacciare ogni tristezza e via di corsa a vestirmi. La realtà mi reclamava dietro a un bancone, ma finalmente qualcosa stava per cambiare… Dovevo sbrigarmi, Khalida aveva già suonato tre volte.


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CAPITOLO IV

Lara Il clacson strombazzava esattamente alle cinque del pomeriggio. Ero sempre puntuale e sapevo quanto lei odiasse aspettare, così balzai giù dal letto prendendo al volo la divisa del locale che tenevo in un cassetto solitario, ben separato da quello che conteneva gli altri indumenti. Indossai la camicia bianca con il mio nome cucito sul petto e un comodo jeans. Una veloce sosta in bagno per lisciare con l’acqua i segni del cuscino ed ero pronta ad andare. Feci le scale di corsa e appena aprii il portone mi ritrovai la sagoma del mio autista personale. «Mi stavo preoccupando Lara, non sei mai in ritardo» disse preoccupata, penetrandomi con il suo sguardo curioso in corsa verso l’uscio della mia dimora. «Perdonami, mi ero solo appisolata» mi giustificai mettendo al riparo lo spiraglio in cui i suoi occhi provavano a infilarsi. «Non mi dire che è da stamattina che sei a letto?» chiese strabuzzando le iridi nere e profonde. Restai un attimo perplessa su cosa rispondere, ma optai per un semplice sì che avrebbe messo fine all’argomento, deviandolo su altri territori. Non mi ero accorta di aver ancora qualche bottone della camicetta aperto e lei, con un’occhiata di leggero rimprovero da madre, ne chiuse uno con due dita. «Non sono abituata a far tardi» conclusi richiudendo gli altri e interrompendo il suo gesto affettuoso. La ringraziai in silenzio, rivolgendole un’espressione carica di gratitudine e insieme di dispiacere, dispiacere per non poterle riservare il rapporto che avrebbe voluto. Sarebbe stato meglio così. Meglio per tutti. Lei ci provava di continuo. Mi confidava i suoi problemi, provava a far breccia fra le crepe del muro che avevo messo tra me e il mondo, cercando in tutti i modi di farmi capire che io potevo fare altrettanto, aprire almeno uno scorcio da cui farle sbirciare il ripostiglio in cui avevo serrato i ricordi, i sogni, le emozioni, i problemi. Io però non riuscivo a darle e darmi questa opportunità; preferivo barricarmi dietro ai miei mattoncini ordinatamente posti uno sopra e accanto all’altro. Avevo bisogno di non instaurare legami, nessuno avrebbe potuto sviscerare e purificare il disordine che avevo nella testa e nel cuore.


31 La strada non era lunga, una quindicina di minuti al massimo senza traffico. Le mani disposte una sul voltante e l’altra sul cambio le davano un aspetto da esperto pilota. Bastavano una sosta di troppo o una partenza in ritardo a un semaforo rosso un po’ ritardatario che immediatamente imprecava, arricciando le labbra a forma di cuore. Tuttavia fuori dall’abitacolo tornava dolcissima. «Vuoi che mi fermo per preparare la sala?» «Grazie Khali, vai pure» risposi evitando di approfittare della sua offerta. Non c’era un granché da fare. Una scrollata ai cuscini che fungevano da sedie intorno ai tavolini in legno bassi e rettangolari disposti a zig zag nella sala grande e una veloce spazzata con la scopa all’ingresso. I tappeti erano parte integrante dell’arredamento. Le geometrie disegnate e variopinte illuminavano la sala attirando la luce proveniente dai grandi finestroni in fondo. I narghilè lavati e puliti erano disposti al lato di ogni tavolo insieme al cestello che avrebbe tenuto il vino alla temperatura ideale. La musica sempre accesa faceva da sottofondo alle conversazioni che i clienti, di volta in volta, sovrapponevano come testi alle note fluide che si riversavano fuori dagli altoparlanti. Era il luogo perfetto per una serata in compagnia. Mi misi subito a lavoro e Damiano spuntò dalla cucina vestito con la stessa divisa: camice bianco e grembiule nero macchiato dai continui esperimenti fatti in cucina. «Lara, ben arrivata. Occhio in sala, io devo andare a sbrigare una commissione e torno più tardi. Ce la fai da sola?» Non era mai autoritario, usava sempre il tono amichevole di un collega piuttosto che quello un po’ arrogante tipico dei proprietari. Sapevo benissimo che quando lui usciva significava che non poteva farne a meno, e di conseguenza anche se avessi detto di no sarebbe comunque andato via. «Sì Damiano, vai tranquillo.» Mi regalò il sorriso spontaneo che ormai conoscevo bene e uscì di corsa poggiando il cappello dietro al bancone e sistemandosi alla meno peggio i riccioli castani ai quali teneva tanto. Ne lasciava cadere sempre qualcuno sulle sopracciglia. «Fanno risaltare i miei occhi verdi e le clienti impazziscono quando li muovo» diceva ogni volta che Khalida lo invitava a tagliarli. Era molto narcisista, e la moglie non restava indifferente alla sua smania di piacere alle donne. Di certo se lo avesse beccato a passarsi una mano tra i capelli avrebbe aguzzato la vista in cerca della presunta amante per cui provava a farsi bello. Quel giorno non ero completamente da sola. Dietro alle porte della cucina c’era Tamam, un signore sulla quarantina con il quale avevo stretto un rapporto che si limitava a qualche cenno del capo e un saluto cordiale.


32 I nostri clienti erano perlopiù giovani sotto i quaranta, comitive di amici riunite in serate per soli uomini. Mi veniva da sorridere delle loro metamorfosi: di pomeriggio seri e avvinghiati alle loro fidanzate, la sera invece con gli occhi fuori dalle orbite e le bocche cariche di commenti sconci su qualche bella ragazza di passaggio, me compresa. Nonostante capissi ogni parola facevo finta di nulla, volevo mantenere quel vantaggio e facevo buon viso a cattivo gioco. Non immaginavano lontanamente che capissi l’arabo, figuriamoci le sfumature dialettali. Tuttavia, l’unica cosa che proprio non riuscivo a spiegarmi era il motivo per cui lo facessero. Che senso aveva commentare in quel modo acceso una donna, manifestando ogni fantasia, quando poi non provavano nemmeno a scambiarci due parole? Non mi veniva nemmeno di arrabbiarmi; anzi, l’unico sentimento che mi suscitavano era la compassione. Loro, i grandi uomini, si rifugiavano in una comunella di tante parole e pochi fatti sterili, come bambini impauriti. Mi veniva da ridere ogni volta che mi allontanavo da quei tavoli e pensavo alla sua lettera. Sii felice… Il pensiero che uno di quei ragazzi tentasse solamente di avvicinarsi a me mi fece rabbrividire. Non riuscivo nemmeno a immaginarlo seduto al loro fianco a sghignazzare su un seno pieno o un fondo schiena ben tornito. Magari avrebbe anche potuto commentare una bella donna, ma ero certa che lo avrebbe fatto con eleganza. Era capitato poche volte che qualcuno mi si avvicinasse abbozzando una conversazione che andasse oltre l’ordinazione, ma lo rimettevo subito al proprio posto nel modo più semplice ed efficace che conoscessi: la completa indifferenza. Quella sera, il mio orologio da polso segnava l’una, la serata era ancora giovane nonostante ci fosse già molta confusione. Stavo svuotando un vassoio dopo aver liberato un tavolo quando dalla porta entrò un cliente diverso dai soliti. Il suo abbigliamento mi spinse a fissarlo: una tunica marrone di lino lunga dalla testa ai piedi molto simile a quelle che vedevo all’interno delle mura antiche. Il suo viso era increspato dalle rughe che i suoi oltre sessant’anni gli avevano lasciato in eredità. Non riuscii a smettere di squadrarlo neppure quando i suoi occhi irrequieti iniziarono a vagare per la sala in cerca di qualcuno. Di sicuro mi aveva notata, ma lo sdegno che gli leggevo tra le pupille sembrava rivolto al locale più che a me. «Posso essere d’aiuto?» gli chiesi vedendolo fermo sulla sua posizione. Senza rispondere e quasi irritato dalla mia voce, prese uno sgabello e si accomodò. Decisi di riprendere le mie mansioni e tenerlo sotto controllo dallo specchio che avevo di fronte, una specie di telecamera in vetro che mi restituiva la visuale di tutta l’area alle mie spalle. Provai a non preoccuparmi più di tanto


33 di lui, tanto presto sarebbe arrivato Damiano e l’avrebbe sicuramente invitato ad andarsene. Mi accorsi immediatamente che però non ero l’unica a guardarlo un po’ torva; anche i clienti rivolgevano occhiate scettiche alla sua barba bianca, alle sopracciglia folte e accigliate, agli occhi piccoli e neri. Trascorsero una decina di minuti dal momento in cui quel vecchio aveva fatto il suo ingresso e finalmente capii il motivo della sua presenza. Dal bagno uscì un ragazzino molto giovane che non appena lo vide sbiancò nonostante la carnagione scura. Non era un nostro cliente abituale, ma gli amici con il quale era venuto sì. Si fece nervoso, soprattutto per l’imbarazzo. Camminò a passo veloce verso di lui facendo attenzione che i suoi amici non lo vedessero e lo sentii bene chiedere scusa per essere al KhaliDami. Il vecchio era talmente infuriato che la sua bocca serrata ringhiava. Io ero vicina alla cassa e approfittai di due bicchieri macchiati poggiati lì vicino per andare ad ascoltare la discussione, accesa nei gesti ma silenziosa nelle parole. «Mi dispiace nonno. Volevo solo passare una serata normale con i miei amici, niente di più.» «Andiamo via da questo posto insulso» rispose il vecchio voltandosi verso di me. Io rimasi impassibile nonostante avvertissi tutta la pesantezza degli insulti taciturni che si nascondevano dietro alle labbra ben serrate dell’uomo. Forse era anche razzista. «Dai andiamo!» ruggì ancora, trascinando il ragazzo per un braccio contro la sua volontà. Senza sapere chi o cosa stesse guidando il mio corpo, mi intromisi nella disputa. «Posso portarvi qualcosa?» chiesi garbatamente. Lui mi fulminò. Prese il ragazzo, che con il labiale mi formulava un timido “scusa”, e uscì di corsa dal bar. Ancora una volta provai l’impulso di mettermi in mezzo a quei due sconosciuti, stavolta stringendo il braccio dell’anziano per attirare la sua attenzione. «Lasci il nostro cliente o avvertirò la polizia» dissi con tono fermo. Non capivo perché mi stessi intromettendo, forse il volto avvilito del ragazzino mi aveva fatto talmente tanta pena da non riuscire a resistere a un inspiegabile istinto di protezione. Non mi curai nemmeno di quanto l’anziano fosse imponente. «Togliti… non ti immischiare in cose che non ti appartengono» fece lui scorbutico e a denti stretti, senza risparmiarsi un’occhiata alla mano che gli serrava il braccio. «Lo lasci!» ribattei dura. Lui liberò il ragazzo, a cui non riservò l’ennesima minaccia.


34 «Vai a casa!» Il giovane mi guardò mortificato e fece uno slalom tra me, l’uomo e la porta. Pochi istanti dopo però, nel momento in cui allungai l’altra mano per afferrare la maniglia e socchiudere l’uscio cosicché potesse passare, il vecchio andò in escandescenza. Qualcuno o qualcosa aveva riacceso la miccia della sua ira. Con un gesto repentino afferrò il mio polso stringendolo fino a farmi male. «Non osare avvicinarti a mio nipote!» esclamò viola in viso. Il suo respiro si fece affannoso e la sua stretta sempre più dolorosa. «Che cosa sta facendo? Mi sta facendo male!» azzardai terrorizzata, provando a dimenarmi per sfuggirgli. Nessuno si era accorto di noi, la musica aveva coperto le voci e nemmeno l’inutile Tamam capì cosa stesse accadendo. «Le ho detto di lasciarmi!» urlai forte quando vidi chiaro uno squarcio di violenza passargli per le pupille e riversarsi nelle ossa strette attorno al polso. Alzò l’altro braccio per colpirmi, ma suo nipote stesso si scagliò con tutte le sue forze per fermarlo. Non capivo cosa gli fosse preso, sembrava indemoniato. Non dava l’impressione di volermi mollare o cedere di un millimetro. In quei pochi secondi di lotta maledissi me e la mia benevolenza, i miei moti di protezione. Dovevo restarmene dietro alla cassa a fare ciò che mi competeva. All’improvviso Damiano varcò la soglia del locale e si precipitò in mio soccorso. «Che sta succedendo qui?» esclamò gonfiando il petto e andando a muso duro contro il vecchio. I due restarono per qualche secondo faccia a faccia come se stessero duellando, e a ogni secondo il vecchio allentava la sua presa. «Sparisca da qui!» gli ordinò Damiano senza paura. Lui non rispose nemmeno, e senza mostrare il minimo timore gli voltò le spalle per andarsene. Mi lasciò la mano e notai il suo sguardo pieno di ribrezzo cadere sul marchio che macchiava la mia pelle. Restai perplessa per un secondo, ma ero talmente spaventata che sul momento non gli diedi alcun peso. Lui andò via e io mi allontanai per prendere del ghiaccio e poggiarlo dove erano rimasti i segni rosei delle dita dell’uomo. A ogni passo ripercorrevo tutta la scena nella mia testa per capire cosa avessi sbagliato, ma non trovavo nulla che potesse motivare quell’aggressione. Ero frastornata e un po’ spaventata. Damiano mi accompagnò in cucina e mi diede un sorso d’acqua per riprendermi. «Lara, ma che voleva quel vecchio?»


35 «Io che ne so? È entrato… ha iniziato a strattonare quel nostro cliente, e quando mi sono avvicinata mi ha aggredito» confessai, sincera. «Avrei dovuto dargli due schiaffi» replicò pentendosi di non averlo fatto. «Hai fatto la cosa giusta, magari non ha nemmeno tutte le rotelle a posto» provai a giustificarlo io. «Quali rotelle… questi sono dei razzisti di me…» concluse sbuffando. Sembrava davvero convinto della spiegazione che aveva provato a dare a se stesso e a me. Doveva essere un problema razziale, un’intolleranza verso me per essere donna o non musulmana. Era l’unica ipotesi plausibile. Tuttavia, più cercavo di calmarmi, più riuscivo a percepire lucidamente l’incontro. Il suo sguardo, l’ultimo sguardo prima di andar via, era troppo carico di cattiveria. Possibile che fosse stato il mio segno a mandarlo fuori di testa? «L’importante è che stai bene» borbottò Damiano interrompendo la mia ricostruzione. «Tranquillo, è tutto ok» sentenziai minimizzando l’accaduto. Sorseggiai il mio bicchier d’acqua e tornai in sala. Non feci in tempo ad andare dietro al bancone che uno degli amici del mio compagno di disavventura venne a chiedere di lui. «Scusami, per caso hai visto il ragazzo che era con me?» Io ero ancora un po’ scossa, ma l’idea di approfittare della presenza di quel ragazzo per estrapolare qualche informazione in più sulla coppia mi spinse a dargli confidenza. «Credo sia andato via con il nonno, tu lo conosci bene?» chiesi mostrando interesse per la prima volta. «Non mi hai mai rivolto parola e ora mi chiedi di lui? Non ho proprio possibilità con te?» ribatté in tono da piacione. «Ho visto suo zio o suo nonno, non so chi fosse, venirlo a prendere. Mi è sembrata una cosa strana, ero solo curiosa» risposi con un ghigno deluso. Evidentemente nemmeno lui ne sapeva così tanto. «Lui non esce spesso, e stasera eravamo riusciti a convincerlo… sono un po’ particolari come famiglia, non hanno legato con nessuno in città e la maggior parte delle persone le evita perché si dice che siano degli esaltati. Mi faceva pena e l’ho portato con noi. Perché non mi parli un po’ di te… mi piacerebbe tanto conoscerti meglio.» «Magari un’altra sera» smorzai immediatamente. Quella conversazione non avrebbe portato decisamente a niente. Mancavano due ore alla chiusura, era stata una giornata molto pesante e avevo proprio voglia di rincasare. Guardavo l’orologio e il tempo non passava mai. Fortunatamente Khalida arrivò in anticipo. Damiano l’aveva sicuramente avvertita di quello che era successo e avevano scelto di concedermi un turno più breve.


36 Salii in macchina consolata dal pensiero di tornare nel mio letto e metabolizzare bene l’accaduto. Khalida mi fece un vero interrogatorio. Ribadii sempre la stessa cosa, dicendo la verità e ammettendo l’errore di aver difeso quel ragazzo. Dopo averle descritto quel vecchio si raccomandò affinché cambiassi strada quando ne vedevo uno simile. «Sono anziani, credono nelle loro convinzioni e tu sei… non sei…» farfugliò destreggiandosi malamente nell’imbarazzo. «Ho capito Khali, non sono musulmana» completai cordiale, tranquillizzandola. «Mi dispiace, ma il razzismo c’è ovunque» ripeté mortificata. «Lo so, lo so.» «Vuoi dormire da noi stasera? Non è un problema, lo sai.» «Tranquilla Khali, vai a casa e prenditi cura di Damiano» conclusi addolcendo il mio solito sguardo, nella speranza che potesse davvero ridurre i suoi timori. «Sei proprio una testa dura comunque. Ci vediamo domani e chiama se hai bisogno, ché non fa bene restar sempre da soli.» Ancora una volta mi chiusi in me stessa impedendole di sbirciare nei miei sentimenti. Riuscivo solo a mostrarmi inattaccabile; d’altronde lo ero sempre stata, fin da quando ero al mondo. Non avevo bisogno della sua preoccupazione, non potevo permettermi le sue cure. Dovevo e volevo rimanere da sola, per non pagare ancora una volta il prezzo di aver trascorso del tempo in compagnia di qualcuno. In compagnia di Alexander. La salutai con la mano che ero ancora sull’uscio e stavo per voltarmi. Lei partì e, nella frazione di secondo in cui spingevo la porta per chiuderla, vidi una macchina passare subito dopo. Come un lampo in quello squarcio di strada, riconobbi il conducente. Riaprii velocemente la porta per assicurarmi che, sì, era il vecchio del locale, ma la serratura si inceppava e non riuscii a uscire in strada che già il veicolo era sparito. Non poteva essere lui. Mi convinsi subito che era stata la mia mente ancora scossa a giocarmi un brutto tiro. Mi guardai d’istinto il polso e notai che di forza me ne aveva impressa, visto che il segno della stretta s’era fatto più rosso. Possibile che tanto odio fosse semplice pazzia mista a razzismo? E se invece avesse riconosciuto il mio segno? Non volevo illudermi con false speranze, ma non potevo nemmeno restare con quel dubbio ad assillarmi l’anima. Era la prima pista da quando avevo lasciato l’Italia. Avevo troppo bisogno di crederci.


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CAPITOLO V

Lara Il sole illuminava la mia finestra, bussando ai vetri con i raggi dispettosi prima di venire a svegliarmi. Intravedevo quella luce tenue percorrere l’intero pavimento senza far rumore fino ad arrivare al mio cuscino, dove non c’era una bella addormentata sulla quale poggiarsi, solo due occhi gonfi per l’ennesima notte in bianco trascorsa in un leggero dormiveglia nel quale sentivo la mia mente macinare pensieri. Altro che consiglio, la notte mi aveva portato solo due borse cariche di stanchezza. Non riuscivo a togliermi dalla testa quel ragazzo e il vecchio turbolento che lo accompagnava. L’idea che potesse essere davvero lui in quell’auto aveva sicuramente dato carica alla mia insonnia, ma non per paura, com’era giusto che fosse. Stranamente, la mia psiche aveva elaborato quell’episodio in modo tale da lasciarmi dentro la frenesia di andare più a fondo. Quella distorsione della mia routine mi aveva dato speranza; infatti, quella mattina rinunciai anche al mio giro in città. Avevo un unico desiderio: tornare al KhaliDami e sapere qualunque cosa su di loro. Mi alzai con molta calma e scesi di sotto indossando una maglietta bianca XXL che mi copriva fino alle gambe. Nel calarmela sul corpo, sentii una fitta al polso che mi fece riflettere. “Stai attenta Lara!” Dovevo fare molta attenzione durante le mie indagini, quel tizio non mi aveva dato l’impressione di essere una persona disponibile al dialogo. Misi il latte nel microonde e andai vicino alla finestra a scrutare la strada sulla quale decine di autobus scaricavano fedeli provenienti da ogni parte del mondo. Feci un giro per la stanza mettendo un po’ in ordine qualche indumento lasciato qua e là. Passando di fronte allo specchio notai un’immagine di me molto diversa da quella che ricordavo. La mia carnagione s’era fatta dorata, i miei capelli si erano schiariti, sfumati da alcuni riflessi biondi del tutto naturali. Fu come guardare un’altra donna. Mi scrollai di dosso quel velo di malinconia che aveva cercato di avvolgermi e, consapevole che non sarei mai riuscita a restarmene in camera rischiando di perdere il mio nuovo barlume di buon umore, mi buttai nella doccia. Sotto


38 il flusso dell’acqua mi veniva più semplice riflettere, quasi riuscissi ad ascoltare meglio me stessa. Mi eccitava pensare che per un giorno non dovevo seguire le regole. Sarei uscita con la mia macchina fotografica e mi sarei lasciata trasportare dalla fiumana di persone all’ingresso della porta antica. Arrivava un autobus ogni mezz’ora e il primo non si fece attendere. Gerusalemme era una meta per fedeli, non un centro della movida; di conseguenza, la maggior parte di loro erano mogli molto devote e mariti con l’espressione cupa. In quelle strade avrebbero trovato tutto ciò che cercavano: la via sulla quale il figlio di Dio aveva portato la croce, il santo sepolcro… nessuno si chiedeva come mai dopo duemila anni di guerre e catastrofi fosse possibile che tutto fosse ancora lì, intatto, a portata di foto. Credevo in Dio e confidavo nella sua grandezza, ma non avevo mai poggiato la mano su quella pietra consumata da tanti credenti, illusi di ripercorrere le sue gesta per sentirsi così più vicini a lui. Vuoi davvero emulare le sue gesta? Sii migliore di ciò che sei, era quella la mia unica fede. Un bastone in alto a segnare il cammino e tanti cappellini colorati a formare un arcobaleno dietro di lui. Io ne conoscevo persino i vicoli, ma mi limitai a tenere il loro stesso passo. Avevo deciso di concedermi quelle ore di stacco dai miei soliti impegni; nonostante però ci provassi con tutta me stessa, a ogni fila in cui ci imbattevamo non potevo fare a meno di allungare lo sguardo sui passanti. Se quel vecchio scorbutico dell’altra sera era un esaltato o un fanatico della sua religione, doveva essere per forza lì. Dicono che non sia facile riconoscere il volto di un uomo di razza orientale per un caucasico e viceversa, eppure ero convinta che avrei riconosciuto il suo viso increspato tra milioni. Continuammo il nostro tour mentre i miei occhi indaffarati si allungavano anche negli anfratti più nascosti, quasi che il mio inconscio si aspettasse di veder sbucare quell’uomo affinché terminasse ciò che aveva iniziato. Ero molto attenta, e fu forse per questo che notai subito una presenza. Per me era molto semplice non destare sospetti in mezzo ai miei connazionali, ma non potevo dire la stessa cosa della ragazza che da circa mezz’ora ci seguiva di soppiatto. “Magari è una ladruncola” pensai fra me. Non era la prima volta che dei ragazzini seguivano il gruppo dei turisti per qualche furtarello che avrebbe consentito loro di cenare. Il turismo portava tanti soldi, ma come ogni città anche lì la povertà non mancava. Lei però non pareva appartenere a quella categoria. La sua veste non dava l’impressione di essere quella di una ladra. Per non parlare del suo viso; non era una bambina, le passavo al massimo qualche anno, e tanti particolari di lei non facevano che accendere ancor più la mia curiosità.


39 Iniziai a scrutare i suoi movimenti nonostante avessi altri interessi più impellenti. Andammo in giro per i negozi, nei luoghi di culto cattolici, e lei restava sempre lì a portata di sguardo. Non riuscivo a capire le sue intenzioni. Non si era avvicinata a nessuno, non importunava nessuno, frequentava senza problemi i luoghi più cristiani. Stavo perdendo tempo. Sbuffai, obbligandomi a fregarmene. Avevo altre priorità ed era arrivata ora di mettere fine alla mia gita turistica. Eravamo in prossimità del muro del pianto. Mentre i miei compagni di viaggio si dirigevano verso le cavità delle pietre a riporre una preghiera, guardando la mia macchina e il suo obbiettivo di dimensioni notevoli mi venne in mente un piccolo stratagemma che forse avrebbe reso più semplici le mie ricerche. Il tizio del centro commerciale mi aveva spiegato la differenza tra i vari obbiettivi e ricordo di aver scelto quello con lo zoom più potente, perciò mi sentii stupida quando realizzai di non averlo sfruttato come avrei potuto fin dall’inizio. Mi allontanai dal gruppo sperando che la mia nuova tecnica funzionasse e mi diressi verso la parte alta che costeggiava il muro dal lato delle donne. C’erano delle pietre su cui accomodarsi. Da lì avevo una visuale completa della piazza; con qualche difficoltà montai lo zoom. Sembrava un telescopio e non esitai a puntarlo sul luogo che avevo sempre sperato di osservare: lo spazio riservato agli uomini. Nella camera era buio, fatta eccezione per alcuni punti illuminati da luci arancio che riversavano dei bagliori appena accennati sui fedeli. Inizialmente era tutto offuscato, ma ruotando un po’ da una parte un po’ dall’altra l’obbiettivo scoprivo pian piano i segreti della messa a fuoco. Scattai le foto di prova ottenendo dei primi piani perfetti. Potevo persino leggere i testi che quelle persone portavano tra le mani. Avevo due volti precisi da cercare, ma nessuno dei due era all’interno di quella stanza. Per la maggior parte erano ebrei e turisti; di loro, nessuna traccia. Sconsolata, spensi la fotocamera e misi giù l’obbiettivo. Lo posai lentamente, era delicato e parecchio pesante. Nel riflesso dello specchio, in quell’esatto istante, mi accorsi di un volto distorto e familiare. Cercai di mascherare lo stupore e, fingendo un momento di pausa, lasciai lo sguardo perso sulla gente, progettando il da farsi. Provai a disilludere subito la mia immaginazione che già scalpitava, sebbene fosse arduo non sperare. O quella ragazza aveva scelto proprio la mia reflex o non era una semplice ladruncola. Ripresi la mia normale attività e, ostentando una noncuranza che ormai non mi apparteneva più, decisi di riunirmi al gruppo che avevo seguito fin dall’inizio.


40 Mi imposi di stare con i piedi per terra finché non avessi avuto una vera prova tra le mani. Mi serviva qualcosa di indiscutibile, non una semplice impressione. Continuai a far finta di niente camminando per le vie della città, ora fermandomi ad allacciare una scarpa, ora poggiando la custodia della digitale, simulando un momento di distrazione che potesse incitare la mia inseguitrice ad appropriarsene. Avrebbe avuto tutto il tempo di prenderla e scappare, ma non fece nemmeno un passo con i suoi sandali decisamente troppo pregiati. “Ok Lara stai calma, non significa nulla” esclamò la mia ragione, ormai convinta dell’evidenza: quella tipa non era una ladra. Sentivo attorno alle caviglie delle catene immaginarie, anelli di ferro intrecciati che mi tenevano inchiodata alla realtà, all’analisi matematica degli eventi. Le speranze fuggivano impaurite, non avevano quasi modo di combattere il mio raziocinio, anche se nel profondo di me stessa sapevo che probabilmente per una volta la ragione toppava e l’intuito vinceva. Era arrivato il momento di cambiare un po’ i ruoli. Dopo aver fatto perdere le mie tracce tra la folla, mi nascosi in un vicolo aspettando di vederla passare. Mi sarei messa io dietro di lei, sarei stata io a pedinarla. Le cose però non andarono così. Non appena mi perse di vista la vidi girarsi intorno irrequieta, con lo sguardo impaurito al pensiero di non trovarmi più. “Potrebbe essere solo un caso” obiettava inutilmente il mio inconscio, ma ormai era troppo tardi. Avvertii di nuovo delle catene immaginarie attorno alle caviglie. Solo che quella volta parevano allentarsi, lasciare alle mie speranze la possibilità di spazzare via i ragionamenti troppo precisi in luogo di ipotesi improbabili ma possibili. Ipotesi che aspettavo. Ipotesi che desideravo. Quella ragazza era lì proprio per me, ne ero quasi certa. Passai in un vicolo, poi in un altro, spuntando magicamente al fianco della mia guida giornaliera. La sua espressione di sollievo nel rivedermi era fin troppo ingenua per essere vera. “Ok questo è il secondo Lara, ce ne vogliono tre di indizi per fare una prova, ricordi?” C’era solo un’altra cosa da fare per rendere la sentenza inappellabile: ritornare a casa. Mi allontanai molto lentamente, non volevo certo che perdesse le mie tracce. Fu la prima volta che la strada del ritorno risultò così piacevole. Feci finta di comprare qualcosa in un negozio, scattai una foto vicino alla porta della città vecchia e, senza voltarmi mai indietro, arrivai dritta a casa. Aprii il portone e tutta l’euforia che avevo imprigionato esplose in una corsa forsennata lungo


41 le scale. Salii i gradini a quattro a quattro rallentando solo in prossimità della finestra della mia stanza, sperando di trovarmi faccia a faccia con qualcosa che somigliasse a un lieto fine… o un lieto inizio, finalmente. Non c’era una singola parte del mio corpo che non sperasse fosse lì, anche se ciò significava essere pedinata e molto probabilmente in pericolo. “Ti prego fatti vedere, ti prego!” Sbirciai da dietro alla tenda facendo rimbalzare le pupille da parte a parte come palline irrequiete in un flipper. Sentii un calore incontrollabile salire dalle viscere. Mi poggiai con le spalle alla parete e, lasciandomi scivolare con la schiena, arrivai con il sedere per terra, senza forze. Battei la testa contro il muro come se ancora non ci credessi. Era lì. La ragazza che aveva reso di nuovo viva la mia esistenza era di fianco al negozio dove ero solita comprare l’occorrente per la casa. Poggiai le mani sul viso cercando di asciugare al meglio le lacrime di gioia. Dopo sei mesi passati senza ottenere mai nulla, avevo di nuovo qualcosa in cui sperare. Mi buttai sul letto felice come non ero da tempo, prima che il clacson puntuale di Khalida mi avvertisse che il lavoro mi reclamava e qualunque cosa avessi intenzione di fare, avrei dovuto rimandarla al giorno dopo. Scesi di corsa e m’infilai direttamente in macchina. «Ciao Khali» dissi, leggendole chiaramente sul viso un velo di sospetto «che c’è?» «Non dovresti avere la divisa?» rispose alzando le sopracciglia. Mi resi conto di essermene dimenticata. «Scusami! Torno in un secondo» esclamai evitando di badare più di tanto al suo capo che ondeggiava. Entrai e uscii in meno di un minuto. «Possiamo andare.» «Che hai fatto oggi?» mi chiese con l’espressione sorpresa. «Perché?» «Ti vedo molto diversa dal solito. Sembri carica. Di solito sei tutta muso e sguardi malinconici. E sei distratta, cosa che non sei mai. Non è che hai conosciuto qualcuno?» concluse maliziosa. «No, ma conto di farlo al più presto» replicai fin troppo istintivamente. «Allora? Com’è, racconta. È alto, moro, biondo? Dai non tenermi sulle spine.» Ovviamente non le potevo dire che si trattava di una ragazza, ci mancava solo un’altra stranezza a completare il quadro che già si era dipinta in mente pensando a me. Mentii sul soggetto e mi limitai a qualche particolare vago, una descrizione casuale. «Vediamo… è alto, ha un bel fisico e ha i capelli castani.»


42 «Tutto qui? Ce ne sono a milioni di ragazzi così. Cosa ti ha colpito? Cosa lo rende speciale?» riprese, entusiasta che mi stessi concedendo a una conversazione più riservata. Quella domanda mi spinse a immergermi nei nostri ricordi. Non so perché lo feci, ma sentii una specie di fuoco incendiarmi l’anima, dare vigore ai giorni passati, alla necessità di tornare almeno a sfiorarli. A sfiorarlo. «Sono stati i suoi occhi a farmi perdere la testa. Hanno il colore del muschio sugli alberi, una tonalità di verde intenso che ricopre il marrone e spicca solo nelle giornate più cupe. Se fossero stati semplicemente belli sarei stata in grado di resistergli, ma quando lui ti guarda ti dimentichi di tutto, anche dell’esistenza di quei colori. È bastato quel frammento di tempo per capire che non avrei più potuto vivere senza di lui…» Non avevo mai condiviso con lei tanta intimità, ero talmente abituata a essere triste che non sapevo più cosa si provava a sentirsi felici. Avevo aperto la porta del mio ripostiglio interiore, senza fare caso a tutto quello che si era riversato all’esterno, accumuli di baci, abbracci, sensazioni così grandi da non resistere più così accatastate. Mi ero incastrata da sola con i miei ricordi, avevo parlato troppo. «Da come ne parli sembra che tu lo conosca molto più di quanto dici, sembri molto innamorata di questa persona. Lo conosco?» disse quasi stranita. Provai a invertire il senso di marcia di quella conversazione che stava diventando scomoda. «Khalida ti sto prendendo in giro, non esiste nessuno nella mia vita. Ho solo passato un esame, per questo sono contenta» risposi abbozzando una risata. Lei mi guardò e, come se volesse allontanare un brutto pensiero, scosse il capo. «Allora congratulazioni per il tuo esame. Ma nel caso in cui tu non stessi scherzando, stai molto attenta con gli uomini che qui non siamo in Italia» mi consigliò materna. «Lo so, grazie lo stesso» conclusi, consapevole che le domande non si sarebbero esaurite così facilmente. Credevo che una volta aperto un piccolo spiraglio, Khalida prendesse a calci la porta della mia riservatezza per diventare quello che aveva sempre voluto che fossimo: due amiche, due confidenti. Eppure, quel giorno mi sorprese. Mi stupii del silenzio che aveva avvolto l’auto per tutta la durata del viaggio. Per quanto fossi contenta di non doverle raccontare ulteriori bugie, non capivo cosa le fosse preso. Avrei voluto indagare, però eravamo già a destinazione e la mia attenzione si soffermò sulla vetrina del locale. Scesi dall’auto e m’incamminai subito verso il KhaliDami, che quella sera era molto diverso dal solito.


43

CAPITOLO VI

Lara Il KhaliDami era situato in una via molto trafficata della periferia di Gerusalemme. Di giorno la strada era impraticabile per via dei tanti uffici incastrati negli alti edifici ai lati della strada; ma la sera, quando ormai anche l’ultima tornata di cartellini era stata timbrata, si addormentava dolcemente concedendo al locale una silenziosa aura nella quale i nostri clienti si rifugiavano. Quella sera ci accolse qualcosa di diverso dalla solita quiete. Sia io che Khalida restammo sbigottite nel vedere la fila che si era creata davanti all’ingresso. «Khali, non sarebbe meglio se anche tu restassi a darci una mano oggi?» le proposi scendendo dall’auto. Era la prima volta che vedevo il locale così affollato. Senza perdere tempo corsi in aiuto di Damiano afferrando il grembiulino dietro alla porta d’ingresso. «Damiano, che succede stasera?» chiesi allibita. «Non lo so, ma spero che capiti spesso» rispose con un luccichio di sollievo negli occhi. Mi diedi subito da fare per smaltire le consumazioni. Lui faceva cassa e io dispensavo alcolici. I tavoli erano tutti pieni, ma era impossibile far fronte alle ordinazioni visto che eravamo imprigionati dietro alla trincea del bar, di fronte a una zona di guerra in cui le persone provavano ad accaparrarsi un drink. Tratteneva sulle labbra un sorriso poco disteso, a tratti forzato. Esigeva il massimo della professionalità e dell’efficienza per i suoi clienti, ci teneva che uscissero dal suo locale sempre soddisfatti. Probabilmente la sua tensione era dovuta al timore di non farcela solo con me al suo fianco, di non dare il massimo per chi era aldilà del bancone. «Dov’è Khalida?» mi domandò con espressione dura, convinto che in due sarebbe stato difficile arrivare in fondo a quella serata. «Le ho chiesto di venire a darci una mano, forse non sta trovando parcheggio» replicai stringendomi nelle spalle e provando a giustificare il suo ritardo. Secondo cliente, altra lamentela.


44 Damiano era imbestialito. Increspò lo sguardo e, mentre con una mano passava un bicchiere a un uomo di fronte, con l’altra aveva già afferrato il telefono. «Ma si può sapere dove cazzo sei?» urlò in italiano per evitare che i clienti potessero capire. Mi voltai concentrandomi su altro. Ero sconvolta, era raro vederlo così. Cercai di darmi da fare per evitare di diventare la sua valvola di sfogo. Per fortuna Khalida fece il suo ingresso nel giro di dieci minuti. «Era ora!» commentò lui ancora arrabbiato. Lei sembrò non badarci. Aveva uno sguardo inquietante. Non salutò nessuno e andò dritta ai tavoli. Per un attimo tornammo a respirare, ad avere almeno il tempo di asciugarci qualche gocciolina di sudore sulla fronte. Tuttavia, in fretta come era arrivato, quel momento di tranquillità fu spazzato via dal secondo tsunami di clienti, tutti trascinati nel bar da Samir. Samir era un cliente molto particolare. I suoi tavoli non erano mai composti da meno di dieci persone e le sue bottiglie di vino erano sempre tra le più care. Proveniva da una famiglia molto ricca di Gerusalemme e amava circondarsi di persone che lo ammiravano e invidiavano, anche se questo poteva significare comprarle. Aveva appena ottenuto la laurea in medicina soddisfacendo il desiderio del padre, che non voleva altro da lui se non vederlo con un camicie addosso. Aveva scelto noi per festeggiare quell’evento tanto importante e nessuno dei suoi amici era stato escluso, l’intera facoltà era sparsa per le nostre piccole sale. «Damiano metti tutto sul mio conto, stasera è festa per tutti.» Da quel momento in poi non riuscii più ad alzare lo sguardo oltre al bancone. Stappai talmente tante bottiglie da sentirmi ubriaca anche io, o forse era più l’odore dei tanti narghilè accesi a farmi quell’effetto. Furono due ore di fuoco e quando anche l’ultimo cliente in attesa fu soddisfatto, incrociai lo sguardo con Damiano e, spontaneamente, ci venne da sorridere. “Ce l’abbiamo fatta!” Probabilmente fu quello il pensiero di entrambi. «Lara, ci sono quei bicchieri da smaltire» esclamò Khalida, che aveva assistito alla scena. «Khali, occupati della sala che qui è tutto 0K» rispose Damiano in mia difesa. Era la prima volta che lei mi dava un ordine. Non ero la tipa che aveva bisogno di sentirsi dire cosa fare, ma non volevo certo finire in mezzo al loro scontro e mi tirai subito fuori. «Tranquillo Damiano; ha ragione, meglio toglierli ora prima che ci sia confusione.»


45 Presi i bicchieri e andai a caricare la lavastoviglie, mentre loro due rimasero a duellare con gli occhi. La serata era volata via e l’orario di chiusura si stava avvicinando. Non vedevo l’ora di tornare a casa e mandare a quel paese la mia insonnia; non le avrei permesso di sopraffarmi. Ero certa che niente sarebbe stato in grado di privarmi del riposo che meritavo. Invece qualcosa diede una smossa a quella lenta discesa verso la pace che avrei provato arrivando a casa. In maniera tanto inaspettata quanto enigmatica, entrò nel locale il ragazzino per cui mi ero battuta. Restai impalata all’angolo, incredula. Mi ero imposta di cercarlo, ma il lavoro mi aveva impedito anche di rivolgergli un pensiero. Ci vollero più minuti per farmi rendere conto della situazione. Era evidente che non c’entrasse nulla con tutti gli altri clienti, lì seduto sullo sgabello vicino all’ingresso. Era molto più giovane, di certo non frequentava l’università e non era accompagnato nemmeno dagli amici della sera prima. Ero certa che non si sarebbe più avvicinato al nostro locale, che si sarebbe volatilizzato nelle strade di Gerusalemme rendendo impossibile il mio intento di rintracciarlo. “Troppo semplice Lara” sbottò il mio inconscio mettendomi in guardia “sarà qui per scusarsi?” Feci un giro in sala e andai a pulire uno dei banconi vicini a lui. Non mi rivolse la parola, nemmeno un cenno. Avevo trascorso mesi senza nemmeno una pista da seguire e adesso ne avevo persino due; o improvvisamente la dea bendata mi stava sorridendo o forse quei due ragazzi avevano qualcosa in comune. Me. Fui immediatamente assalita dalla paura di aver sottovalutato la situazione. «Lara, ti sei addormentata?» esclamò Damiano facendomi spaventare. Mi ero a tal punto persa nei miei pensieri da essermi trasformata in una statua di cera. «Scusami, sono andata un po’ in confusione» risposi riprendendo il lavoro. «Tranquilla, è una serataccia per tutti» ribatté alludendo a Khalida con lo sguardo apprensivo. «Figurati, non ti devi preoccupare. Comunque in sala c’è ancora tanta gente, non credi sia il caso di tenere aperto un po’ di più?» Non potevo andarmene proprio in quel momento, e Damiano sembrò molto entusiasta della mia proposta. «Certo, avevo paura che mi linciassi se te lo avessi chiesto.» Eravamo molto complici sul lavoro, anche se in quel caso era stato puro egoismo.


46 Continuai a lavorare mentre il mio cliente più importante rimaneva fermo su quello scomodo sgabello a sorseggiare il suo analcolico. Era trascorsa un’ora ed era ancora al primo bicchiere. Perché era lì? I suoi capelli neri molto riccioluti arrivavano fino alle spalle e nascondevano gran parte del suo viso. Gli occhi erano dello stesso colore, me ne accorsi grazie allo specchio sulla parete. Non sembravano occhi cattivi o che potessero terrorizzarmi, tutt’altro. Aveva lo sguardo ingenuo del ragazzino sedicenne che doveva essere. Non era massiccio e neppure così alto. Pensai che se anche avesse voluto farmi del male, non ci sarebbe riuscito e io sarei stata in grado di difendermi. Non riuscivo a smettere di fissarlo, nonostante facessi molta attenzione a non farmi scoprire. Non ero l’unica però. Sentivo addosso il peso dei suoi occhi seguirmi ovunque, frenetici e pronti a sviare su un’altra direzione qualora provassi io a virare su di lui la mia curiosità. Giocavamo a un nascondino di iridi e pupille. Khalida interruppe il nostro gioco. «Lara, metti a posto in cucina ché c’è il casino.» Asserii con il capo e, mio malgrado, accettai l’ordine ricevuto sperando che il mio ospite non andasse via mentre ripulivo. Era solo una sensazione, ma sapevo che l’avrei trovato ancora lì. Cercai di accelerare i tempi, sebbene in cuor mio sapessi che non sarei mai riuscita a fare così veloce da smaltire il disordine. Svolgevo qualsiasi mansione in maniera macchinosa, con le mani affaccendate su piatti, pentole e bicchieri, e la mente chiaramente altrove. Ero assalita dalla curiosità, sempre più insistente, di vedere se quel ragazzo era ancora lì ad aspettarmi. Mollai le stoviglie che avevo tra le mani bagnate e, senza preoccuparmi di asciugarle, mi affacciai all’oblò della porta per sbirciare nel locale. Il posto al bancone, vicino all’ingresso, era vuoto. Sentivo la delusione cambiare le inclinazioni del mio viso; il mio istinto aveva fallito. Non trovandolo in sala era stato naturale spostare lo sguardo verso l’uscita del locale; la vetrina del KhaliDami era molto grande e le luci dell’insegna davano una buona visuale sui primi metri della strada. Stentavo a credere ai miei occhi. Lui era lì e non era da solo. Era ovvio che era convinto di essere nascosto. Di fianco a lui c’era una figurina esile. Strinsi le palpebre per mettere a fuoco e avere la conferma di quello che il mio cuore palpitante già aveva intuito: era lei. La ragazza che mi aveva seguita per il giorno intero era con lui. Parlavano in maniera concitata, e dopo qualche secondo di conversazione lei lo abbracciò. Dovevano essere ben più che semplici conoscenti.


47 Quando lei scomparve nel buio, lui rientrò e io, repentina, mi spostai per non farmi scoprire. Ero allibita. Non sapevo chi fossero, ma come spie lasciavano parecchio a desiderare. L’idea che entrambi potessero perseguitarmi non mi spaventava, ma se quella ragazzina era in combutta col ragazzo dagli occhi neri, voleva dire che entrambi erano alle dipendenze del vecchio che mi aveva stritolato la mano la sera prima. Bastò il ricordo del suo viso aspro e disgustato a innescare la giusta dose di paura. Dovevo fare molta attenzione, ma non avrei permesso a nessuno di intimorirmi. Conclusi il mio lavoro e uscii dalla cucina dopo essermi scrollata di dosso l’espressione turbata, decisa a lasciare che il mio sorvegliante facesse il suo dovere. Non era quello il momento di ottenere delle risposte, avrei dovuto capire bene chi fossero prima di agire. «Andiamo, ti riaccompagno a casa» mi ordinò Khalida ancora dura nello sguardo. «Khali, c’è ancora gente, abbiamo già deciso con Damiano di restare aperti finché non vanno via. Non ti preoccupare, non mi pesa» risposi sorridendo. «Non mi interessa cosa decide Damiano, ce ne andiamo!» ribatté con lo sguardo inferocito. «Va bene… prendo la borsa e ti raggiungo» mi arresi, basita per via della sua reazione. Lei uscì e io feci lo stesso qualche secondo più tardi. Quando passai accanto al mio ospite, non mi rifiutai di guardarlo negli occhi, mentre lui, al contrario, abbassò lo sguardo. Mi sembrò molto strano il suo modus operandi, le parti dovevano essere invertite, eppure tra i due era lui a essere timoroso. Entrai in auto e Khali partì a razzo. Era molto nervosa, stranamente in silenzio. «Tutto bene?» chiesi dopo qualche minuto e qualche manovra troppo azzardata. «Perché sei qui a Gerusalemme?» sbottò aggressiva. «Te l’ho già detto, devo concludere i miei studi» azzardai, un po’ scocciata. «Lara, non sono stupida. Sei qui da un anno, sei completamente da sola, non ti ho mai vista con un’amica o un ragazzo con cui tu abbia mai scambiato più di due parole. Sei sfuggente e riservata e non mi dici mai la verità. Le cose sono due, o mi dai un motivo valido che giustifichi la tua presenza qui, o vuol dire che tu e Damiano avete una relazione» farneticò gesticolando con l’unica mano libera dalla guida. «No! No! Assolutamente no! Ma come ti viene in mente? No!» «Non mi prendere per stupida. Hai detto che dovevi conoscere un ragazzo, e da come ne hai parlato mi sembra che tu lo conosca già molto bene. Tu e


48 Damiano passate un sacco di tempo insieme e siete sempre lì a sorridervi come due adolescenti… e poi quegli occhi verdi che hai descritto… sono i suoi, è così ovvio. Come ho fatto a non capirlo prima, da quanto va avanti questa storia?» Non credevo alle sue parole. Nei mesi avevo assistito spesso a scenate di gelosia dovute alle sue paranoie, ma quella le batteva tutte. «Ma come ti è venuta una cosa del genere?» aggiunsi, offesa e allo stesso tempo sbigottita per la sua accusa. «Non negare Lara, dimmi la verità per una volta. Mi hai sempre riempita di bugie e non mi hai mai fatta entrare nel tuo mondo. Come faccio a crederti?» continuò ondeggiando il capo frustrata e con le prime lacrime negli occhi grandi. Mi fece tenerezza, nonostante mi sentissi ferita dalle sue insinuazioni. «Khali, ora calmati perché hai veramente preso un abbaglio. Appena arriviamo a casa ti mostro una cosa, così la smetti di dire cavolate» risposi mantenendo la calma, innocente. Di solito chi viene colto in fallo, il più delle volte, attacca per difendersi oppure confessa, e la pacatezza con cui avevo affrontato le sue parole sembrò tranquillizzarla. Mi sentivo spronata a rivelarle qualcosa, non potevo credere che si fosse fatta di me un’idea così lontana dalla realtà. «Vieni su, ti mostro la persona per cui sono qui.» Lei strinse le labbra senza parlare. Era ancora scettica, ma mi diede fiducia fino all’angolo. Aprii il portone e lei mi seguì fino alla mia camera. «È la prima volta che mi inviti a entrare, iniziavo a pensare che nascondessi un cadavere qui dentro» commentò con sarcasmo. Io sorrisi, e senza farmi accorgere chiusi con nonchalance l’armadio contenente i vari abiti un po’ ambigui. «Guarda…» le dissi estraendo la foto dal diario nascosto dietro alla spalliera del letto «è lui la persona che amo e l’unico motivo per cui sono a Gerusalemme.» «Non l’ho mai visto al locale. Studia anche lui qui?» chiese con un tono già più disteso. «No, magari fosse così. È leggermente più complicato, forse un giorno ti racconterò» conclusi richiudendo il diario e smorzando il discorso. Il dolore che stava accendendo di rosso le venuzze dei miei occhi la spinse a non fare ulteriori domande, almeno per il momento. Fece un sospiro guardandosi intorno e io evitai di farle fare il tour completo dell’abitazione. «Però dai, non è una brutta casa» esclamò, deviando la conversazione come se non fosse mai accaduto niente. «Mi sa che sei tu la bugiarda» risposi, consapevole che stesse mentendo.


49 «Perdonami per aver pensato che avessi una relazione con mio marito» farfugliò dispiaciuta. «Facciamo finta che non sia mai successo, ok?» proposi mettendoci una pietra sopra. Lei chinò la testa su un lato e mi ringraziò per essere stata così comprensiva. L’accompagnai giù per le scale e mi abbracciò prima di andare via. «Lara, quando dicevo che sei completamente sola mentivo… hai me» confessò avvicinandosi. Sprofondai nel suo abbraccio e, anche se l’avevo tenuta a debita distanza, capii che si era fatta spazio in uno squarcio appena visibile nei muri che avevo eretto attorno a me. Entrò in macchina, chiuse lo sportello e partì, lasciandomi sulle labbra un sorriso pieno d’emozione. Mi sentii più calda, come se mi avesse regalato una coperta soffice con cui scaldarmi. Andai di sopra e mi misi a dormire stringendo forte il cuscino e ripensando agli episodi che avevano stravolto la mia giornata. Dovevo scoprire il motivo per cui quel vecchio mi reputava così importante da farmi seguire. Era giunto il momento di escogitare un piano; non ero mai stata una preda. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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