Il becchino

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AMIGDALA PALA

IL BECCHINO

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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata

IL BECCHINO Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-519-9 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Aprile 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

. Ogni riferimento a fatti realmente accaduti e/o a persone realmente esistenti è da ritenersi puramente casuale


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Capitolo 1 La mano di ferro stringe una sigaretta. «Quanti anni hai, ragazzo?» dice il padrone della mano. È attaccata a un braccio meccanico, una di quelle nuove protesi che si collegano ai nervi e si comportano come fossero arti veri. Dicono che il collegamento sia doloroso come l’inferno. «Ne ho dieci, signore» rispondo mentre lo fisso nell’unico occhio che ha. Marrone con una sfumatura calda che alla luce del fuoco nel camino lo fa sembrare rosso. «Sembrerebbero di più» continua «Meglio così, meno casini col sindacato perché facciamo lavorare bambini.» Madame dice sempre che il sindacato se ne fotte finché lo si paga, ma lo tengo per me. Sto in piedi davanti al tizio meccanico. La stanza è piccola e il fuoco non la illumina né la riscalda a dovere. «Hai già lavorato prima?» chiede.


4 «Sì, signore» rispondo «sono stato estrattore e poi portatore ma ora sono troppo alto per la miniera» «Lo vedo» dice. «Sei molto robusto però, ci servono braccia forti.» Madame mi ha mandato qui. Tutti i bambini dell’orfanotrofio devono lavorare, dice. È la regola. «Vieni dalla Casa della Gioia di Madame Panere, giusto?» chiede mentre armeggia con alcune scartoffie. «Sì, signore» rispondo pensando che quel nome non è adatto all’orfanotrofio. Si trova ben poca gioia laggiù. «Abbiamo avuto altri bambini da lei» afferma sorridendo «gran lavoratori.» Si dimentica di dire che sono tutti morti, quei bambini. Chi schiacciato da una frana in galleria, chi di silicosi. Io sono uno dei fortunati a cui la miniera non ha fatto nulla. Mai un crollo. Nemmeno un po’ di tosse. «Come ti chiami, ragazzo?» domanda il tizio. «Adlai, signore.» Adlai è il mio nome. Non ho mai conosciuto i miei genitori.


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Non ho mai avuto spiegazione per questo nome. Forse non lo saprò mai, dato che sono orfano. Almeno credo di essere orfano. I miei genitori potrebbero essere cadaveri oppure avermi abbandonato. Chi lo sa. Io preferisco pensare che siano morti. Non è piacevole considerare che non mi abbiano voluto, che si siano liberati di me. Avrei preferito morire piuttosto che vivere così. Ho chiesto a Madame il perché del mio nome. Lei ha detto che era ricamato sullo straccio che mi avvolgeva quando sono stato abbandonato davanti all’orfanotrofio. Mai visto quello straccio. Abbandono questi pensieri quando il nuovo capo annuisce. Non mi chiede il cognome, sa che non ce l’ho. Non mi fa nemmeno firmare il contratto, sa che non so scrivere. Nemmeno leggere, se è per questo. Come tutti i bambini dell’orfanotrofio, d’altronde. Mi dice che comincerò domani e che mi occuperò di


6 trasportare il carbone sulle aeronavi e sulle automobili. A quelle parole ho un tuffo al cuore. Aeronavi. Palloni aerostatici che volano grazie alla propulsione del vapore. Automobili. Veicoli che si muovono in maniera autonoma, senza cavalli a trainarli. Io porterò il carbone per farli funzionare. Questo significa che io permetterò che volino e si spostino. Voleranno e si muoveranno grazie a me. Non sto più nella pelle. «Stai bene, ragazzo?» domanda il ciclope sollevando un sopracciglio. Sento le mie guance arroventarsi dall’imbarazzo. Che diamine combino? Mi comporto come un bimbo piccolo! Annuisco con noncuranza, cercando di ritrovare un po’ di autocontrollo. Dal sorrisetto che il capo mi rivolge capisco, però, che è un tentativo vano. Cazzo. «Non sarai solo», aggiunge, «Oltre ad altri ragazzi come


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te ci sarà anche il capo meccanico, un tipo in gamba, per qualsiasi cosa chiedi a lui.» Annuisco, ringrazio e vado via. Dopo l’oscurità della stanza, la luce del sole è così forte che devo coprirmi gli occhi con la mano. A Calcutta non manca mai il sole. Nemmeno la fame e le malattie. Gli orfani, anche. Lo stomaco brontola. Penso che è ora di pranzo e che ho una gran fame. Penso anche che da domani mangerò a lavoro. Chissà che cibo mi daranno. Spero sia almeno decente. Buono magari. Abbondante. Inizio a salivare. Ho visioni di patate arrosto e gelati alla crema per tutta la via di ritorno. Tuttavia la vista della Casa della Gioia blocca il corso dei miei pensieri. Trasuda orrore dai muri. Anche il cancello sembra malvagio. Il ferro forma dei ghirigori che sembrano occhi, bocche,


8 zanne. Alcuni dei bambini grandi lo chiamano il preludio dell’inferno. Poetico ma azzeccato. Emerge dalla periferia di Calcutta, colonia dell’Impero Britannico, tra baracche e cadaveri. È qui che vivo da che ho memoria. Appena varco la soglia, un’ombra mi si para davanti. Madame Panere mi guarda dall’alto del suo metro e novanta di ossa. «Sei in ritardo, demonio» sibila. Demonio. È così che la gente ha cominciato a chiamarmi da qualche mese. Madame Panere, però, mi ha sempre chiamato così. Avere i capelli rossi non ha certo aiutato. Sembra che si sia appostata dietro la porta in attesa del mio ritorno. È bellissima, Madame, coi capelli bianchi come una nuvola, la pelle di pesca e gli occhi come quelli di un cerbiatto. Oltre a ciò, è anche crudele. «Ti hanno preso?» continua. «Sì, madame» rispondo.


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«Bene» dice lei e mi fissa. Mi mette a disagio quando mi fissa. A dire il vero mi mette a disagio anche solo pensare che lei fa parte di questo mondo come me. Faccio per dirigermi nella sala da pranzo, per mangiare ma soprattutto per mettere quanto più spazio possibile fra me e lei. Incredibile come una simile bellezza possa incutere tanto timore. La sua risata, però, mi fa voltare. Sembra di sentire tanti piccoli cucchiai d’argento che tintinnano fra loro. Questo il suono della risata di Madame. Affascinante ma terrificante. Come lei. «È inutile che vai di là, demonio» dice sorridendo «Non troverai niente da mangiare, niente e nessuno.» Sogghigna mentre si avvicina alla porta della scatola mobile. È una grande scatola, si apre con una porta di ferro a soffietto sempre chiusa con un lucchetto. Lei ha l’unica chiave. Dentro ci sta una persona adulta senza abbassarsi.


10 Si schiacciano dei bottoni per farla muovere e il movimento è possibile grazie a dei fili invisibili. Porta direttamente alla sua stanza. Nessuno di noi bimbi ci è mai entrato. Alcuni ne sono terrorizzati. Altri ne sono incuriositi. A me non importa. Nulla da mangiare. Cazzo. Questo sì che mi importa. Non credevo fosse così tardi. Non è la prima volta che salto il pranzo, però. Non morirò neanche stavolta, immagino, o almeno così voglio far credere a me stesso. Fingo di non crucciarmi più di tanto e salgo in camera. Domani mi aspetta il nuovo lavoro, meglio riposare. Così penso e ne ho tutta l’intenzione, ma Ambrose non è dello stesso parere. «Stomaco vuoto, oggi?» ghigna appena metto piede nella camerata. Ha lunghi boccoli biondi, Ambrose. Ne va tanto orgoglioso, così glieli afferro e li tiro con la sinistra mentre la destra chiusa a pugno si abbatte sugli occhi.


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Occhi azzurri come il cielo a mezzogiorno. Coi lividi viola che avrà domani saranno ancora più in risalto. È un rompiballe e come rompiballe va trattato, ossia suonandogliele di santa ragione. Io odio Ambrose. Dalla notte dei tempi. È cattivo, arrogante e bugiardo. Ha fatto mettere in punizione tutti i bambini più piccoli. Giusto per divertirsi. È andato da Madame raccontando storie assurde, cose che è palese abbia fatto lui. Solo che lei ha creduto a ciò che lui ha detto. Perché lui è biondo e ha gli ha occhi celesti. Come gli angeli. Quindi, in quanto angelo, ha il diritto di fare tutto ciò che vuole. Compreso fare il diavolo, ossia ciò che gli riesce meglio. Lo picchio ogni volta che ne ho l’occasione. Per me e per tutti i bimbi che hanno sofferto a causa sua. Una sorta di giustizia divina. Almeno, è ciò che mi piace pensare mentre mi imbratto


12 del suo sangue. Le prime volte, Ambrose correva a piagnucolare da Madame e la costringeva a frustarmi. Era convinto che mi sarebbe bastata la lezione. Povero illuso. Dopo quella prima punizione, non appena il sedere ha cominciato a farmi meno male, gliene ho date il doppio. È successo tre volte. Tre punizioni seguite da tre pestaggi seguite da altri pestaggi. Finché non ha capito che con me non si scherza. Me ne fotto che lui sia biondo con gli occhi azzurri come un angelo. Io sono rosso con gli occhi verdi come il demonio. Se mi rompe le palle, io le rompo a lui e chi se ne frega delle punizioni di Madame. Così ha smesso di fare la spia su di me. In compenso dà doppia razione agli altri bimbi. Per quanto mi riguarda, una scusa più che sufficiente per pestarlo.


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Capitolo 2 «Nottataccia, eh?» dice un tizio rachitico indicando i lividi viola e blu sulla mia faccia. A giudicare dal suo alito mefitico credo che la nottataccia l’abbia passata lui, ma lo tengo per me. Non sia mai che mi metta a litigare il primo giorno di lavoro. «Bene, signori» dice un uomo talmente enorme da far sembrare la sua testa una mela. «Il lavoro è semplice: trasportare e caricare, ci riuscirebbe anche una scimmia. Ora vi chiamerò uno a uno e salirete sul treno che vi porterà a destinazione. Iniziamo.» Non presto attenzione all’elenco di nomi, però. Ho appena visto Joseph, il postino. È un pedofilo e bazzica nel cortile della Casa della Gioia sempre molto più del necessario. Gli piace Alastair. Un vero angelo, non come Ambrose. Ha riccioli castani, splendidi occhi nocciola e un sorriso


14 incantevole. È sempre gentile con tutti e quasi tutti se ne approfittano. Ricordo fin troppo bene la prima volta che vidi Joseph. Stavamo giocando accanto al cancello quando arrivò. Ricordo lo sguardo predatore in quegli occhi blu come la notte. Ricordo la bava che gli colava dal ghigno. «Ma sei sempre più carino» disse viscido «Vieni qui, fatti accarezzare ancora.» La mano ad artiglio pronta a ghermire Alastair. Alastair e i suoi occhioni terrorizzati. Ricordo come si nascose dietro di me sussurrando «No, no.» Ricordo come intimai al postino di fare il suo lavoro e sparire. Ricordo come mi insultò e mi spinse sull’erba, già su Alastair. Ricordo come presi un sasso e glielo lanciai. Volevo colpirlo alla testa, spaccargliela ma lo mancai e colpii la spalla. Fu sufficiente per farlo desistere e farmi odiare. «Questa me la paghi» sibilò. Ricordo come Al piangeva e tra le lacrime mi


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ringraziava. Ricordo che mentre lo abbracciavo, per consolarlo, vidi i morsi che aveva sul collo. Ricordo che giurai a me stesso di proteggerlo sempre. Ricordo come Ambrose ci guardava sorridendo diabolico da una delle finestre del primo piano. Joseph è ossessionato da lui. Qualcuno potrebbe dire che è normale data la bellezza di Alastair, ma non io. Non è colpa sua se è nato grazioso e non è normale volerlo senza il suo permesso. Perché se potesse lo prenderebbe ancora. Lo guarda come Angus guarda i dolci dietro le vetrine delle pasticcerie. Solo che Alastair non è un cupcake, ma un essere umano. All’improvviso mi dimentico di essere all’appello del mio primo giorno di lavoro. Mi dimentico di essere sotto il sole di Calcutta. Mi dimentico di essere circondato da altri esseri umani come me. Esistiamo solo io, Joseph e il modo in cui Joseph guarda ogni bimbo che passa per strada.


16 Rivoltante. Vorrei che morisse seduta stante. Vorrei poterlo uccidere con lo sguardo. Mortali lampi verdi dai miei orribili occhi verdi. Qui, davanti a tutti. Ucciderlo, però, non sarebbe abbastanza. Mutilerei il suo cadavere con i miei artigli, spuntatimi per l’occasione. Mi ricoprirei del suo sangue. Gli strapperei il cuore e lo mangerei. Poggerei il piede sul suo petto e tutti mi acclamerebbero disperandosi. Riesco quasi ad avvertire la puzza di carne e sangue. Quasi. Il mio delirio viene interrotto da una gigantesca mano che si posa sulla mia spalla. È il tizio con la testa a mela. Spero che nessuno si sia accorto dei miei vaneggiamenti mentali, ma il modo in cui i miei nuovi colleghi ridacchiano e si sgomitano mi fa capire che la mia speranza è meno che vana. Cazzo, proprio il primo giorno. «Sei tu Adlai, figliolo?» chiede l’uomo dalla testa a mela. Annuisco.


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Sono troppo umiliato per poter rispondere, quindi non mi fido della mia voce. «Bene» continua lui «Io sono Ioan, il capo macchinista. Immagino che Isaac ti abbia parlato di me al colloquio.» «Sì, signore» rispondo, sperando che la mia voce sia abbastanza chiara. «Visto che è il tuo primo giorno, ti seguirò io per questa settimana. Se hai qualche dubbio, sentiti libero di chiedere» dice sorridendo prima di allontanarsi verso il treno a vapore. Seguo la fiumana di nuovi assunti e salgo anche io sul treno. Penso ad Alastair e agli altri bimbi dell’orfanotrofio. Penso che ora che lavorerò saranno indifesi sia dagli attacchi di Ambrose che da quelli di Joseph. A questo pensiero, una fredda mano mi stringe il cuore.

Capitolo 3


18 Ioan aveva ragione, il lavoro è semplice. Trasportare e caricare, ci riuscirebbe anche una scimmia. Questa è l’accurata descrizione del lavoro che faccio. Ha solo dimenticato di accennare che è spossante sfiancante. «Non battete la fiacca! Il lavoro nobilita, coraggio!» ripete sempre. Il primo giorno, dopo mezz’ora, credevo di morire. Dopo un’ora credevo di essere morto. Dopo un’ora e mezza credevo di essere morto e di essere finito all’Inferno. Un Inferno di carbone, fuoco e caldo. Ioan nei panni di Satana, con tanto di corna, zoccoli e frusta chiodata. Sono tornato strisciando alla Casa della Gioia, talmente stanco da aver rinunciato a spaccare la faccia ad Ambrose per aver tirato i capelli di Alarich, colpevoli di essere biondi come i suoi. È passata una settimana e il volume di gambe e braccia è raddoppiato.


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Ho scoperto di avere dei muscoli mai usati prima. «Incredibile come ti sia ambientato in fretta!» commenta Ioan al termine della settimana. Non rispondo. Non so mai che replicare ai complimenti. «Sei uno dei migliori e sei solo un ragazzino, assurdo!» continua lui. Mi sento la faccia in fiamme. Deve essere per il caldo nella stanza. Mica perché sto arrossendo. «So che non dovrei farlo» dice Ioan «ma ho deciso che ti raddoppierò la paga.» Doppia paga. La prima settimana. Non ci credo. Non so proprio che dire. Infatti sto fermo a fissarlo con la bocca spalancata come un baccalà al centro della stanza. Che figura di merda. Lui però non sembra ravvedersene e scoppia a ridere. Non una risata di scherno, però. Altrimenti mi sentirei umiliato e così non è. Mi sento solo le guance roventi e mi interessa molto


20 analizzare i ghirigori delle mattonelle del pavimento. Poi accade l’impossibile. Si alza, mi si avvicina, mi accarezza la testa e dice: «Sono davvero orgoglioso di te, figliolo» Il calore al viso si intensifica e quasi arde. Una fitta alla bocca dello stomaco mi costringe a piegarmi. Mi si annebbia la vista e scoppio a piangere. Nessuno mai mi aveva detto una cosa simile. Nessuno. La consapevolezza di stare rendendomi ridicolo mi colpisce come un treno in corsa. Ora Ioan mi prenderà in giro. Mi licenzierà e mi toglierà la paga. Tornerò da Madame con la coda tra le gambe. Mi sbatterà fuori dall’orfanotrofio. Mi ucciderà. Invece no. Nessuno scherno. Solo un sorriso, gli occhi limpidi come un cielo estivo e un’altra carezza. «Sei un bravo ragazzo, Adlai» dice «Continua così.»


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Capitolo 4 «Hanno lasciato la patata bollente a me e devo rovinarmi la salute dietro a voi.» La frase preferita di Madame. Per anni l’abbiamo tutti sentita ripetere questa nenia e ci aveva quasi convinti. Quasi. È troppo bella, Madame. Troppo, per una persona così crudele. Non è giusto. Si lamenta sempre, di me e degli altri orfani. Dice che noi siamo una spesa. Lei è sola, poveretta. Lei non può badare a tutti noi. Siamo troppi e troppo cattivi. Vivo lì da dieci anni. Dieci anni in cui lei continua a lamentarsi di noi. Sempre. Tutti i giorni a tutte le ore.


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Si lamenta fino alla morte. La sua morte. Per mano nostra. Gli orfani sopravvissuti. Io, l’asiatico Angus che un giorno è cinese, l’altro mongolo, quello dopo cambogiano, il biondo Alarich, Alastair e Ambrose. Il peggio del peggio. Madame si è sempre lamentata delle spese. Peccato che il comune della città le abbia versato fior di quattrini ogni mese. Per ciascuno di noi. Noi non abbiamo mai visto nulla più di un tozzo di pane che doveva durarci tutta la settimana. Madame si è sempre lamentata della nostra pigrizia. Tutti noi abbiamo lavorato, chi in fabbrica, chi in miniera, chi in casa. La nostra paga era sua. Abbiamo lavorato fino a morire. Eravamo 300 bambini e siamo rimasti in cinque. Lei ha usato i nostri soldi per sé. Lei aveva pellicce. Noi stracci.


24 Poteva anche immaginare che prima o poi l’avremmo scoperto. Poteva anche immaginare che prima o poi ci saremmo ribellati. Ambrose è la talpa. Lui ha guidato l’impresa. Abbiamo 10 anni. La leghiamo al letto mentre dorme. Le versiamo addosso dell’acetone. Quello che usa per pulire i suoi artigli dallo smalto. Poi appicchiamo il fuoco. Usciamo dalla casa senza fretta. Non accorre nessuno a spegnere le fiamme. Nessuno si preoccupa di sapere se noi bimbi siamo intrappolati dentro. Nessuno sporge denunce di alcun tipo. Noi non siamo mai esistiti. Dopo l’incendio viviamo per strada. Ci siamo stabiliti in un vicolo. Talmente lercio che gli altri senzatetto non ci vogliono stare. «La cosa migliore che ci potesse capitare!» Così parla Ambrose, gli occhi azzurri esaltati. Noi altri non rispondiamo.


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Gli altri tre sono rimasti scioccati dall’accaduto. Soprattutto dal loro comportamento. Siamo assassini. Piccoli omicidi. Io sono scioccato dalla mia assenza di emozioni. Niente rimpianto. Niente pentimento. Niente di niente. Ambrose, invece, è entusiasta. L’idea è partita da lui. Chissà da quanto ci pensava. Da quanto pensava di uccidere un altro essere umano. Una volta, all’orfanotrofio, l’ho visto mentre cercava di annegare un passerotto. L’ho fermato e il passerotto è riuscito a volare via, ma Ambrose mi ha fulminato con lo sguardo. Non ci badai affatto ma alla luce di ciò che avvenne l’indomani, forse avrei dovuto preoccuparmi. Il giorno dopo trovai due cadaveri di passerotti che galleggiavano nella fontanella del cortile. Quando sollevai lo sguardo da quello scempio, vidi Ambrose. Era al primo piano della casa.


26 La stessa finestra di quando colpii Joseph con la pietra. Mi guardava e sorrideva. Lo stesso sorriso di allora. Capii subito che era stato lui. Chissà da quanto tempo si era stancato di uccidere bestiole indifese. «Voglio che Madame Panere muoia» Questa era la frase che tutti gli orfani della casa hanno pronunciato e pensato almeno una volta nella vita. L’esistenza lì dentro era diventata insostenibile. Nessuno, però, aveva mai pensato di esaudire questo immondo desiderio. Nessuno, tranne Ambrose. «Facciamolo, allora» disse un giorno. È bello, Ambrose, con gli occhi blu e i capelli biondi come gli angeli dei quadri della chiesa. Il suo viso però non è quello di un angelo. È un diavolo e lo si vede al primo sguardo. L’espressione e il ghigno perenne lo confermano. Un bellissimo diavolo, ma pur sempre un diavolo. Ha organizzato tutto lui e quando i preparativi furono ultimati, ci convocò per le direttive. Noi siamo suoi complici. Abbiamo ucciso insieme. Fine anteprima. Continua...


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