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LUCA LENZI CIGLIUTI
IL CANALE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL CANALE Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-466-3 Copertina: immagine di Giovanni Lombardi Prima edizione Maggio 2021
Questo racconto è un’opera di fantasia. Ogni riferimento a fatti accaduti o persone realmente esistite è puramente casuale.
Agli amici della compagnia del Camping Haway, sul lago di Viverone: i migliori amici con i quali si possa desiderare di crescere. Al lago, che da tutta la vita mi ispira in mille modi.
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SABATO 13 LUGLIO 1991
Tre rintocchi di campana solcarono la superficie del lago senza incontrare ostacoli. Come aerei da caccia che sorvolano un deserto a bassa quota. Le tre di notte. I suoni raggiunsero integri la sponda opposta, dove un gruppo di giovani era stravaccato su un pontile di legno. Dopo la baldoria del sabato sera, i ragazzi erano tornati nel campeggio che li ospitava. Poiché andare a dormire non era un’opzione percorribile, si erano radunati in riva al lago, in un posto tranquillo per bere, fumare e magari imboscarsi – se la serata andava bene – lontani da occhi e orecchie indiscreti. Dopo una settimana di scuola per alcuni, o di lavoro per altri, il sabato sera doveva durare il più a lungo possibile, perché era l’unico momento in cui assaporare la libertà, ormai perduta nel resto della settimana. Il ritrovo al lago nei weekend era un appuntamento a cui nessuno di loro era disposto a rinunciare. Quel campeggio era come un piccolo villaggio, una micro comunità di persone che si conoscevano da anni, e si ritrovavano ogni settimana per passare un paio di giorni insieme, in un ambiente ben diverso da quello delle città. Varcato l’ingresso, le consuetudini mutavano come per magia: gente che a casa propria non poteva fare a meno di ogni comfort, si adattava a vivere nello spazio ristretto di una roulotte con veranda. Liberi professionisti e ragionieri, macellai, operai e verdurieri si spogliavano – letteralmente – della loro posizione sociale e passeggiavano per le stradine del campeggio in costume, esibendo
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pance, cellulite e sederi flaccidi, come se fosse la cosa più naturale al mondo. In campeggio si andava per rilassarsi, per ritrovare quella naturalezza scomparsa nella frenesia del quotidiano, assaporando cose semplici, come giocare a carte fino all’alba, pranzare in tavolate di trenta persone, oppure andare a fare colazione al bar in pigiama, come se si trattasse del salotto di casa. In quel piccolo Eden, i bambini erano figli e nipoti di tutti, come in una grande famiglia allargata. I genitori non avevano bisogno di controllare la prole, perché protetta dai confini del campeggio e sorvegliata da decine di spie dislocate sul territorio, che riferivano loro le marachelle dei figli ben prima che questi rientrassero a casa. Erano tempi in cui volavano ciabatte e zoccoli, in cui il battipanni e la scopa non servivano solo per il ménage casalingo ma ricoprivano anche ruoli educativi, senza che nessun bambino ne risultasse traumatizzato. Al contrario, le punizioni erano uno stimolo a essere più scaltri la volta successiva, per farla in barba agli adulti. Quasi tutti i ragazzi della compagnia frequentavano il campeggio fin da bambini ed erano cresciuti insieme. Quel luogo, in cui potevano scatenarsi come dei piccoli selvaggi, li aveva segnati in maniera indelebile. Avevano attraversato le fasi della crescita, assistendo di anno in anno alla trasformazione dall’infanzia all’adolescenza, osservando il cambiamento dei loro corpi e dei loro istinti. La voce bianca da infante, poteva incrinarsi di colpo in una tonalità bassa da orco, che faceva ridere tutti e provocava imbarazzo al bambino che si stava trasformando in adolescente. Alla chiusura del campeggio si salutava l’amichetto del cuore, più basso di una spanna e lo si ritrovava all’apertura, sei mesi dopo, alto come una pertica. La bambina a cui si facevano i dispetti, durante l’inverno poteva essere sbocciata, mostrando due interessanti protuberanze sotto la maglietta. La frequentazione assidua aveva creato legami saldi, amicizie durature e amori, di quelli che – sebbene adulti, tanti anni dopo – non sarebbero mai stati dimenticati. Le prime cotte, i primi baci, le prime sbronze, le prime risse, le prime volte…
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Il campeggio era un campus della vita nel quale si poteva fare esperienza in piena sicurezza, protetti dagli amici e dalla familiarità del luogo. Quando si cresce in piccole comunità – un campeggio, un villaggio, un borgo di montagna – storie e personaggi assumono un’aura mitica. In nottate come quella, venivano rievocate le imprese del fratello di uno o del padre dell’altro, ripetute decine di volte negli anni, perché gli aneddoti facevano ridere o provocavano la pelle d’oca. Nel buio della notte, nascevano così le leggende, tramandate di bocca in bocca, sovente con una buona dose di alcolici nello stomaco. Sotto al cielo stellato, nel tepore di una notte d’estate, il pontile adagiato sulle acque nere del lago, diventava un trampolino per l’immaginazione. Alcune storie narravano di fatti accaduti, altre invece venivano inventate di sana pianta per prendere in giro qualcuno, per il gusto del brivido o magari per spaventare una ragazza e spingerla ad accostarsi un po’ di più, intimorita dall’idea che qualcosa di viscido si sarebbe potuto arrampicare su per i pali del pontile, fino a sfiorarla. Il lago poi, era una fucina di storie inquietanti. Ogni anno le sue acque oscure si portavano via qualcuno, e molti dispersi non erano mai stati ritrovati. Uno dei ragazzi della compagnia raccontò di suo padre, che uscito a pescare al mattino presto con la barca, aveva trovato il cadavere di un tizio caduto in acqua e rimasto piantato con la testa nel fondo melmoso. I canneti poi, erano un ambiente di grande fascino ma altrettanto pericoloso. Quella parte del lago, nonostante le acque circostanti fossero limpidissime, nascondeva un cuore marcescente: un fondale composto da metri e metri di melma nerastra e putrida, nella quale si poteva immergere un remo fino al manico, senza toccarne il fondo. Si raccontava che in quella melma, celata sotto decine di metri d’acqua – che con l’aumentare della profondità si faceva gelida e oscura – fossero state gettate armi e mezzi militari, alla fine della Seconda guerra mondiale. Qualche anno prima
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invece, un aeroplano da turismo precipitato nel lago, era stato inghiottito dal fondale e mai più ritrovato. Qualcuno ricordò che alla fine di giugno, sulla sponda opposta, era sparita una bambina, di cui si era persa ogni traccia. Stava facendo il bagno di fronte a una spiaggetta, poco distante dai canneti. Era scomparsa senza che i genitori si accorgessero di nulla. Storie come queste scatenavano la fantasia e la curiosità morbosa dei ragazzi. La figlia dei tedeschi in prima fila, seduta con la schiena appoggiata a un copertone fissato al pontile per proteggere gli scafi delle barche che attraccavano, raccontò che suo padre e un paio di amici si erano spinti con la barca per esplorare i canneti. Avevano trovato un canale nascosto tra i cespugli e le piante acquatiche, che s’inoltrava nella boscaglia paludosa della sponda occidentale del lago. Aggiunse che avevano provato a imboccare il canale facendo ben presto dietro front, perché si restringeva troppo e la chiglia della barca strisciava pericolosamente contro rami e radici affioranti. Max ascoltava con attenzione, sorseggiando una bionda da quattro soldi. Conosceva già quelle storie ma quella volta un pensiero gli passò per la mente. Forse una barca avrebbe toccato il fondo, ma una tavola da surf a chiglia piatta come la sua, sarebbe scivolata a pelo d’acqua senza problemi, anche se il fondale fosse stato di pochi centimetri. Mentre le chiacchiere si perdevano nell’oscurità, Max gettò uno sguardo verso la parte occidentale del lago, completamente immersa nel buio. Un’idea, una di quelle eccitanti, cominciò a prendere forma.
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DOMENICA 14 LUGLIO
Il fine settimana sfrecciò via, fugace come una stella cadente. L’evento domenicale era la partita a pallone contro la squadra del campeggio rivale, che si concluse, tanto per cambiare, con una rissa furibonda a cui parteciparono anche gli spettatori. Raramente si riusciva ad arrivare fino al triplice fischio, ma anche quello faceva parte del gioco, come un calcio d’angolo o un rigore. La compagnia aveva trascorso il resto della domenica intorno al bar, a ingozzarsi di Dixie, birra e gelati, tra scherzi e risate. Quelli tra loro che volevano stare in pace a prendere il sole sul terrazzino o in riva al lago, venivano molestati di continuo da gavettoni d’acqua gelata scagliati a tradimento. In sottofondo, il jukebox suonava fino allo sfinimento Losing my religion dei REM. Max si godeva gli anni acerbi della gioventù e quei momenti di euforica allegria con gli amici. A diciannove anni le prime inquietudini sul futuro offuscavano la sua spensieratezza, come nuvole minacciose che ricoprivano un cielo fino a quel momento terso. L’anno scolastico che sarebbe iniziato a settembre avrebbe dovuto essere l’ultimo, salvo farsi bocciare un’altra volta. In seguito, sentiva incombere lo spettro della Naja e le incertezze di un futuro nel mondo del lavoro e degli adulti. Quei pensieri sporadici scatenavano sciami di farfalle nello stomaco, che tentava di annegare trangugiando un altro sorso di birra. Nonostante vivesse al massimo quella domenica con gli amici, una parte di lui non vedeva l’ora che venisse la sera, perché la maggior parte della gente rientrasse a casa e il campeggio tornasse a essere quell’oasi di pace e silenzio che tanto gli piaceva. Sebbene giovane e sempre pronto per baldorie e bisbocce, Max aveva un animo contemplativo. Adorava stare per ore in riva al
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lago di notte, quando gli unici suoni che si udivano erano i versi degli uccelli acquatici e tutto il resto intorno taceva. Era in vacanza e poteva restare in campeggio da solo, perché possedeva una moto da enduro, un’Aprilia Tuareg 600, che aveva acquistato non appena raggiunta la maggiore età, dando fondo a tutti i suoi risparmi. La moto lo rendeva indipendente e per lui rappresentava la libertà di fare un po’ come gli pareva. In quel momento, però, non stava pensando a un giro in moto. Dalla notte precedente, il pensiero dei canneti e del canale nascosto, erano diventati un tarlo e l’idea di un’esplorazione in solitaria in quella parte del lago lo adescava, come il formaggio in una trappola per topi. Max possedeva tre tavole da surf. Una la usava come windsurf, montandovi l’albero, la vela, il boma e la deriva, cioè la grande pinna centrale rimovibile. Le altre due le aveva recuperate nei canneti, dopo quei tremendi temporali che si scatenavano tutti gli anni sullo specchio d’acqua, sospinti da venti fortissimi in grado di spezzare rami e abbattere alberi. Quei fortunali trascinavano in una certa zona del lago tutto ciò che non era stato saldamente ormeggiato, e i ragazzi della compagnia lo sapevano bene. Dopo ogni burrasca, infatti, andavano con una barca “presa in prestito” – cioè all’insaputa del proprietario – a recuperare qualche relitto che sarebbe servito per andare al largo a fare il bagno, o per spiare le donne delle ville oltre il campeggio, che prendevano il sole nude. Max conosceva bene quella parte del lago, e dal racconto dell’amica aveva capito in che punto si trovava l’accesso al canale nascosto: al fondo di un’ampia insenatura tra una collina tondeggiante e la zona che veniva chiamata “le sabbie”, perché in quel punto, al posto della melma, c’era un bellissimo fondale basso e sabbioso, dove si poteva fare il bagno senza camminare sul viscido o nuotare in mezzo alle alghe. Giunse la sera. I genitori di Max lo salutarono, lasciandogli le consegne per la settimana, come un sergente di giornata al
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piantone. Le raccomandazioni non avevano ancora finito di entrare da un orecchio, che già stavano uscendo dall’altro. Rimasto solo, Max se ne andò in riva al lago a godersi la frescura della sera. Nel campeggio si sentiva il vociare dei saluti e dei congedi, insieme allo sbattere delle portiere delle auto. Le luci delle verande si spegnevano una dopo l’altra, come se fosse in corso un blackout al rallentatore, mentre gli ospiti abbandonavano il campeggio per rientrare a casa loro. Verso le undici e mezza, quando i proprietari chiusero il cancello per la notte, rimasero solo calma e silenzio. Max, seduto su un pontile in riva al lago, fremeva dalla voglia di prendere la tavola e mettersi a remare verso i canneti. S’impose di pazientare ancora per qualche ora, dopodiché sarebbe entrato in azione. Tornò alla sua roulotte, facendo il giro dai bagni. Prima di andare a dormire prese un’ultima birra dal frigo, notando che sua madre gli aveva lasciato una quantità di provviste, sufficienti a superare un’era glaciale senza patire la fame. Entrando accese il ventilatore, perché all’interno faceva ancora caldo. Puntò quindi la sveglia alle 8:00 e si coricò nudo sul letto. Guardò il soffitto della roulotte, perlinato di legno di abete, eccitato per l’avventura che lo aspettava. Spense la luce e chiuse gli occhi, cercando di prendere sonno. Il chiarore fioco del lampione filtrava tra le tende, mentre i gabbiani radunati al centro del lago schiamazzavano festosi, come bambini a scuola durante la ricreazione. Sarebbe passato molto tempo, prima che Max potesse godere ancora di un sonno così tranquillo.
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LUNEDÌ 15 LUGLIO – ORE 08:45
La tavola da surf, trascinata sulla ghiaia del vialetto, faceva un baccano d’inferno. Il vecchio odioso della fila dietro, uscì dalla veranda per vedere se c’era qualcosa in cui ficcare il naso. Max lo salutò e l’altro ricambiò con un grugnito indispettito, restando a fissarlo ritto sulla soglia, con le mani appoggiate sui fianchi e lo sguardo arcigno. Quando comprese che non c’era modo di far polemica, fece dietro front per tornare a sedersi davanti al televisore, che – come sempre – teneva a un volume esagerato, incurante del fatto che fosse ancora mattina presto. “Vecchio impiccione”, pensò Max “sempre in pole position a farsi i fatti altrui”. Il ragazzo lasciò la corda con cui trascinava la tavola, raccolse una ghianda sopravvissuta dall’autunno precedente, e la scagliò sul tetto della roulotte del vecchio. La ghianda colpì la lamiera con uno schiocco secco, rimbalzò un paio di volte, per poi proseguire scivolando verso il bordo esterno, oltre il quale scomparve. Ridacchiando, Max riprese a trascinare la tavola, sicuro che il vecchio si sarebbe precipitato fuori per attaccare briga. «Delinquente!» sentì gridare alle sue spalle. “Bingo!”, pensò Max. Rise e soffocò una pernacchia, tanto aveva già imboccato la discesa che portava al lago. La tavola scivolò sul pelo dell’acqua. Max avvertì la resistenza del terreno venir meno, accompagnata dalla familiare sensazione di scorrimento della chiglia, che si muoveva libera sul pelo dell’acqua con un fruscìo leggero come seta. Era una bella mattina di metà luglio: le acque calme come uno specchio, riflettevano le colline circostanti e le montagne in
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lontananza. Non c’era nemmeno una barca a motore sul lago e le acque, immobili, lasciavano intravedere il fondale con una nitidezza cristallina. Il sole già caldo accarezzava la pelle del giovane, ansioso di esplorare quel tratto di lago che tanto stuzzicava la sua curiosità. Camminò sul fondale pietroso finché fu immerso fino all’ombelico, quindi si tolse le ciabatte di plastica e le lanciò sulla riva. Legò la tavola a una boa e si tuffò nell’acqua fresca, per scrollarsi di dosso gli ultimi residui di sonno. Nuotò con bracciate vigorose verso il largo, godendosi la meravigliosa sensazione del sole caldo sulla schiena, e della frescura sul resto del corpo immerso nel lago. Tornato indietro, slegò la tavola e ci montò sopra con la pancia. Poi allargò le gambe e le cacciò in acqua ai lati della plancia, drizzandosi a sedere come un cow boy balzato sul dorso di un cavallo da rodeo. La tavola dondolò, generando delle piccole onde che si allontanarono in direzioni opposte. Sfilò quindi la pagaia di plastica con il manico in alluminio, che aveva infilato in verticale nel buco al centro, sede dell’alloggiamento dell’albero. Sollevò le gambe dall’acqua e le distese in avanti, leggermente divaricate, mantenendo la schiena dritta e sistemandosi al centro della tavola per bilanciare il peso ed evitare ondeggiamenti. Trasse un profondo respiro e immerse la pagaia nell’acqua, spingendo con vigore. La tavola si mosse in avanti, scivolando leggera sulla superficie liscia come un vetro, la prua a occidente verso la parte più selvaggia del lago. Verso il destino in agguato. Erano le 9:15 della mattina. Il campeggio scorreva davanti ai suoi occhi, come montato su un nastro trasportatore. Il pontile di ferro, dal quale i ragazzi saltavano nel lago con le biciclette. Le roulotte con le verande colorate e adorne di fiori. I salici, con i rami che s’inchinavano a toccare l’acqua. Poi, oltre la recinzione, il bosco, araldo della natura selvaggia della sponda occidentale.
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Max pagaiava con calma, accarezzato dal sole, il profumo del lago nelle narici. Non faceva alcuna fatica, perché la corrente lo trasportava in direzione della sua meta. Dopo qualche centinaio di metri, il bosco lasciava spazio a un’ampia radura, dove un paio di ville con il prato all’inglese fungevano da estremo baluardo della presenza umana, prima della terra “inabitata” delle paludi. Max si voltò a guardare la spiaggetta privata, notando che – come di consueto – due donne prendevano il sole nude. Con un sospiro tirò dritto, nonostante la curiosità di dare una sbirciata da vicino, perché sapeva che le nudiste erano protette da una coppia di dobermann, i quali facevano molto bene il loro mestiere di deterrente per i guardoni. L’anno precedente Max e altri amici, passando a piedi dal bosco, si erano avvicinati alla spiaggetta per spiare. Nascosti dalle fronde degli alberi, che si allungavano ben oltre la riva, erano convinti che i cani non li avrebbero scorti. In effetti erano stati protetti dalla vista, ma non dal fiuto di quei due dannati cerberi, che si erano avventati su di loro sbavando e lasciandogli giusto il tempo di buttarsi nel lago, per scappare a nuoto calzati e vestiti, prima di essere azzannati. Non aveva ancora finito il pensiero, che dalla spiaggia si udì il latrato furioso delle due belve. Tirò dritto, evitando di pensare a quel ben di Dio adagiato sulla sabbia. In un attimo fu oltre la radura delle ville e l’abbaiare dei cani sfumò nella brezza mattutina. Max proseguì pagaiando, finché superò una punta oltre la quale si apriva un golfo completamente ricoperto di canneti che proseguivano verso l’interno, formando una grande pianura paludosa circondata da colline fitte di boschi. Impaziente di raggiungere l’area della sua ricerca, Max tirò dritto tagliando il golfo al centro, invece di costeggiarne i bordi. In quel punto la corrente si faceva più forte e l’acqua più profonda, costringendolo a pagaiare con decisione, usando gli addominali per dare più forza alla voga.
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Remava da un lato e dall’altro con la stessa pagaia, in maniera simmetrica per mantenere la prua diritta, facendo attenzione a non prendere troppa velocità, per evitare un inconveniente che aveva scoperto a sue spese. La tavola, una vecchia O’Neill da regata che il ragazzo aveva comprato per quattro soldi, era perfetta per essere usata come canoa. Era più lunga e più larga delle comuni tavole da windsurf, con la superficie superiore piatta e la chiglia liscia. Era sprovvista di pinne posteriori e di deriva1, e per questo motivo poteva navigare in pochi centimetri d’acqua, a discapito però della stabilità. Capitava infatti che, sorpassando una certa velocità, la prua iniziasse a ondeggiare a destra e a sinistra, fino al punto in cui si perdeva il controllo della tavola che sterzava in maniera repentina, effettuando un vero e proprio testacoda. Le prime volte Max si era ritrovato sbalzato in acqua, con la tavola ribaltata. In seguito, aveva scoperto che quando la sentiva girare su se stessa – segno che aveva perso il controllo – bastava immergere le gambe in acqua e stringerla forte con le cosce, assecondando il testacoda per evitare il ribaltamento. Era una tecnica bizzarra, più simile all’equitazione che al canottaggio, ma la cosa importante era che funzionava alla perfezione. Per mantenere la prua diritta ed evitare la sterzata, era dunque necessario remare in maniera simmetrica, applicando la stessa forza su entrambi i lati. In un quarto d’ora, Max raggiunse la sponda opposta del golfo. Ridusse la velocità, quindi si avvicinò alla riva ricoperta di canneti e virò verso nord, pagaiando lentamente per godersi la bellezza di quei luoghi senza tempo, in cui l’impronta umana era quasi inesistente. La tavola scivolava sul pelo dell’acqua limpida, di un colore verde cupo. Dal fondale, profondo tre o quattro metri, vere e proprie foreste di alghe si allungavano verso l’alto fin quasi a toccare la superficie, dando vita a un incredibile paesaggio subacqueo, nel quale un’infinità di pesci nuotava o guizzava tra le piante acquatiche in cerca di prede. 1 Grande pinna centrale estraibile.
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I canneti erano popolati da un numero impressionante di uccelli lacustri; aironi, folaghe, germani, svassi, tarabusi. Sui ciuffi di canne che spuntano come isolotti, là dove il fondale si faceva più basso, giocavano dei cuccioli di nutria guardati a vista dalla madre, il cui dorso e la coda affioravano dall’acqua. Avvicinandosi alla riva, la barriera di canneti si faceva più fitta. In un varco tra la vegetazione, un sentiero si allargava formando un piccolo spiazzo affacciato sul lago. Alcuni resti di focolari ormai spenti, testimoniavano che la zona era frequentata dai pescatori di carpe. Costeggiando la riva in direzione nord, i canneti diventavano più intricati e impenetrabili. Il lago formava una grande ansa, dando origine a un ambiente paludoso, che in alcuni tratti era completamente ricoperto di ninfee, le cui larghe foglie creavano un vero e proprio tappeto verde, costellato qua e là di meravigliosi fiori bianchi e gialli. L’ambiente lacustre era di una bellezza selvaggia, difficile da descrivere a parole. Pagaiando in silenzio, sotto l’assalto delle zanzare – ancora relativamente sopportabili, dal momento che il tramonto era lontano – Max si addentrò nell’ansa paludosa. S’insinuò tra i canneti, nel mezzo dei quali si formavano dei canaletti che in breve si ricongiungevano al lago. Il silenzio era rotto solamente dai versi degli uccelli e dal volo improvviso di qualche germano reale, spaventato dalla presenza dell’intruso. Nella parte più interna dell’ansa, l’acqua si faceva più bassa e Max si accorse che, smettendo di pagaiare, la tavola tendeva a spostarsi lentamente verso una zona precisa, un’area in cui gli alberi che spuntavano dalla palude chinavano le chiome fino a bagnarle nell’acqua. Max girò la prua della canoa improvvisata, e lasciò che questa si dirigesse liberamente verso il punto in cui convergeva la corrente. L’acqua divenne ancora più bassa, non più di una spanna, ma al di sotto il fondale pareva composto da una fanghiglia nerastra e vischiosa. Gli tornarono in mente i racconti ascoltati fin da
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bambino, e per curiosità affondò la pagaia nella melma cercando di toccarne il fondo, ma questa sprofondò fino al manico. Spinse dentro anche la mano e tutto l’avambraccio, senza incontrare alcuna resistenza. Con un brivido di disgusto, estrasse il braccio con uno strattone, e sia questi sia la pagaia ne uscirono completamente ricoperti da una poltiglia scura e maleodorante. Dal fondale molestato proveniva un odore di decomposizione da togliere il fiato, una miriade di bolle gassose emergevano dalla melma e si propagavano nella poca acqua al di sotto della tavola, scoppiando al contatto con la superficie e liberando nell’aria un miasma pestilenziale. In preda al disgusto, Max sciacquò la pagaia con frenesia. Poi si allontanò di qualche metro dall’acqua intorbidita, per ripulirsi anche la mano e il braccio. Ficcò la pagaia in acqua sul lato destro e fece forza con le braccia. La tavola ruotò su se stessa con un rumore scrosciante. Il ragazzo si mise a remare deciso verso il lago aperto, per respirare aria pulita e togliersi da quella porcheria che l’ammorbava. Gli tornò in mente il racconto dell’uomo ritrovato piantato con la testa nella fanghiglia e le gambe fuori dall’acqua. Si intimò di non fare cazzate e di essere prudente, perché in un posto come quello non c’era da scherzare. Raggiunta una boa a circa duecento metri dalla riva, vi ormeggiò la tavola. La boa gialla, insieme a decine di altre, delimitava l’area lacustre che era stata dichiarata riserva naturale, ammonendo al divieto di transito per le barche a motore. Max si lasciò scivolare in acqua, rotolando su se stesso. Al contatto con l’acqua fresca, la pelle gli si accapponò su tutto il corpo, scatenando una piacevole sinfonia di brividi e formicolii. Si sciacquò di dosso i residui del marciume di cui si era lordato, e si abbandonò a una bella nuotata, immergendosi nell’acqua verde e profonda, per poi riemergere alla luce abbagliante del sole. Si sentiva vivo, felice, nel pieno vigore dei suoi diciannove anni. Con due bracciate fece ritorno alla tavola da windsurf, la cinse con il suo corpo e con una spinta repentina sollevò la gamba destra al
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di fuori dell’acqua e la mise a cavallo della plancia, buttando il peso verso il lato opposto, in modo da evitare il ribaltamento. In un attimo fu sdraiato a pancia in su a godersi il calore del sole, cullato dal lieve moto ondoso e dallo sciabordio dell’acqua sotto alla tavola. Dopo una buona mezz’ora di relax, Max si tirò su. Sbadigliando e stiracchiandosi, scrutò la piccola baia ricoperta di canneti, dove stimava si trovasse l’accesso al canale misterioso. Aveva sentito dire che quello era l’estuario del lago e che scaricava le acque in eccesso in un fiume, a una quindicina di chilometri di distanza. “Grandioso!”, pensò “quindici chilometri di avventura!”. Si ritrovò a fantasticare di percorrerli tutti con la tavola, passando in mezzo a campi, boschi, paludi, forse altri laghi – ce n’erano parecchi nella zona, poco più di pozze perlopiù – fino a raggiungere il punto in cui il canale incontrava il fiume che scendeva dalle montagne. Nella vita moderna l’avventura si è ridotta a materiale da lettura o da cinema, ma il lago e i suoi dintorni nascondono ancora parecchi meandri inesplorati, nei quali ci si può perdere e lasciar volare la fantasia, immaginando di essere in un altro luogo e in un’altra epoca. Magari al tempo dei Trapper, nelle sconfinate foreste del Nord America. Oppure con una banda di indiani Chippewa, discendendo un fiume in canoa di pelle. O tra i vichinghi, esplorando un territorio sconosciuto, dopo essere sbarcati da un Drakkar con la polena a forma di drago. Gli spunti erano molti e tutti eccitanti. Chissà, forse avrebbe avuto l’idea giusta per lanciare un nuovo tipo di sport-avventura, non gli pareva che nessuno ci avesse mai pensato, fino a quel momento. Sciolse il nodo che legava la corda di nylon alla boa, quindi tirò su le gambe dall’acqua, le distese di nuovo in avanti e riprese a pagaiare lentamente, dirigendosi verso il punto che aveva richiamato la sua attenzione. Giunto all’imbocco dell’ansa paludosa, Max puntò la pagaia nell’acqua, da un lato e subito dopo dall’altro, usando la pala – cioè la parte piatta – per frenare lo slancio della tavola. Si lasciò
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quindi portare dalla corrente, che come un placido fiume invisibile s’insinuava tra i canneti. S’inoltrò tra la vegetazione, con la sensazione di varcare la soglia di un’altra dimensione, rispetto a quella estiva e solare del lago aperto. Nonostante fosse quasi mezzogiorno, i canneti erano un mondo fatto di ombre, con le cupe fronde degli alberi che s’immergevano nelle acque colorate di nero e di marrone da quell’orribile melma. Rabbrividiva al pensiero dell’abisso senza fondo che si spalancava a non più di trenta centimetri sotto al suo sedere. La prospettiva di cadere in quella trappola mortale – probabilmente erano sabbie mobili – lo riempiva di angoscia, ma il ragazzo sapeva come maneggiare la sua imbarcazione. Era sicuro che in caso di perdita di equilibrio, sarebbe bastato tuffare le gambe in acqua da entrambi i lati e stringerle attorno ai bordi della tavola, come su un cavallo che sgroppi. In quel modo sarebbe riuscito a tenerla in equilibrio, anche se si fossero sollevate onde da tsunami. La tavola di per sé era inaffondabile, l’importante era non sbilanciarsi e finire in acqua. Max si appese a un ramo che gli si parava davanti, il cui fogliame ostruiva la vista oltre che il percorso. La tavola si arrestò, ondeggiando dolcemente da una parte e dall’altra, originando dei cerchi che si espandevano a raggiera nell’acqua quasi ferma. Come su una lastra di ossidiana lucida, gli alberi riflettevano le loro fronde, che incorniciavano la palude. Un airone si lanciò in volo dalla cima di un albero, emettendo il suo verso stridulo. Un motoscafo ronzava in lontananza sul lago. Una nuvoletta di moscerini danzava con un moto ipnotico – tutti insieme su, tutti insieme giù – sul pelo dell’acqua. Ogni tanto si sentiva lo schiocco di un pesce che saltava fuori dall’acqua per catturare un insetto. Max si sentiva sull’orlo di una grande scoperta, come Leif Eriksson davanti alle coste del Vinland2. 2 Nome che i vichinghi diedero alla porzione di America settentrionale, oggi nota come Terranova.
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Si mise a lottare con i rami e con gli arbusti, sempre ben attento a non perdere l’equilibrio, finché riuscì a sporgersi per guardare oltre la barriera verde. L’imbocco del canale era lì, celato in un sottobosco di alberi cresciuti nelle acque melmose, ricoperte di ninfee. Infilò la pagaia sotto alla gamba, per non rischiare di perderla, quindi, rimpiangendo di non aver portato un machete, prese a spezzare i rami fogliosi che gli impedivano di passare. In pochi minuti il passaggio fu libero: “La scoperta del secolo” della compagnia del campeggio, era lì a portata di mano. Diede un paio di pagaiate e poi si sdraiò sulla tavola, per passare sotto ai rami più grossi di cui non riusciva a liberarsi. Un lampo di buonsenso in mezzo a tanta eccitazione, gli ricordò che probabilmente era già passato mezzogiorno e che non aveva nemmeno fatto colazione, visto che prevedeva di fare il bagno. Lo stomaco iniziava a dare segni d’impazienza e calcolò che per tornare al campeggio avrebbe impiegato più di quaranta minuti, partendo da quel punto e tagliando il lago in linea retta. «Solo un pezzetto, qualche metro in più giusto per farmi un’idea, e poi torno indietro. Ora che ho scoperto il passaggio, posso tornarci quando voglio» contrattava Max con se stesso. Il demone della curiosità cantava “We are the Champions” a squarciagola, mentre l’angioletto del buonsenso risultava “non pervenuto”. Diede un colpo di pagaia sul lato sinistro della tavola e la prua si allineò con l’imboccatura del canale. Un colpo di remo a destra, poi un altro a sinistra e lentamente la tavola iniziò ad addentrarsi in quel mondo fatto d’acqua, suoni ovattati, piante affioranti dal basso tanto quanto cadenti dall’alto. Il primo tratto del canale era veramente spettacolare: si apriva in mille meandri costituiti da isolotti di terriccio umido su cui spuntavano delle canne; tronchi di alberi che sorgevano direttamente dall’acqua, in punti nei quali affiorava del terreno un po’ più solido. Una raggiera di canne tutt’intorno, in mezzo alle quali ogni tanto si aprivano dei canaletti: alcuni s’inoltravano nei
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canneti – troppo stretti per passarci persino con la tavola – mentre di altri s’intravedeva la fine già pochi metri più avanti. L’insieme era davvero suggestivo. Faceva venire in mente un film che Max aveva visto poco tempo prima: “I guerrieri della palude silenziosa” ambientato negli acquitrini della Louisiana. Quell’ambiente gli somigliava parecchio. La corrente che aveva attirato la tavola verso l’imbocco, rivelando l’esistenza del canale, si stava facendo più forte. Non di molto, ma di quel tanto che rendeva inutile continuare a remare, se non per mantenere dritta la prua e per evitare certi rami che si protendevano in direzione dell’intruso. Dopo una trentina di metri, la palude prendeva una forma a imbuto, trasformandosi finalmente in un canale vero e proprio. L’acqua s’imbottigliava in uno stretto passaggio tra sponde piene di canneti, che in seguito lasciavano spazio a rive nude e fangose, dello stesso colore bruno del fondale, tra le quali scorreva pigra la poca acqua al di sotto della tavola. Si trattava di pochi centimetri di fondale, non più di una ventina, ma la conformazione della tavola, a chiglia piatta e senza pinne, permetteva di scivolarvi agevolmente, come un bob su una pista ben battuta. La distanza tra una sponda e l’altra era maggiore di tre metri, ma tendeva a diminuire. Max teneva d’occhio le sponde, per assicurarsi di avere sufficiente spazio per girare la tavola e tornare indietro. «Al peggio, mi metterò al contrario» ragionava Max a voce alta «userò il didietro come prua, remando fino a un punto in cui riuscirò a voltarmi. Non c’è problema.» Ma il problema c’era, eccome. Si chiamava imprudenza, eccesso di curiosità, imprevisto. Preso dalla voglia di esplorarne sempre un pezzo in più, Max aveva desistito dall’intenzione di tornare in campeggio per pranzo. «Di sicuro non morirò di fame se salterò un pasto, stasera andrò in moto a prendermi un paio di pizze.» Che illusioni ci facciamo, quando non sappiamo ancora cosa ci riserva il destino.
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Metro dopo metro il lago si allontanava. Il canale aveva ormai una forma rettilinea ben definita, con sponde alte più di un metro dal pelo dell’acqua. Attraversava una fitta boscaglia dal fondo melmoso, il terreno circostante più solido manteneva quel colore nerastro di torba; a tratti era completamente allagato e formava una miriade di stagni e pozze dall’aria malsana. La meravigliosa natura dei canneti, ricca di vegetazione e dei richiami degli uccelli che vi nidificano, aveva ceduto il passo a un ambiente lugubre e malsano, infestato di insetti mordaci e con un cattivo odore nell’aria, dovuto alla mefitica melma che evaporava nel caldo torrido di luglio. In lontananza nella boscaglia, Max scorse delle piccole baracche, fatte con vecchie assi e con i tetti di lamiera arrugginita. Poco più avanti, sulla destra, una deviazione artificiale del canale portava a uno quei rudimentali ricoveri, che sembrava più recente degli altri. Il giovane si chiese chi diavolo avesse costruito quei ripari in quel posto infame e per quale motivo. Forse si trattava di rifugi di cacciatori o bracconieri, che conoscevano i sentieri giusti per muoversi in sicurezza nell’acquitrino. Gli tornò di nuovo in mente la Louisiana del film, con le popolazioni di cajun che vivevano nelle paludi e ne conoscevano ogni segreto. Nelle sue passate esplorazioni, Max aveva scoperto alcune baracche malandate, costruite dai vecchi pescatori sulla riva ormai invasa dalla vegetazione. Altre giacevano in rovina nella boscaglia, unite al lago da canaletti artificiali, nei quali marcivano vecchie imbarcazioni, ancora costruite con il fasciame di legno. “Storie del lago da un mondo estinto” pensava Max, con un pizzico di rammarico. Aveva sempre provato un certo fascino per quel modo di vita arcaico, pur non avendolo vissuto direttamente ma solo attraverso i racconti degli abitanti del lago. Fino a pochi anni prima, c’erano ancora famiglie che vivevano di pesca su quello specchio d’acqua, trasformatosi ormai in un parco giochi per turisti della domenica e maniaci degli sport acquatici.
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In verità le baracche dei pescatori viste in passato, erano decisamente più grandi di quelle che intravedeva nella vegetazione, che parevano davvero minuscole. Per dimensioni ricordavano più le edicole votive, dedicate a santi e madonne sui bordi delle strade di campagna, che non dei ricoveri per barche o attrezzi. Non si soffermò oltre a pensarci, preso com’era dal proseguire la sua esplorazione. Superando l’imbocco del canale laterale, un tanfo orribile lo colpì come un maglio. Un inconfondibile odore di decomposizione da togliere il fiato ammorbava l’aria. Trattenendo il respiro e soffocando un conato, Max diede qualche colpo deciso di pagaia per allontanarsi da quel posto. “Dev’essere qualcosa di grosso che sta marcendo, probabilmente un cinghiale morto qui vicino” pensò, cercando di andarsene quanto più in fretta possibile. Proseguì sul canale usando la pagaia come una pertica, puntando il manico contro la sponda e facendo forza per spingersi in avanti. Se si fosse messo in piedi, sarebbe sembrato un gondoliere. Inoltrandosi nella terra incognita, Max si rese conto che il canale si restringeva sempre di più. Sulle sponde, la vegetazione lacustre aveva lasciato il posto a minacciosi cespugli spinosi. Si maledisse per essersi lasciato trasportare dall’entusiasmo e non aver fatto più attenzione. A quel punto, il corso d’acqua era troppo stretto per poter girare la tavola. Decise di proseguire ancora un po’, alla ricerca di un punto più largo per poter voltare la tavola agevolmente. Andava però di male in peggio: le sponde diventavano sempre più alte, creando un piccolo canyon nel quale il corso d’acqua scorreva pigro, mentre dai rovi incombenti fuoriuscivano nugoli di zanzare, decise a banchettare di sangue fresco. Max imprecò a denti stretti. Stava iniziando a innervosirsi sul serio. La vegetazione sulle sponde formava una barriera alla vista, che rendeva il canale simile a un tubo, aperto solo sulla parte
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superiore. L’opprimente presenza del fogliame, nascondeva il cielo e impediva alla luce del sole di penetrare direttamente, creando una penombra uniforme nel sottobosco paludoso. «Cazzo, mi sembra sempre più una trappola.» Max sentiva la paura farsi strada in lui, come acqua gelida che cola giù per la schiena. Pagaiava lentamente, guardando in avanti nella speranza di scorgere il punto giusto per poter fare dietro front, cercando di tenere a bada i foschi scenari che la sua mente gli suggeriva. Doveva controllare tutto il repertorio di disgrazie ed eventi funesti ereditato da sua madre, una donna che aveva fatto dell’ansia e del pessimismo uno stile di vita. Neanche lei, però, avrebbe potuto prevedere l’asso che il destino calò in quel preciso istante. Un grosso ratto saltò fuori da un cespuglio e atterrò sulla tavola tra i piedi del giovane, quindi con un altro balzo repentino saltò sulla sponda opposta e s’infilò nei cespugli, continuando la sua corsa nella boscaglia. L’inaspettata apparizione del ratto tolse il sigillo al panico che già premeva per uscire. Max sentì qualcosa esplodere dentro di sé, uno tsunami fatto di scosse, formicolii e di pura energia lo travolse, facendogli drizzare tutti i peli del corpo. Lanciando un urlo, che scosse l’immobilità della palude, immerse la pagaia in acqua e iniziò a remare con irruenza e in maniera scomposta, gridando: «Merdamerdamerda!» Remava come un pazzo, con la folle determinazione di allontanarsi il più in fretta possibile da quella bestia schifosa. Continuava a sentire la sensazione della coda nuda del ratto che gli sfiorava il piede, e quel tocco contaminato lo rendeva folle. Remava e urlava mentre prendeva velocità nel canale, dritto come su una pista di decollo. La tavola, priva della deriva che l’avrebbe stabilizzata, iniziò pericolosamente a ondeggiare, con la prua che si spostava da destra a sinistra a ogni colpo di remo. Max si rese conto con orrore, che stava perdendo il controllo e che rischiava il testacoda. Tentò subito di manovrare con la pagaia per rimettersi in assetto, ma era troppo tardi. La tavola ruotò di colpo verso sinistra e s’incastrò profondamente nelle sponde melmose del canale.
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Conscio del rischio di capottarsi, aveva già immerso le gambe nella melma, stringendo la tavola e assecondandone la virata repentina evitando di farla ribaltare. L’odore di marcio che saliva dal fondale smosso, riempì l’aria che diventò densa e grassa. «Ecco, bravo coglione!» si apostrofò da solo «adesso voglio vedere come esci da qui.» Poco incline al panico – ratto a sorpresa a parte – trasse alcuni respiri profondi, per quanto l’odore di marcio gli consentisse, e si apprestò a fare il punto della situazione. Che non era per niente rosea. La tavola era incastrata per bene nella sponda fangosa. Sembrava addirittura leggermente sollevata dall’acqua, perché il contraccolpo dovuto alla rotazione l’aveva incastrata in profondità. Era perfetta come passerella. «Ponte gentilmente donato alla comunità dal sottoscritto, il signore di tutti gli imbecilli. Bene, bravo, applausi!» sibilò il novello naufrago. Continuando a imprecare contro se stesso, Max si mise in ginocchio e gattonò fino alla prua incastrata nella sponda, quindi con il manico della pagaia cercò di scalzarla dal terreno, ma senza esito. Il suo stesso peso la conficcava ancora più in profondità. Tentò la stessa operazione a poppa, con il medesimo risultato. La tavola era saldamente incastrata e né le preghiere, né le bestemmie l’avrebbero rimessa in acqua. Bisognava trovare un’altra maniera. Facendo molta attenzione a non scivolare e cadere dritto nel fondale putrido o nei cespugli spinosi, si sollevò in piedi sulla tavola per cercare di vedere il paesaggio circostante. La vista era desolante. Riusciva a sporgersi solo di poco oltre la coltre di rovi, e quello che intravedeva erano solo altri rovi e alberi dall’aspetto malsano. Questi crescevano tutti storti dal terreno, che non riusciva a scorgere, ma che immaginava essere della stessa natura paludosa di quello attraversato poco prima. Nessun sentiero, nessuna testimonianza di presenza umana. Non c’era nemmeno
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dell’immondizia, segno che da lì non passava proprio nessuno. Tornò a sedersi e a pensare. Valutò l’ipotesi di mollare lì la tavola e di tornare camminando verso il lago, a costo di scorticarsi i piedi. Il problema però era un altro: se la sponda del lago da quella parte era composta di metri di melma e sabbie mobili, come avrebbe fatto a raggiungere il lago vero e proprio? Anche nel caso ci fosse riuscito, sarebbe dovuto tornare a nuoto, perché quella parte del lago era vietata alle barche a motore e il lunedì era il giorno meno indicato per fare naufragio, dal momento che in giro non c’era quasi mai nessuno. L’altra opzione era di camminare nella direzione opposta. Sapeva a grandi linee che da quella parte doveva esserci un paese. Il rischio, in questo caso, era dato dal fatto che non sapeva esattamente dove passasse il canale. In un ambiente così ostile e selvaggio, era possibile trovarsi a poche centinaia di metri da un centro abitato, senza nemmeno rendersene conto. In quella landa desolata, poteva camminare per giorni senza incrociare strade, case o persone e doveva tener conto del fatto che era vestito dei soli pantaloncini da bagno, scalzo e senza acqua né cibo. L’unica opzione percorribile era quella di riuscire a scalzare la tavola dalla morsa delle sponde e di rimetterla in condizione di navigare. Per poterlo fare, però, doveva scendere nella melma. Pensò di infilarsi nei rovi e di sollevare la tavola con la forza delle braccia, o tirandola per la corda fissata all’anello a prua. Non era troppo pesante, sarebbe bastato sollevarne un’estremità e lanciarla in acqua, il resto sarebbe andato da sé. Gattonò di nuovo verso la poppa, che essendo più larga offriva maggiore stabilità. Con il manico della pagaia iniziò a bastonare i cespugli spinosi per appiattirli e spezzarli, cercando man mano di avanzare, con l’intento di crearsi uno spazio nel quale riuscire a insinuarsi. A ogni bastonata i rovi sembravano animarsi di vita propria: quando tirava indietro il manico della pagaia, gli steli spinosi si allungavano verso di lui, graffiandolo ferocemente sulle braccia, sul collo e infine sul viso.
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Dopo un quarto d’ora di battaglia serrata, il risultato era sconfortante. I rovi più arretrati sembravano protendersi in avanti a prendere il posto di quelli abbattuti: come in un muro di scudi vichingo, le seconde file serravano i ranghi, prendendo il posto dei caduti. Non c’era verso di spuntarla. Sudato marcio e scorticato, gridò di rabbia e di frustrazione. «Maledette piante del cazzo! Tornerò con una tanica di benzina, con una mietitrebbia, con dell’acido, col napalm! Merda, merda, merda! Vaffanculo!» In preda all’ira, Max colpì ancora più forte i rovi ma questa volta con la pala di plastica della pagaia, di taglio. Sentì un colpo secco che si propagò come un’eco, e con la coda dell’occhio scorse qualcosa volare via dai cespugli. Pensò che si trattasse di un uccello spaventato dal suo sbraitare, un colombo o forse una tortora, visto che era di colore chiaro. Poi spostò lo sguardo sulla pagaia. La pala era spezzata, ne restava solo un mozzicone che sembrava l’unico dente nella bocca di un vecchio decrepito. Max resistette alla tentazione di lanciare via anche quello che restava della pagaia. La posò con calma forzata e si rannicchiò. Abbracciandosi le gambe, appoggiò la testa sulle ginocchia e pianse. Pianse di rabbia, di frustrazione e di paura a quel punto. Pianse di disperazione. Si guardò in giro e si rese conto che il tempo passava e che era bloccato in quella situazione di merda, senza apparente via di uscita. Le lacrime lavarono via la nebbia dell’ira e tornato lucido, si decise a tentare un’ultima cosa, quella che avrebbe voluto evitare in tutti i modi. Scendere nell’acqua infilandosi nella melma, se questa non fosse stata troppo profonda. Prese la pagaia e la infilò nel fondale, spingendola verso il basso in maniera graduale. L’estremità s’insinuò nella fanghiglia come un coltello rovente nel burro, passando la metà della lunghezza. Poi trovò qualcosa di solido e, nonostante la pressione, non riuscì a spingerla più giù. Tirò il manico verso l’alto con uno strattone. Di nuovo il fondale lasciò andare una scoreggia mefitica e una miriade di bolle
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affiorarono alla superficie, increspando l’acqua nerastra e – sembrava impossibile – rendendola ancora più torbida. Max affondò la pagaia in un altro punto e l’esito fu all’incirca il medesimo. Provò in altri punti anche dall’altra parte della tavola – trasformatasi in ponte – e si convinse che sotto circa sessanta centimetri di melma, c’era del fondale solido. Sarebbe quindi affondato fin poco sopra alle ginocchia. Per uscire da quella situazione si trattava di un prezzo equo da pagare. Si alzò in piedi sulla tavola, ormai asciutta, e si guardò intorno ancora una volta in tutte le direzioni, nella speranza di scorgere un’altra possibilità o una via di fuga che non avesse ancora considerato. Sarebbe stato fantastico se fosse comparso qualcuno a tirarlo fuori da lì, ma il germoglio di speranza fu ben presto calpestato dalla realtà impietosa: non c’era nessuno lì intorno. Avrebbe dovuto cavarsela da solo e anche in fretta, perché le ore passavano ed era ormai pomeriggio. Si spostò verso la parte posteriore e sputò con disprezzo sui rovi che aveva cercato di abbattere e da cui era stato sconfitto. Poi si sedette sulla tavola dalla parte opposta rispetto al lago. Inspirò profondamente, come se si fosse dovuto lanciare con un paracadute. Quindi, soffiando fuori l’aria si spinse oltre il bordo, saltando nella melma. La sensazione di ribrezzo lo assalì al primo contatto con quella sostanza viscida e schifosa. Annaspò per girarsi e mettere le mani sulla tavola, in modo da sostenersi. Gli sembrava di essere saltato dentro a un enorme budino di merda, l’odore che saliva dal fondale era da togliere il fiato. Olezzo di cose morte e in putrefazione da millenni. Il tanfo della morte che non si decompone completamente, ma resta a rigirarsi in un’eterna poltiglia che non riesce a trovare la sua strada verso il riciclo della vita, passando l’eternità a marcire e marcire. Max si sentì mancare per il disgusto e per l’orrore, che scaturiva dall’idea di aver messo i piedi dentro ai cadaveri in putrefazione di creature morte nel corso di migliaia di anni e di aver profanato un sepolcro nel quale i corpi, invece di mummificarsi, si liquefanno in
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eterno, dando origine a quella materia purulenta in cui si trovava immerso fino alle ginocchia. Materia nella quale stava scivolando sempre più a fondo, ora a metà coscia, ora un po’ più su. Max fu preso dal panico e si aggrappò alla tavola, sentendosi risucchiare dal fondale. Non aveva calcolato che il suo corpo, con una massa e un peso ben maggiore rispetto a quello esercitato dalla pagaia, avrebbe potuto spingersi molto più in profondità. Gli balzarono alla mente le storie delle persone morte nel lago e mai più ritrovate. Chissà quante nei secoli e nei millenni, se si raccontava che tutti gli anni il lago esigeva almeno una vittima. Visto che la corrente spingeva verso l’estuario, era possibile che i resti di quelle persone morte fossero lì, tutto intorno alle sue gambe? L’orrore esplose come un colpo di fucile nella notte. Nella mente di Max si formò un’immagine abominevole: dentro a quella massa putrida in cui stava affondando, forse non c’era solo fanghiglia. Nel teatro della sua immaginazione, comparivano dita decomposte e nere come la melma in cui marcivano, che restavano unite solo perché i tendini e le ossa sono materia più resistente della carne. Il ragazzo ululò letteralmente e iniziò a dibattersi stringendosi alla tavola, mentre si sentiva scivolare sempre più verso il basso. Era ormai immerso fino al bacino e ancora non sentiva nulla di solido sotto i suoi piedi nudi. Presto braccia scheletriche sarebbero uscite dal fango per trascinargli la testa in quella poltiglia immonda e finire la questione. Sarebbe rimasta solo una tavola incagliata, che gli animali avrebbero usato come ponte per passare da una sponda all’altra, come già aveva fatto il suo vecchio amico, il Ratto. Poi si fermò. Di colpo sentì che i piedi appoggiavano su qualcosa di solido. Era improprio definirlo così, ma almeno non aveva più la sensazione di affondare. Era immerso nella melma fino al bacino e, calcolando l’acqua del canale, fin sopra all’ombelico. Restava aggrappato alla tavola, che era all’altezza delle sue ascelle, come un naufrago a un asse di legno. Certo, qui non c’erano squali, però nella melma forse…
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Scacciò immediatamente il pensiero pernicioso e s’impose di stare calmo. Respirò profondamente per ritrovare il suo centro e soffocò un conato di vomito causato dal fetore che ammorbava l’aria. Il tanfo che si diffondeva nell’ambiente sembrava richiamare nuvole di zanzare e moscerini, che accorrevano a frotte. Le bolle che risalivano dal fondale gli facevano un solletico orribile lungo il corpo. Cercò di controllarsi e di mantenere la lucidità. Ormai era in ballo e doveva ballare, poche storie. Provò a lasciare la presa sulla tavola, pronto ad aggrapparsi di nuovo se si fosse sentito sprofondare, ma il fondale sembrava reggere il suo peso. Appoggiò le mani sul bordo inferiore e provò piano a fare forza. Non sprofondava. Spinse ancora un po’ e sentì che la parte anteriore della tavola si sollevava dalla morsa della sponda fangosa. Bene. Così riusciva a muoverla. Ora gli bastava girarla con la prua verso il lago e salirci sopra, per essere in salvo. «Fanculo alla pagaia!» imprecò «remerò con le mani, come Gollum ne “Lo Hobbit”, sulla sua barchetta nel lago sotto alle montagne.» L’importante era togliersi da quel porcile e uscire “a riveder le stelle”, anche se sperava di non metterci così tanto tempo. Fece di nuovo forza sul bordo della tavola, spingendola verso l’esterno, poi afferrò il bordo opposto e lo tirò verso di sé. Alternò spinta e trazione per diverse volte, sollevando spruzzi e agitando l’acqua torbida. Faceva attenzione a non farsi prendere dalla frenesia, per evitare di fare di nuovo qualche cazzata, come rompere una pagaia o ficcarsi in quel buco di culo di posto. Max ascoltava la spinta e la trazione che effettuava per scalzare la tavola, ma allo stesso tempo era attento a non sprofondare di più nella melma. Con uno spintone riuscì finalmente a sollevarla lateralmente. La lasciò ricadere e la tirò con forza verso di sé, facendola muovere e acquistare gioco. La spinse di nuovo forte in avanti e verso l’alto e riuscì a sollevarla a novanta gradi, con la parte laterale destra rivolta verso il cielo. La tavola era libera! Ora si trattava solamente
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di avanzare e di posizionarla con la prua in direzione del lago, salirci sopra e usare la pagaia rotta come una pertica, spingendo contro le sponde. Una volta arrivato al punto in cui il canale si allargava, si sarebbe inginocchiato sui talloni e avrebbe remato con le mani. Infine, una volta uscito dai canneti, si sarebbe sdraiato a pancia in giù sulla tavola e avrebbe remato con le braccia, come se dovesse nuotare. Al largo, si sarebbe buttato in acqua per togliersi di dosso tutta quella merda immonda che lo lordava, avrebbe nuotato nell’acqua fresca e si sarebbe goduto la libertà e la prospettiva di tornare in campeggio a mangiare una pizza in riva al lago, accompagnata da una birra, ridendo di quella disavventura e con la voglia matta di raccontarla ai suoi amici. Si trattava solamente di questo, un piccolo passo e sarebbe stato libero. Solo un piccolo passo. Che non poteva fare, perché le sue gambe erano imprigionate nella melma, che si era richiusa su di lui come una morsa! )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
INDICE
SABATO 13 LUGLIO 1991........................................................... 5 DOMENICA 14 LUGLIO .............................................................. 9 LUNEDÌ 15 LUGLIO – Ore 08:45............................................... 12 MARTEDÌ 16 LUGLIO ............................................................... 35 SERA DEL MARTEDÌ ................................................................ 39 NOTTE TRA MARTEDÌ E MERCOLEDÌ ................................. 41 MERCOLEDÌ 17 LUGLIO .......................................................... 43 MERCOLEDÌ MATTINA ............................................................ 48 NOTTE TRA MERCOLEDÌ E GIOVEDÌ ................................... 58 GIOVEDÌ 18 LUGLIO ................................................................. 62 MERCOLEDÌ 17 LUGLIO .......................................................... 75 GIOVEDÌ 18 LUGLIO ................................................................. 82 GIOVEDÌ 18 LUGLIO ................................................................. 99 NOTTE TRA GIOVEDÌ 18 E VENERDÌ 19 LUGLIO ............ 112 VENERDÌ 19 LUGLIO .............................................................. 116 SABATO 20 LUGLIO................................................................ 124 RINGRAZIAMENTI .................................................................. 145
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.