Il processo automatico, Michele Piccolino

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MICHELE PICCOLINO

IL PROCESSO AUTOMATICO

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL PROCESSO AUTOMATICO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-491-5 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Settembre 2021


A Giovanna



«La sentenza non viene a un tratto, è il processo che a poco a poco si trasforma in sentenza.» Franz Kafka, Il processo

«Da lontano, come puoi sapere cosa è vero e cosa è falso, se il tuo sapere si nutre solo delle parole degli uomini?» Stefan Zweig, Gli occhi del fratello eterno



IL PROCESSO AUTOMATICO



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I. LA TESTIMONIANZA (1)

Lo sapete, fratelli miei: entrando in un’aula di giustizia non si può fare a meno di notare che i banchi su cui sedete voi e le altre parti, gli scranni dei giudici, le panche dove si assiepa il pubblico, la balaustra che delimita l’area d’udienza, le modanature alle pareti e tutti gli arredi sono di autentico legno, magari mogano o ciliegio. Se ne avverte pungente la fragranza, un misto di cera d’api e di terra bruciata dal sole, e la luce fredda dei led calata dall’alto si riflette sulle superfici lucide con scintillii caldi che ne seguono le venature e i nodi. Si respira l’aria rassicurante di un passato vagheggiato e magari rimpianto, niente fibroplastica, niente metallo. La giustizia calca sempre le medesime scene, quelle di cento, duecento anni fa, quando non c’erano oloschermi, gli avvocati erano tutti umani e indossavano la toga sopra tailleur e completi di sartoria cuciti su misura per forme fatte di carne, non per giunture in titanio e arti d’acciaio. La realtà è fatta per cambiare velocemente, ma la legge, che dovrebbe governarla, si propone come una costante, una diuturna certezza, e si maschera di antico per rassicurare i cittadini, per dare loro l’illusione di restare sempre uguale a se stessa. Alzando lo sguardo, si può leggere la scritta in rilievo sulla parete opposta: La legge è uguale per tutti. La frase di solito è in caratteri dorati, smussati e tondeggianti, in contrasto con la funzione affidata alla legge, che è strumento sempre affilato e penetrante, fatto per incidere nella carne viva della realtà, non per scivolarvi sopra. Forse anche voi vi siete posti il problema: non si sa a chi sia rivolto quel monito, se alle parti processuali o al giudice. Se fosse scritto per il giudice, allora sarebbe inutile: chi è chiamato a emettere la sentenza volge sempre le spalle a quel precetto; anche


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quando entra in aula, lo fa passando dalla porta che conduce alla camera di consiglio, cioè sotto quella frase che, perciò, non può leggere, mai. Se invece fosse rivolta alle parti processuali, sarebbe indice di cattiva coscienza: gli imputati, le parti civili, pure voi avvocati, finanche i pubblici ministeri, ma anche i testimoni, i periti, quanti vengono ad assistere al processo per portare sostegno e conforto a un parente o per semplice curiosità, sanno che, quando si affidano alla giustizia, si mettono nelle mani di uomini e donne come loro, non di un astratto, perfetto, incorruttibile concetto di legge, uguale per tutti perché tutti sono uguali davanti a essa. Non funziona così, ma tutti fanno finta di crederci, sperando che per loro, magari solo per loro, valga quella regola. Allora, per pudore o forse per disillusione, a volte si preferisce scrivere qualcosa di meno compromettente, come La giustizia è amministrata in nome del popolo, che non significa nulla, perché nessuno s’interroga del suo significato. Tanto più che chi opta per questa formula non completa mai il richiamo all’art. 101 della nostra centenaria Costituzione citando anche il secondo comma: I giudici sono soggetti soltanto alla legge. La legge incute soggezione ai più ma certo non ai giudici. La ragione di questo stato di cose si sostanzia nel simbolo posto, sopra o sotto non importa, La legge è uguale per tutti: il crocifisso. Quando decide, il giudice sa sempre di avere le spalle coperte dalla legge e da Dio, perché chi invoca giustizia si appella alla legge o al Signore, gli unici deputati, per statuto, a giudicare. Non a caso, Gesù Cristo ha scelto di farsi processare dagli uomini che voleva salvare: il Suo processo è stato una finzione di giustizia, però una finzione necessaria, come tutti i processi che si celebrano in un’aula di giustizia. Sotto la norma dell’uguaglianza di fronte alla legge c’è il posto riservato al giudice, che domina l’intera aula di giustizia perché più elevato rispetto a tutti gli altri. E tutti gli altri - e voi per primi - per interloquire con la legge, devono alzare lo sguardo verso chi, per l’appunto, per posizione e funzione, deve necessariamente guardarli


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dall’alto in basso. La posizione vorrebbe giustificarsi con l’elevata missione affidata al magistrato, con la garanzia della sua terzietà, con il distacco con cui egli affronta la contrapposizione degli interessi di cui le parti processuali sono portatrici; invece, finisce per rappresentare soltanto distanza, alienità, alterità. Il giudice perfetto, quello che applica la legge e giammai l’interpreta, è quanto di più disumano si possa immaginare. Infatti, non esiste. Davanti al giudice, le parti processuali sono tutte sullo stesso piano, il pubblico ministero sui banchi a sinistra, posto che a volte condivide con la parte civile che vuole farsi accusa, l’imputato e il suo difensore a destra. Alle loro spalle, separato dalla balaustra dotata di cancelletto basculante, c’è il pubblico, cioè il mondo, quello particolare e concreto che, quando chiede giustizia, si affida all’altro mondo, quello generale e astratto, posto al di là della balaustra: il mondo della legge. I due mondi sono comunicanti, il cancelletto basculante sta a testimoniarlo. Ma è un passaggio molto stretto, regolato da regole complesse che pochi comprendono, ed è un passaggio officiato da altri, avvocati o magistrati, mai dalla parte in prima persona. Se i due mondi coincidessero, se non fossero separati da una barriera, al processo verrebbe demandata la ricerca della verità, quella senza aggettivi, non quella processuale, che è altra cosa e vive grazie al processo, ma nel mondo reale presto avvizzisce se non imposta con la forza. Vi dico una cosa: per fare in modo che i due mondi si somiglino, almeno in parte, bisognerebbe che ogni tanto un giudice restasse al di qua della balaustra, confuso tra il pubblico, mentre si attende che un altro giudice esca dalla camera di consiglio per proclamare nel nome del popolo italiano il dispositivo della sentenza. Da lì potrebbe osservare le parti processuali non più ingabbiate dal contegno che hanno affettato a beneficio del giudice durante il dibattimento; soprattutto, potrebbe vedere gli imputati quando suona il campanello che avverte del ritorno del giudice con la sentenza, la sentenza che deciderà della loro vita, ché di lì a un minuto saranno assolti e perciò liberi, o condannati e perciò costretti dalla legge.


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Se lo facesse, se un giudice si mischiasse al pubblico in queste occasioni, non dimenticherebbe gli occhi dell’imputato puntati sul crocifisso mentre le labbra sussurrano inintelligibili preghiere, o sul suo avvocato, neanche questi potesse ancora aiutarlo ora che già tutto è compiuto; non potrebbe dimenticare la mano sulla spalla della madre o del fratello, che stringe sempre di più mentre il giudice snocciola il dispositivo; leggerebbe nel volto dell’imputato un sentimento di fiducia e di rimorso alternarsi rapidamente e, forse, una silenziosa promessa di ravvedimento. Ma di certo quel giudice non riuscirebbe a dimenticare il pianto dell’imputato, quello che non ha capito le parole del giudice e se le è fatte spiegare dal suo avvocato. La sua causa è già stata decisa, eppure in cuor suo egli spera di essere giudicato di nuovo, con più clemenza, dopo quel pianto.


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II. OPERAZIONE DI FRATTURA

Il robot RM2978, per tutti il dott. Roberto, medico chirurgo presso il reparto di ortopedia dell’ospedale Dono svizzero di Formia, visualizzò sull’oloschermo del suo gabinetto i radiogrammi custoditi nella cartella clinica elettronica del paziente ricoverato nella stanza numero tre. Erano otto in tutto: per ogni arto superiore, uno del collo dell’omero, uno del capitello radiale, uno del polso e uno della mano. Il robot osservò i negativi disposti su due file parallele, a destra i quattro dell’arto sinistro, a sinistra i quattro dell’altro braccio, soffermandosi a valutare le lesioni. E, come già era successo in occasione della prima visione, il suo cervello artificiale formulò un dubbio. Ordinò alla segreteria virtuale del reparto di chiamare l’interno del posto di polizia adiacente al Pronto Soccorso, due piani più in basso. «Buongiorno, Giorgio,» disse il dott. Roberto quando vide comparire il faccione rubicondo di Giorgio Filosa, assistente capo della Polizia di Stato, l’ufficiale di polizia giudiziaria di piantone quel giorno. «Per piacere, può salire su da me? Ho una cosa da farle vedere. È urgente.» Il poliziotto fece un gesto con l’indice alzato per comunicare al droide medico di pazientare un attimo e andò a controllare la sala d’aspetto del Pronto Soccorso. «La situazione pare tranquilla. Arrivo subito.» Tre minuti dopo, i due erano davanti all’oloschermo. «Guardi: si tratta delle fratture riportate da un paziente che abbiamo in cura qui,» disse il robot indicando i negativi che fluttuavano nitidi in mezzo alla stanza. «Presenta una frattura scomposta al collo dell’omero di entrambe le braccia, che richiederanno un intervento chirurgico per la riduzione. Dovrò intervenire chirurgicamente anche


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sul capitello radiale con una capitellectomia, cioè la sostituzione con protesi e reinserimento dei collaterali con ancoretta, anche in questo caso su entrambi gli arti. Per quanto riguarda le mani, abbiamo una frattura gravemente scomposta e ruotata del terzo distale del primo metacarpo, sempre in entrambe. I polsi, infine, pure fratturati, richiederanno una riduzione a cielo chiuso con fili di Kirschner.» «Poveraccio,» disse il poliziotto passandosi un fazzoletto sulla fronte per detergere il sudore: si era imposto di non usare l’ascensore perché ogni dottore, quando lo vedeva transitare con la sua mole imponente per i corridoi dell’ospedale, gli ricordava che per dimagrire una dieta ipocalorica non bastava. «E come s’è fatto tutte ‘ste fratture?» «Lui, di certo, non se le è procurate da solo: qualcuno gliele ha fatte. Qualcuno molto bravo, che sapeva benissimo come intervenire per procurare più danno possibile senza lasciare traumi permanentemente invalidanti.» Filosa si lasciò cadere su una sedia ritenendo che l’esercizio fisico appena compiuto fosse sufficiente. «Sei sicuro che le fratture non siano compatibili con una caduta accidentale? Magari è caduto in avanti, da un’altezza considerevole, mettendo le braccia avanti per attutire il colpo.» Il dott. Roberto fece un gesto molto umano: scosse la testa. «Lo escludo. Una caduta avrebbe lasciato delle abrasioni sulla pelle e qui non ce ne sono. Se fosse caduto come lei ipotizza, le pare mai che le braccia, cedendo, non abbiano provocato un urto della faccia contro la superficie impattata? Faccia e cranio sono in perfette condizioni. Ma ci sono altri due aspetti che mi danno la certezza che le fratture siano il frutto di un’azione deliberata.» «Quali aspetti?» «Osservi,» disse accostandosi alla quarta immagine da sinistra della fila in alto, quella della mano destra del paziente, e all’altra sotto, di quella sinistra. «Possibile che nell’urto le lesioni abbiano riguardato, per entrambe le mani, il primo metacarpo, quello del pollice? Insomma, su ventisette ossa di una mano, otto carpali, cinque metacarpali e quattordici falangi, guarda caso si fratturano solo i due metacarpi del pollice, quelli che, una volta saldati, lasciano maggiore


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dolorabilità e hanno la più alta incidenza invalidante. Alle altre dita niente, neanche una lussazione, un piccolo ematoma. Statisticamente è un’eventualità molto remota.» Il poliziotto fece una faccia scettica mentre continuava con l’opera di detersione del sudore che continuava a colargli copioso, neanche i piani affrontati fossero stati dieci e non due soltanto. «Però non lo possiamo escludere del tutto, giusto?» disse per scansare la rogna che si profilava all’orizzonte, quella di un’indagine da avviare e di una conseguente informativa da stilare. «Ho parlato di due aspetti,» continuò il droide che adesso indicava altri due negativi, «ecco l’altro: i polsi presentano ognuno una frattura di tipo diverso, il sinistro una frattura di Colles, il destro di Goyrand.» «Quindi?» «Quindi l’ipotesi dell’incidente non sta in piedi: una frattura da iperestensione non può essere compatibile con una da iperflessione. Astrattamente, come le ho già detto, il quadro potrebbe deporre per una caduta accidentale, per quanto molto improbabile, ma i polsi la escludono del tutto. Uno, cadendo, nel tentativo di parare l’urto, mica mette una mano a palmo aperto e l’altra con il palmo flesso. Non è possibile, non ha senso. Chi le ha causate voleva che il nostro paziente recuperasse una discreta funzionalità delle braccia, ma non completa. Qualunque cosa facesse prima, domani, anche a decorso clinico completo, non potrà più farlo. Questa è la firma dell’autore delle lesioni per farci sapere che non sono accidentali.» Filosa alzò gli occhi al cielo e sbuffò a un angolo della bocca. «Seee, come no. Secondo te qui abbiamo uno che si diverte a spezzare le braccia alla gente firmando l’opera come un artista. Questa è la realtà, dotto’, mica una fiction.» Il robot medico non si lasciò scoraggiare. «Appunto, la realtà. Ho dimenticato di aggiungere un dettaglio: abbiamo trovato il paziente in questione, Giacinto Zegarelli, all’alba all’inizio della salita che porta al Pronto Soccorso, davanti alla sbarra automatica, su una sedia a rotelle a guida automatica. Dormiva sodo, pesantemente sedato.»


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L’espressione del poliziotto cambiò repentinamente come il cielo di marzo, passando dal sereno dello scetticismo al nuvoloso di una grana da sbrogliare. Riprese a sudare. «E perché non me lo hai detto subito? Questo cambia tutto.» Il dott. Roberto consegnò a Filosa la copia cartacea della cartella clinica di Giacinto Zegarelli. «Forse è il caso di parlare con il paziente,» disse il poliziotto dopo averne scorso rapidamente le pagine. «È sveglio?» «Imbottito di antidolorifici ma lucido.» Con un sospiro rassegnato Giorgio Filosa si alzò dalla sedia e rimise in testa il cappello d’ordinanza. Uscirono nel corridoio principale del reparto dove affacciavano le stanze dei degenti e lo percorsero fino a circa la metà. Dalle finestre entrava la luce intensa del sole che si rifletteva sul mare del Golfo, con il promontorio gibboso di Gaeta da un lato, il profilo sinuoso di Ischia di fronte e la sagoma incombente del Vesuvio dall’altro. Il cielo era limpido, come spesso alla fine di maggio, quando i venti del pomeriggio spazzavano via la foschia che saliva dal mare. Entrarono nella stanza numero tre, in cui un robot infermiere aveva appena finito di recuperare la padella nella quale il paziente aveva fatto i suoi bisogni. Nell’aria si avvertiva un sentore di limone e disinfettante che calava dall’alto, dai bocchettoni dell’aria condizionata. Il robot pulì il paziente con gesti precisi e accorti, facendo mulinare le braccia con sorprendente velocità. Nessun infermiere umano sarebbe stato capace di fare meglio, pensò Giorgio Filosa, anche perché quel mestiere nessuno voleva farlo più. Il problema, e Filosa lo sapeva bene, era che gli automi ogni anno finivano per soppiantare gli umani anche in attività che nessuno aveva intenzione di abbandonare alle macchine, anzi. Il robot, prima di lasciare la stanza, salutò con deferenza il robot medico suo superiore e il poliziotto e ricordò al paziente di chiamarlo non appena avesse avuto bisogno di qualcosa. Giacinto Zegarelli stava adagiato sul letto assicurato ai lati dalle sponde anticaduta; alle sue spalle, il letto era leggermente inclinato per


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consentirgli una postura più comoda, visto che le braccia, che lo facevano sembrare la parodia di un tuffatore sul margine estremo di un trampolino pronto al salto nel vuoto, erano estese in avanti e costrette da un tutore rigido. Vestito solo dell’intimo, era coperto fino all’inguine da un lenzuolo di cotone e una boccetta di flebo pendeva alla sua sinistra con uno stillicidio lentissimo. Nella stanza c’era un altro letto, vuoto. Il mezzo alla stanza fluttuavano le immagini dell’olovisione sintonizzata su un canale all-news, il volume azzerato. Zegarelli dimostrava i cinquant’anni che aveva, era robusto, né alto né basso, ma sotto lo strato adiposo s’intuiva la presenza di muscoli tonici abituati alla fatica. Aveva l’aria spaesata di chi non capiva dove fosse né perché. La sua fronte era solcata da rughe trasversali a sottolineare perplessità mista a paura. La stessa che mostrava la donna che sedeva vicino al letto, magra come un’acciuga, la moglie, probabilmente. Si vedeva che era preoccupata per le condizioni del marito ma anche sollevata di averlo vicino, vivo. «Giacinto, come sta?» domandò il dott. Roberto. «Le presento l’assistente capo Filosa: le avevo detto che l’avrei chiamato, vero?» Il paziente fece sì con la testa abbozzando un sorriso, che si spense subito quando la sua testa ordinò al braccio di allungarsi per dare la mano al poliziotto ma il tutore, che lo bloccava fino alla clavicola, glielo impedì. Fu la moglie a fare le veci del marito. Si passò la mano destra sul vestito ad asciugare il sudore dal palmo e l’offrì al poliziotto. «Mi chiamo Giuseppina e sono la moglie di Giacinto. Ti ringraziamo per essere venuto subito.» Filosa apprezzò la stretta salda della donna e accompagnò il saluto con un sorriso rassicurante. «Dovere. Il dottore mi ha detto delle lesioni di Giacinto,» disse scambiando un cenno d’intesa con il droide. «Come sono finito qui?» domandò Zegarelli con una sfumatura querula della voce alzando la testa quel tanto che la posizione gli consentiva. «Veramente, lo volevamo sapere da te.»


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«Io… non lo so,» rispose abbandonando di nuovo la testa sul cuscino. Si girò di lato, verso la finestra. «Giacinto non ricorda nulla,» disse la moglie, «Ieri sera è uscito per fare la solita passeggiata. Abitiamo a Cavafratte e lui, come sempre, è salito con la macchina su a Corretrio per camminare nella pineta sotto il monte Fammera. Ricorda che stava percorrendo il sentiero che attraversa il bosco. Era da solo e non ha incontrato nessuno. Poi si è risvegliato qui, con un forte mal di testa e un saporaccio in bocca. Nient’altro.» «Mal di testa e bocca cattiva sono un postumo dell’anestesia,» chiarì il dott. Roberto. «Tu non lo hai cercato? Insomma, quando non l’hai visto tornare a casa, non ti sei preoccupata?» La donna, tornando con la memoria a quelle ore terribili, prese a piangere, in silenzio, con le lacrime che le scivolavano rapide e dritte come gocce di pioggia sul vetro. «Ho atteso due ore dopo l’orario consueto del ritorno; poi, visto che il suo omnicom era morto, ho chiamato mio cognato Filippo e siamo andati in pineta a cercarlo. Abbiamo trovato subito la sua macchina parcheggiata al solito posto sul margine della strada, al limite del bosco: era chiusa, in perfetto stato. Ci siamo divisi, io per il sentiero che andava a valle, lui per quello a monte. Chiamavamo a gran voce Giacinto, senza ottenere risposta. Quando ci siamo ritrovati, perché i sentieri formano un anello, nessuno di noi aveva incontrato altre persone né aveva scorto segni di Giacinto. Siamo andati in paese per chiedere se qualcuno sapesse qualcosa di lui: niente, nessuno lo aveva visto. Era scomparso, svanito nel nulla. Abbiamo subito denunciato la scomparsa ai Carabinieri di Cavafratte. Poi avete telefonato voi.» Il poliziotto registrò le informazioni sull’omnicom e continuò con le domande. «Il dottore vi ha illustrato la natura delle fratture di Giacinto? Come sono state causate, intendo…» «Sì, ce lo ha detto,» rispose la donna, «ma davvero non riusciamo a darci una spiegazione. Siamo brava gente, non abbiamo problemi con nessuno.»


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«Screzi con i vicini? Debiti? Questioni con i parenti?» «Lo ripeto: non abbiamo nemici. Debiti, poi, neanche a parlarne. Io e mio marito viviamo da soli a Cavafratte. Non abbiamo figli. Solo lui lavora, io bado alla casa, per quel poco che c’è da fare.» «Ah, un lavoro, meno male che c’è ancora qualcuno che ne ha uno,» esclamò Filosa. «E che fai, Giacinto?» «Il macellaio,» rispose piatto l’uomo, continuando a guardare il panorama fuori dalla finestra. «Mio marito fa il modesto,» intervenne la moglie con malcelato orgoglio. «Si occupa delle lavorazioni delle carni di pregio. Seleziona e taglia le parti migliori avviandole alla produzione di alta gamma, di qualità artigianale. Un lavoro specializzato, molto ben pagato.» «E per chi lavora?» «Per CarnIndustria, presso lo stabilimento di Cassino.» Quel nome fece scattare nel poliziotto un campanello d’allarme. La vicenda accaduta in quel complesso due anni prima si riaffacciò alla sua memoria. «E, di preciso, cosa fa per CarnIndustria? Mi risulta che abbiano una catena produttiva fortemente automatizzata.» Giacinto si riscosse dall’abulia e rispose, facendo un gesto alla moglie che tornò a sedersi sulla sedia. «Negli ultimi sei mesi ho addestrato un robot: avevo in testa un casco per la scansione neurale e una guaina sensoriale sulle braccia, mani e dita comprese, fino alle spalle, che tracciava tutti i miei movimenti quando lavoravo la carne, perché la macchina li imparasse. Ogni lavorazione, a seconda del tipo di carne e del prodotto finale, richiedeva un procedimento diverso. Alla fine, salvavo sul cloud la procedura e il robot era capace di ripeterla.» Filosa e il dott. Roberto si guardarono. «Una guaina sensoriale sulle braccia, ha capito?» fece il droide. «Ho capito, certo. Chiamami l’infermiere, per piacere.» Il robot medico spinse un bottone sulla testata del letto. L’infermiere fu al loro cospetto in meno di dieci secondi. «Dove sono gli abiti del paziente Zegarelli Giacinto, quelli che indossava quando è stato portato qui?»


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Il robot uscì della stanza per farvi ritorno un minuto dopo portando con sé un sacchetto di plastica trasparente, all’interno, gli abiti smessi di Zegarelli. Il poliziotto prese in consegna il sacchetto e lo aprì facendone cadere il contenuto sul letto vuoto a fianco a quello del macellaio. Dal taschino della sua giacca prese dei guanti di lattice e se li infilò facendoli aderire alle mani come una seconda pelle. Prese a ispezionare gli indumenti, le tasche, le parti interne e i risvolti: nella tasca destra trovò un foglietto piegato in quattro. «Tombola!» disse trionfante Giorgio Filosa dopo averlo aperto. «Che c’è scritto?» domandò il dott. Roberto. «Tu cercavi la firma dell’autore di questo scempio: eccola,» rispose mostrando a tutti il foglietto. Sul foglio bianco c’era un’unica lettera, una S stampigliata all’interno di un cerchio e sbarrata da una linea obliqua che passava per il centro. Lettera, cerchio e linea erano tutti di un rosso fiammante. «Ommiodio,» esclamarono marito e moglie.


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III. SABOTAGGIO (1)

Quattro camion, uno proveniente da Cavafratte, un altro da Sant’Elia Fiumerapido, un altro ancora da Pignataro Interamna, l’ultimo da Piedimonte San Germano, imboccarono contemporaneamente, ognuno da un’uscita diversa, la rotonda sulla statale 630 Ausonia dopo il casello dell’autostrada. Erano le 2.30 del primo giugno 2048, un lunedì, e il sole sarebbe sorto quattro ore più tardi per sancire l’inizio di una nuova settimana di lavoro. Almeno per chi, un lavoro, ce l’aveva ancora. Tutti e quattro gli automezzi trasportavano balle di fieno, quelle cilindriche del diametro di due metri che le macchine agricole automatizzate prima tagliavano e poi avvoltolavano: ognuno ne portava sedici, disposte in due file di quattro su due livelli. Nessuno ci fece caso perché a quell’ora in strada non c’era nessuno, ma ai comandi dei camion c’erano degli uomini: raro vederne, perché della guida si occupavano le macchine. Nell’aria danzavano intermittenti le lucciole a ricordare che tutt’intorno era ancora campagna. I camion percorsero ad andatura moderata il viale illuminato che conduceva alla zona industriale. Alla prima rotonda, svoltarono in uno stradone rettilineo costeggiato da capannoni. Marciapiedi sbreccati invasi da erbacce, dove un tempo stazionavano le prostitute in attesa degli operai a fine turno, segnavano il margine della carreggiata, che invece era in perfette condizioni. Era naturale che fosse così: non c’erano piedi che calpestassero quelle superfici, ma solo ruote, al limite cingoli. Erano sparite pure le pensiline che davano riparo agli operai, almeno a quelli che prendevano l’autobus per raggiungere il posto di lavoro. Nel reticolo di strade e stabilimenti della zona industriale non c’erano più i bar, le tavole calde, i minimarket e tutte


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quelle attività commerciali e di servizi che avevano come destinatari finali gli esseri umani: tutti chiusi per assoluta mancanza di clienti. Altri mezzi transitavano lungo lo stradone per poi scomparire in un capannone, con quelle traiettorie calibrate tipiche della guida robotica, progressive, senza accelerazioni e decelerazioni brusche. Nell’aria, facendo attenzione, si avvertiva il lieve ronzio dei motori elettrici, quelli alimentati con la fusione fredda. I camion, infine, girarono in Via Solfegna Cantoni, nel territorio di Cassino, e si fermarono davanti alle cancellate dello stabilimento di CarnIndustria illuminate dai potenti fari a led che coprivano l’intera zona industriale. Lì, ad aspettarli, c’era un furgone cabinato alla cui guida sedeva un uomo con un cappellino recante il logo di CarnIndustria, una C e una I intrecciate all’interno di un quadrato. L’uomo con il cappellino scese dal furgone e si piazzò sul margine destro della cancellata, dove c’era la postazione di riconoscimento. Avvicinò l’occhio destro a beneficio dello scanner retinico, declinò le proprie generalità per il riconoscimento vocale e posizionò la mano nell’incavo predisposto per la scansione delle impronte. Quando il display certificò l’avvenuta identificazione, l’uomo impartì un ordine vocale seguito immediatamente da un codice alfanumerico di conferma digitato sulla pulsantiera. Gli effetti dell’ordine si materializzarono trenta secondi dopo con l’arrivo dei quattro robot guardiani. Si misero in fila, perfettamente allineati, al centro del piazzale al di là della cancellata, immobili, come previsto dalla procedura di carico quando dovevano essere portati altrove con un mezzo di trasporto. Il piazzale era sgombro, sull’asfalto c’erano ancora i rettangoli tracciati con vernice gialla degli spazi destinati al parcheggio dei dipendenti, ma di autovetture non ce n’era neanche una, perché non c’era rimasto un dipendente a lavorare per CarnIndustria. Sullo sfondo, la sagoma grigia dello stabilimento si stagliava nella notte tra le volute di foschia, con le luci messe ad arte per squadrarne la struttura come quelle che, cinquecento metri più in alto, illuminavano l’abbazia. All’interno, la produzione continuava, ventiquattrore su ventiquattro, senza pause o esitazioni.


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L’uomo con il cappellino fece un cenno a un altro che nel frattempo era salito sulle balle di fieno, nel punto più alto possibile. Questi imbracciava una specie di fucile che alla fine della canna aveva un puntatore laser. Un fascio di luce rossa colpì il primo robot guardiano della fila, all’altezza del cervello sintetico, custodito in quello che con un po’ di fantasia si sarebbe detto l’omologo di un petto umano. Il robot si mosse leggermente abbattendosi in avanti ma rimanendo in piedi, come se i pistoni idraulici dei suoi arti si fossero rilassati. La lucetta pulsante verde sul petto, che solitamente indicava la perfetta funzionalità della macchina, era spenta. L’uomo con il fucile riservò lo stesso trattamento agli altri tre robot guardiani, che si afflosciarono, privi di energia; poi, fece ok con il pollice all’uomo con il cappellino, il quale, senza perdere tempo, impartì un ordine vocale alla postazione di riconoscimento. «Apri il cancello e lascialo aperto.» Subito la cancellata prese a scorrere lungo le guide e si arrestò a fine corsa quando l’ingresso fu spalancato. A quel punto, l’uomo con il cappellino entrò nel vano posteriore del furgone e si calò all’interno dell’esoscheletro del muletto che vi era alloggiato. Strinse le cinghie, infilò la guaina sensoriale alle mani e ai piedi e sgusciò fuori dal furgone con l’andatura molleggiata del muletto. Intanto i conducenti dei quattro camion avevano riavvolto i cordami che tenevano assicurate le balle di fieno. L’uomo con il cappellino, allargando le braccia meccaniche del muletto, prese una balla, la collocò davanti alla cancellata dello stabilimento e altrettanto fece con tutte le altre, fino a formare un semicerchio di due file sovrapposte, lasciando un passaggio per consentire l’accesso ai camion e al furgone che i suoi quattro compagni parcheggiarono all’interno del piazzale. Una volta dentro, l’uomo con il cappellino chiuse il varco con le ultime balle e ripose il muletto nel retro del furgone. Tutti e cinque gli uomini si radunarono di fronte al fieno, all’altezza della feritoia lasciata per guardare l’intero stradone. «Abbiamo corso un bel rischio: potevano averti cancellato dall’elenco degli accreditati,» disse l’uomo con il fucile a quello con il cappellino.


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«Ha funzionato, e tanto basta,» lo liquidò accompagnando l’uscita con un gesto della mano a decretare chiusa la questione. «I padroni sono troppo stupidi e sicuri di sé: io ero certo che non avrebbero cambiato nulla,» intervenne un altro che poggiava la schiena contro una balla mentre succhiava un filo di paglia. «Che ore sono?» domandò l’uomo con il cappellino. «Le 3.30: siamo in perfetto orario.» «Bene. Potete chiamare gli altri,» ordinò togliendosi il copricapo con il logo di CarnIndustria, che sostituì con un altro, diverso. Dal furgone prese la bandiera piegata in quattro che stava sul sedile del passeggero e, dopo essere salito sulle balle, l’assicurò alla paglia nel punto più in alto, in modo che fosse visibile anche da lontano. La bandiera portava lo stesso simbolo del nuovo cappellino indossato dall’uomo: una S sbarrata da una linea rossa all’interno di un cerchio. Anche gli altri quattro avevano indossato lo stesso cappello, lo stesso dei cinquanta tra uomini e donne che si aggiunsero poco dopo asserragliandosi dietro alla barriera di fieno come all’interno di un fortino. «Sono le 4.00: tra poco arriveranno,» disse l’uomo con il filo di paglia in bocca. «Li stiamo aspettando,» concluse il capo prendendo un fucile a impulsi.


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IV. SCONTATA PENA

Il giudice Maurizio Russo scese dalla macchina ordinando a Dante, il suo droide cancelliere, di attenderlo all’interno della vettura. Si mise ad aspettare tenendo le mani nelle tasche di un impermeabile passato di moda da tanto di quel tempo che qualcuno, vedendolo, si sarebbe atteso di avvertire il puzzo di naftalina. Invece, dal giudice promanava una fragranza fresca e decisa, come il suo sguardo. L’aspetto complessivo – non alto, pingue ma non grasso, un berretto di lana scozzese a coprire la rada capigliatura, un gilet e una cravatta perfettamente annodata per conferire all’insieme una parvenza di stile – era rassicurante, comunicava della bonomia di fondo del magistrato. Eppure, in quegli occhi mobili e penetranti si leggeva qualcos’altro, un’intelligenza viva e una forza trattenuta. Davanti a lui, in alto, si stagliava il Monte Emilius che, con i suoi 3500 metri e oltre, doveva proiettare un’ombra fredda per buona parte dell’anno sul sottostante abitato di Brissogne. La Dora Baltea, poco distante, scorreva placida e piatta, nonostante fosse primavera: le nevicate erano state poco abbondanti, come succedeva da decenni, e lo scioglimento dei ghiacci in quota non alimentava più di tanto la portata di fiumi e torrenti. Sulla destra e sulla sinistra, ai margini della stretta valle dove si concentrava ogni struttura, i boschi sembravano soffiare un’aria fresca e profumata che puliva ogni cosa, corpi, animali e case, ma non le coscienze. Per quelle, per renderle non immacolate, che non era possibile, ma almeno presentabili agli occhi della società, c’era bisogno di ben altro: di una pena da espiare e del tempo per essere dimenticati.


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Per questo il magistrato non trovò piacevole il paesaggio d’intorno, che con quel verde intenso e l’aria frizzante della primavera avrebbe pure dovuto esserlo per chiunque, anche per lui. Invece l’edificio di fronte a lui annichiliva tutta la bellezza circostante, come se da esso si allungasse un’ombra più oscura e gelida di quella proiettata dalla montagna. Si avvicinò alla casa circondariale cercando di cogliere i suoni che ne provenivano: gli sembrò di avvertire un rumore di fondo fatto di urla soffocate e di singhiozzi ricacciati in gola, di sbadigli continui e di sussurri minacciosi. Le finestre, con le sbarre bianche evidenti anche da lontano, erano occhi che guardavano l’esterno con un misto di rassegnazione e di speranza. Poi lo vide, al di là del cancello, con il trolley al fianco e una mezza dozzina di buste di plastica vegetale, che scrutava il piazzale del carcere. Quando i loro occhi s’incontrarono, s’illuminarono di gioia e un po’ anche di orgoglio. Il giovane detenuto in uscita fece cenno alla roboguardia di aprire il cancello, che subito iniziò a scorrere, lentamente come il tempo di quel luogo. Appena fuori, abbracciò l’anziano magistrato che gli dispensava pacche sulle spalle, dolci come carezze a un figlio. «Grazie,» disse il ragazzo scostandosi. Russo scrollò le spalle. «Come stai, Giulio?» domandò appoggiandogli le mani sulle braccia per guardarlo meglio, dalla testa ai piedi. Il vento dal bosco faceva vibrare il ciuffo castano a mezza fronte, sopra occhi d’identico colore che non splendevano di gioventù, come se chissà quale cruccio li avesse velati di un’ombra di tristezza. «Bene. Credo,» rispose. «Ti sei sciupato un po’. Stai meglio, però,» aggiunse il giudice notando gli abiti di Giulio, un paio di taglie troppo grandi, come se il tempo del carcere avesse dilavato il superfluo per portare allo scoperto l’essenziale, lasciando dei segni sulla sua faccia che adesso non sembrava più quella di un ragazzo ma di un uomo. «Lì dentro ero un detenuto come gli altri: per mangiare di più, avrei dovuto lavorare. E sai bene che non potevo: avevo da studiare.»


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«Raccontami come è andata.» «Non è stato semplice. Ti racconterò un’altra volta. Forse.» Russo fece sì con la testa, anche se in cuor suo aveva sperato in un trattamento di favore per il suo protetto. A suo tempo, aveva parlato con il magistrato di sorveglianza di Torino, il quale l’aveva rassicurato sul fatto che, quello di Brissogne, anche se classificato come carcere di massima sicurezza, era tranquillo, non affollato, con spazi adeguati e funzionali. «Andiamo via, qui fa freddo,» disse Giulio avviandosi verso la macchina e volgendo le spalle al carcere, quasi la struttura non meritasse neanche un’ultima occhiata di commiato. «Non dirmi che ti è mancata l’afa di Cassino,» lo stuzzicò Russo. «Mi è mancata la libertà.» «Ricordatene quando giudicherai qualcuno,» concluse il magistrato aprendo il vano portabagagli della macchina. Giulio vi ripose il trolley e le buste, senza aggiungere nulla. Quando vide il droide alla postazione di guida, lo salutò con calore. «Ciao, Dante. Maurizio non mi ha detto che c’eri anche tu.» «Buongiorno, dottore, mi fa piacere vederla,» disse il robot con la sua voce calda e bassa. E la frase non suonò di circostanza, quasi fosse davvero contento di vederlo. Dante aveva tutto per sembrare un essere umano, ogni suo componente, ogni particolare, singolarmente considerato, era una simulazione più che credibile dell’omologo umano: aveva begli occhi azzurri schermati da un paio di lenti evidentemente inutili, capelli neri che richiedevano l’uso di un pettine, guance perfettamente glabre che davano l’impressione di essere state rasate da poco, mani affusolate e morbide come quelle di un pianista. Eppure l’insieme non avrebbe ingannato nessuno, come se la somma di tutte quelle perfette somiglianze desse per risultato il massimo dell’artificialità. Alla fine, proprio il particolare più artificiale, la voce, frutto di una sapiente sintesi cibernetica, pareva quella di un uomo in carne e ossa, non giovane ma neanche vecchio, dalla dizione perfetta, senza sfumature dialettali.


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«Lo sai che Dante è il mio doppelgänger: dove ci sono io, c’è pure lui,» spiegò il giudice salendo a bordo. «Partiamo?» domandò Dante. «Sì, ti prego,» disse Giulio. Il droide avviò la macchina e s’immise sulla strada regionale 26 che correva parallela all’autostrada, sull’altra sponda del fiume. Il ragazzo volse lo sguardo per l’ultima volta verso il carcere dove aveva passato i sei mesi più lunghi e mortificanti della sua vita; la sua bocca si piegò in una smorfia amara. Poi, si sfilò il cappotto e con l’omnicom visualizzò l’olimmagine del certificato di scontata pena che faceva di lui un uomo libero, firmato proprio quel giorno, il 30 maggio 2048, dal direttore del carcere. Il magistrato ne scorse le righe. «Qui c’è scritto che il detenuto Burali Giulio, nato a Roma il 14.12.2022, ha tenuto una condotta esemplare durante tutto il periodo di detenzione, dimostrando di essere pronto per il ritorno nella comunità. E meno male, aggiungo io.» «Devo darlo a quelli della commissione, dopodomani, per l’esame finale a Palazzo dei Marescialli.» «Lo consegnerò io al presidente della commissione, insieme con tutto il resto della documentazione.» Giulio distolse lo sguardo dal panorama fuori dal finestrino e incrociò quello del vecchio giudice. Sorrise. «Allora vieni con me.» «Ne dubitavi? Certo, qualcuno deve accompagnarti: quando hai discusso la tesi, quando hai sostenuto l’esame orale del concorso, mica eri da solo, o no?» Giulio abbassò gli occhi. «Lo sai come sono i miei. Mia madre, poverina, è distratta da mille cose, dalla meditazione, dai digiuni, dai viaggi spirituali con le amiche: troppi soldi a disposizione per avere dei seri obiettivi, compreso quello di essere un buon genitore. Lei semplicemente non capisce perché mi affanno tanto a studiare: dice che lo faccio per mangiare di più, solo per questo. Mio padre, poi, è molto impegnato a rifarsi una vita e una famiglia altrove. Io sono il figlio di primo letto, quello del matrimonio sbagliato.»


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«Pensavo di trovare là fuori almeno Antea.» Giulio sospirò e, sempre con l’omnicom, mostrò una lettera. «Questa me l’ha scritta lei, di suo pugno. Ne ha inviato la scansione al direttore del carcere che me l’ha portata personalmente.» Maurizio Russo iniziò a leggere quella grafia minuta e precisa. «Una lettera! L’ho sempre detto, che è una donna d’altri tempi.» Ricordò di quando, oltre trent’anni prima, il verbale d’udienza era scritto così, a mano, con il cancelliere che, prima di passare al procedimento successivo, gli sottoponeva il verbale di quello appena chiuso perché vi apponesse la firma. Dante, il suo droide, invece, non scriveva mai. Dettava con il pensiero, un flusso di elettroni che raramente diventava stampa, rimanendo custodito in forma di documento digitale nel fascicolo elettronico del dibattimento. «Dice che non può sposare un magistrato,» disse Giulio anticipando il contenuto della lettera. «Sempre che, magistrato, lo diventi per davvero.» Il vecchio giudice ridacchiò continuando nella lettura. «Lo diventerai, lo diventerai, stanne certo.» «Dice che deve pensare alla sua carriera, che non può abbandonare tutto per seguirmi nelle sedi giudiziarie di tutta Italia. Lei ha fame, in tutti sensi, e non si può accontentare di essere la moglie di…» «…un giudice? Lei, un avvocato, sposata a un magistrato? Eh, già non sta bene. Troppi conflitti d’interesse. Ma lo sapeva fin dall’inizio.» «Solo che adesso ha avuto sei mesi per pensarci. Bisogna stare un po’ lontani l’uno dall’altra per capire quanto si è davvero vicini. Evidentemente, noi non lo eravamo, almeno non abbastanza.» «E ti dispiace?» domandò Russo guardando il ragazzo di sbieco, cercando di non caricare di troppa importanza il quesito. «Non lo so,» rispose dopo un po’. Tornò a guardare il paesaggio che scorreva fuori, con il fiato che si condensava sul finestrino. Il magistrato mise su la faccia distesa di chi, sorridendo, intende comunicare grandi verità. «E già questo non rappresenta una risposta?»


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«Hai ragione, come sempre,» gli concesse Giulio, stringendogli il braccio. Anche se dentro di lui pulsava un residuo di dolore fatto di delusione e malinconia, «Mi resti solo tu,» aggiunse. «E Dante: non ti dimenticare di lui.» Il droide ciondolò la testa per confermare, rimanendo con gli occhi puntati sulla strada di fondovalle. Non c’era traffico, poche automobili occupavano la carreggiata procedendo alla velocità consentita e rispettando la distanza di sicurezza, in un flusso talmente disciplinato che faceva sembrare la strada ancora meno battuta di quello che era in realtà. Di camion, poi, se ne vedevano ancora meno, nonostante l’arteria conducesse al traforo del Monte Bianco, da una parte, e a Torino, dall’altra. Le merci, invece, venivano caricate sui treni o, altrimenti, quanto ai carichi più piccoli, viaggiavano per via aerea, trasportate dai droni. «Temo che Antea sia stata meno che lungimirante,» disse Russo riprendendo il discorso. «Quella di avvocato è una professione destinata a scomparire. L’hai visto pure tu in tribunale: i robot difensori sono ormai un decimo del totale. Una percentuale notevole, se pensi che il patrocinio legale dei robot avvocati è stato introdotto appena tre anni fa.» «È vero. A Cassino ci sono gli avvocati robot dello studio Palazzo, ma solo quelli, però.» «Ci sono solo quelli perché a Cassino siamo in provincia, dove tutto, anche il regresso, arriva più tardi. Ma a Roma, tanto per dire, il fenomeno è più accentuato: lì ci sono i grandi studi che schierano dozzine di avvocati robot, ognuno specializzato in una branca del diritto. Da noi c’è solo Fabrizio Palazzo, con i suoi robot che vengono in pompa magna da Roma quando c’è una causa importante. Il loro dominus ormai non va quasi mai in udienza, impegnato com’è con la politica. Però manda i suoi robot, in onore dei bei tempi in cui era un giovane avvocato del Foro cassinate.» I due visualizzarono nella mente l’immagine dei robot dell’avv. Fabrizio Palazzo che transitavano per i corridoi del tribunale di Cassino, con il passo cadenzato e spedito di chi ha il cammino di fronte a sé sempre sgombro perché tutti gli altri, uomini e robot,


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cedevano loro il passo, come si fa con i re o i condannati a morte. I robot dell’avvocato si muovevano con uno svolazzo di toga i cui cordoni d’oro ricordavano che il loro dominus era un cassazionista; le loro forme di metallo e fibroplastica s’intravedevano appena sotto la stoffa nera di seta e lana della toga, mentre la testa era un simulacro di quella dell’avv. Palazzo, una pelata lucida contornata ai lati da una corta capigliatura sale e pepe, il pizzetto e la barba di uguale lunghezza a coprire guance piene, lo sguardo penetrante e il ghigno strafottente, quasi di sfida che, sopra le fattezze di automa, risultava sinistro e inquietante come un totem. «E dici che le cose peggioreranno?» continuò Giulio. «Guarda: in provincia ancora si vede qualche avvocato anziano che istruisce il figlio conducendolo per aule d’udienza e cancellerie, illudendosi di potergli un giorno passare lo studio con tutto il portafoglio di clienti. Ma lo sa pure lui che presto o tardi quei clienti gli preferiranno un robot, che mediamente costa di meno ed è più preparato.» «Per questo Antea ha fatto male a mollarmi, perché quella dell’avvocato è una professione senza prospettive mentre quella del giudice ha un futuro assicurato?» «Assicurato mica tanto: c’è la concreta possibilità che tu sia uno degli ultimi.» «Ultimi di cosa?» «Uno degli ultimi giudici umani.» Il giovane tornò a guardare con intensità gli occhi dell’anziano magistrato cercando di leggerne la luce, quasi volesse scorgervi un riverbero dei pensieri. «Non scherzare.» «Non scherzo. Dimenticavo che sei in arretrato di sei mesi sulle notizie. Nel mondo fuori dal carcere il progresso tira dritto senza aspettare nessuno.» «Spiegati, non capisco.» «Al Senato è in discussione l’aggiornamento del Testo Unico sui Robot: lo sai che ogni tre anni bisogna rivedere l’elenco delle


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professioni che si possono affidare alle macchine. Adesso si parla di aggiungere all’elenco anche quella di giudice.» Giulio si prese una dozzina di secondi prima di controbattere. «Non ci credo, non è possibile che qualcuno abbia pensato d’introdurre una follia simile.» Russo mise su l’espressione dell’uomo navigato che ne ha viste così tante nella vita, sua e quella degli altri, da non stupirsi più di nulla. Anche perché un magistrato non può permettersi di provarne: lo stupore fa scrivere sentenze che in appello vengono sempre riformate. «Guarda tu stesso.» Il vecchio giudice fece un gesto all’indirizzo di Dante, che dallo specchietto retrovisore fece intendere che aveva capito. All’interno dell’abitacolo si visualizzò la schermata del Senato della Repubblica con la registrazione della seduta della Commissione Giustizia, tenutasi una settimana prima.


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V. IL GIUDICE ROBOT

La senatrice Marzia Rebbi, presidente della Commissione Giustizia del Senato, XXV legislatura della Repubblica Italiana, guardò davanti a sé i colleghi disposti su tre file nei banchi di mogano leggermente incurvati, scorrendo i presenti uno a uno, anche se era evidente che tutti i quarantacinque membri erano al loro posto. I paludamenti delle tende erano increspati in modo perfetto; la luce dei led era schermata da gocce di cristallo plasmate decenni prima, le lampade e i bracci snodati dei microfoni sui banchi mandavano riflessi antichi d’ottone. Tutto era luccicante e levigato, come imponeva la sacralità della sede istituzionale. La presidente rivolse un cenno d’intesa ai suoi due vice e ai due segretari che insieme a lei sedevano nel banco della presidenza e accese il microfono. Si scostò la frangetta dagli occhi con un gesto nervoso, sul viso l’espressione tirata di chi cerca di essere all’altezza della situazione covando dentro la paura di non esserlo, mentre dentro di sé si baloccava con la speranza insensata che quella che si stava aprendo fosse una seduta tranquilla. «Onorevoli colleghi, buongiorno. Mi fa piacere che siate tutti presenti e che i lavori inizino all’orario stabilito, segno che comprendiamo tutti l’importanza della sessione di oggi. Come sapete, in questa occasione la nostra commissione si esprime in sede deliberante, quindi il nostro voto, una volta espresso, diventerà legge dello Stato.» La presidente si prese un momento per osservare i suoi colleghi: i senatori parlavano tra di loro, ansiosi di cominciare. Il senatore Fabrizio Palazzo, invece, non parlava con nessuno, se ne stava con le spalle contro lo schienale di pelle della poltrona, la gamba destra accavallata a ciondolare, rilassato e spavaldo come fosse stato al


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tavolino di un bar o nel salotto di casa sua. Era nel primo ordine di posti, proprio di fronte alla presidente, che non seppe se provare sollievo o apprensione per l’espressione del capogruppo della maggioranza di centrodestra in seno alla sua commissione. «Conoscete tutti l’ordine del giorno: la modifica del Decreto Legislativo n. 28 del 5 maggio 2039, il cosiddetto Testo Unico dei Robot. La legge prevede che ogni tre anni sia possibile rivedere, ampliandolo o restringendolo, il novero dei mestieri e delle professioni che si possono affidare agli automi. Presso la società civile il dibattito sul tema non conosce pause e vede spesso aspre contrapposizioni di opinioni, anche alla luce dei fatti di cronaca che tutti conosciamo. All’esame vi è una sola proposta di modifica dell'elenco dei lavori, quella volta a introdurre nei ruoli della magistratura, sia essa penale, civile, amministrativa, tributaria e contabile, la figura del giudice robot. La proposta è stata avanzata dalla maggioranza e verrà illustrata dal senatore Palazzo, cui tra poco cederò la parola. Non ci sono altre proposte, né emendamenti alla proposta in discussione, l’opposizione non ha inteso avanzarne: il voto sarà unicamente sulla proposta della maggioranza. Preliminarmente, viene data parola al senatore Cocchiaro per una dichiarazione.» Dall’ultima fila di posti, il collega Aniello Cocchiaro, avvocato del Foro di Lagonegro ed esponente di Destra Italiana, scattò in piedi come un pupazzo a molla da troppo tempo costretto nella scatola. Pur vestito come il luogo e il ruolo imponevano, aveva l’aspetto gualcito di chi, con qualsiasi abito, proprio non riusciva a sembrare elegante, quasi le sue forme tozze e corte fossero fatte solo per camicie fuori dai pantaloni e canottiere indossate a coprire il petto che s’indovinava esageratamente villoso. Il senatore accese il microfono e piantò le mani sul banco a sostenere il busto, come volesse alzarsi di qualche centimetro. Nell’aula si avvertì distintamente il cigolio della poltrona del capogruppo Palazzo, che si era girato per ascoltare il suo collega di partito: la sua faccia mostrava un misto di curiosità e disappunto, segno che l’intervento non gli era stato annunciato. Cocchiaro si avvide degli occhi di tutti, soprattutto quelli del suo capogruppo, puntati su di lui, e avvertì tutta la tensione del momento, quella della


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prima volta che prendeva la parola in quel consesso: non sapeva che sarebbe stata anche l’ultima. «Prima che inizi la discussione, devo stigmatizzare l’improvvida condotta tenuta dal Consiglio Superiore della Magistratura tre giorni orsono,» disse Cocchiaro sudando mentre si rizzava sulle punte dei piedi. «Come è noto a tutti, l’organo di autogoverno della magistratura ha diramato un comunicato con cui esprimeva il proprio parere fortemente negativo circa la proposta che andremo a discutere tra breve. Non sfugge a nessuno l’intenzione del CSM: influenzare il voto di questa assemblea. Una tale sortita si palesa come un attacco alle prerogative del Parlamento e una meschina presa di posizione tesa a salvaguardare la casta dei giudici. Perciò chiedo che questa commissione voglia indirizzare al CSM una nota di biasimo al fine di ricondurre la discussione nell’alveo delle prerogative spettanti a ciascun organo costituzionale,» concluse con voce strozzata, come se l’ossigeno gli fosse venuto a mancare a causa dello sforzo di stare rizzato sulle punte dei piedi per tutto quel tempo. Si asciugò il sudore sulla fronte e si lasciò cadere sulla poltrona, esausto ma sollevato. Fabrizio Palazzo intanto si era girato tornando a volgere lo sguardo davanti a sé. La sua faccia era raggelata in una smorfia di fastidio, che il rumore della penna stilografica fatta cozzare sul bordo del banco con cadenza metronomica sottolineava ancora di più. «Veramente, senatore Cocchiaro, il parere è stato sollecitato dal Ministro Guardasigilli…» disse la presidente Rebbi che, stupita, aveva inarcato il sopracciglio destro con fare professorale, da buona docente di Diritto Pubblico presso l’Università di Trento. Ai più non sfuggì il fatto che lei, rivolgendosi a Cocchiaro, non lo aveva gratificato del consueto appellativo di collega ma con un meno impegnativo senatore, come se nell’occasione la colleganza si fosse smarrita chissà dove. Aniello Cocchiaro non si lasciò scoraggiare e scattò di nuovo in piedi cercando di guadagnare qualche altro centimetro. «Non importa, è la valenza politica del parere che voglio condannare, come se l’organo che l’ha espresso potesse permettersi di…»


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«Basta!» urlò il capogruppo Palazzo sbattendo il palmo della mano sul banco, imponendo la sua considerevole mole alla vista di tutti. «Poniamo termine a questo strazio,» aggiunse senza girarsi. Cocchiaro rimase per un attimo pietrificato, con il rosso delle gote che evaporava come rugiada al sole per lasciare il posto a un pallore di genuino imbarazzo. Si sedette al suo posto facendosi più piccolo di quello che era, nascondendosi dietro il banco, neanche quello potesse proteggerlo. «Mi scuso con gli onorevoli colleghi per l’intemerata del mio senatore,» continuò Palazzo con piglio padronale, come il proprietario che si scusa per il suo cane che ha pisciato dove non doveva. «Invito d’ora in poi tutti i membri del gruppo di maggioranza a concordare gli interventi con il loro capogruppo, onde evitare figure di sterco come quella cui abbiamo testé assistito e consiglio vivamente al collega Cocchiaro di studiare quanto disposto dalla Legge n. 195 del 1958 che disciplina, per l’appunto, le funzioni del Consiglio Superiore della Magistratura. Vi leggerà, immagino per la prima volta, che l’organo in questione può esprimere pareri, sollecitati dal Ministro della Giustizia, su progetti di legge in discussione alle Camere, e inviare sua sponte proposte. Ciò detto, chiedo alla Presidente di continuare,» disse risedendosi sulla poltrona accavallando le lunghe gambe nella posa rilassata a lui consueta. Prima di farlo, rivolse uno sguardo inequivocabile a tutti i membri della commissione, soprattutto a quelli del suo gruppo. Cocchiaro sprofondò ancora di più nella poltrona, quasi volesse scomparire. Il capogruppo di centrodestra intrecciò le mani sul grembo in attesa che si desse inizio alle danze, avendo in faccia stampato il sorriso sornione e rapace insieme che era l’incubo dei suoi avversari. La presidente Rebbi assentì e gli diede la parola, quella che l’avv. Palazzo, come appena avvenuto, era capacissimo di prendersi da sé. «Potrei dirvi, cari colleghi,» esordì Palazzo senza alterare la sua posa rilassata, «che dovremmo introdurre nel nostro ordine giudiziario la figura del giudice robot solo per il fatto che possediamo la tecnologia necessaria per farlo. Da quando abbiamo la tecnica del calco neurale, che consente di creare una simulazione perfetta del cervello umano e


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di impiantarla in droidi dall’efficienza sovraumana, nessuna prospettiva ci è preclusa da un punto di vista fattuale, e il farlo o non farlo è semplicemente una scelta politica, soprattutto per quanto riguarda l’apertura delle professioni ai robot. L’esempio rappresentato negli ultimi tre anni dagli avvocati penso vi sia ben noto…» Sulla destra rispetto a Palazzo, nei banchi di prima fila, la senatrice Arianna Fontecedro, la capogruppo di opposizione di Sinistra Italiana, soffocò una risata sarcastica che sibilò tra i denti come uno sbuffo e affettò la sua faccia indignata di default che tanto piaceva ai suoi elettori. Portò la mano alla goccia di perla dell’orecchino che pendeva dal lobo destro, come faceva sempre quando cercava le parole giuste per esprimere in maniera diretta e chiara il suo pensiero. La donna, magistrato in aspettativa, era al suo primo mandato e sapeva che nelle file della magistratura non avrebbe più fatto ritorno una volta smesse le vesti di parlamentare, destinata com’era a un incarico ministeriale fino alla pensione. Perciò si era preparata a dare battaglia sulla proposta della maggioranza che lei, né più né meno, considerava come un’aberrazione, una provocazione bella e buona. «Ricordiamo benissimo del blitz che la tua maggioranza ha fatto in commissione tre anni addietro su tua esplicita sollecitazione e di quali vantaggi economici ne hai ricavato tu, caro Fabrizio. Il giorno dopo il voto di tre anni fa hai invaso i tribunali con i tuoi robot, guarda caso già bell’e pronti con codici e pandette incorporati,» disse la Fontecedro guardando dritto negli occhi del suo omologo avversario. L’avv. Palazzo sorrise di un sorriso fintamente condiscendente, lo stesso che dispensava a chi stava per subire gli effetti della sua facondia retorica che lasciava attoniti i suoi antagonisti, soprattutto quelli con i quali incrociava il fioretto in udienza, cioè con i giudici, anche con la Fontecedro, quando era procuratrice generale in corte d’appello, a Roma. Si aspettava quel rilievo di carattere personale e si era preparato alla bisogna per affrontarlo. «Cara Arianna, lo sai che ti voglio bene. Perciò ti perdono questo tuo vezzo, tipico della sinistra, che induce a demonizzare l’iniziativa privata come un vantaggio per pochi a scapito dei più che non ne partecipano direttamente. Ma neanche tu potrai negare che gli


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avvocati robot hanno rappresentato un indubbio vantaggio per i cittadini, con le tariffe forensi che sono sensibilmente diminuite e il carico dei procedimenti pendenti che si è alleggerito sulla spinta di legali dalla maggiore efficienza.» «Non mi risulta che le tariffe dei tuoi robot siano così a buon mercato.» Palazzo allargò il suo sorriso, forse pensando ai profitti che aveva realizzato o alla facilità dell’argomento da opporre a quella insinuazione. «La qualità si paga, lo sanno tutti.» Molti senatori soffocarono una risatina di scherno. Arianna Fontecedro incassò il colpo con la rocciosa impassibilità di un pugile temprato da migliaia di round. Sciolse il foulard di seta che aveva al collo e lo piegò per bene, segno che era pronta per lo scontro. «E allora spiegaci i vantaggi che deriverebbero per i cittadini dall'approvazione di questa vostra proposta, posto che i vantaggi per te sono fin troppo chiari.» «Sono qui per questo,» disse Palazzo piazzando sul naso gli occhialetti dalle cui lenti poteva leggere, senza che gli altri se ne avvedessero, il testo del promemoria che aveva approntato per l’occasione, muovendo il puntatore con gli occhi. «I vantaggi sono tutti per il raggiungimento di un obiettivo, sempre perseguito da tutte le riforme, e mai nemmeno sfiorato: quello della certezza della pena. La magistratura presenta una grave inefficienza derivante dal fatto che è assolutamente impossibile raggiungere al suo interno un’uniformità di giudizio. Di qui le sentenze che si contraddicono di fronte a fattispecie del tutto simili, se non addirittura uguali, con il giudice di Palermo che sentenzia in maniera differente, se non opposta, da quello di Bolzano. Quante volte abbiamo visto il secondo grado ribaltare il giudizio emesso dal giudice di prime cure? Lo sconcerto che s’ingenera nella gente è il germe del dubbio che quella sentenza sia davvero giusta. E il dubbio elide l’efficacia del giudicato, perché se il cittadino non confida nell’equità del sistema, finisce per non ricorrervi più, preferendo piuttosto un’altra giustizia, la sua, sommaria e implacabile. Ma quella non è più giustizia: è vendetta. Per questo


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dobbiamo affidarci a giudici robot, collegati in rete tra loro, che sappiano tutti in tempo reale come affrontare questo o quel caso, in modo che crimini uguali ricevano le stesse pene e che il secondo grado non diventi il refugium peccatorum dei giudici inetti o degli avvocati incompetenti, ma venga destinato alla trattazione solo di quei casi, davvero eccezionali, che richiedono un secondo esame.» Il capogruppo Palazzo si concesse una pausa di alcuni secondi per rifiatare. Si accorse che Arianna Fontecedro stava dettando mentalmente degli appunti sul suo omnicom, scandendone mute parole con le labbra. Palazzo cercò di capire cosa stava dicendo ma la sua avversaria serrò la bocca e tornò a volgere lo sguardo verso di lui. Allora Palazzo riprese a parlare. «Ancora: lo sappiamo bene che il cervello umano è uno strumento meraviglioso ma limitato; di certo, i neuroni biologici sono meno affidabili di quelli artificiali. Il cervello si affatica dopo alcune ore di lavoro, la sua attenzione è volatile, legata a mille variabili; le sue prestazioni poi iniziano a decadere in modo irreversibile dopo alcuni decenni di vita. I cervelli robotici, invece, non conoscono questi limiti: non si stancano, possono lavorare indefessamente per giorni, settimane, mesi interi, allo stesso ritmo, senza andare mai in sovraccarico. Le loro prestazioni non decadono con il tempo, anzi si possono ottimizzare riconfigurando l’intelligenza artificiale in funzione delle necessità del momento. Immaginiamo che per lo svolgimento di un determinato compito ci serva un surplus di memoria: basta aumentare la RAM per rendere un cervello artificiale capace di comprendere in modo euristico relazioni complesse che gli esseri umani possono approcciare solo in modo approssimativo ricorrendo a calcoli assai laboriosi. Un cervello umano non possiamo riconfigurarlo, la sua struttura è in gran parte determinata al momento della nascita e può variare in minima parte, assai lentamente, a costo di notevolissimi sforzi profusi in un arco di tempo considerevole: ci vogliono istruzione, educazione, allenamento e cure continue, sempre che bastino. Per questo, un cervello artificiale saprebbe sostenere carichi di lavoro inimmaginabili per un essere umano. Un giudice robot potrebbe celebrare udienza ventiquattrore su ventiquattro, stilare


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sentenze in tempi brevissimi potendo accedere in tempo reale al nostro sterminato bagaglio giurisprudenziale. Avremmo un processo più veloce e perciò più giusto. Conoscete tutti lo stato in cui versa il nostro sistema giudiziario: procedimenti lentissimi, ruoli giudiziari al collasso, la certezza della pena smarrita…» Arianna Fontecedro scattò in piedi puntando il dito contro il suo avversario. Era un ventina di centimetri più bassa ma in quel momento la differenza di statura non si notava. «Davvero stai dicendo che il problema della giustizia italiana è che i giudici non lavorano abbastanza? Lo sai benissimo che i magistrati italiani definiscono ogni anno un numero doppio di procedimenti rispetto a quelli francesi, quattro volte quelli chiusi dai tedeschi e molto di più di qualsiasi altro giudice del mondo. Se non lo sai, vatti a studiare i dati dell’OSCE.» Palazzo alzò le spalle e strinse le labbra per comunicare tutto il suo scetticismo d’ufficio. «Sarà come dici tu, ma lo stato della giustizia è questo, da sempre. Allora vuol dire che, se voi giudici non rappresentate il problema, di certo non siete la soluzione.» Poco ci mancò che la capogruppo di Sinistra italiana si mettesse a strillare. Si girò completamente verso Fabrizio Palazzo piazzandosi a pochi centimetri da lui, volgendo le spalle alla presidente Rebbi, quasi si trattasse ormai di una faccenda personale tra lei e l’avvocato. «Ma come ti permetti? La tua ipocrisia è vomitevole…» disse con voce chioccia fremendo di rabbia. La presidente della commissione la richiamò all’ordine, come il decoro e il regolamento imponevano. «Senatrice Fontecedro, ti prego di adottare un linguaggio più consono e un atteggiamento meno aggressivo. Ti invito altresì a riprendere il tuo posto. Se vuoi controbattere, fallo parlando al microfono.» La capogruppo di Sinistra Italiana guardò la presidente Rebbi con un misto di sorpresa e sconcerto, come se solo in quel momento avesse realizzato che, a guardarla, c’era l’intera commissione e, probabilmente, migliaia e migliaia di cittadini che stavano seguendo in streaming i lavori, per tacere di quelli che avrebbero scaricato il video


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in un secondo momento, magari ingolositi dalla scena di una senatrice che dava in escandescenze. Docilmente, riguadagnò la sua poltrona tentando di spegnere la rabbia respirando dalla bocca, neanche fosse affamata, più che di calma, di ossigeno. Intanto l’avv. Palazzo osservava la scena cercando di dominare il senso di trionfo che covava nel petto: stava andando tutto come aveva previsto. Mise una mano davanti alla bocca per nascondere il suo sorriso soddisfatto. «Mi scuso con tutti i colleghi,» disse la Fontecedro quando ebbe recuperato un po’ di tranquillità. «Coloro che sono dotati di un minimo di onestà intellettuale sanno benissimo qual è la ragione del cattivo funzionamento del nostro sistema giudiziario: abbiamo troppi procedimenti pendenti. I nostri giudici potranno pure essere, e lo sono, i più produttivi del mondo, ma possono fare poco se ogni anno vengono sommersi da una mole di lavoro esorbitante. Vi faccio un esempio: nel Regno Unito si celebrano trecentomila processi penali ogni anno; da noi, tre milioni. A fronte di quei trecentomila processi, gli inglesi hanno una popolazione carceraria di centomila reclusi; noi, settantamila. Non che un processo debba necessariamente produrre detenuti, però il rapporto tra processi celebrati e condanne comminate è indice della necessità di un processo. Da noi, la macchina della giustizia gira a vuoto: ripeto, tre milioni di processi per settantamila detenuti. Semplicemente, vuol dire che molti di questi processi sono inutili. E costosi. La sentenza, in oltre il novanta per cento dei casi, arriva alla fine di un dibattimento lungo e impegnativo. In ogni altro sistema giudiziario non funziona così: la stragrande maggioranza dei procedimenti si definisce con un rito alternativo, un patteggiamento o un abbreviato, procedimenti snelli che non ingolfano la macchina della giustizia. Solo da noi tutto finisce in dibattimento, dall’omicidio al reato edilizio. Tutto va a finire nel calderone del penale, anche quello che andrebbe sanzionato per via amministrativa. Vi pare possibile che, ancora oggi, nel 2048, si perseguano per insolvenza fraudolenta o addirittura per truffa i proprietari di quelle automobili che entrano in autostrada senza pagare il pedaggio? Andiamo, su…»


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Dai banchi della commissione si alzò un brusio fatto di commenti scambiati con il vicino di posto, alcuni di approvazione, altri di segno contrario, com’era giusto che fosse. Palazzo scuoteva la testa, senza parlare, perché si sapeva inquadrato dalle olocamere, aspettando il momento giusto per riprendersi il centro della scena in vista dell’affondo finale. «Ma allora, collega, qual è la soluzione?» domandò un senatore del gruppo misto e nelle sue intenzioni l’interrogativo non era retorico. «Se il problema è che si fanno troppi processi, la soluzione è farne meno, non aumentare a dismisura la produttività di chi è chiamato a giudicare.» «Come?» la sollecitò lo stesso senatore. «Innanzitutto, depenalizzando massicciamente: l’ottanta per cento delle fattispecie di reato deve scomparire dal codice e dalle leggi speciali. Si dovrà celebrare un processo soltanto per le cose serie, quelle che davvero suscitano allarme sociale. Il resto andrà sanzionato diversamente, colpendo le tasche e non la libertà personale delle persone: multe, ammende, sequestri, confische, fermi amministrativi, per importi considerevoli.» «E poi?» «Abolendo il divieto di reformatio in peius in appello. Oggi, con il fatto che l’appello non può condannare a una pena maggiore di quella irrogata con la sentenza di primo grado, a meno che non appelli pure la procura, l’appellante condannato non rischia nulla: tanto, peggio di come è andata non gli può andare. E perciò impugna, sempre. Negli altri Paesi è diverso: si appella solo se necessario e a rischio e pericolo di chi appella. Se l’imputato ha preso quattro anni in primo grado, niente vieta che in secondo grado gli venga inflitta una pena più dura, cinque, sei, sette anni. E infatti sta ben attento a conferire il mandato al suo avvocato per l’impugnazione.» La Fontecedro bevve un sorso d’acqua. Si accorse di aver recuperato la calma consueta: parlare di cose che conosceva bene a un pubblico di non necessariamente addetti ai lavori le imponeva un rigore nell’esposizione che asciugava i suoi pensieri dalla rabbia provata fino a poco prima.


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«Infine, c’è la prescrizione,» continuò, «Con il regime attuale, il suo decorso termina con la pronuncia della sentenza di primo grado. Il risultato è ovvio: chi può permettersi avvocati sagaci e battaglieri, chi ha le risorse per pagarne le profumate parcelle nell’arco di anni, la butterà in caciara, perderà tempo nei mille modi che l’ordinamento consente. Così i processi di primo grado sono lunghissimi. Basterebbe stabilire un principio semplice: la prescrizione si blocca con l’esercizio dell’azione penale. Naturalmente, chi sa di essere colpevole si precipiterà a patteggiare, perché non potrà lucrare sulla prescrizione. Invece, chi ritiene di avere buone ragioni da far valere, andrà a giocarsele in dibattimento, com’è giusto che sia. Ma a quel punto i processi da celebrare saranno pochi, pochissimi, e quelli che si terranno saranno veloci, proprio perché in numero esiguo.» Il brusio nell’aula della commissione crebbe, come quella volta in cui c’era stato un bambino che aveva additato la nudità del re: qualcuno finalmente aveva detto le cose come stavano, senza infingimenti.


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VI. IL GIUDICE ROBOT (2)

La presidente Rebbi dovette imporre il silenzio sbatacchiando il campanello come una forsennata. Appena ritornò la calma, Palazzo ne approfittò per sfidare la sua avversaria. «A sentire te pare tutto così facile, Arianna,» disse guardandola da sopra gli occhiali, facendo oscillare la gamba in modo indolente. «Se bastasse così poco per aggiustare tutto, appena un paio di norme facili facili, perché non si fa? Perché si lascia languire la giustizia nello stato che tutti conosciamo?» L’ex magistrato guardò l’avvocato, vide la sua bocca piegata in un ghigno diabolico, si rese conto del fatto che le era stato teso un tranello, ma decise comunque di non ritirarsi e andò incontro al pericolo a fronte alta, certa delle proprie ragioni. «Caro Fabrizio, ti risponderò con un aneddoto. Secoli fa, l’imperatore della Cina notò che in una certa provincia si diagnosticavano molte più malattie che nel resto dell’impero, come se solo in quel lembo di Cina allignassero piaghe ed epidemie endemiche. Mandò i suoi ispettori a indagare delle ragioni di quella deriva e scoprì che in quella provincia c’erano molti più medici che altrove. Allora decise di sterminarne o deportarne i due terzi e il tasso di malattia della provincia calò drasticamente.» Un silenzio di gelo calò sulla commissione. «Mi stai dicendo che dovremmo ammazzare i due terzi degli avvocati per risanare la giustizia italiana?» «Ovviamente no, ci mancherebbe. Resta il fatto che siete troppi. Lascio parlare i numeri: a Roma, nell’ordine forense, sono iscritti più avvocati di quelli che esercitano la professione nell’intera Francia,


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dove non si registrano problemi paragonabili ai nostri. Più procedimenti pendenti significano più possibilità di guadagno per questa mole spropositata di professionisti. Poi, basta vedere quanti avvocati ci sono in Parlamento per comprendere la ragione per cui certe riforme non si fanno: nessuno sega il ramo dell’albero su cui siede.» Il silenzio dell’aula venne spezzato dalla risata fragorosa dell’avv. Fabrizio Palazzo, che si piegava in due tenendosi la pancia. «Ecco, lo sapevo: è sempre colpa degli avvocati,» disse asciugandosi una lacrima mentre il petto ancora sussultava per il gran ridere. Il magistrato Arianna Fontecedro non si lasciò impressionare. «Beh, è meglio che attribuire la colpa di tutto ai giudici: noi siamo diecimila scarsi, voi un esercito di un quarto di milione. Da un punto di vista meramente probabilistico è più facile che abbia ragione io.» La capogruppo di Sinistra Italiana avvertì distintamente alle sue spalle un mormorio di assenso. Se ne accorse pure Palazzo, che decise di passare al contrattacco. Si rizzò in piedi con un movimento ampio delle braccia, come se stesse scostando il panneggio di una toga che però non c’era. «Sta di fatto che io, tre anni fa, non ho esitato, per il bene dei cittadini e della giustizia, ad andare contro la mia categoria introducendo l’avvocato robot: non sai quanto me ne hanno dette e me ne dicono ancora i miei colleghi, almeno quelli umani. Tu, invece, quando ho attaccato la magistratura, hai reagito come abbiamo visto, come una bestia feroce a cui cercano di sottrarre la preda. È stata una difesa castale, la tua, dammene atto.» «Non ti do atto proprio di niente, caro mio,» disse la Fontecedro che mise le braccia conserte, quasi volesse difendersi dalla figura in piedi, alta e massiccia, del suo avversario, che pareva volerla intimidire anche con la postura. «Fa’ come vuoi,» continuò senza guardare più la sua collega di opposizione, rivolgendosi per il tramite dell’olocamera direttamente al pubblico a casa. «Però una cosa te la devo concedere: ho apprezzato la tua franchezza, brutale, sfacciata, assai poco politicamente corretta ma comunque genuina. Perciò voglio ripagarti con la stessa moneta: sarò


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franco a tal punto da rivelare a te e a tutti i cittadini italiani quale sarà il vantaggio più grande che ricaveremo dall’introduzione del giudice robot.» «Sentiamo.» «Ti servo subito. L’hai detto tu stessa: facciamo troppi processi. Con buona approssimazione, tutti hanno avuto a che fare con la giustizia. Perciò tutti sanno come funziona un giudizio: ci sono tre individui che si confrontano, il pubblico ministero contro l’imputato, l’attore contro il convenuto e tutti contro il giudice, perché ognuna delle parti vuole piegarlo alla sua ragione. Ognuna delle parti non vuole giustizia, vuole vincere la causa e basta, e sa che a giudicare è un uomo, non la legge. Per disciplinare questa lotta tra le parti del giudizio ci sono le leggi processuali. Invito tutti a sfogliare un codice di procedura: è la lettura più noiosa e oscura che ci sia. Le norme di procedura, noi addetti ai lavori lo sappiamo bene, rallentano il giudizio molto di più di quanto ne assistano lo svolgimento. Nondimeno, dobbiamo riservare gratitudine e rispetto a queste norme tanto cervellotiche perché sono il frutto ultimo e necessario di una millenaria esperienza maturata nella pratica quotidiana dei tribunali, l’esperienza di quella derelitta umanità che ogni volta consegna le sorti della propria esistenza all’esito di un processo.» L’avv. Palazzo si prese una pausa per rinfrescare l’ugola con un po’ d’acqua e verificare il grado di attenzione del suo uditorio. Vide che tutti i senatori, anche la presidente Marzia Rebbi e Arianna Fontecedro, pendevano dalle sue labbra soggiogati dal suo carisma. Immaginò che lo stesso valesse per il pubblico a casa. «Lo sapete cosa ha spinto la povera umanità a elaborare quelle norme tanto assurde? Cosa l’ha indotta a fondare l’istituzione stessa del processo? È stata l’insensata speranza di spersonalizzarlo, quasi si volesse estrarre l’umanità dal giudice per farne la mera appendice di una verità perfetta e incorruttibile, che non partecipa delle miserie umane senza tuttavia farsene beffe. L’unico, autentico, perfetto giudizio è quello che venga pronunciato da qualcuno che neanche per ipotesi possa lordarsi degli interessi delle parti processuali. Noi oggi abbiamo questa storica, insperata opportunità, creare con le nostre


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mani quello che non è mai esistito: un giudice sapiente e instancabile, incorrotto e incorruttibile, che incarni la volontà del legislatore perché lui, il giudice, non condivide le umane passioni ma si limita ad applicare la legge.» Arianna Fontecedro gli rivolse uno sguardo atterrito. «Che cosa vuoi dire con questo?» Palazzo vide che il magistrato stava tremando, non sapeva se di sdegno o di paura. Era comunque un segno di debolezza e soggezione e di quel sentimento si nutrì, come una tenia si nutre della linfa di un essere vivente, succhiando la vita per soddisfare i propri bisogni. E il suo bisogno ben gli era chiaro in mente, come sempre: vincere anche quella partita come faceva ogni volta in tribunale, in modo definitivo, facendo strame dell’avversario. «Lo sai, cara giudice Fontecedro, perché la gente parla sempre dei magistrati e mai delle sentenze? Perché vi esalta o vi maledice dopo aver ascoltato la lettura del dispositivo?» disse con voce stentorea puntando l’indice accusatore contro di lei. «Perché lo sa benissimo che, ad assolvere o a condannare, non è la legge, quella che si favoleggia uguale per tutti. No, è il giudice che manda libero l’imputato, è lui che lo avvia alle patrie galere, in forza di un potere che sulla terra non ha eguali. E voi giudici vi beate di questo potere. Altro che giudice terzo! Voi ci sguazzate, nella sozzura delle passioni, dei meschini interessi delle parti processuali, perché ne partecipate. Pensate a quei poveri cristi che dovete giudicare con malcelato fastidio, perché del vostro giudizio dovrete stendere le motivazioni per mascherare il vostro arbitrio.» «Ti prego, basta,» piagnucolò il giudice mettendosi le mani sulle orecchie. Palazzo continuò facendo salire di un’ottava il tono della voce. «Basta lo diciamo noi cittadini, che abbiamo subìto per troppo tempo le vostre angherie, vittime del vostro umore mutevole, delle vostre simpatie e idiosincrasie, dei vostri malanni, delle vostre vicende personali che finiscono per incidere sul giudizio. Al vostro posto metteremo un giudice che non conosce antipatie, non ha pregiudizi, non ha una vita sua che faccia d’intralcio, perché la sua vita artificiale è votata interamente al giudizio, la sua unica funzione è quella di


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applicare la legge. Vi toglieremo il potere, lo sottrarremo all’arbitrio delle vostre decisioni per affidarlo finalmente alla legge e a quella soltanto.» Pronunciò quell’ultima parte della sua concione tutta d’un fiato, neanche avesse scorte d’aria inesauribili nei polmoni, scandendo bene le parole in modo che arrivassero chiare e forti e accompagnandole con tutto il corpo, quasi che questo ne condividesse fino allo spasimo la tensione ideale. Irretito dalla trance oratoria, non si accorse che, vicino a lui, Arianna Fontecedro si era accasciata sul banco, svenuta. Le prestarono soccorso un paio di senatori del suo gruppo, che cercarono di farla riprendere. Quando aprì gli occhi, si alzò a fatica e, sorretta dai commessi d’aula, guadagnò l’uscita senza dire nulla. «Credo sia il caso di sospendere i lavori della commissione a una prossima seduta che mi riprometto di calendarizzare al più presto, perché dobbiamo esprimere il voto finale. La seduta è sciolta,» proclamò la presidente Marzia Rebbi. Fabrizio Palazzo non ebbe niente da obiettare. Si sedette sulla poltrona accavallando le gambe in attesa che gli altri senatori defluissero. Poi, restando a favore di olocamera, si rivolse a un paio di suoi parlamentari che gli si erano avvicinati per complimentarsi. «Dite al senatore Aniello Cocchiaro di trovarsi un’altra commissione dove fare disastri: qui ha chiuso.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

I. La testimonianza (1) ................................................................ 9 II. Operazione di frattura .......................................................... 13 III. Sabotaggio (1) ..................................................................... 21 IV. Scontata pena ...................................................................... 25 V. Il giudice robot ..................................................................... 33 VI. Il giudice robot (2) .............................................................. 44 VII. Sabotaggio (2) ................................................................... 49 VIII. Due vecchi amici .............................................................. 52 IX. Il processo del macellaio udienza del 28.04.2046 .............. 60 X. La testimonianza (2)............................................................. 76 XI. Il processo del macellaio udienza del 14.06.2046 .............. 79 XII. Cortesia per gli ospiti ........................................................ 88 XIII. Sabotaggio (3) .................................................................. 97 XIV. Tertium non datur .......................................................... 101


XV. Il processo di Cassino udienza del 18.02.2047 ............... 106 XVI. La testimonianza (3) ...................................................... 122 XVII. Il processo di Cassino udienza del 28.02.2047 ............ 125 XVIII. Il processo di Cassino udienza del 28.02.2047 (2) ..... 138 XIX. Sabotaggio (4) ................................................................ 147 XX. Il processo di Cassino udienza del 6.03.2047 ................. 150 XXI. La regola della serendipità ............................................. 164 XXII. Il racconto del candidato .............................................. 171 XXIII. Il processo del maestro ................................................ 178 XXIV. La testimonianza (4) ................................................... 192 XXV. Il primo verdetto ........................................................... 195 XXVI. Il passaggio in giudicato ............................................. 199 XXVII. Sabotaggio (5)............................................................ 211 XXVIII. Deus ex machina ...................................................... 215 XXIX. Fabrizio e Maurizio ..................................................... 225 XXX. Maurizio e Giulio ......................................................... 231 Epilogo. La confessione .......................................................... 235


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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