In uscita il (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine RWWREUH H LQL]LR QRYHPEUH (5,99 euro)
AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.
LUISA ROSSI
IL RESPIRO DEL DIAVOLO
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ IL RESPIRO DEL DIAVOLO Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-500-4 Copertina: “Donne” di Mario Suigo Prima edizione Ottobre 2021
But the tigers come at night With their voices soft as thunder As they tear your hope apart ( Ma le tigri arrivano di notte Con le loro voci soavi come tuoni Mentre fanno a pezzi le tue speranze) “I dreamed a dream” Dal musical “Les Misérables”
5
Milano, venerdì 8 giugno 2018, alle ore 23.15 La bestia entrò ansimando e barcollando, chiuse la porta, accese la luce e si lasciò cadere pesantemente sulla sedia guardando senza vederla la stanza che conosceva così bene. Sapeva quello che sarebbe successo e che puntualmente accadde: una fiammata di nausea risalì dallo stomaco, centinaia di goccioline di sudore gelato velarono la sua fronte e incominciarono a colarle dall’incavo delle ascelle mentre un tremito incontrollabile martellava ogni fibra del suo corpo. Si sentiva sempre così, dopo. Dopo. Un moto di collera rabbiosa le salì dalle viscere: ben due giorni di ritardo sulla tabella di marcia, un errore che non avrebbe dovuto permettersi. Tutta colpa di quel cornuto di Oscar, mai puntuale con la consegna. La bestia sapeva che si sarebbe sentita meglio solo dopo aver aperto, uno alla volta, i raccoglitori a quattro fori, perfettamente allineati sullo scaffale di fronte. Sulla copertina di cartone plastificato rosso, spesso e lucido, campeggiava la foto in primo piano di un grosso gatto di razza Maine Coon, dal folto mantello tigrato e le grandi orecchie triangolari un po’ spinte all’indietro, appuntite da lunghi ciuffi di pelo fulvo. Inquietante e ferino lo sguardo diretto dei larghi occhi gialli con la pupilla verticale dei predatori. Si alzò e prese il primo, sul cui dorso campeggiava, in nero, la cifra 2012, ritornando a sedere e appoggiando con delicatezza il raccoglitore sul piano del tavolino di ciliegio. La bestia accarezzò il gatto di carta con entrambe le mani concedendosi voluttuosamente ampi movimenti lenti e assaporando il piacere di chi tocca il mantello setoso di un gatto vero acciambellato in grembo. Il tremito e il sudore cessarono quasi subito. Aprì il raccoglitore, pregustando il piacere che avrebbe invaso ogni fibra del suo corpo di lì a qualche istante. Ognuna delle cartellette di plastica trasparente conteneva un articolo di giornale, qualcuno corredato da foto in bianco e nero.
6 La bestia sussultò in un guizzo di vanità compiacendosi del suo talento, che le aveva permesso di farla franca ancora una volta e sogghignò pensando che fra qualche giorno avrebbe ritagliato altri articoli da aggiungere alla sua personale collezione, una finestra nascosta a tutti, specchio del suo mondo abietto e sotterraneo. L’ultima cartelletta conteneva il suo articolo preferito. In gamba quel giornalista. Lo tolse con cautela, infilò gli occhiali e cominciò a leggerlo, pur conoscendolo a memoria, mentre una piacevole sensazione di benessere cancellava la nausea, rilassava i muscoli e riempiva la sua anima. Ammesso che la bestia ne avesse una. L’ECO DELLA LOMELLINA FONDATO NEL 1975-SETTIMANALE IN EDICOLA IL SABATO SABATO 10 GIUGNO 2012 GIOVANE STUDENTESSA SI GETTA DAL TERZO PIANO VITTIMA DI ALLUCINAZIONI Lo sfogo della mamma: Roberta era buona e studiosa VIGEVANO - C’è grande disperazione dietro il tentato suicidio di Roberta (nome di fantasia), 21 anni, studentessa di Architettura al Politecnico di Milano, che verso le sei della mattina di ieri si è gettata dallo stretto balcone al terzo piano del palazzo di via Melchiorre Gioia 14, in cui abitano i genitori. Un volo di 15 metri finito nel cortile di autobloccanti. I medici del 118, subito intervenuti, l’hanno strappata alla morte ma la prognosi rimane riservata a causa delle numerose fratture al cranio, che le hanno causato uno stato di coma. La triste vicenda di Roberta non vale però poche righe di cronaca e poi il silenzio: non lo merita la mamma che chiede l’anonimato e sfoga tutta la sua disperazione per la disgrazia che forse renderà per sempre invalida la figlia. «Roberta era una brava ragazza» si sfoga la mamma fra le lacrime, «studiava a Milano dove viveva nel periodo scolastico. Martedì notte si è sentita male a casa sua, ci ha telefonato dicendo che le scoppiava la testa, sentiva centinaia di voci rimbombarle nel cervello, era terrorizzata…così noi siamo corsi a Milano. Lei stava malissimo, era in preda ad allucinazioni, non si reggeva in piedi… Abbiamo telefonato al 118, i medici l’hanno soccorsa subito e noi l’abbiamo raggiunta al Policlinico, dove l’hanno ricoverata in psichiatria per sospetta
7 intossicazione da sostanze stupefacenti ma lei non parlava, non ricordava nulla. Giovedì sembrava che si fosse un po’ ripresa e l’abbiamo portata qui. Chi poteva immaginare che avrebbe fatto quello che ha fatto… Mia figlia non era una drogata, una mamma le sa queste cose!» Molti vigevanesi hanno condiviso il dolore dei genitori, inviando loro messaggi di speranza e di sostegno, augurando alla giovane Roberta una pronta e completa guarigione. La bestia sbadigliò e rimise l’articolo nella cartellina. Sperava che quello che sarebbe comparso sul giornale dell’indomani sarebbe stato altrettanto ben scritto.
PARTE PRIMA IMMA
11
1
Milano, venerdì 8 giugno 2018, alle ore 13.50 «Che mese di giugno balordo» mugugnò Imma mentre, sbucando dai gradini della metropolitana milanese, osservava il rettangolo di cielo che, sopra di lei, si allargava sempre di più, man mano che saliva le scale. Altro che cielo di Lombardia, «così bello quando è bello», considerò Imma, pentendosi subito della citazione degna di una professoressa di lettere, quale lei era, in verità, ma insomma, la scuola era finita e per un po’ Renzo e Lucia potevano tornare in soffitta. Neanche una fessura di azzurro o, almeno, di celeste pallido nella coperta grigia e pesante che si stendeva sopra di lei, in alto. Eppure era l’una passata, il cielo si sarebbe dovuto aprire già nella tarda mattinata. Niente a che vedere col cielo di Calabria, compatto nel suo turchino morbido, come se qualcuno lo avesse tinteggiato di smalto fino a coprirlo tutto, senza neppure lo spruzzo di una nuvoletta bianca. Un ricordo sommerso nel tempo le si affacciò alla mente. Imma si arrestò di colpo, punta dalla nostalgia per il suo cielo e il suo mare, che, nelle giornate estive, si confondevano laggiù, lungo la linea sfocata dell’orizzonte. «Andiamo là sotto?» la voce acuta e familiare di Alice le risuonò nelle orecchie, come se fosse lì con lei in quel momento. «Certo, che domande! Forza, andiamo a scalare la Montagna.» «Solo tu puoi pensare di scalare al contrario una montagna, Imma!» La Montagna. Quel pinnacolo che, nelle acque di Scilla, da 40 metri di profondità sale fino a 20, coperto da gorgonie rosse e gialle, colonie di coralli molli simili a grandi ventagli di merletto, rocce ricoperte di spugne e stelle marine. «Oggi Pippo si farà vedere, me lo sento.» «Ma perché ci tieni tanto, a quel cavalluccio marino che abbiamo visto una volta per sbaglio?» «Lo sai, perché è strano come me, Alice. Nuota in verticale!»
12 «Sì, e poi è un maschio anomalo, si porta lui le uova fecondate nella tasca che ha davanti.» «E ti pare poco? Avercene, maschi così eroici!» Alice era scoppiata a ridere, con quella sua buffa risata singhiozzante, contagiosa come la sua allegria. «Cosa intendi, Imma? È una fortuna che i maschi nostrani non siano come Pippo, altrimenti…» «Altrimenti ci saremmo estinti da millenni, lo so.» «Giusto, ma non sarebbe male se i maschi sapiens fossero meno egoisti …» Alice si interruppe di colpo. Accidenti alla sua linguaccia. Tutto voleva, tranne riaprire una vecchia ferita nel cuore dell’amica. Doveva toglierselo dalla testa una volta per sempre, quello scansafatiche di Carmelo. Finse di sistemarsi le bombole e cambiò discorso. «Uffa, che palle questa tuta. Le bombole mi sembrano più pesanti, oggi.» «Piantala di fare la lagna. Andiamo.» «Sì, però torniamo su presto. Lo sai che dopo un po’ mi viene l’angoscia a stare là sotto.» Imma aveva alzato il pollice in segno di ok, e meno male che la maschera impediva di mostrare il sorriso che le arricciava le labbra. Non avrebbe mantenuto la promessa: lo sapevano entrambe. Tuffandosi e cominciando a scendere fu felice di sentirsi senza peso, libera dalla gravità, immersa nel mare di luce liquida, sfocata e brillante nello stesso tempo. Come poteva spiegare ad Alice che scendeva nell’acqua non per vedere ma per guardarsi dentro? Ci aveva provato, una volta. «Ma perché ti piace tanto andare sott’acqua?» «Alice, in fondo al mare sento di appartenere a un’entità superiore, benigna, familiare e aliena nello stesso tempo. Io…» Lo sguardo interrogativo dell’amica l’aveva zittita: inutile imbarcarsi in una conversazione che non portava da nessuna parte. «Mi piace perché mi piace! Quante storie! Andiamo!» Come avrebbe potuto spiegare che la facevano stare bene il silenzio assoluto, i colori distorti, i movimenti rallentati dall’acqua densa, primordiale?
13 Che gustava anche il sottile brivido di terrore ogni volta che si avvicinava a insidiose meraviglie, da cui all’improvviso poteva comparire la morte a riscuotere il pedaggio per aver ammirato tanta bellezza? Un urto fortunatamente lieve sulla spalla riportò Imma alla realtà. Era a Milano, non in Calabria, non vedeva nessuna Alice accanto a sé ma una folla grigia di persone sconosciute. «E spostati, cretina!» la frase offensiva proveniva da un ragazzotto obeso dal collo spesso, capelli rasati e zaino in spalla, che camminava in direzione opposta, a passo spedito nonostante la mole. Imma si risentì: sì, era ferma in mezzo al marciapiede e intralciava il passaggio, ma che bisogno c’era di insultarla a quel modo? Pronta a rispondere con un sonoro vaffa, si accorse che il ragazzotto era già scomparso, inghiottito dai passanti. Scosse la testa incamminandosi lungo la via Torriglia, stringendo la borsa dei libri che portava a tracolla, preoccupata che un altro incidente potesse rovinare il portatile che custodiva nella tasca interna. Tremò al pensiero che si potesse danneggiare il suo amato pc, vecchiotto ma ancora perfettamente funzionante, che le consentiva di collegarsi col mondo. Soprattutto era il suo indispensabile strumento di lavoro: bastava un click sull’icona azzurra per avere sott’occhio l’elenco degli alunni, dei loro voti e delle malefatte o degli elogi (scarsi, ahimè), che accumulava ciascuno di loro. I colleghi più anziani avevano faticato, eccome, ad abbandonare il vecchio registro blu con l’etichetta bianca, su cui ciascuno di loro, il primo giorno di scuola, trascriveva in bell’ordine i nomi dei ragazzi in ordine alfabetico. Imma allungò il passo pensando alla pessima figura che aveva fatto durante la prima riunione di settembre del collegio dei docenti.
14
2
Il dirigente dottor Maurizio Crivelli, dopo i saluti di rito, si era zittito per ottenere silenzio e quindi aveva annunciato con aria compunta: «Signori docenti, l’epoca del registro cartaceo è defunta. Da quest’anno tutti voi userete quello elettronico.» Il distratto chiacchiericcio che da sempre accompagnava le parole del dirigente, di solito dedicate alla noiosissima lettura delle circolari, si era interrotto di colpo, lasciando il posto a un silenzio di tomba. Imma, a cui era sfuggito che la metà dell’uditorio aveva il doppio dei suoi anni ed era alle soglie della pensione, aveva esclamato: «Bene! Il registro cartaceo è un’eredità del secolo scorso, da maestrina dalla penna rossa. « Il suo tono di voce era normale ma, nel silenzio sepolcrale della sala insegnanti, la sua entusiastica affermazione era risuonata come uno schiocco di frusta nel silenzio di una scuderia. «Parla per te, Imma» aveva sibilato brusca la collega Falco dando la stura alle paure, fino a quel momento represse, dei colleghi anziani. «Possiamo aspettare un anno? Io ho fatto il corso di aggiornamento ma non ci ho capito un’acca» aveva piagnucolato la collega di artistica, usando un’espressione che rivelava la sua data di nascita più della carta di identità. «E se poi lo schermo diventa buio, va via la corrente e io ho lavorato tutto il pomeriggio per niente?» aveva incalzato la collega di francese, forte del consenso della maggioranza e perciò pronta a esporsi. Il giovane professor De Mitri era esploso in una risata: «Eh, addirittura se va via la corrente! Sembri mia nonna! Ma hai mai sentito parlare di computer portatili, di caricabatterie, di Internet? Siamo nell’era digitale, nel caso ti sia sfuggito.» Imma, sollevata dall’inaspettato aiuto, si era girata verso il giovane collega facendogli un cenno di gratitudine. Di nuovo si era fatto silenzio: tutti si erano girati verso l’anziano professor Bacchi, che sedeva, come al solito, in fondo all’aula e a cui il dottor Crivelli aveva dato la parola
15 Il professor Bacchi era un letterato di vasta cultura che solo per un avverso destino, secondo lui, aveva iniziato e finito la sua carriera in una scuola media, pur essendo laureato in lettere classiche. In realtà la perfida professoressa Falco aveva fatto sapere a tutti che l’esimio collega non aveva mai passato il concorso per le superiori, altro che avverso destino. Così aveva parlato il professor Bacchi, dopo essersi alzato in piedi per acquisire maggior visibilità, dato che non arrivava al metro e settanta, inorgoglito dalle decine di occhi puntati verso di lui. Occhi che lui reputava interessati e attenti e, invece, erano solo compassionevoli. «Io sono perfettamente in grado di usare il registro elettronico, ci mancherebbe altro. Però signor dirigente, la esorto a considerare che il registro elettronico ci fa perdere prestigio: col tablet siamo tutti uguali, tutti connessi, invece…» «Ma cosa dici, Ettore! Certo che siamo tutti connessi! Siamo del 2018!» «Lo lasci finire, professor de Mitri. Continui, la prego.» Il professor Bacchi aveva assunto un’aria sognante. «Girare le pagine del registro respirando il profumo della carta che crocchia sotto le dita, lasciare col fiato in sospeso gli alunni scorrendo l’elenco per pescare i malaugurati per l’interrogazione, scuotere il capo consultando il registro davanti al genitore che pende dalle tue labbra … Altro che retaggio del secolo scorso! Questo è il solo, il vero…» Il dirigente dottor Maurizio Crivelli ne aveva abbastanza della retorica del professor Bacchi e lo interruppe. «Grazie, professore, per il suo intervento. Ma il registro elettronico diventa obbligatorio da quest’anno, siamo già in ritardo con le direttive del Ministero. Non possiamo certo essere l’unica scuola non connessa della Lombardia! E adesso passiamo alle varie ed eventuali.» Gli sguardi velenosi dei colleghi anziani, pochi ma molto vendicativi, erano solo l’antipasto di saluti freddi e appena abbozzati, piccole ripicche, assegnazione solo a lei di un orario pieno di buchi. Nonostante fosse trascorso un intero anno scolastico da quella mattina di settembre, Imma, camminando spedita verso casa, avvertì ancora un brivido di disagio ripensando alla freddezza con cui l’avevano trattata da allora il professor Bacchi e i suoi accoliti. Si sentì come san Sebastiano, il cui ritratto, quello di un giovane uomo dal viso angelico e rassegnato, gli occhi rivolti al cielo, seminudo, con le mani legate dietro la schiena e trafitto da decine di frecce, la inquietava
16 moltissimo quando, bambina, andava a Messa nella chiesa parrocchiale la domenica mattina. Poi si consolò ben sapendo che l’ostilità di cui era vittima non aveva nulla a che vedere con le sue opinioni, ma altro non era che la spia dell’invidia per la sua giovinezza e l’entusiasmo che a essa si accompagnava, per loro solo un lontano ricordo. Lo sguardo storto e sussiegoso del professor Bacchi si affacciò per un’ultima volta nella sua mente, ma Imma lo scacciò con determinazione. «Basta. Ma chi se ne frega dei dinosauri. Io vado avanti» mormorò.
17
3
Imma camminava a passo di marcia, facendo ondeggiare la coda alta di capelli neri ricci e ribelli, trattenuti da un elastico rosa. Come molti viali milanesi, il viale Torriglia era trafficatissimo, chiassoso per i clacson impazienti e il vociare in cento lingue diverse, permeato dagli odori speziati che uscivano dalle finestre sul retro dei ristorantini etnici e dei kebab, colorata dai rossi e dai viola delle vetrine dei negozi di abbigliamento casual. La vitalità e l’energia sprigionate dal suo quartiere le entrò nell’anima con prepotenza, scacciando i brutti ricordi di poco prima: imboccata la seconda strada a sinistra, la percorse fino in fondo, assaporando il piacere dei frastuoni attutiti, sempre più ovattati man mano che si allontanava dal viale Torriglia. Lo stesso piacere di quando incominciava a immergersi nel silenzio del suo mare per scalare al contrario la Montagna. Anche gli odori erano cambiati: aprì le narici respirando la fragranza acuta dei gigli del fioraio col banchetto sulla strada, il profumo fresco di sapone che usciva a fiotti dalla lavanderia a gettoni, l’aroma stuzzicante delle brioches e delle focacce in bella mostra nella vetrina della panetteria, a cui Imma non avrebbe saputo assolutamente resistere, se non avesse già fatto ampio onore al rinfresco allestito in sala insegnanti per festeggiare l’ultimo giorno di scuola, finalmente in pace, dopo l’uscita strepitante, a gomitate e spintoni, degli alunni. Sulla porta del negozio si affacciò Noel, il panettiere filippino che la salutò con la cortesia che gli era abituale: «Buongiorno professoressa Imma! Vuole qualcosa di speciale oggi?» «Grazie, ho già pranzato, passo dopo per la cena, va bene?» «L’aspetto allora. Ho fatto panini al latte buonissimi, pizzette con origano e focacce con olive! E pane con semi di sesamo, e…» Imma sorrise: le era simpatico Noel, piccolino, i capelli tagliati corti, la solita polo gialla sotto il grembiule, e le occhiaie di chi lavora di notte. Lo guardò: una piccola bugia non le costava niente e lo avrebbe reso felice.
18 «Ho portato a scuola i pasticcini al cioccolato che ho comprato da te stamattina e tutti ti hanno fatto i complimenti, sai? Erano buo – nis – si – mi!» Che fossero deliziosi era vero, ma nessuno dei suoi antipatici colleghi si era sognato di spendere due complimenti per il pasticcere che li aveva preparati. Il viso di Noel si illuminò. «Grazie, grazie! A dopo, allora!» Ormai distante solo poche decine di metri da casa, Imma si sentì fortunata per aver trovato in affitto, a un prezzo ragionevole, il suo monolocale. Quando, in agosto, aveva ricevuto la notizia ufficiale che le era stata assegnata una cattedra di materie letterarie presso la scuola media statale «Simone Peterzano» di Milano, non era riuscita a trattenere la sua esultanza. Era quello che desiderava e per cui aveva studiato tanto, ma non sapeva se accettare l’incarico: a Milano non conosceva nessuno, non aveva parenti che potessero ospitarla, perciò avrebbe dovuto ripiegare sull’affitto di un appartamentino, giocandosi quasi tutto lo stipendio. Sapeva come erano alti i prezzi degli affitti nella metropoli. L’annuncio online dell’agenzia immobiliare Armando di Armando Diamante che proponeva «solo a referenziati» l’affitto di un monolocale arredato in zona Naviglio Martesana aveva catturato subito la sua attenzione sia per un motivo razionale, ossia il prezzo alla sua portata, che per uno irrazionale: il signor Diamante si chiamava come la sua città in provincia di Cosenza. Vincendo le sue resistenze, il papà l’aveva incoraggiata ad accettare la nomina, assicurandole che l’avrebbe aiutata lui con l’affitto. Sentì salire un nodo alla gola pensando al suo eccezionale papà, che aveva solo lei al mondo ma non esitava ad approvare la scelta di andare vivere a mille chilometri di distanza, pur di realizzare i suoi sogni e vivere la sua vita. Papà. L’avrebbe rivisto fra poche settimane e avrebbero passato insieme tutta l’estate. Scacciò la malinconia e svoltò a destra imboccando la via Merate. Le venne incontro proprio il signor Armando, che stava in quel momento chiudendo la porta dell’immobiliare per tornare a casa. Imma lo osservò camminare con passo elastico verso di lei.
19 Era un uomo più vicino ai sessanta che ai cinquanta, i capelli cortissimi brizzolati e gli occhiali da vista dalla montatura rossa, che conferivano personalità a un viso anonimo, privo di tratti caratteristici. Un bell’uomo, se i denti giallastri per la troppa nicotina non gli avessero guastato il sorriso. «Buongiorno! Che combinazione! Stavo proprio pensando a lei!» Il signor Armando si arrestò a pochi passi da lei. «A me? Sul serio? E com’ero quando mi pensava?» esclamò appoggiando il palmo della mano sul petto e simulando incredulità. Imma arrossì, innervosita dallo sguardo colloso e ammiccante, decisa a sorvolare sulla frase ambigua. «Com’è adesso. In realtà pensavo al mio monolocale.» Il fastidioso lampo nello sguardo del signor Armando si spense all’istante. «Perché? Non è contenta? C’è qualcosa che non va?» «Tutt’altro. Non la ringrazierò mai abbastanza per aver convinto la proprietaria ad affittarmi la casa. Sa, io sono calabrese e…» «E allora? Non siamo mica negli anni Sessanta! Io ero piccolo, ma mi ricordo il cartello sui portoni «Non si affitta ai meridionali!» Adesso meridionali, marocchini o cinesi chi se ne frega, basta che siano puntuali nel pagamento. « Il signor Armando si accigliò. «Perché lei è puntuale, vero?» «Certo. Be', io la ringrazio lo stesso. Mi trovo proprio bene, nella mia casina.» «Tutto merito dell’agenzia Armando di Diamante Armando! Buon pranzo!» «Anche a lei. Buona giornata.» Svoltato l’angolo e imboccata la via Merate, Imma, come d’abitudine, si fermò: oltre la stretta strada, incredibilmente, i mormorii leggeri della via si sovrapposero a uno scroscio festoso d’acqua corrente, e il cemento lasciò il posto ad alti platani e carpini verdissimi. Era arrivata alla Martesana, il Naviglio piccolo per i milanesi, un paradiso in cui città e campagna si fondono in modo rapido e armonico. Percorsi pochi metri lungo il Naviglio, Imma si fermò al civico 24, davanti a uno stabile alto quattro piani, dalla facciata color ocra in stile neoclassico ottocentesco, piuttosto scrostata in verità, coi balconcini che avrebbero avuto bisogno di una bella mano di vernice. Era arrivata.
20 Alzò lo sguardo alla finestra dell’ultimo piano: la mansarda che aveva affittato era piccola, senza balcone, dal soffitto spiovente ma lei, che superava di poco il metro e mezzo di altezza, ci stava da Dio, nel suo monolocale. Un terzo dello stipendio solo per l’affitto, ma basse le spese condominiali dato che non c’era l’ascensore e il portiere si accontentava del minimo salariale, pur di abitare gratis in una bella zona, e poi la manna del contributo che le mandava dalla Calabria il papà, contadino straripante di orgoglio per una figlia laureata che insegnava a Milano. Imma entrò nell’ampio androne scuro, col pavimento a mattonelle a rombi bianchi e neri, si fermò un attimo a prendere fiato davanti alla portineria, chiusa come d’abitudine alle due del pomeriggio, apprestandosi alla lunga scalata verso la sua mansarda, contando, come sempre, gli ottantasei gradini in pietra serena che salì senza affanno perché era allenata: le piaceva camminare e correre lungo il Naviglio, quando il tempo era bello. Arrivata al terzo piano, udì il rumore secco di una doppia mandata, la porta dell’appartamento dei signori Romano si aprì e comparve la signora Giovanna. Di statura leggermente superiore alla sua, ma larga il doppio, la signora Giovanna era una donna di mezz’età, coi capelli biondi tinti e la parlantina sciolta; ridicolo il contrasto col marito, la cui figura silenziosa si materializzò alle spalle della moglie. Il signor Marino era un uomo alto più di un metro e ottanta e, da giovane, doveva aver vantato un fisico longilineo, mentre adesso, alle soglie della mezz’età, una pancia prominente gli guastava il profilo ingombrandolo nei movimenti. Era un ragioniere che aveva lavorato per trentacinque anni come contabile nella vicina filiale della Banca di Milano, e nel 2015 era andato in pensione. Indossava occhiali dalla montatura nera di gusto rétro e le lenti spesse da miope, che rimpicciolivano un paio di occhi azzurri sbiaditi, quasi privi di ciglia. Lo sguardo appariva un po’ inquietante a causa di un continuo e involontario movimento dei bulbi oculari, che ricordava quello di un pendolo; il colore degli occhi e la carnagione chiara lasciavano supporre che fosse stato biondo, da giovane, mentre ora era completamente calvo. Il signor Marino aveva l’hobby del bricolage, cui si dedicava in ogni momento lasciatogli libero da sua moglie. Scendeva nella cantina
21 minuscola, dalle pareti tappezzate di pannelli su cui erano appesi arnesi di ogni tipo, ciascuno dei quali poteva essere rimesso al suo posto preciso, dopo l’uso, perché sui pannelli beige il ragionier Marino aveva disegnato, con una grossa matita rossa da muratore, il contorno dell’arnese in questione. Appesi in ordine rigorosamente decrescente, erano fissati seghetti, cacciaviti, levigatrici, martelli, scatolette di chiodi, di viti, di ganci… Imma lo sapeva perché aveva avuto il privilegio di scendere in cantina col signor Marino, che aveva tanto insistito per mostrarle il suo laboratorio. Proprio a quella sera di due settimane prima volò il suo pensiero, mentre si preparava a un cenno di educato saluto alla coppia che era appena apparsa sulla soglia di casa.
22
4
Le cantine del condominio di via Merate 24 erano vecchie e umide proprio come il resto del palazzo e scarsamente rischiarate da finestrelle chiuse da grate, mentre il corridoio centrale si illuminava accendendo una fredda e spettrale luce al neon. Imma non scendeva mai nelle cantine perché il suo monolocale non ne aveva in dotazione una, ma quella volta non aveva potuto esimersi dall’invito rivoltole con gentilezza, ma anche con insistenza, dal signor Marino, che aprì la porta con la sua chiave. «Guardi, signorina Imma! È un privilegio entrare nel mio laboratorio!» esclamò il signor Marino accendendo una lampada al neon che illuminò la cantina con un leggero ronzio. Imma fu stordita dal bagliore fortissimo, gelido, che esaltava i contorni di una piccola stanza quasi spoglia. Strizzò gli occhi abituati alla penombra. Il soffitto basso e le pareti intonacate di bianco, su cui erano appesi i pannelli con gli attrezzi, contrastavano col pavimento di linoleum verde scuro, tirato a lucido. In un angolo, ceppi di legno simmetricamente accatastati e, al centro, un ampio tavolo da falegname, su cui non compariva neppure l’ombra di un truciolo. Più che in una falegnameria, Imma ebbe l’impressione di trovarsi in una sala operatoria. Anzi, peggio. Il luogo le ricordava quello in cui, nella scena finale di un horror che aveva visto in tv, un essere immondo sezionava i cadaveri delle sue vittime frugando fra le viscere sanguinolente per… Che immagine orrenda. Imma si sforzò di cancellarla subito dalla mente. «Le piace il mio regno, signorina?» continuò il signor Marino compiaciuto, accompagnando le parole con un ampio gesto circolare del braccio. «S-Sì, certo» balbettò Imma.
23 Riprese il controllo, sforzandosi di mantenere un’espressione neutra, quasi ebete, guardando il suo pacifico vicino di casa che continuava a chiacchierare. «Qui non lascio entrare neanche mia moglie. Pasticciona com’è, in un minuto mi butterebbe tutto all’aria» disse accarezzando un pezzo di legno grossolano adagiato sul tavolo da falegname, pronto per essere intagliato. «La mia passione è tagliare, incollare, inchiodare, trasformare un brutto pezzo di legno uguale a tanti altri in un prodotto nuovo, finito, originale, solo mio… Ma perché sorride, signorina Imma?» «Perché lei mi ricorda Mastro Ciliegia quando, incominciando a intagliare un pezzo di legno, udì una vocina che gridava ohi! Non mi picchiar tanto forte!» «Ma di che parla? Chi è Mastro Ciliegia?» «L’amico di Geppetto, il falegname che col pezzo di legno costruì il burattino Pinocchio… il libro di Collodi, si ricorda?» «A dir la verità no, son passati tanti anni…» «Che dice, proviamo?» disse Imma strizzandogli l’occhio, avvicinandosi al pezzo di legno e facendo delicatamente toc toc con le nocche. Ovviamente non si udì alcun lamento e la risata fresca di Imma risuonò nel silenzio della cantina. «Mi scusi sa, è stato più forte di me… Ma continui a raccontarmi del suo hobby.» Contrariamente alla disinvoltura che si sforzava di dimostrare, Imma non si trovava ancora a suo agio e rabbrividì. Il siparietto di poco prima era stato dettato dal suo carattere allegro e pronto a cogliere il lato umoristico delle cose, certo, ma, soprattutto, dal tentativo di cancellare l’inquietudine provocata dall’immagine truculenta del film che le si era affacciata alla mente. «Lei è proprio simpatica, sa? Che dirle ancora. Non sono certo in grado di costruire un burattino, ma coi lavoretti e le piccole riparazioni me la cavo.» Prese con delicatezza una tavoletta di legno chiaro. «Da questa vorrei ricavare una cornice. E lei? Anche lei ha un hobby?» Imma sorrise. «Due, a essere precisi. Quello che mi appassiona di più è...» «Mi lasci indovinare… una professoressa come lei… che fa? Scrive romanzi? No? Allora è socia della biblioteca, organizza gruppi di lettura…»
24 «Acqua, acqua…No, niente che riguardi la mia professione. Però ha a che fare con l’acqua.» «Ci sono! Il nuoto!» «Eh, quasi…No, io faccio immersioni subacquee.» «E dove? Qui a Milano? C’è una piscina che…» «No no, niente piscina. Mi immergo nel mio mare di Calabria, quando posso.» «Eh, piacerebbe anche a me, ma la vedo difficile perché…» Si chinò sussurrando all’orecchio di Imma come a proteggersi da inesistenti presenze curiose e indiscrete. «Sa, io non so nuotare! Mi vergogno, ma è così.» Imma lo guardò sollevata. Chissà quale sconvolgente rivelazione si aspettava. «Però può sempre imparare, signor Marino! Ma come, una persona con un nome come il suo che non sa nuotare!» «Troppo tardi, mia cara. Certe cose o le impari da giovane o mai più. Ma mi dica dell’altro hobby. È strano come questo delle immersioni?» «Di più! È curioso in una persona giovane, lo direi indicato alle signore di una certa età…» «Ho trovato! Le piace lavorare a maglia, come alla mia Giovanna? No? Neanche dipingere? « «Fuochino fuochino…» «Insomma che fa? Non mi dica che le piace ricamare cuscini a punto croce…» «E va be', glielo dico, signor Marino. A me piace preparare conserve di frutta, marmellate con le arance e i limoni che mi manda papà dalla Calabria, sa sono così grossi da sembrare cedri. Ma, più di ogni altra cosa, mi piace preparare liquori secondo le ricette di mia nonna Angela. « «Liquori? Ma li prepara lei in casa?» «Eh già. Glielo farò assaggiare, il mio limoncello. Lo sto preparando proprio in questi giorni.» «Ma guarda! Non avrei mai indovinato. Sono curioso: ci vuole qualche apparecchio speciale, che so, tipo quello per distillare la grappa… » «No no, niente di particolare. Bisogna mettere in infusione le scorze nell’alcool e poi…» Il signor Marino sussultò. «Nell’alcool? Come, nell’alcool? Quale alcool? Non è pericoloso?»
25 «Non certo l’alcool denaturato, quello rosa che si usa per pulire i vetri! Io uso un alcool trasparente, per uso alimentare, a 95 gradi, specifico per preparazioni di pasticceria. È un po’ caro, ma ne vale la pena, mi creda!» «Ah, non ho dubbi! Ma è pericoloso lo stesso, no? 95 gradi…» «Sto attenta, non si preoccupi. Le regalerò una bottiglia del mio limoncello, promesso!» «Se è così in gamba in cucina, perché non apre un blog? Una professoressa fra i liquori… Che ne dice?» «Ci penserò su, signor Marino» si schermì Imma» ma non ho proprio tempo per un blog! E poi, la concorrenza sarebbe accanita. Lo sa quanti blog di cucina esistono? « «Non lo so ma lo immagino, signorina Imma. La mia era solo un’idea, lei è così simpatica e carina, parla come un libro stampato e avrebbe sicuramente successo, mi creda!» «Uh, quanti complimenti! Allora lo mettiamo su insieme, un blog. Una professoressa fra i liquori e un ragioniere fra i martelli… Una coppia di ferro!» Il signor Marino rise a mezza bocca. «Per carità, sono troppo vecchio per queste cose. Io sto bene nel mio buco, da solo o in ottima compagnia…» la guardò ficcando negli occhi grandi e scuri di Imma i suoi, sbiaditi e minuscoli in perenne movimento sotto le spesse lenti. «Ma adesso torniamo su, o mia moglie si chiederà che fine abbiamo fatto» concluse il signor Marino guardando l’orologio e accompagnando Imma verso la porta, che chiuse a chiave alle loro spalle dopo aver spento la luce. Imma gli lesse nel pensiero: di certo stava facendo i conti con il rammarico di non avere trent’anni di meno e l’impossibilità di far girare il tempo all’incontrario. Salendo le scale per tornare a casa, Imma pensò che la precisione del ragionier Marino era decisamente maniacale: lui era uno che di certo a casa sua raddrizzava i quadri storti di un millimetro e usava il metro per posizionare un vaso di fiori al centro del tavolo o appoggiare i cuscini sul divano del salotto. Il suo pensiero si spostò verso la povera signora Giovanna: non doveva essere facile vivere con un uomo così pedante.
26 In compenso, la passione del ragioniere le era tornata utile, quando, la settimana prima, le aveva riparato la cinghia della tapparella che si era rotta all’improvviso.
27
5
La signora Giovanna spalancò la porta d’ingresso del suo appartamento al terzo piano e vide Imma che saliva le scale. «Buondì signorina Imma, com’è andata a scuola oggi? «cinguettò. «Be…bene, io…» «Uhm, vedo che ha una faccia tirata, lo credo, con quei villanzoni di ragazzotti, mica beneducati come ai miei tempi, neh? Ho ragione o no?» Senza aspettare una risposta che non le interessava minimamente, corrugò la fronte, guardò l’orologio, atteggiò un’espressione contrariata e continuò alzando il tono di voce. «Quei delinquenti del supermercato, mai una volta che siano puntuali con la spesa a domicilio! Pago cinque euro di sovrapprezzo e si permettono pure di ritardare, come se la gente non avesse altro da fare che aspettare i loro comodi!» Si avvicinò alla ringhiera e guardò giù. «Pensavo che fossero loro a salire le scale, vero Marino?» esclamò girandosi verso il marito, che annuì imperturbabile. Imma faticò a trattenere un sorrisetto, immaginando i giganti bulgari delle consegne a domicilio tirare a sorte scomodando tutti i Santi del Paradiso per vedere a chi toccasse portare le pesanti casse d’acqua e le ingombranti buste della spesa su al terzo piano dalla signora Romano, che non scuciva un euro di mancia e li rimbrottava pure. Sentì un vivace scambio di battute in lingua slava giù, al pianterreno, si affacciò alla ringhiera di ferro battuto e comunicò la buona notizia ai coniugi Romano. «Eccoli, signora Giovanna, sono arrivati! Io vado a casa.» Arrivata al pianerottolo dell’ultimo piano, tirò fuori dalla taschina esterna della borsa le chiavi, aprì la vecchia porta di noce scuro, entrò in casa e, come prima cosa, aprì le finestre per far entrare la luce del giorno, dopo aver appoggiato le chiavi nella ciotolina all’ingresso e la borsa sulla sedia della cucina. Gettò un’occhiata distratta ai grossi limoni appoggiati sul tavolo, vicini alla bottiglia da un litro di alcool trasparente da pasticceria.
28 Prese la bottiglia e la girò, osservando la grande etichetta bianca e rossa, su cui troneggiava un teschio nero con le ossa incrociate. Scosse la testa: adesso era troppo stanca per mettersi al lavoro, lo avrebbe fatto quella sera. Finalmente si lasciò cadere pesantemente sul divano, fece volare i mocassini sul tappeto finto persiano e tirò un sospiro di sollievo: si sarebbe riposata un po’ per poi andare a correre. Aprendo la finestra Imma si accorse che la coltre di nubi nel cielo si stava dissipando e ne fu felice, perché pensò che quella sera si sarebbe affacciata per godersi il fuoco del tramonto milanese, sorseggiando un bicchiere di Prosecco ghiacciato, poi avrebbe guardato un po’ di tv evitando accuratamente gli horror e i polizieschi. Una bella commedia, ecco quel che ci voleva. Intanto avrebbe sbucciato i limoni e messo le grosse e succose scorze in infusione nell’alcool. Un sorrisetto ironico le illuminò la faccia e le fece brillare i grandi occhi scuri. «Caspita, che programmino interessante, alla faccia della movida milanese! Stai invecchiando, bella mia!» esclamò ad alta voce, come le capitava ogni tanto quando voleva allontanare la solitudine o farsi coraggio. Il sonno cominciò ad appesantirle le palpebre vincendola subito dopo. Imma non sognava mai la mamma, che era morta travolta da una meningite fulminante quando lei aveva appena nove anni. Il ricordo del suo viso era sbiadito nel corso del tempo fino a diventare sfocato, quasi trasparente, un fantasma che in casa aleggiava dappertutto ma nessuno nominava mai. A tratti le si affacciava nella mente il volto della mamma, incorniciato dai corti capelli neri e ricci come i suoi, ma con disperazione si accorgeva che era nudo, pallido, senza sguardo. Invece il viso smagrito che le apparve in sogno era reale, vivido. Gli occhi tristi, lo sguardo appannato da cupa mestizia, la bocca storta, appena uno scarabocchio rosa nel pallore del viso. Lo scarabocchio si socchiuse per parlare, ma nessun suono uscì dalle labbra. Imma si svegliò sbarrando gli occhi, coperta di sudore gelido e pervasa da una sensazione di morte imminente, la gola stretta in una morsa di angoscia.
29 Scossa, la mente offuscata da quell’immagine che proveniva da una dimensione lontana, si mise a sedere portando davanti agli occhi l’orologino d’oro giallo che le stringeva il polso. Come sempre, il semplice gesto ebbe il potere di tranquillizzarla: lo snello orologino Vetta degli anni Sessanta era decisamente fuori moda in un mondo fatto di Swatch di plastica dai colori fluo, veri o finti Rolex dal quadrante enorme, pesanti patacche cinesi a pila. Il quadrante del suo Vetta, rotondo, grande non più di una moneta da venti centesimi, con le lancette schiarite dal tempo e quasi invisibili sul fondo scolorito, era trattenuto da un bracciale piccolo, a maglie strette, in oro giallo come la cassa dell’orologino. Era quello di una bambina di cinquant’anni prima; infatti, l’aveva indossato la sua mamma, cui era stato regalato dalla madrina nel giorno della prima Comunione, e da quel giorno non l’aveva più tolto. Diceva a tutti che l’avrebbe regalato alla sua Imma nella medesima occasione, non potendo mai immaginare che sarebbe morta prima. A Imma capitava a volte di pensare, in modo totalmente irrazionale, che indossando l’orologino di sua madre, qualche traccia della vitalità che era fluita nelle sue vene si trasmettesse a lei attraverso i polsi: era come se la mamma l’accompagnasse sempre, dandole forza e dicendole io sono qui, anche se non mi vedi. «Basta con queste stronzate» esclamò Imma ad alta voce. Gettò un’altra occhiata all’orologino: le quattro passate. Balzò su dal divano, in pochi passi arrivò al vecchio comò vicino al letto, aprì l’ultimo cassetto, ne trasse una maglietta bianca e un paio di calzoncini azzurri, si cambiò, andò in bagno a togliersi il residuo di trucco della mattina ormai sbavato, si sciacquò la faccia e riannodò la coda che si era quasi sciolta nel sonno. Infilò le vecchie Nike, afferrò lo zainetto in cui alloggiavano le cuffiette e una bottiglietta d’acqua, chiuse il suo IPhone nella tasca interna e uscì di casa. L’accolse il pianerottolo fresco, buio e silenzioso. Si fermò un attimo fuori dalla porta, per scacciare l’inquietudine che non si era ancora del tutto dissolta. Il pianerottolo sapeva di vecchiaia e di solitudine, come tutto in quello stabile: al quarto piano non si percepiva alcun rumore dalla strada, né all’odore di chiuso si sovrapponevano rassicuranti fragranze di cibo; l’unica fiacca fonte di luce era quella dei finestroni di vetro smerigliato giallo sulle scale.
30 Il pavimento di piastrelle esagonali era coperto da un tappeto polveroso di tipo orientale, a disegni geometrici come usava ai primi del Novecento, mentre le pareti erano rivestite da una tappezzeria marroncina a piccoli fiori color porpora, che si staccava in alcuni punti. Il portiere aveva tentato malamente di rabberciarla con una colla di poco prezzo, peggiorando la situazione. Su di esso si aprivano tre porte di noce, verniciate di marrone scuro: una apriva la sua mansarda, di fronte si trovava l’appartamento del signor Caputo, un rappresentante di medicinali che lavorava all’estero e non c’era mai: Imma, in un anno, l’aveva incrociato di sfuggita sì e no due volte e non si ricordava neppure che faccia avesse. La porta di fianco alla sua era chiusa da tempo immemorabile perché dava su un piccolo locale vuoto, in cui lei non aveva mai messo piede. Imma tornò col pensiero a quando il signor Armando l’aveva accompagnata a visitare la casa e alla domanda che le era sorta spontanea. «Mi tolga una curiosità.» «Cosa vuol sapere?» «Perché la proprietaria non ha comprato anche questo localino? Basterebbe abbattere il muro divisorio e si ricaverebbe una bella camera!» «Che fa, signorina Imma, mi ruba il mestiere?» «Ma, dicevo tanto per dire. Un monolocale a me basta e avanza.» «Non ha tutti i torti, però. Questo è un ripostiglio di proprietà di tutti i condomini.» «E non ci va nessuno?» «Per quanto ne so, no. La signora non ha neanche la chiave.» «Ah, ho capito. Quindi, se volesse comprarlo, la signora dovrebbe chiedere il permesso a tutti i condomini e...» «E c’è sempre qualche rompiballe che fa il bastian contrario, anche se non gliene frega niente di una minuscola proprietà comune all’ultimo piano.» «Eh già. Sarà per quello.» Il signor Armando era in vena di confidenze o, forse, voleva agganciare definitivamente un possibile inquilino. «La signora ha regalato il monolocale alla figlia quando si è iscritta all’Università. Poi lei è tornata dai suoi e io le ho trovato l’inquilina ideale… » «Ideale perché pagava regolarmente l’affitto?»
31 «Sì, ma non solo. Era una giovane laureata in Beni culturali, qui a Milano come restauratrice di opere d’arte. E aveva cura della casa come se fosse sua. Purtroppo…» «Cosa intende? Non lavora più qui?» «Né qui né altrove, poverina «si lasciò sfuggire il signor Armando, cambiando immediatamente discorso. «Il monolocale è un gioiellino, imbiancato di fresco, arredato con cura. E il prezzo è decisamente interessante. Allora, lo prende?» Certo che l’aveva preso, anche se abitare da sola all’ultimo piano non era il massimo ma col tempo si era abituata e non ci faceva più caso. Ora però, dopo il sogno e l’affanno di quelle ore, Imma fece una cosa che non faceva mai. Scostò dalla parete d’angolo la pianta di ficus dalle foglie opache di plastica verde scuro, alta quasi fino al soffitto, dietro la quale si sarebbe potuto nascondere qualche malintenzionato. Sentì il bisogno di vedere gente, di parlare con qualcuno e incominciò a scendere le scale, baldanzosa, senza appoggiarsi né al corrimano di ferro battuto verniciato di nero alla sua sinistra né all’alto zoccolo di finto marmo grigio sulla parete alla sua destra. Accelerò il passo saltando l’ultimo gradino prima del pianerottolo che dava sulla rampa successiva, atterrandovi a piedi pari, come fanno i bambini e amava fare lei, quando era sicura che nessuno la vedesse. Dopotutto non aveva ancora compiuto trent’anni ed era in eccellente forma fisica.
32
6
«Professoressa Imma! Buongiorno!» La voce alta e stridula del portiere, rimbombante e assurda in un ometto come lui, echeggiò nel silenzio dell’androne. Il portiere interruppe il cruciverba facilitato aperto davanti a lui, tolse gli occhiali con gesto frettoloso e schizzò fuori dall’angusta guardiola, in cui stava quasi largo, data la sua corporatura. Era, infatti, un ometto mingherlino, nervoso, di mezz’età, quasi calvo, eccettuata una chierica di radi capelli grigi corti, tagliati malamente da lui medesimo. Imma maledisse la sua distrazione: gli auricolari del suo Ipod giacevano muti sul fondo dello zainetto! Aveva dimenticato di infilarseli, come faceva di solito prima di passare davanti alle forche caudine del portiere. «Buongiorno a lei, Teo! Scusi sa, ma vado di fretta, sono già le quattro passate e…» «Uh, ma perché questa premura dato che non ha niente da fare stamattina sono finite le scuole eh sì non è come ai miei tempi che a fine giugno eravamo ancora lì a sgobbare io ero un bravo alunno sa sempre presente attento e…» Teo si interruppe solo per riprendere fiato; e Imma cercò disperatamente di alzare un argine al torrente di parole vuote e inconcludenti che la travolgeva. Sapeva che l’impresa di zittirlo sarebbe stata molto, molto ardua: Teo era un inguaribile logorroico, divagava non arrivando mai al punto ma saltando di palo in frasca, del tutto sprovvisto del dono della sintesi. «Sì sì non ero il primo della classe ma la mia professoressa che si chiamava Perrucchetti Liliana Perrucchetti diceva che ero un ragazzo d’oro infatti mi chiamo Teodoro lei che insegna lettere dovrebbe sapere cosa vuol dire Teodoro…» Disperata, Imma lo assecondò sperando di cavarsela in fretta. «Certo, Teodoro significa dono di Dio, deriva dal greco…» «Theòs e Doron, lo so lo so ho la fissa dei nomi io e col cognome che ho non posso che essere speciale lo sa come mi chiamo di cognome?»
33 Paziente oltre ogni sua aspettativa, Imma fece due passi verso il portone senza rispondere, tanto sapeva che sarebbe stato del tutto inutile. «Diotallevi mi chiamo Teodoro Diotallevi e sono proprio un predestinato un dono di Dio allevato da Dio ma anche lei ha un nome fortunato si chiama Imma come Immacolata come la Madonna santa Immacolata è la patrona del suo paese giù in Calabria vero?» Con un filo di voce Imma replicò: «Sì, portano in processione la statua della Madonna l’otto dicembre, e adesso mi scusi…» Mancavano pochi passi al portone e Imma ne fece tre, pensando di essersela cavata. «Certo l’otto dicembre io invece festeggio l’otto febbraio san Teodoro di Eraclea ce ne sono altri di Teodoro sa san Teodoro di Amasea, Trichinas e un altro col nome strano ma io festeggio quello di Eraclea e…» Imma con un'ultima rapida falcata raggiunse l’uscita e si voltò a salutare. «A dopo Teo, vado a correre adesso» rispose brusca. Non era proprio giornata di convenevoli. «Sì sì, vada, magari c’è qualche bel ragazzo che l’aspetta nel parco e menomale che voi signorine moderne non avete più certe remore lo sa che la remora è un pesce che ha una ventosa sulla testa così si attacca ai pesci più grossi per farsi trasportare.» Si interruppe per respirare e la sua faccia cambiò espressione, la bocca si aprì in un sorrisetto malizioso e Teo strizzò l’occhio alla povera Imma che si era voltata per salutarlo e, finalmente, congedarsi. «Eh eh Immacolata alla sua età da sola qui a Milano ma è giusto così mica come ai miei tempi invece adesso…» Teo si zittì solo perché la snella figura della ragazza era riuscita a sgattaiolare dal portone. Uscendo, Imma considerò che la solitudine era una gran brutta compagnia. Per questo non la infastidirono più di tanto le maliziose insinuazioni di Teo sottolineate dall’occhiolino pieno di sottintesi, però si ripromise di rientrare senz’altro dopo le sette, quando la guardiola fosse stata sicuramente chiusa. Incominciando finalmente a correre, ripensò alla remora che si attaccava ai pesci e sorrise, provando subito dopo una piacevole sensazione di dejà vu: ma certo, Teo somigliava tremendamente al seccatore di Orazio. Imma all’Università aveva dato l’esame di latino traducendo le sue Satire e mentalmente recitò il primo verso: Ibam forte via Sacra…
34 Imma cominciò a correre lungo la strada pedonale e ciclabile che costeggia il Naviglio Martesana. Le piaceva percorrere il primo tratto senza ascoltare la musica, per immergersi nell’allegro tintinnio dei campanelli delle biciclette che chiedevano strada, nelle voci stridule delle nonne che rimbrottavano i marmocchi capricciosi piagnucolanti nel passeggino, nel chiacchiericcio delle coppie che camminavano affiancate parlando del tempo, nelle grida di richiamo ai cani che tiravano il guinzaglio, ansiosi di raggiungere l’area loro riservata. Alla sua sinistra scorreva festosa l’acqua del canale, a tratti più o meno lenti e, sulla riva opposta, il suo sguardo si soffermò sui glicini giganteschi ormai in procinto di sfiorire, che lasciavano mollemente cadere i loro grappoli di fiori viola profumati fino a lambire le acque saltellanti del Naviglio. Il cielo si era completamente schiarito, il sole scottava e Imma si sentì pervadere, finalmente, da una sensazione di libertà e di benessere. Dopo un centinaio di metri, raggiunta una zona fresca all’ombra di un tiglio maestoso, si fermò appoggiandosi al parapetto di cemento per osservare una famigliola di anatroccoli che, guidati dalla madre, risaliva faticosamente la corrente per agguantare le briciole di pane che un bambino, accompagnato dal papà e dal fratellino minore, gettava loro. Era sicura di non conoscere il giovane uomo che passava i pezzetti di pane al figlio, eppure, c’era qualcosa di familiare in lui e Imma si innervosì, come sempre le accadeva quando vedeva una faccia, era certa di averla già vista, ma non sapeva associarla a un nome. La riscosse dai suoi pensieri la voce familiare dell’anziano signore che l’aspettava seduto sulla panchina all’ombra. «Ciao Imma! Eccoti qui! Sei in ritardo oggi.» Imma si girò e il cattivo umore sparì d’incanto. Anche in piena estate, il signor Fabrizio, anzi, il professor Fabrizio Forapan indossava un abito a giacca con la camicia bianca dal collo e i polsini un po’ lisi, il capo protetto da un panama beige. Fino a due anni prima il professor Forapan aveva insegnato italiano e latino in un prestigioso liceo cittadino; era stato, insomma, un collega di Imma, e per questo le dava del tu; Imma però, per educazione e rispetto, proprio non ce la faceva a dare del tu a un collega che aveva il doppio dei suoi anni. Sapeva che era sposato perché aveva notato la fede d’oro giallo all’anulare sinistro, ma la moglie doveva essere un tipo strano, non
35 usciva mai di casa e perciò il professore era sempre da solo sulla panchina, immerso nelle sue letture. La conversazione con lui era sempre piacevole, mai banale, perché entrambi erano appassionati di arte, di letteratura e di storia, e il professore era una vera miniera di aneddoti e di curiosità sui Navigli. Conosceva a memoria gran parte della Divina Commedia e talvolta le recitava qualche terzina, fiero di poter esibire la sua cultura a una persona competente e appassionata come lui; scriveva a sua volta sonetti che aveva pubblicato in proprio, perché non aveva trovato nessun editore disposto a rischiare su un tema così «poco interessante» per i lettori. Proprio su quel tema Imma decise di avviare la conversazione. «Oh, buongiorno, professore! Ha poi trovato l’editore per le sue poesie?» «Figurati, certo che no. Chi vuoi che pubblichi libri di poesie oggi?» «Ma lei ha vinto il primo premio al concorso «Poeti del Naviglio!» «E allora? Ne venderei sì e no una dozzina di copie.» «Non sia così pessimista, professore.» «Sono solo realista. A chi vuoi che importino i miei sonetti? Viviamo in un mondo di barbari analfabeti che comunicano solo con le faccine preconfezionate.» Si arrestò di colpo. «Esclusi i presenti, ovviamente. E tu? Come stai? Oggi era l’ultimo giorno di scuola, vero?» Imma si sedette sulla panchina accanto al professore. «Ebbene sì, la scuola è finita finalmente. Be', si fa per dire, perché dopodomani iniziano gli esami di licenza… però sì, sono quasi in dirittura d’arrivo.» «E poi cosa fai? Te ne vai in Calabria?» «Sì, certamente, ho voglia di abbracciare papà, non lo vedo da Pasqua. Le ho detto che non si muove dal paese, è fatto così…» «Eh lo capisco, anch’io non amo muovermi da Milano. E poi qui sto bene, abito da sempre vicino al mio Naviglio… Ti ho già raccontato la sua storia?» Imma l’aveva già sentita altre volte, certo, sapeva che gli anziani amano ripetere le cose e fremeva dalla voglia di riprendere la sua corsa, ma la buona creanza ebbe la meglio sulla sua intenzione e poi, il professore aveva un modo di raccontare teatrale, arricchito dai gesti e dalla mimica facciale, e aggiungeva sempre qualche particolare inedito al racconto. Aveva proprio bisogno di un po’ di leggerezza.
36 «Anche tu credi che la Martesana sia stata costruita per irrigare i campi a nord est di Milano, vero? Invece ti sbagli, non era quella la sua funzione primaria. « «Lo so, lo so, professore. Era una via di comunicazione necessaria a costruire Milano e rifornirla» Imma replicò e, non volendo fare la figura della scolaretta colta in castagna, aggiunse: «So che è lunga 36 chilometri e ha più di cinquecento anni!» Il professore si alzò, fece qualche passo e declamò solennemente: «Lo senti, Imma, il clamore degli zoccoli dei cavalli che trainano i barconi quando devono risalire il canale controcorrente? E lo vedi il traffico di barche e chiatte cariche di merci e di persone?» continuò indicando le silenziose acque del canale, in cui nuotavano solo placide nutrie in cerca di cibo. Imma stette al gioco e si tappò le orecchie sorridendo. «Uh che casino professore! Lo sento, lo sento eccome, il baccano!» «Ridi, ridi pure, tu che sei giovane, vieni dalla Calabria e non sai niente di Milano!» la redarguì bonariamente il professore. «Adesso questa ti sembra una zona tranquilla, immersa nel verde, ma devi sapere che negli anni Cinquanta e Sessanta era una zona di malavita, quella vera, sanguinaria, e le persone perbene la evitavano come la peste… Ogni tanto nel Naviglio trovavano qualche cadavere…» «Brr, che brutta immagine» rispose Imma «basta così, per favore. Ne ho avuto abbastanza di brutte immagini, oggi.» «Sì? Cosa ti è successo?» «Un incubo terribile. Quasi un presagio di morte.» «Capita, sai. Non farci caso, i sogni evaporano in fretta.» «Speriamo.» Imma si alzò, sgranchì le gambe appoggiandole tese, una alla volta, sul bordo della panchina flettendo la colonna vertebrale, bevve un sorso d’acqua alla fontanella lì vicino, preparando il suo interlocutore al congedo. «Adesso che mi sono rinfrescata, riprendo la mia corsa» concluse. «Buona giornata!» Il professore si batté una mano sulla fronte. «Quasi mi dimenticavo! Dovresti restituirmi la copia dell’Inferno che ti ho prestato. Domattina viene a trovarmi un mio ex collega che vuole assolutamente vederla, soprattutto ammirare le illustrazioni di Doré. Che dici, sei a casa stasera? Farei una scappata verso l’ora di cena, dopo aver fatto un po’ di spesa da Noel.»
37 «Ma certamente, professore! Abito in via Merate 24, all’ultimo piano. Dopo le sette e mezza mi trova in casa. A dopo, allora!» Aprì lo zaino, ne tolse il suo Ipod, infilò le cuffiette nelle orecchie pregustando la gioia che le avrebbe regalato l’ascolto di «Perfect symphony» del suo cantante preferito, Ed Sheeran, l’irlandese dai capelli rossi le cui melodie semplici e ricche del fascino delle ballate tradizionali le avevano catturato il cuore, insieme alle note struggenti della sua chitarra. Forse l’avrebbero aiutata a ritrovare il buon umore. Il professore rispose con un cenno al saluto, togliendosi il cappello con un gesto ampio, come un garbato signore d’altri tempi, e si sedette sulla panchina, rinfrancato. Guardò Imma, soddisfatto di aver assorbito una parte dell’entusiasmo e della spensieratezza che la ragazza possedeva e lui non più. Un sorrisetto malizioso gli fiorì sulle labbra. Forse aveva esagerato nel rammarico. Lui non era tanto vecchio, aveva poco più di sessant’anni, godeva di ottima salute e si sentiva addosso l’energia e le pulsioni di un quarantenne. A differenza della maggior parte dei suoi coetanei che volevano apparire giovani rasentando il ridicolo, il professore aveva il vezzo di dimostrare più della sua età, forse perché si sentiva spiritualmente più vicino al secolo scorso che agli anni presenti, in cui nulla era come appariva e le menzogne contavano più della verità.
38
7
Prima di chiudere lo zaino, Imma, per abitudine, diede un’occhiata all’Iphone: sulla mail le solite pubblicità, che eliminò immediatamente, mentre su Whatsapp occhieggiava il cerchiolino rosso che indicava un messaggio. Lo aprì e la sparì la spensieratezza: era di Giampiero De Mitri, il collega di matematica e scienze, l’unico che l’aveva sostenuta nel famoso collegio docenti di settembre, dopo la sua infelice dichiarazione sulla validità del registro elettronico. Imma lesse il messaggio, ripose l’Iphone nello zaino e ricominciò a correre, sperando che la musica di Ed Sheeran l’aiutasse a dare una risposta risolutiva al messaggio di Giampiero. PASSO DA TE STASERA VERSO LE OTTO. NON MI È PIACIUTO COME CI SIAMO LASCIATI STAMATTINA. Riprendendo a correre, pensò che neanche a lei era piaciuto. Proprio per niente. Giampiero. Un giovane uomo di cinque anni maggiore di lei, alto e robusto, dallo sguardo umido dietro le lenti, con una gran massa di capelli biondi, le cui ciocche naturalmente ondulate ricadevano in disordine sulla fronte, tanto che, talvolta, lui le fermava con un cerchietto nero, suscitando le occhiate colme di biasimo dei colleghi anziani e soprattutto del dirigente scolastico. Una mattina di novembre Imma aveva captato una conversazione fra il dottor Crivelli e la professoressa Falco. «Professoressa, ci provi lei a convincere il suo giovane collega a vestire in modo più consono. Quei jeans sdruciti, e la camicia a quadri da muratore…» «Ma dottor Crivelli, io non ho una tale confidenza col collega!» «Lo so, lo so, ma ci provi, almeno, a consigliargli un buon parrucchiere per un taglio come Dio comanda! Quel cerchietto non si può vedere, è da femminucce delle elementari, non di un professore!»
39 «Capisco, sono d’accordo con lei, ma non badi troppo al suo aspetto esteriore. Giampiero è un ottimo docente, ha un rapporto speciale coi suoi ragazzi, anche quelli, diciamo, problematici…» La vocetta querula della collega Falco si era affievolita perché i due si stavano allontanando, perciò Imma non seppe mai come si era conclusa la loro conversazione. Che non doveva aver prodotto alcun risultato se, a giugno, Giampiero ostentava ancora il suo bel cerchietto nero fra i capelli disordinati. Dopo l’infelice seduta del collegio docenti le aveva fatto una corte serrata, ma discreta: una piadina insieme al bar dell’angolo, il martedì, fra la fine delle lezioni e le riunioni pomeridiane e un cinema ogni tanto. Poi, lunghissime conversazioni telefoniche sugli ultimi libri letti e la musica jazz di cui Giampiero era un vero intenditore e che lei, invece, non capiva. E infine un bacio, un bacio vero, appassionato, un piovoso pomeriggio di novembre, all’uscita della scuola dopo il colloquio coi genitori. Le piaceva molto quel ragazzone simpatico, estroverso, con gli occhi che ridevano, i baffetti sottili e le labbra carnose sempre aperte al sorriso. Forse era quello giusto, dopo la passione giovanile per Carmelo e qualche incontro senza importanza negli anni dell’Università. Imma non era tipo da colpi di fulmine né da rapporti da una botta e via, perciò era andata coi piedi di piombo, cogliendo ogni occasione per conoscere meglio Giampiero. Non portava alcuna fede al dito e le aveva confidato di abitare presso uno zio originario, come lui, di san Giovanni Rotondo, il paese di padre Pio: lo zio era anziano, di salute malferma, e aveva accettato di buon grado di ospitare il nipote in cambio di compagnia e di un piccolo aiuto nel pagamento delle spese condominiali. Lo zio era affezionatissimo al suo cagnolino, un volpino bianco che aveva adottato al canile anni addietro; erano invecchiati insieme e toccava al nipote accudirlo, portarlo fuori per la passeggiata e comprargli le crocchette. Imma sapeva che l’appartamento si trovava all’altro capo della città e non ci era mai andata, perché Giampiero le aveva detto che lo zio non gradiva la presenza di estranei e poi l’avrebbe sommerso di domande se avesse visto una bella ragazza venire a trovare il suo adorato nipote. E il cane era un vecchio bisbetico come il suo padrone e non sopportava gli estranei, abbaiando loro contro ossessivamente finché non se ne andavano, gratificandoli anche con un bel morso sulla caviglia.
40 Poco prima delle vacanze di Natale, aveva fatto una proposta a Giampiero. «Che ne diresti se partissimo insieme? Io vado in Calabria da mio padre e tu puoi fare un salto a san Giovanni dai tuoi, poi, al ritorno, ci incontriamo a Roma e stiamo lì un paio di giorni.» Nonostante fossero passati sei mesi, nella mente di Imma si affacciò, come se l’avesse appena visto, il bel viso corrucciato di Giampiero. «Sarebbe magnifico ma… come faccio con lo zio? Non posso certo lasciarlo qui da solo durante le feste, mi sono impegnato ad assisterlo e…» «Ma scusa, come faceva prima che arrivassi tu? Ci sarà pure un vicino o un amico che lo vada a trovare, no? Gli riempi il frigorifero, compri le medicine, lo senti al telefono…» «No Imma, davvero non posso, mi spiace. E poi, come faccio col cane?» Immediato era apparso il confronto col papà, che si sarebbe fatto ammazzare piuttosto che dipendere da lei. Fece un ultimo tentativo prima di arrendersi. «Già, il cane. Hai mai sentito parlare dei dog sitter? Ci son tanti ragazzi che per guadagnare qualcosa si occuperebbero di Pongo, e magari, più passeggiate all’aperto gli migliorerebbero il carattere, non credi?» Niente, non si era smosso di un millimetro. E per forza. Mentre rallentava la sua corsa, incominciando ad avvertire nei polpacci i primi segnali di stanchezza, Imma rivisse nella memoria, come se fosse appena trascorso, l’ultimo giorno prima delle vacanze di Natale, sei mesi prima.
41
8
Lei era nell’atrio della scuola in attesa di entrare in segreteria quando, dopo aver suonato il campanello, aveva fatto il suo spettacolare ingresso una ragazza bionda e appariscente, alta sui tacchi degli stivali bordò e avvolta in un pellicciotto sintetico blu elettrico. La bidella Anna, una signora siciliana a Milano da sempre, gioviale e sempre affaccendata, si era alzata dalla sua seggiolina andandole incontro. «Buongiorno! Lei è la mamma di Daniele, il ragazzino che si è sentito male stamattina? Non si preoccupi, ha solo un tanticchia di febbre, lei è la signora…» Il viso arrossato dal freddo della «signora» sbiancò di colpo e gli occhi fiammeggiarono. «Ma quale signora! Mi guardi. Le sembro così vecchia?» La bidella Anna avrebbe voluto sprofondare. «Oh, mi scusi tanto» aveva balbettato confusa, togliendosi gli occhiali e cominciando a pulirli. «Sa, non ci vedo tanto bene…» «Già, le consiglio un controllo dall’oculista» era stata la risposta seccata della ragazza. «Allora… cosa posso fare per lei?» La bionda aveva ripreso un po’ di colore. «Sono la fidanzata di Giampiero, il professor De Mitri, dovrebbe finire le lezioni a mezzogiorno. Posso aspettarlo qui? « «Ah, la fidanzata? Non sapevo che… Mi lasci consultare l’orario …» la signora Anna aveva passato l’indice su una riga del grande foglio quadrettato posato sul banco. «Sì, è come dice lei, fra cinque minuti suonerà la campanella. Ma… mi scusi, lei non può aspettarlo qui, è per via del cane… Se il dottor Crivelli si accorge che l’ho lasciato entrare, mi becco una girata che lei neanche si immagina.» «Va be', lo aspetto fuori, tanto mancano pochi minuti, e intanto mi fumo una sigaretta. Voglio fare una sorpresa al mio fidanzato e tu, Pongo, non saltarmi sulle gambe che mi graffi gli stivali» aveva squittito la ragazza prendendo in braccio il volpino e uscendo in cortile.
42 Imma avvertì ancora il tuffo al cuore che l’aveva travolta, mentre stava immobile davanti alla porta chiusa della segreteria, e con esso la sensazione che tutto il sangue scivolasse via dal suo corpo, rapido, veloce, come se qualcuno le avesse reciso un’arteria causandole un’emorragia inarrestabile. «Com’è pallida, professoressa! Che c’è? Non sta bene?» la voce premurosa della bidella Anna l’aveva riscossa dal torpore in cui era precipitata. «Sto bene, Anna, solo un capogiro. Sarà un calo di pressione.» Si appoggiò alla parete. Il vecchio zio di san Giovanni Rotondo, il paese di padre Pio, era quella lì. La sua fidanzata. Brutto bastardo. Era entrata vacillando in segreteria uscendone solo dopo essersi accertata che lui se ne fosse andato; aveva bisogno di tempo per riflettere e una scenata di gelosia lì nell’atrio della scuola era l’ultima cosa di cui la sua dignità aveva bisogno. Il giorno dopo era partita per la Calabria rifiutando regolarmente le telefonate di Giampiero e cancellando i messaggi insistenti che lui le inviava. Solo al primo rispose con un laconico BUON NATALE A TE E ALLA TUA FIDANZATA. Poi, silenzio. Imma era fatta così: quando qualcuno la feriva, lei non reagiva subito, non per vigliaccheria ma per avere tutto il tempo di ragionarci su a mente fredda e poi comportarsi come le pareva fosse giusto. Non era una persona impulsiva. Alla ripresa della scuola evitò accuratamente ogni occasione per star sola con lui trattandolo da collega e basta, nonostante i suoi sguardi imploranti da cane bastonato e qualche maldestro tentativo di giustificare la porcata che le aveva fatto.
43
9
Finalmente Imma si fermò col cuore che le batteva a mille, accorgendosi solo in quel momento che la luce del giorno era cambiata: ora era più morbida, qualche nuvola era comparsa nel cielo adagiando un velo scuro lungo il sentiero assolato, preludio alle ombre del tramonto che di lì a poco avrebbe posto fine alla sua giornata. Si sedette sul una panchina vuota, aprì lo zaino, bevve un sorso d’acqua dalla bottiglietta che portava sempre con sé nella tasca esterna, facendo una smorfia quando la sentì schifosamente tiepida. Alzò lo sguardo verso la signora robusta, in avanzato stato di gravidanza, che camminava faticosamente verso di lei spingendo un passeggino in cui stava seduto un piccoletto biondo che poteva avere sì e no due anni. Se ne pentì subito: la signora l’aveva riconosciuta, eccome se l’aveva riconosciuta, ma tirò dritto facendo finta di guardare in un’altra direzione. Imma fu tentata di fare altrettanto ma subito cambiò idea: non era nel suo carattere svicolare di fronte agli incontri sgraditi fingendo di guardare altrove o cambiando marciapiede, perciò affrontò la situazione di petto, pur conoscendone i rischi. «Buongiorno, signora Pergolesi. Non sapevo della sua nuova gravidanza! Posso parlarle un minuto?» «Ah, buonasera professoressa. Non l’avevo vista.» «Che bel bambino! È il fratellino di Christian, vero?» «Sì, certo, chi vuole che sia?» rispose sgarbatamente la signora. «Posso rubarle un attimo? Vorrei chiarire l’episodio della settimana scorsa, lo vedo che ce l’ha con me!» «Certo che ce l’ho con lei. Le sembra il caso di fare tutto quel cinema coi poliziotti, i cani e tutto l’ambaradan? La nostra è una scuola seria sa, qui siamo a Milano, mica in un paesino sperduto del sud!» Questa poi. Cosa c’entrava il paesino del sud, era proprio a Milano che circolavano quintali di cocaina, pasticche, ecstasy, cannabis, che si stavano diffondendo a macchia d’olio anche fra i ragazzini delle medie. Imma mantenne la calma e, abbassando la voce, continuò:
44 «Ho visto coi miei occhi due ragazzi di terza che si passavano l’erba nell’intervallo tra due lezioni e ho informato il dirigente, cos’altro potevamo fare se non chiamare i carabinieri coi cani antidroga?» «Magari aveva visto male, no? E comunque, potevate prendere da parte i due deficienti e bocciarli lasciando in pace gli altri, ecco cosa potevate fare.» La collera fino a quel momento repressa arrossì le guance carnose della signora Pergolesi, mentre la sua filippica continuava con un tono di voce più alto e rabbioso. «E invece no, sono arrivati i carabinieri coi cani, fuori tutti come delinquenti… Il mio Christian era spaventatissimo, ha preso un trauma» continuò, alterandosi sempre più. Ha preso un trauma, come si prende un’aspirina pensò Imma. Il suo bambino, povero cocco, grande e grosso e col cervello di un gamberetto. La preda ideale. «Però hanno trovato un po’ d’erba nel bagno, dunque… E poi siamo stati attenti, abbiamo detto che era un controllo di routine, per prevenire… e per mostrare ai ragazzi come i poliziotti lavorano con i cani…» La signora Pergolesi l’interruppe: ormai era partita in quarta e alzò ancora la voce. «Lo so cosa ci hanno detto, professoressa, che era una simulazione, come quella della prova antincendio. Ma cosa credete, non siamo mica scemi. Ragazzini di dodici anni con l’erba… Voi avete visto troppi film, pensate a insegnare, che è meglio.» «Ma veramente…» «L’ho detto alla riunione con gli altri genitori che erano tutti d’accordo con me, anche se poi con voi si sono calati le braghe… Conigli, stupidi conigli che hanno paura di voi, che gli bocciate i loro ragazzi… Ma io non ho paura né di lei né di nessuno. E, comunque, è tutta colpa sua, professoressa. Doveva lavare i panni sporchi in famiglia, non svergognare tutto il quartiere, che adesso passa per un quartiere di delinquenti drogati.» Imma sospirò. Non c’è peggior sordo di chi non vuol sentire, né peggior cieco di chi non vuol vedere. La signora Pergolesi apparteneva a quella folta schiera di genitori che difendono i propri pargoli sempre, negando l’evidenza più sfacciata, convinti di fare il loro bene, e, invece, li danneggiano per sempre. E purtroppo avrebbe continuato a far danni con tutte quelle gravidanze.
45 Si pentì di quel pensiero ma si consolò: un tentativo l’aveva fatto e si sentiva in pace con la sua coscienza. «Ma noi dobbiamo anche educare, non solo insegnare la grammatica. Mi dispiace che lei mi ritenga responsabile di quello che è successo.» «Io non cambio idea. È stata tutta colpa sua.» «Se l’ho offesa mi scuso. Mi creda, non c’era niente di personale.» «Non penso proprio, lei ce l’ha su col mio Christian, lo sanno anche i sassi. Se chiede il trasferimento, sono contenta. E adesso devo andare. Buonasera.» Imma seguì con lo sguardo la signora Pergolesi che si allontanava caracollando con le gambe aperte per via del ventre prominente, poi tirò fuori dallo zaino il cellulare; doveva rispondere al messaggio di Giampiero prima che lui assumesse l’iniziativa di piombare a casa sua alle otto di quella sera. Si erano lasciati un po’ freddamente al termine delle lezioni, è vero, ma fra loro non era successo niente di irreparabile: Giampiero era un tipo permaloso, soprattutto quando si trattava del suo lavoro, e si era arrabbiato moltissimo per lo scherzo innocente che lei gli aveva giocato, rimproverandola aspramente davanti ai colleghi in sala insegnanti. Un sorrisetto amarognolo le arricciò le labbra. Ben ti sta. Rilesse il messaggio: PASSO DA TE STASERA VERSO LE OTTO. NON MI È PIACIUTO COME CI SIAMO LASCIATI STAMATTINA. Perentorio, come al solito: neanche presa in considerazione la possibilità di una risposta negativa. Fece scorrere la chat, su cui si affollavano ancora i pressanti messaggi che Giampiero le aveva inviato dopo la scoperta dello «zio» di san Giovanni Rotondo. La bidella Anna, infatti, non si era lasciata sfuggire l’occasione di spettegolare a proposito della bella fidanzata del giovane professor De Mitri e in un battibaleno la succosa notizia si era diffusa fra tutti i colleghi. Subito Giampiero aveva incominciato a inondare di messaggi la chat con Imma e lei non li aveva cancellati apposta, così, tanto per ricordare bene chi era il giovane professore con cui, per qualche mese, aveva pensato di poter avviare una storia. Controllò le date: solo da poco si era rassegnato al suo ostinato silenzio.
46 Imma non si pentì di nulla. Nei messaggi, soprattutto quelli vocali, lui le assicurava che la signorina era solo un’amica, la loro era stata solo un’avventura fugace e altre fesserie. No. Era troppo seria per coltivare una relazione con una persona così falsa e inaffidabile, un traditore seriale, un bugiardo che magari aveva già ingannato altre ragazze ingenue come lei, stordendole con la sua parlantina sciolta. Amica un corno! Lui non lo sapeva, ma Imma aveva sentito con le sue orecchie la signorina che si qualificava come «la fidanzata di Giampiero.» Se lei avesse aperto solo un minuscolo varco nel muro che aveva alzato, Giampiero l’avrebbe intontita di bugie e di false promesse: sai siamo una coppia in crisi, lei non conta più niente per me, stasera le parlo e ognuno a casa sua… e simili baggianate. Lo stesso cliché vecchio come il mondo. Va bene così pensò. Quando una storia è finita, è finita. La mia, poi, è finita prima di cominciare. Meglio che me ne sia accorta subito, prima che le cose andassero troppo avanti. Sospirò scuotendo la testa e agitando davanti al volto i palmi delle mani, quasi a scacciare il velo invisibile di malinconia che per qualche minuto l’aveva avvolta, ancora. Si guardò intorno, si disse che la vita era bella e aveva sicuramente in serbo per lei un futuro radioso in quella che era ormai diventata la sua città. E nel suo futuro lei vedeva un uomo perbene, onesto, affidabile, tutto il contrario di Giampiero. Per un attimo pensò a lui: totalmente inaffidabile come uomo, brillante e competente come docente: insegnava scienze con grande passione ed era simpatico ai suoi alunni perché spesso organizzava per loro degli esperimenti in laboratorio, piacevole diversivo in alternativa alle noiose lezioni frontali. Prima di rimettersi le cuffiette e ricominciare a correre, digitò una risposta volutamente neutra e impersonale: NON È IL CASO. BUONE VACANZE. Non si pentì del suo rifiuto né dello scherzetto che gli aveva giocato la settimana precedente: Giampiero se l’era proprio meritato. Mentre riprendeva la sua corsa, i raggi dell’ultimo sole penetrarono nei suoi occhi facendola ritornare con la memoria alla luce calda e chiara di
47 quella mattina di pochi giorni prima, che entrava diritta e intensa dalle lunghe vetrate della scuola. La luce era interrotta solo dalla moltitudine di figure che si muovevano in disordine negli ampi corridoi e nelle aule, dove il vocio eccitato degli alunni già in clima vacanziero sovrastava i rassegnati e sempre meno convinti richiami all’ordine da parte degli insegnanti.
48
10
Il subbuglio si manifestava in particolare nella classe terza D, già un po’ turbolenta di suo: alla seconda ora di quel lunedì i ragazzi erano sciamati fuori dall’aula scendendo le scale schiamazzando e spintonandosi, mentre il professor De Mitri li precedeva, per evitare che qualcuno di loro si rompesse l’osso del collo. Secondo uno schema collaudato, Imma chiudeva il gruppo per assicurarsi che qualcuno non facesse il furbo chiudendosi nel bagno a chattare o a fumare. Prima di aprire la porta del laboratorio con la chiave che la bidella Anna gli aveva prontamente fornito, il professore si era appoggiato alla porta. «State un po’ zitti, accidenti a voi! Piuttosto: avete portato quello che vi ho chiesto?» «Eccerto prof, crede che siamo scemi? Sicuro che l’abbiamo portato!» il vocione di Maisano Giovanni, tredicenne brufoloso con le tempie rasate e una cresta di capelli viola tenuti su da una quintalata di gel echeggiava nell’ampio corridoio. Il dirigente dottor Crivelli era uscito dal suo ufficio. «Cos’è questo chiasso? Non siamo mica alla fiera di Senigallia! Dove andate?» «Scusi tanto, ma sa, ‘sti ragazzi sono irrefrenabili! Stiamo andando in laboratorio. Oggi ho previsto un esperimento di chimica e i ragazzi sono tutti eccitati, ma c’è la professoressa Spanò con me, stia tranquillo.» Il dirigente dottor Crivelli aveva annuito guardando Imma con aria d’intesa. Certo che c’era lei a fare da assistente, ce l’aveva messa apposta in compresenza. Già il professor De Mitri non suscitava le sue simpatie per via dell’abbigliamento che altri avrebbero definito casual e a lui pareva invece trasandato e inappropriato, e poi quel cerchietto fra i capelli! Quando il professore gli aveva comunicato che intendeva riaprire il vetusto laboratorio scientifico per portarci la terza D a fare degli
49 esperimenti di chimica, biologia e fisica, lui aveva a stento trattenuto un moto d’orrore. Venticinque esagitati alle prese con acqua, fuoco, e chissà quali altre diavolerie… Immaginava genitori imbufaliti bussare alla sua porta, alunni e insegnanti precipitarsi fuori dalle aule turandosi il naso per la puzza di uova marce, interventi del 118 a sirene spiegate per soccorrere chi aveva avuto un mancamento… Il dirigente dottor Crivelli aveva una spiccata attitudine al melodramma ed era terrorizzato all’idea che a qualche alunno capitasse un incidente. A ogni piè sospinto ripeteva ai docenti come un mantra: sorvegliate sempre i ragazzi! Non perdeteli mai di vista! Se succede qualcosa siamo responsabili voi e io! C’è il penale per omessa sorveglianza! Così aveva fatto una pensata che avrebbe salvato capra e cavoli: esperimenti in laboratorio sì, ma con la professoressa Imma, seria e affidabile, a fare da guardiana, anzi, pardon, da assistente. Imma aveva letto negli occhi del dottor Crivelli tutto quello che gli attraversava la mente, rassicurandolo con un gesto: stesse tranquillo, non sarebbe successo niente. Capiva la sua preoccupazione ma pensava che si sbagliasse a essere così diffidente con Giampiero, che era ferratissimo nella sua materia e preparava accuratamente tutte le sue lezioni, sia teoriche che pratiche. Il professor De Mitri aveva aperto la porta del laboratorio fra la calca dei venticinque esagitati che si accalcarono nel laboratorio, in cui erano stati avvicinati i banchi in modo da formare cinque gruppi da cinque alunni ciascuno. «C’è qualche assente? No? Allora sedetevi e state zitti, sennò torniamo in classe e addio esperimento!» La minaccia funzionava sempre e infatti l’uditorio, dopo aver rumorosamente trascinato le sedie, aveva incominciato ad accomodarsi. «Silenzio, adesso. Allora ragazzi, oggi faremo un esperimento sul fenomeno della capillarità, di cui abbiamo parlato la settimana scorsa.» A Imma non era sfuggita la risatina di Maisano Giovanni e così gli aveva fatto un rapido cenno: che non facesse trapelare niente di quello che avevano preparato, che non mandasse a monte la sorpresa. «Maisano! Che c’è da ridere?» «Niente prof, non ho mica riso io.» «Va be', lasciamo perdere. Dunque, ragazzi, la capillarità consiste nel fatto che, se si immerge in un liquido l’estremità di un capillare, come un tubo molto piccolo, il liquido risalirà sfidando la legge di gravità.»
50 Cinquanta occhi le cui palpebre si stavano lentamente abbassando per la noia avevano fatto capire al professore che doveva stringere i tempi. «Ragazzi, la capillarità è un fenomeno diffusissimo in natura. Le piante lo sfruttano per il nutrimento linfatico. L’esperimento di oggi ve lo farà capire più di ogni spiegazione teorica. Avete portato quello che vi ho chiesto?» I capigruppo avevano tirato fuori dallo zaino cinque oggetti. Il primo era un mazzetto di tre roselline piccole e bianche, curiosamente simili a quelle che ornavano il muro di confine della scuola. Il secondo era una margherita bianca, il terzo un geranio dello stesso colore; il quarto un grande fiore candido, che Giampiero non seppe identificare. Gli pareva un crisantemo, ma stette zitto per non dare la stura a un’ilarità che avrebbe suscitato una valanga di sfottò. «Benissimo ragazzi. L’importante è che i fiori siano bianchi o chiari, così il fenomeno si vedrà meglio. E tu, Maisano, cos’hai portato?» Con lentezza degna di un attore consumato, del tutto inusuale in lui, ostentata allo scopo di concentrare l’attenzione su di sé, l’alunno Maisano Giovanni aveva tirato fuori dallo zaino, con la massima cautela, una grande, magnifica, turgida rosa in boccio, candida come la neve. «Bravo, Maisano! E i vasetti di vetro, avete portato i vasetti?» «Eccoli qui» la vocetta acuta di Corradi Samantha aveva accompagnato l’apertura di un tintinnante sacchetto di plastica in cui erano stati messi cinque vasetti di omogeneizzato, vuoti e puliti. «Ne ho a montagne a casa, sono della mia sorellina. Vanno bene?» «Benissimo! Manca ancora un elemento che ho portato io, e quando lo vedrete capirete il perché. Samantha, per favore va’ al lavello e riempi d’acqua i vasetti fino a tre quarti, non fino all’orlo, mi raccomando!» La ragazzina, obbediente, aveva disposto i vasetti pieni d’acqua al centro dei cinque banchi accostati e solo allora il professor De Mitri aveva esibito una bottiglietta dalla sagoma geometrica, piena di un liquido nero come la pece, sulla quale campeggiava un’etichetta con la scritta «Pelikan». Accertatosi dell’attenzione dell’uditorio, il professore aveva cavato dal suo zaino una siringa senz’ago. «Questo è semplice inchiostro, ragazzi. Non ve lo do perché lo rovescereste sicuramente e la bidella Anna chi la sente? Adesso verserò un po’ d’inchiostro nei vasetti, così da scurire bene l’acqua.» Dopo aver svitato con cautela il coperchio dalla bottiglietta, aveva immerso la siringa nell’inchiostro, aspirato la quantità necessaria a
51 riempire il serbatoio, incominciato a versarlo nei vasetti aggirandosi fra i banchi. Imma aveva fulminato con lo sguardo Maisano Giovanni, nei cui occhietti maliziosi si leggeva a chiare lettere la voglia pazza di far inciampare il professore allungando un piede. Maisano Giovanni era rimasto fermo al suo posto. Riempiti i vasetti di acqua e inchiostro, il professor De Mitri aveva annunciato con serietà: «Adesso potete mettere i fiori, col gambo corto, nel vasetto.» I capigruppo avevano eseguito e, dopo qualche secondo di silenzio, qualcuno era sbottato: «Maaaaa… non succede niente professore! L’esperimento non è venuto?» «Eh, quanta fretta! Ci vuole pazienza! Tra poco suonerà la campanella, noi torneremo qui domani e vedrete che l’inchiostro sarà risalito lungo gli steli fino a colorare i petali.» Con incredibile tempismo, un suono forte e prolungato aveva dichiarato la fine della lezione e il drappello si era affollato verso le scale capitanato dalla professoressa Imma, mentre Giampiero si chiudeva con un sospiro la porta del laboratorio alle spalle, restituendo la chiave alla bidella Anna. L’indomani tutti aspettavano con ansia di scendere in laboratorio. «Calma ragazzi! Avete preso i quaderni? Sì? Scendiamo allora.» Il drappello uguale a quello del giorno prima, col professor De Mitri in testa, i venticinque alunni dietro, e Imma a chiudere, si era catapultato per le scale approdando davanti alla porta chiusa del laboratorio. Il professore l’aveva aperta con qualche difficoltà, rimproverando gli impazienti che sgomitavano tentando di entrare per primi, ansiosi di vedere il risultato dell’esperimento. Sui banchi, i fiori freschi del giorno prima apparivano avvizziti nei loro vasetti ma, soprattutto, i petali non erano più bianchi ma anneriti e scuri; il presunto crisantemo poi, aveva un aspetto sempre più cimiteriale. Il professor De Mitri gongolava. «Visto ragazzi? Il fenomeno della capillarità…» Non aveva potuto concludere la frase, interrotta dal vocione di Maisano Giovanni. «Ma professore! Guardi la mia rosa! È uguale a ieri! Il mio esperimento non è venuto! Perché?» Tutti avevano rivolto lo sguardo al vasetto di Maisano.
52 Nell’inchiostro nero era immerso il bocciolo di rosa, che, a differenza degli altri fiori, sembrava appena raccolto: fresco, candido come la neve, perfettamente uniforme nel colore, senza neanche l’ombra di una striatura scura né di una piccola macchia sui petali, niente di niente. Il professor De Mitri era avvampato. «Ma, adesso vediamo cos’è successo… Non capisco… Magari ci voleva più tempo… o c’era poco inchiostro…» Il suo balbettio era stato sovrastato da un boato di risate scoppiato all’improvviso e fragorosamente perché trattenuto da troppo tempo. Maisano Giovanni, ridendo fino alle lacrime, aveva afferrato il bocciolo di rosa porgendolo al professore. Era di plastica! Uno splendido bocciolo di rosa falso come Giuda. E lui c’era cascato come un pollo! I ragazzi ridevano a gola spiegata per lo scherzo riuscito perfettamente: il professore aveva finto stizza per dar loro soddisfazione, poi si era unito alle loro risate facendo buon viso a cattivo gioco, ma fremendo di rabbia trattenuta accorgendosi che anche Imma rideva di gusto, troppo di gusto, guardando Maisano e alzando il pollice in segno di occhei, ce l’abbiamo fatta, lo scherzo è riuscito. Dunque era lei la regista, avrebbe dovuto immaginare che Maisano Giovanni era incapace di pensare a uno scherzo così ben orchestrato. Eh, no. Ai ragazzi poteva perdonare tutto, ma essere messo alla berlina e ridicolizzato da lei, questo proprio non lo sopportava. Riprese il suo aplomb. «Ragazzi, sedetevi e prendete il quaderno. Quale ipotesi avevamo formulato? Leggi ad alta voce, Corradi.» La vocetta dell’alunna Corradi Samantha, ancora tremolante per le risate di poco prima, era risuonata nell’aula. «Ipotesi: immergendo un fiore in acqua colorata con inchiostro nero questa, grazie al fenomeno della capillarità, risalirà lungo lo stelo fino a colorare i petali.» «Benissimo. E adesso aggiungete la seguente frase: fanno eccezione i fiori di plastica.» Tutti avevano ridacchiato scrivendo diligentemente la frase dettata dal professore. Coi ragazzi era tutto a posto, ma Imma si era accorta che con lei non era così perché Giampiero non le perdonava di averlo ridicolizzato davanti alla classe.
53 Come previsto, la notizia dello scherzo che aveva giocato al professor De Mitri con la complicità dell’alunno Maisano Giovanni aveva fatto il giro della scuola in un baleno. Già la mattina seguente, varcato il portone d’ingresso dietro di lei, a Giampiero era parso di leggere un risolino sarcastico sul volto della bidella Anna che lo aspettava all’ingresso con un registro in mano. «Professore, c’è da firmare una supplenza» gli aveva detto col suo solito tono gentile, porgendogli la penna con un sorriso. E guardandolo in viso attraverso le lenti degli occhiali spessi da miope, aveva soggiunto: «Bella giornata vero? Che peccato doversi chiudere nell’aula e non poter uscire all’aria aperta! La siepe di rose è fiorita, si sente il profumo fin qui.» Chi è in difetto è in sospetto, si dice: la frase innocente della signora Anna, del tutto fraintesa da Giampiero, gli aveva fornito un’ulteriore prova che la sua figuraccia del giorno prima era ormai di dominio pubblico. «Stia pur certa che da oggi in poi non mi muoverò più dalla mia aula» aveva risposto brusco siglando con uno sgorbio frettoloso il registro, sicuro che la figuraccia fosse già di dominio pubblico. In questo non si sbagliava: gli alunni della terza D non avevano impiegato neppure un secondo a spifferare ai compagni e agli insegnanti lo scherzo, riuscito così bene, al professor De Mitri. Entrato in sala insegnanti, avrebbe voluto prendere i suoi libri dall’armadietto e sgattaiolare in fretta in classe, ma fu bloccato da don Enrico, l’insegnante di religione, che, ridendo, lo aveva apostrofato con fare bonario. «E così, l’esimio professore di scienze non sa distinguere il vero dal falso, separare il grano dal loglio, come sta scritto nel Vangelo secondo Matteo! « In ossequio all’età e alla tonaca Giampiero non aveva risposto come avrebbe voluto, limitandosi ad alzare gli avambracci al cielo coi palmi aperti e a piegare all’ingiù gli angoli della bocca stringendo le labbra, come a dire pazienza, che ci vuol fare, capita a tutti di prendere un abbaglio. L’anziano professor Bacchi si era inserito prontamente negli istanti di impacciato silenzio per rincarare la dose alla sua maniera, esibendo con aria di superiorità la sua cultura classica. «Eh sì, caro il mio giovane e inesperto collega! Fama volat! Ma non prendertela troppo. De minimis non curat praetor, il pretore non si cura
54 delle piccole cose! Suvvia, non fare quella faccia mogia. Sursum corda! In alto i cuori! Vero, don Enrico?» Imma, in silenzio, aveva tolto dallo zaino i libri ostentando indifferenza, del tutto ignara della tempesta che le si stava addensando sul capo. Giampiero aveva fatto due passi verso di lei, puntandole contro l’indice minaccioso. «Tu! Sei stata tu ad aizzare la classe contro di me! Mi hai sputtanato di fronte a dei ragazzini. Vergognati!» l’aveva apostrofata diventando rosso di collera, i baffetti tremolanti di rabbia. Nell’aula era calato un pesante silenzio: tutti si guardarono sbalorditi, esterrefatti dalla reazione violenta e scomposta del professor De Mitri, del tutto sproporzionata rispetto alla pochezza dell’episodio avvenuto in laboratorio e alla bonarietà delle loro osservazioni in proposito. Già, ma loro non potevano conoscere il pregresso, immaginare la frustrazione di Giampiero per essere stato respinto ormai in modo definitivo da Imma, frustrazione che aspettava solo l’occasione per traboccare. «Ma Giampiero, ti sembra il caso di prendertela tanto? In fondo non è successo niente, quello di Imma è stato solo uno scherzo, nessuno mette in dubbio la tua professionalità!» aveva commentato la professoressa di francese, che detestava le liti e per questo era sempre pronta ad appianare i piccoli diverbi che talvolta sorgevano fra colleghi. «Come sei permaloso Giampiero» le aveva fatto eco, serio, il professor Bacchi,» chiedi scusa a Imma, e se ti dà così tanto fastidio questa sciocchezza non ne parliamo più, vero, colleghi? « IL provvidenziale suono della seconda campanella, che segnalava l’inizio delle lezioni, aveva interrotto la spiacevole conversazione. Avviandosi verso le classi, c’era chi scuoteva la testa, chi mormorava la sua incredulità al collega che lo accompagnava, mentre don Enrico dava un’affettuosa pacca sulla spalla di Imma ancora scossa, per comunicarle solidarietà e conforto. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.