In uscita il 31/3/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine marzo e inizio aprile 2018 (3,99 euro)
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STEFANO GIANOTTI
LA BIBLIOTECA DI SABBIA
ZeroUnoUndici Edizioni
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LA BIBLIOTECA DI SABBIA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-188-4 Copertina: immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Marzo 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
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PROLOGO
Inportu è una città come tante, senza particolari attrattive naturalistiche a renderla unica, potrebbe essere attraversata da un fiume e circondata dalla campagna. Falesia invece è una città di mare e di viste ne ha milioni. In quei giorni, le prime pagine dei giornali locali riportavano tutti la stessa notizia.
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LA BIBLIOTECA DI SABBIA
«Nonostante non sia stato raggiunto un accordo e pur avendo facoltà di risolvere il rapporto di lavoro del personale in esubero sulla base dei criteri previsti dalla legge, l’Azienda ha deciso di aprire una finestra di esodi volontari e incentivati che terminerà il prossimo ottobre», lesse Andrea. «Sei sicuro della tua scelta? Come potremmo mandare avanti la famiglia?» chiese con tono deciso Patrizia mentre abbassava con il telecomando il volume del televisore. «La quota di uscita è alta, se cerchiamo di limitarci con le spese, possiamo andare avanti per un po’ di tempo. Ormai ho cinquantaquattro anni e la pensione non è poi così lontana», rispose Andrea con calma. «Al momento ti mancano ancora tredici anni se non arriva una nuova Fornero», controbatté la moglie. «Pensiamo positivo, sono certo di riuscire a inventarmi un nuovo lavoro.» «Mi raccomando vai all’ufficio di collocamento, so che fanno dei corsi e tu potresti fare il docente!» commentò Patrizia mentre si allontanava in cucina. Andrea rimase solo sul divano con lo sguardo perso nel vuoto. Accanto a sé aveva una copia di Il tempo ritrovato di Proust, adorava quel romanzo, la conclusione della cattedrale letteraria rappresentata da La recherche. Lui era un appassionato lettore, adorava perdersi nelle pagine dei libri, ogni volta che trovava una frase o dei periodi che lo colpivano metteva un pezzetto di carta come segno. Non riusciva a sottolineare, credeva che fosse come ferire le pagine. Da giovane scriveva sempre delle canzoni, piccole poesie la cui metrica oggi lo faceva inorridire. Riteneva la poesia
6 una specie di quadro, una fotografia, con poche frasi a effetto si doveva far capire al lettore un concetto, dote che lui non aveva. Prese il libro e iniziò a sfogliarlo fermandosi su una pagina a caso, consapevole che sicuramente avrebbe trovato qualche frase degna di nota scritta dal letterato. Il caso volle che leggesse: “Il libro essenziale, il solo libro vero, un grande scrittore non deve, nel senso corrente, inventarlo, poiché esiste già in ciascuno di noi, ma tradurlo”. A causa del pensiero dello scrittore francese, immaginò di essere un romanziere e scrivere una sua autobiografia. Andrea Neri era nato nell’anno in cui Gagarin si accorse che nello spazio non esisteva nessun Dio. Lavora, anzi, ha lavorato per oltre venticinque anni in una multinazionale che, infischiandosene di ogni rapporto umano, ha deciso di trasferirlo a centinaia di chilometri da casa. Un saggio di questo genere, pensò ancora, non interesserebbe a nessuno, specie alle nuove generazioni che pretendono solo articoli in cui ogni tre parole sia presente la parola “bellissimo”, oppure storie in cui si rida e si parli di sesso. Quanti lettori potrebbe avere un libro dove ci sono pagine e pagine che descrivono un uomo alla ricerca della felicità come quello che aveva in mano, quanti consensi riceverebbe il dramma di Fenoglio sulla guerra? Alla società del XXI secolo deve essere detto che tutto va bene e che tutto è meraviglioso. Preso dallo sconforto, Andrea decise di uscire per prendere una boccata d’aria. «Patrizia, esco a bere qualcosa!» disse alla moglie mentre indossava il giacchetto. «Limitati a una birra! Mi raccomando! Non ordinare niente di pesante», rispose lei con la sua voce gentile. Andrea la guardò mentre compiva un gesto rituale della casalinga, riponeva gli oggetti nello scolapiatti, per farlo si alzava sulle punte dei piedi mentre toglieva dal volto i lunghi capelli ricci e neri, si rese conto di quanto fosse ancora bella e come ne fosse ancora innamorato. Entrambi avevano perso il padre troppo presto e avevano affrontato la vita con le proprie forze, aiutandosi a vicenda. Il tempo delle lettere d’amore, delle centinaia di poesie scritte la sera
7 e lette il giorno dopo era certamente concluso, ma rimaneva l’affetto e il rispetto l’uno per l’altra che consisteva anche nel semplice togliere il piatto dalla tavola a conclusione del pasto, o svegliarsi la mattina e dirle buongiorno dopo un candido bacio. Nei momenti difficili come quello attuale si rese conto che Patrizia era un punto di riferimento, la persona su cui poteva sempre contare. Mentre si infilava la giacca, lei stava mettendo i piatti nella lavastoviglie, un gesto banale quanto consueto e Andrea pensò a tutti i gesti insignificanti che accompagnano la vita, riti ripetitivi dei quali non ci rendiamo conto proprio perché li abbiamo sotto gli occhi tutti i giorni e per questo li diamo per scontati. Troppo spesso ci rendiamo conto dell’importanza delle cose quando non ci sono più come gli era capitato con suo padre quando la morte se lo era portato via troppo presto. Sistemare la casa era un’azione comune da parte della moglie alla quale lui non dava il giusto peso mentre doveva essere felice di avere Patrizia accanto, nella gioia e nel dolore, forse banalità ma che, in ogni caso, non a tutti era concessa. Andrea scese in strada, una via centrale della sua città adottiva, Inportu, un paese come tanti altri, senza particolari attrattive, ma ben servita. Erano ormai venticinque anni che si era trasferito per lavoro e ormai si sentiva un figlio adottato. Sulla destra c’era l’antica porta d’ingresso di epoca romana, ma lui andò dritto, entrando nella piazza del duomo con la fontana al centro. Osservò distrattamente il complesso: sarebbero servite le proprietà linguistiche del suo adorato Proust, il quale aveva descritto la cattedrale di Combray in modo dettagliato, mettendo in risalto le emozioni che quella vista gli dava. Pur non essendo uno scrittore provò a pensare come descrivere il complesso: la chiesa, il cui stile era stato definito da un suo amico appassionato di storia dell’arte “romanico fiorentino”, aveva nella facciata una serie d’intarsi geometrici o fitomorfi di serpentino verde del monte Ferrato sul marmo bianco di Carrara, l’interno era barocco. I palazzi che delimitavano il perimetro erano antichi e non presentavano incuria, inoltre erano tutti dotati di portici. Non era molto bravo nella descrizione per cui distolse i suoi pensieri verso altro. Osservò che la piazza era deserta, come del resto tutto il centro, e pensò ai libri di Pavese, perché lo scrittore suicida
8 raccontava sempre della vita di paese, delle persone raccolte a conversare in qualsiasi luogo, fossero le scale di una chiesa o un circolo. A quei tempi era sempre festa, bastava uscire da casa e attraversare la strada per diventare come matti e tutto era così bello, specialmente di notte. L’inizio de La bella estate era all’incirca questo, pensò Andrea, oggi non era più così, andavano di moda solo i grandi eventi, ritrovi di centinaia di persone con musica assordante che rendeva impossibile parlare l’uno con l’altro. Lui aveva sempre desiderato nascere una generazione prima, quando il romanticismo la faceva da padrone. Si immaginò essere in una balera a chiedere il ballo a una donna, anzi in una Milonga dove i passi sarebbero stati quelli di un tango, sensualità fatta movenza, un sogno mai realizzato. In fondo però adorava questa città, non era stato facile farla entrare nelle ossa, lui che veniva dal mare e aveva il bisogno di sentirne l’odore come un uomo arso dal sole lo aveva per un sorso d’acqua. La campagna, per quanto bella, mancava dell’orizzonte. Se non salivi su qualche altura ti trovavi circondato da colline, lo sguardo non aveva una pista abbastanza lunga per decollare. Soprattutto nei suoi lunghi periodi di malinconia aveva necessità di andare a vedere il mare e osservare le barche a vela che si muovevano da un bordo all’altro, trascinate da quella forza oscura che è il vento. Doveva alzare lo sguardo e immaginare che oltre quell’illusoria linea retta, dove finiva il cielo e cominciava la distesa d’acqua, ci fosse davvero la felicità, allo stesso modo della leggenda che vuole un tesoro dove l’arcobaleno bacia la terra. Cercando di dimenticare il pensiero del mare, provò a consolarsi pensando che la città offriva dei buoni servizi per il cittadino e le strade erano piuttosto pulite. Attraversò la piazza e dopo qualche centinaio di metri entrò nel solito bar, dove dietro il bancone si trovava Schizzo, proprietario e amico di bevuta che lo apostrofò immediatamente. «Favetta, il solito?» «Grazie, ma basta una birra», rispose all’amico. «Ti senti poco bene oggi? Non vogliamo perderci nell’ebbrezza di un gin tonic?»
9 «Preferisco di no», tagliò corto Andrea. Schizzo avvilito prese un bicchiere e iniziò a riempirlo alla spina. Aveva la stessa età di Andrea, era cresciuto ascoltando i CCCP e gli Area, a ogni festa di compleanno, prima di gettarsi su qualsiasi femmina presente, cantava Fedeli alla linea. Sognava di essere l’alternativa italiana di Lenin e voleva fare carriera in politica, ma si era ritrovato a lavorare per mille euro in un bar, a vivere nella casa della mamma dove ascoltava Jovanotti. Se lo ricordava con i capelli lunghi e la camicia a fiori a fumare uno spinello, ora era calvo, obeso e con la croce celtica sul braccio, segni di un inesorabile decadimento. Poco dopo, mentre beveva la birra, vide Schizzo rimanere immobile a bocca aperta e per questo fece un grosso sospiro perché aveva capito che l’amico era rimasto abbagliato da qualche donna appariscente. Si volse e vide Cameron avanzare verso di loro muovendosi sulle scarpe tacco dodici. Appena giunta al banco mostrò i suoi occhi verdi e il sorriso ammaliante mentre passava una mano nei lunghi capelli biondi. In realtà si chiamava Alessandra, ma assomigliava alla protagonista di Tutti pazzi per Mary. Andrea riconosceva in lei la bellezza, ma anche un forte egocentrismo e una scarsa sensibilità nei confronti degli altri. Per meglio dire, questo menefreghismo lo aveva verso chi non le interessava mentre era compiacente verso uomini che le piacevano, attraenti e facoltosi. «Ciao discreti!» disse rivolgendosi a nessuno in particolare, ma terminando la frase con la solita risata da oca di campagna. «Alessandra, posso aiutarti?» le chiese il barista che per lei avrebbe venduto l’anima al diavolo. «Ciao Cameron», la salutò in modo molto distaccato Andrea, oltre a chiamarla con il soprannome che lei odiava. «Sei freddino stasera. Cosa ti turba?» domandò la donna curiosa come sempre. «Tra non molto non avrò più il mio lavoro.» «Ciao Mirco, dammi un bacio», disse Alessandra allontanandosi senza lasciarlo finire, si era sempre comportata in questo modo con Andrea, ignorava ogni suo problema o sentimento.
10 «Governo ladro, ci hanno tolto tutto!» irruppe con veemenza Schizzo. «Ve lo avevo detto che saremmo tornati all’età della schiavitù! Lui ora è vecchio per l’azienda, ma lo Stato non lo manda in pensione e deve lasciare il posto a questi polli ruspanti arrivisti.» «Smettila Schizzo», tagliò corto Andrea, «ho sbagliato a suo tempo, non era il lavoro adatto a me e ora ne pago le conseguenze. Ho deciso di sfruttare gli incentivi e licenziarmi.» «Come farai a campare?» gli chiese l’amico. «Non ho più voglia di fare un lavoro che non mi fa provare nessuna emozione, un impiego fatto di sigle che annienta l’anima di una persona.» «Questa è una sentenza», fu la risposta di Schizzo. Andrea non gli rispose, forse suo padre aveva provato molta più fatica a lavorare in un’acciaieria, ma anche lui era stanco, era un’astenia mentale. Si rese conto che nessuno l’avrebbe capito, dopo quasi trent’anni non aveva più voglia di inseguire metodologie con nomi diversi ma concetti sempre uguali, di sopravvivere in un mondo in cui una frase era composta di cinque sigle, quattro inglesismi e una parola italiana. La sua intenzione era di vivere decentemente gli ultimi anni che aveva davanti, apprezzando tutte le cose che il mondo gli forniva. «Quando sarà il tuo ultimo giorno di lavoro?» disse urlando, come il solito, Schizzo. «Alla fine del mese, poi andrò all’ufficio di collocamento per cercare un nuovo impiego», gli spiegò Andrea. «Scusate, dovevo salutare il mio amico Mirco. Lui è un avvocato», disse Cameron tornando vicino loro. «Come mai specifichi sempre il lavoro che fanno i tuoi amici? Devi mettere in evidenza che loro hanno i soldi?» le chiese Andrea ancora arrabbiato per il suo atteggiamento. «No, Alessandra è dolce, è la donna più bella del mondo», intervenne Schizzo che, attirato dalla sua bellezza, l’avrebbe difesa anche se sfacciatamente colpevole. La porta del bar si aprì ed entrò un uomo magro, scuro come la pece, dall’abbigliamento multicolore e particolarmente sgargiante. Appena chiusa la porta guardò gli altri e si mise a cantare.
11 «Nelle tue miserie riconoscerai il significato di un Arbeit macht frei. Liberatemi, liberatemi dalla noia e dalla confusione, liberatemi, liberatemi! Schizzo ma com’è possibile passare da Demetrio a Jovanotti? Ti hanno drogato, secondo me!» «Non scassare Murgia!» replicò stizzito Schizzo. «Non ho mai capito come mai lo chiamate Murgia?» chiese Cameron. «Sono uguale! Non lo vedi?» strombazzò il nuovo venuto. «Uguale a chi?» «A Tiberio Murgia l’attore!» disse felice Riccardo. Andrea fece un sospiro, in realtà di simile avevano soltanto il colore della pelle, ma un giorno qualcuno gli affibbiò quel nome e da allora gli era rimasto. All’anagrafe era Riccardo Di Lorenzo e lavorava in una stamperia, si erano conosciuti per caso a una festa di un amico comune quando avevano diciotto anni. Stavano bevendo un gin tonic appoggiati a un basso muretto con dietro un laghetto senza conoscersi. Terminarono la bevanda insieme e con il bicchiere in mano si guardarono negli occhi. Un attimo e Andrea disse: “Alla russa!”, i calici finirono in fondo all’acqua e fu l’inizio di un’amicizia che nei primi anni prevedeva l’uscita il sabato con altri due compagni, quattro soste nei bar a bere gin tonic pagando a turno e poi in discoteca, non a ballare ma a ridere delle persone oppure guardare qualche ragazza La canzone degli Area gli aveva ricordato il licenziamento, il lavoro rende liberi era scritto all’ingresso dei campi di concentramento. La vita non era diventata di nuovo un lager? Ripensò alle lotte degli operai per avere un’esistenza dignitosa, ripensò agli uomini di Falesia che avevano scioperato a lungo pur con tanti bambini da sfamare. I racconti del nonno erano sempre nella sua testa, gli anni della nevicata più famosa documentatati da duemilacinquecento licenziamenti. Bambini affamati perché il padre non portava più il pane, l’intervento della celere quando ancora certi fatti non andavano sulla rete come quelli del G8. Si ricordava studente in mezzo agli operai con le tute blu e le bandiere rosse a difendere dei diritti importanti, conquistati con il sudore e adesso andati tutti a puttane, FUGAZI gridavano i soldati americani in Vietnam. Quei
12 tempi erano ben riprodotti dal quadro di Pellizza, quel quarto stato che si muoveva mano nella mano, uniti a difendere una vita dignitosa. Ora, al contrario, è un mondo molto qualunquista dove ognuno mira a difendere i propri interessi. «Hai la faccia triste Andrea», fu il commento di Murgia. «No, è solo un’impressione», rispose l’altro molto mestamente. «Ha perso il lavoro», aggiunse Cameron che per una volta sembrava interessarsi alla sorte di altre persone. «Cameron anche stamattina sei bella come il sole. Meravigliosa!» urlò con passione Murgia che in quanto ad aggettivi per descrivere una donna cadeva spesso nel banale. A sentirlo lo si sarebbe pensato innamorato di lei, se questa parola avesse potuto avere un significato per lui. Più precisamente da buon maschilista se la voleva portare a letto, ma fino a oggi i suoi tentativi erano finiti miseramente. Alessandra era fatta così, se avesse subito il colpo di fulmine, sarebbe stata capace di seguire un uomo ovunque, ma in caso contrario era capace di lasciarlo in stato di attesa dandogli più bastone che carote. Schizzo batté un boccale di birra sul banco e cominciò a urlare. «Sono dei bastardi e il governo è con loro. Rovinano la gente in un secondo mentre incassano soldi a palate. Non è possibile continuare così!» «Falla finita», disse con tono sommesso Andrea, «la colpa è solo nostra che ci siamo anestetizzati, non reagiamo più a niente. Anni e anni di lotte da parte dei nostri padri che cosa hanno portato? Ci interessa solo vedere la partita, avere il telefonino e andare in vacanza. Siamo divisi in sette di ogni rango, politico, calcistico, addirittura culinario e siamo pronti a polemizzare con chiunque. Non siamo più tolleranti, non abbiamo più la calma di ascoltare opinioni contrarie. Tutto è lecito finché non viene a ledere i nostri confini. Ora devo far passare questi ultimi giorni, poi avrò bisogno di ritrovare serenità. Forse me ne andrò qualche giorno a Falesia, sperando che la vista dei miei luoghi d’infanzia possa farmi tornare un po’ di entusiasmo. Laggiù rivedrò anche il mio migliore amico, quel mare che sempre mi è stato di conforto nei momenti duri, di fronte al mare la felicità è un’idea semplice.»
13 In quel momento entrò nel bar l’avvocato Rosario Malpotto, cinquantenne facoltoso nonché datore di lavoro di Alessandra. «Ciao Rosario», gli disse lei con voce molto sensuale. Lui nemmeno la guardò, ma ordinò un caffè che bevve velocemente. Non appena finito fece un cenno a Cameron che lo seguì come un cagnolino. La scia di profumo lasciato dalla donna non passò inosservato ad Andrea. Si chiese per quale motivo l’odore di una donna creasse così tanti scompensi nella testa di un uomo, lei poi alla fragranza della pelle aggiungeva quelle goccioline di Opium, il profumo più rappresentativo di Yves Saint Laurent, un classico della trasgressione. Quell’essenza di patchouli, bergamotto e gelsomino, uniti al particolare stato d’animo gli fece avere un brivido. In passato le era stato molto affezionato, la considerava una persona molto speciale, ma lei si era sempre comportata in malo modo. Si rammaricò soltanto di aver perso tempo, ma la lezione gli era servita. «Come fa ad andare con Cappotto! Non lo capisco.» A parlare era stato Murgia, assai geloso del legale a cui aveva dato quel soprannome per assonanza con il cognome. «Smettila di fare il cascamorto con lei», lo minacciò Andrea. «Assolutamente. Tra l’altro ora mi piace una tipa splendida. Lei ascolta gli Uriah Heep!» rispose l’altro con molta enfasi. Dopo questa frase guardò Schizzo aspettando una lode da parte sua, ma l’altro ormai era perso in Jay-Z e Lady Gaga, mai si sarebbe ricordato dei gruppi che ascoltava negli anni giovanili. Riccardo era così, una donna gli faceva perdere la testa per un particolare, una qualsiasi azione o gusto che per lui era l’universo. Quando succedeva non importava fosse bionda, non parlasse italiano o avesse cento anni, la doveva conquistare. «Ha un nome questa donna?» chiese Andrea. A quel punto Riccardo si mise una mano sugli occhi agitando l’altra davanti all’amico con il braccio disteso, il suo modo per indicare che avrebbe detto qualcosa di sbalorditivo. «Carmela.» Andrea e Schizzo si guardarono meravigliati, sembrava un nome come un altro.
14 «Con un nome così deve essere bravissima», aggiunse rimanendo in posa con le mani sui fianchi e il petto in fuori ad aspettare consensi. Nessuno si domandò in quale specialità fosse eccelsa, perché si sapeva benissimo a cosa alludesse Murgia. «Le ho detto che io amo quel gruppo e potevamo ascoltarlo insieme», continuò Riccardo, «mi aspettavo mi invitasse a casa sua per farlo, ma non ha detto niente.» «Murgia tu sei poco incisivo», gli disse Andrea, «per conquistare una donna di nome Carmela devi fare un’azione che la lasci senza fiato, la devi sbalordire.» «Tipo?» chiese Riccardo, il quale perdeva il senso dell’ironia quando si parlava dei suoi problemi. «Portala in deltaplano!» disse Schizzo mettendosi a ridere. «Stasera chiamala e dille di descriverti minuziosamente come sono fatti i suoi capezzoli», aggiunse Andrea e augurando subito dopo la buonanotte a tutti non avendo più voglia di ascoltare i problemi di Riccardo, il quale invece rimuginava sulle parole dell’amico. «Schizzo, se la chiamo e le dico quella cosa, non sarà troppo pesante?» domandò Murgia che come ipnotizzato non aveva ancora compreso di essere deriso. Schizzo iniziò a ridere: «È una frase del conte Mascetti! Quando perdi la testa non ti accorgi nemmeno che ti prendono per le mele. Bevi qualcosa che è meglio.» Una volta uscito dal bar invece di dirigersi verso casa, Andrea prese via del Giglio, aveva bisogno di fare qualche passo a piedi. Giunto in piazza della Vittoria, vide una grande quantità di migranti con i loro sacchi della lavanderia colmi di roba da vendere. Einstein era convinto che Dio non giocasse a dadi con l’universo, ma Andrea si chiese quale mente superiore aveva fatto in modo che lui nascesse in un determinato paese e non in un altro. Se quel mistero che si chiama vita si fosse realizzato a mille chilometri di distanza, lui avrebbe avuto un’altra personalità: poteva credere ad Allah oppure essere protestante, poteva dissipare tutte le inibizioni oppure essere più casto. Perdere il lavoro per Andrea era quasi un’onta, avrebbe dovuto fare delle restrizioni, ma doveva rinunciare soltanto a cose superflue mentre quegli africani credevano di aver trovato la terra
15 promessa percorrendo chilometri e chilometri sulla spiaggia, dormendo in camerate senza bagno. Suo padre non aveva mai preso un aereo, da piccolo andava a cercare il cibo nei bidoni della spazzatura e il destino se l’era portato via a sessant’anni, la sorte in fondo poteva essere molto più avversa. La felicità forse stava nelle piccole cose, non era necessario vedere terre misteriose o avere beni materiali di lusso. Che cosa sarebbe cambiato se nella carta d’identità ci fosse stato scritto disoccupato al posto d’impiegato? Quel sostantivo che da piccolo gli sembrava un titolo nobiliare ora poteva benissimo essere cambiato con operaio, le tute blu erano diventate camici bianchi, ma le prime non avrebbero mai chinato la testa, le seconde erano narcotizzate. Aveva bisogno di lanciare lo sguardo verso l’orizzonte, liberare la testa, ma Inportu non aveva punti panoramici. Allora, come faceva da piccolo, chiuse gli occhi e si mise a immaginare. Vide la campagna della sua terra, i campi di girasole e, pur non percependolo, si sentì invaso di quel profumo. Le immagini di Falesia gli si presentarono davanti, notò sul monte il possente torrione a pianta rettangolare, il primitivo mastio medievale, dalle pietre non perfettamente squadrate a eccezione degli angoli. Gli piaceva continuare a vedere la semitorre rotonda aggiunta al centro del lato corto occidentale della cinta muraria come il luogo dove da piccolo attaccava il drago cattivo. Sotto il castello c’era il suo incantevole golfo, delimitato a nord dai promontori del Poggio di San Lorenzo e a sud dalla Torre, il litorale sabbioso e i bassi fondali, con l’arenile che si presentava dorato e ambrato a causa della presenza di scorie di ferro, con i suoi pini marittimi e domestici, le sue tamerici, il ristorante, il porticciolo, la scuola di vela, altri luoghi per mangiare. Il golfo rivolto a nord ovest battuto dunque dal maestrale, ma coperto se piegava a ponente e calma piatta se soffiava lo scirocco. A fianco della pineta il vasto prato, dove una volta si poteva campeggiare, divenuto poi accessibile alle macchine e, infine, trasformato in parco naturale. In tenera età andava con i suoi genitori nei pressi del porticciolo a causa dell’acqua notevolmente bassa: aveva ancora molte foto con secchiello e cappellino, con le caviglie a fatica bagnate, pur essendo a decine di
16 metri dalla battigia. Da poco alle scuole elementari, ebbe la prima esperienza con la tenda da campeggio in compagnia degli zii, con il prato che diventava una distesa di tende dai mille colori e lui si divertiva a correre tra di esse con la spensieratezza di quegli anni. Si sentiva libero, in un mondo di avventura, senza la minima conoscenza di Chatwin, senza volere avere un’amante difficile come la Patagonia che ti stringe nelle sue braccia e non ti lascia più. Guardando l’orizzonte di quel piccolo golfo, Andrea si sentiva figlio di quel mare che aveva accolto le più grandi culture occidentali, mediterraneus, in mezzo alle terre, o mare nostrum come definito dagli antichi romani, oppure mar bianco di mezzo, secondo la dizione araba. Conrad diceva “Il buon mare forte, il mare salato, amaro, che sa sussurrarti all’orecchio e ruggirti contro e toglierti il respiro”, ed era vero che, quando ti mettevi ritto sulla battigia e soffiava il vento di mistral, sentivi la sua voce, simile a volte a quella di un leone. Voleva sentirsi “scabro ed essenziale, siccome i ciottoli che tu volvi, mangiati dalla salsedine: scheggia fuori del tempo, testimone di una volontà fredda che non passa”. I versi di Montale gli davano sempre una sorta di felicità mista a malinconia, ma ricordava anche la trilogia di Izzo, maestoso nel descrivere quel porto di mare che è Marseille: “Quando non si ha niente, avere il mare il Mediterraneo è molto, come un tozzo di pane per chi ha fame”, condivideva molto queste parole e i racconti di viaggi lo incantavano più dei viaggi stessi. Umberto Saba diceva: “Ogni porto è una porta aperta ai sogni” e non per nulla, prima di andare a scuola, era necessario per lui sostare qualche minuto sul pontile, perché la nave che salpava era simbolo di una vita nuova, di nuovi orizzonti. Mediterraneo è di genere neutro nelle lingue slave e in latino, maschile in italiano e femminile in francese; maschile e femminile in spagnolo, dipende. Ha due nomi maschili in arabo e il greco, nelle sue molteplici definizioni, gli concede tutti i generi. Quel mare era il suo mare, lo amava, amava vedere le variazioni di colore dell’acqua, da blu scuro a celeste, a indicare una secca, oppure vedere il movimento delle onde in lontananza, indicazione dell’arrivo di un refolo di vento.
17 Falesia era la sua città natale, rivedeva tutti i luoghi e gli oggetti della sua infanzia: il campo da calcio del convento, la piazza con i portici e i giardini, le sue biciclette, i fucili a gommini, i giornalini venduti a volte sulle scale dei portoni, un libro e tra le pagine, appassita, una margherita. Sarebbe voluto tornare a respirare tutti i profumi della città, l’odore della terra in cui era nato, l’odore acre dello spolverino della fabbrica quando soffiava vento di scirocco, l’odore pungente delle alghe bagnate sulle spiagge del litorale, l’odore di cocco della crema solare spalmata addosso dai bagnanti durante l’estate, l’odore salmastro delle reti dei pescatori al porticciolo, l’odore quasi nauseante del pesce nella pescheria, l’odore fragrante della schiaccia appena sfornata, l’odore floreale delle ginestre in quelle notti di maggio, l’odore silvestre degli aghi di pini nella pineta sul mare, l’odore dell’oleandro e del rosmarino. Le strade di Falesia erano tutte dentro di lui in quel momento, non quelle voraci, disturbate da ressa e da trambusto, ma le strade indolenti del quartiere dove era nato, quasi invisibili per l’abitudine, dolci per la penombra e il tramonto. Falesia per Andrea era il dedalo crescente di luci che scorgiamo dalla nave di ritorno dall’isola e sotto il quale sono la terrazza, il marciapiede, l’ultimo cortile, le cose quiete. Era un grande albero di una piazza che senza saperlo ci dà ombra e fresco, una lunga strada di case basse persa e trasfigurata nel tramonto che ci porta a una delle spiagge più belle del mondo. Era una porta con un numero dietro la quale passò due anni ad apprendere integrali e Schopenhauer. Era il pizzaiolo con il suo schiaccino prosciutto cotto mozzarella e un pizzico di lardo, il giorno in cui lasciò una donna e il giorno in cui una donna lo lasciò, quella scalinata che porta in quel rifugio di barche dove faceva i suoi primi bagni in mare. Era quella spiaggia in cui per la prima volta si dichiarò a una ragazza, lo stadio sulle cui gradinate gridava per il gol di un giocatore con la maglia a strisce, il palazzetto dello sport dove gioiva per la vittoria della squadra di basket, la panchina nella piazza con le due cabine del telefono dove si ritrovava sempre con gli amici, senza pensare che quel giorno non ci sarebbe mai più stato. Era lo scioperante che si
18 rifiuta di consegnare il tricolore mentre canta O Bella Ciao, tutti gli operai che per difendere i propri diritti occuparono la fabbrica pur lasciando mogli e figli senza pane. Era l’ultimo specchio che rifletté il volto di suo padre. Non era in grado di dire se avere questo tipo di ricordi fosse salutare o no, era il momento di pensare esclusivamente al futuro, confidava nel trovare un’occupazione che gli desse qualche gioia in più, ma aveva anche il timore che quella scelta di abbandonare il suo lavoro fosse sbagliata, la paura di non riuscire a tirare avanti la famiglia lo stava attanagliando. «Andrea, amico mio.» Si voltò a quella voce e vide il suo amico Faruk che tornava a casa in bicicletta. «Ciao Faruk, come stai?» gli chiese. «Bene, a breve ci nascerà un nuovo bambino» rispose l’altro. «Un altro?» esclamò sorpreso Andrea. «Sono quattro.» «Sono molto felice. E tu? Ti vedo la faccia triste. Cerca di stare bene amico!» Faruk riprese la sua pedalata e Andrea lo guardò andare via. Diventarono vicini di casa tanti anni fa, era appena arrivato con i fratelli da Azilal, un paese nell’interno del Marocco. Faceva lavori massacranti, usciva da casa che ancora non albeggiava e tornava al tramonto, ma aveva sempre la gioia sulla faccia. Poi, dopo aver portato con sé la moglie e i suoi primi due bambini, fu licenziato, ma malgrado questo continuava a sorridere e aveva aumentato la prole. Come riuscisse a campare Andrea non riusciva a capirlo, in fondo non era mancanza di dignità chiedere aiuto e Faruk lo faceva. Se il magrebino sopportava questo tipo di vita significava che la precedente era peggiore, lui era gratificato dalle piccole cose. Si fece coraggio e capì che l’unica forza che permetteva di tirare avanti, quell’entità astratta che molti identificavano in un Dio, era soltanto la felicità. Si rese conto che doveva trovarla e che la sua scelta era stata corretta. Riprese la strada per casa con molta più serenità addosso e consapevole di poter tornare a essere un uomo felice, per esprimere
19 questa cosa si mise a saltellare fischiettando Mambo Terrifico di Mongo Santamaria. Arrivato al suo appartamento, si mise a letto e, per quanto incredibile dopo la giornata che aveva avuto, si addormentò subito. *** Aveva recuperato le sue cose e salutato i colleghi il giorno prima, senza provare nessuna particolare emozione. Era ormai abituato a prendere una nuova strada lasciando alle spalle cose e oggetti, senza che una lacrima cadesse sulle guance. La malinconia di solito cresceva negli anni seguenti, quando si rendeva conto che, nel giardino dei sentieri che si biforcano della sua vita, aveva preso quello sbagliato. Appena uscito dal cancello principale, si fermò senza girarsi e respirò profondamente, chiedendosi il perché di quel gesto: tirare un sospiro di sollievo, da dove proveniva questo modo di comportarsi. Si ricordò quando un amico gli raccontò la prima notte a casa con il figlio dopo il parto: gli avevano raccomandato di stare attento che il neonato non si mettesse prono perché poteva morire soffocato, non avendo ancora l’istinto di sopravvivenza. Lui rimase a guardarlo fino all’alba per essere certo che non accadesse. A poco a poco respirare diventa un gesto involontario, non ci fai più caso tanto è ripetitivo, come tante cose nella vita per le quali non ti rendi conto della loro esistenza fino a quando non le hai più. Anche mangiare tutti giorni era diventata una routine, non avrebbe mai pensato di non avere a disposizione un pezzo di pane, ma suo padre, durante la guerra, era stato costretto ad andare a rufolare nei secchi dell’immondizia per saziarsi. “Si vede che non hai patito la fame!” era solito ripetergli. Allora, fermarsi e respirare profondamente significava essere sempre vivi, vedere ancora il colore del mare, continuare a fare l’amore con la propria donna, più aria mettevi nei polmoni e più tempo avevi per gustare tutti gli odori del mondo, anche l’aroma del caffè che usciva dalla macchinetta. «Andrea, ultimo giorno!» disse la ragazza della reception. «Non mi saluti?»
20 «Certo, scusa Valeria», disse camminando verso di lei. «Allora, come ti senti?» «Vuoto, completamente vuoto. Sto cercando di cancellare dalla mente venti anni della mia vita; come quando togli il tappo dalla poppa e l’acqua imbarcata comincia a defluire, allo stesso modo ricordi belli e brutti escono dalla testa. Non resistevo più, gli ultimi anni sono stati una sofferenza, alieno in un mondo che non sentivo mio, guidato da uomini i cui ideali erano completamente diversi dai miei.» Valeria lo abbracciò forte, gesto istintivo che aveva l’apparenza della solidarietà, ma che in realtà era un commiato da una persona che aveva salutato per lungo tempo mattina e sera. «Ciao Andrea e in bocca al lupo, è stato un piacere conoscerti, sei una brava persona e anche belloccio, ora posso dirtelo!» gli gridò mentre si allontanava. Quella frase gli fece assumere una posizione eretta da vanitoso, lo avrebbe detto a Patrizia per farla ingelosire. Ora era a casa, libero di programmare il suo tempo a piacimento, non era più assillato dall’idea di dover prendere il treno, libero dalle incombenze di un lavoro che, a conti fatti, non aveva mai sentito suo. Aveva preparato la macchinetta del caffè e messo un CD nel lettore. La chitarra di Knopfler lo trasportava come se fosse su un tappeto volante di note… Forza quella serratura, entra nel tuo mondo, alberi di mandarino, la ragazza dagli occhi di caleidoscopio, il pianeta Terra è blu e non c’è nulla che io possa fare, amore senza limite e senza fine che splende attorno a me come un milione di soli continua a chiamarmi per l’universo… In pochi istanti aveva percorso un mondo irreale seguendo le parole delle sue canzoni preferite, ma qualcosa lo fece sobbalzare. Patrizia, uscita dalla doccia in accappatoio e un asciugamano in testa, gli aveva dato un bacio sul collo. Lui si voltò e provò a baciarla, ma lei, come al solito, lo allontanò. Facevano sempre questo gioco, avrebbe dovuto chiudere gli occhi mentre lei si nascondeva. Se riusciva a trovarla entro un minuto il bacio era suo: solitamente non ci riusciva, ma Patrizia, qualche secondo prima della scadenza, iniziava a miagolare per aiutarlo, in fondo desiderava quell’atto d’amore. Quando erano più
21 giovani a quel bacio ne seguivano altri, e poi altri ancora per terminare in giochi più erotici, qualunque fosse il luogo, limitandosi solo se ci fosse stato il rischio di atti osceni. Adesso la tendenza era di limitarsi a un bacio anche se molto passionale, ma Andrea non perdeva l’occasione di muovere le mani come fosse un polpo. Questa volta accadde sulla terrazza senza rendersi conto della presenza della vicina che li guardava. Patrizia fuggì dentro per la vergogna mentre Andrea fece un grande sorriso dicendo: «Buongiorno Concetta, come va? Sai noi ci vogliamo bene.» «Guardate che non siete più ragazzini», disse l’anziana signora forse con un briciolo di invidia. «Buffoncelli, voi non state giocando alla merla!» le disse Andrea sorridendo, credendo che la frase di Guccini potesse renderla di buon umore. «Mi stai prendendo in giro?» ribatté accigliata la vicina. A questo punto, euforico per il bacio della moglie, Andrea estrasse tutto il suo spirito goliardico e citò ancora il cantautore: «Concetta, chissà quanti ne hai presi di pezzoloni.» «Per chi mi hai preso?» urlò dal terrazzo la donna notevolmente adirata. Andrea pensò bene di smetterla. «Bella la mia Concettona!» la salutò mandandole un bacio e rientrando in casa. Patrizia che stava ancora ridendo imbarazzata gli disse: «Ha telefonato Linda. Ha detto se stasera andiamo a mangiare alla Taverna del Sommo con loro. Ti va?» «Volentieri, tanto oggi è sabato e fino a lunedì non posso andare all’ufficio di collocamento.» La Taverna del Sommo era un piccolo locale lungo la statale del suo amico Marcello Nannini che non aveva nessuna pietanza caratteristica, ma l’atmosfera era particolare. Il proprietario infatti era un amante del progressive-rock e il nome era una dedica al musicista greco Vangelis, come lo aveva chiamato una volta un giornalista televisivo. Le pareti del locale erano tappezzate di foto dei gruppi di quel periodo, dagli Yes ai Rush, e in sottofondo c’erano sempre le loro canzoni. Sebbene non avesse problemi
22 economici Marcello era molto vintage, si muoveva sempre con una vespa che definiva come sua fidanzata da oltre quarant’anni. Andrea si ricordò di quella volta che per andare a fare il bagno di mezzanotte in una cala sperduta, forarono una gomma e rimasero sulla spiaggia tutta la notte a cantare canzoni dei Marillion. Insieme a Patrizia entrò nel locale con solo pochi minuti di ritardo, ma ovviamente Carlo non c’era e, altrettanto logico, si sentivano i Camel con le note malinconiche di Straight To My Heart. Una volta Murgia disse a Marcello che questa canzone era l’epitaffio della sua vita e da allora Nannini l’ha passata più volte come sottofondo. Si sedettero al tavolo loro riservato e poco dopo giunse anche il proprietario. «Ciao Tremal-Naik, ti vedo abbronzato stasera», lo canzonò Andrea, perché Marcello aveva la carnagione molto chiara, pareva soffrire di albinismo e il soprannome venne naturale come contrappasso, l’eroe di Salgari non aveva sicuramente tale anomalia congenita. «Ciao Patrizia, come stai?» disse Marcello non appena arrivato, da questo punto di vista era un galantuomo. «Bene, grazie. E tu?» rispose Patrizia sorridendo mentre Andrea fece una smorfia, sapendo che l’amico sarebbe partito con la lista dei suoi problemi, uguali da anni. «Non ce la faccio più, mi fa male la schiena e ora anche un polpaccio. Oggi sono andato a correre e quando sono tornato ho dovuto prendere una pasticca per il dolore.» «Perché l’hai fatto allora?» chiese Andrea. «Lo sai che mi piace», rispose l’amico. «Non cambierai mai. Aspettiamo gli altri ragazzi.» Dopo qualche minuto, arrivarono Carlo e Linda. «Buongiorno professore, come sta la sua signora? E i gatti e questo tempo che non si rimette ancora?» «Smettila Andrea di citare questa canzone tutte le volte che m’incontri», rispose seccato il Professore come lo chiamavano tutti, all’anagrafe Carlo Petrucci, insegnante di educazione artistica, grande letterato e amante dei libri. Fisico asciutto, capelli corti e occhiali alla John Lennon, era una persona che Andrea stimava molto, la sua casa era colma di volumi di ogni genere. Una volta si
23 era stupito di trovarne uno con le poesie di Günter Grass in tedesco e ancora di più quando Carlo gli disse che quella lingua non era difficile da imparare. Era un uomo strano, molto progressista per tante cose eccetto per il tradimento, un gesto che non sopportava e lo rimarcava spesso con filippiche lunghe e noiose. Linda invece era una valdostana molto sorridente e fascinosa anche se leggermente sovrappeso. La cena andò bene tra un boccone e una risata fino a quando le donne, dopo aver bevuto qualche bicchiere in più, cominciarono a dire frasi poco lucide, ma, soprattutto, iniziarono a parlare del loro uomo ideale. «A me piacciono quelli belli, gentili e romantici», disse Linda. «Cary Grant sarebbe stato un marito perfetto.» «Falla finita!» obiettò Patrizia. «Un bel moro con la tartaruga lo butteresti via? Argentero, per esempio?» Le donne si misero a ridere, l’alcol cominciava a fare effetto. «Davvero. Anche Hugh Jackman è bello, con quei pettorali e bicipiti!» gridò Linda. Il professore fece una smorfia che non passò inosservata ad Andrea e per questo motivo provò a stuzzicarlo. «Ti rode?» gli disse colpendolo con il gomito su di un fianco, ma l’altro rimase in silenzio. «Non barare!» quasi gridò Patrizia alla quale già un bicchiere bastava per mandarla su di giri. «Figurati se tu ti fermi a questo. Secondo me te lo porteresti a letto.» Andrea diventò rosso perché la frase non passò inosservata al resto della sala. Hugo non si sarebbe di sicuro ispirato a loro per descrivere Marius e Cosette nel giardino. «Stai scherzando? Ce lo porterei di peso», disse Linda. «Tradiresti Carlo?» incalzò l’altra. «Certamente», rispose e sollevò il bicchiere per fare un brindisi con l’amica mentre Andrea rideva sotto i baffi. Carlo, che era un misto tra uomo tutto d’un pezzo e Otello moderno, non la prese bene cominciando una delle sue orazioni sui doveri di un matrimonio e sulla propria moralità, filosofando che lui non
24 avrebbe mai tradito la moglie, discorso interrotto da un commensale che, infastidito, gli disse di farla finita. Tornarono a casa e Andrea era felice, stava bene insieme a Carlo e poi si erano divertiti anche se l’amico era andato via molto arrabbiato. Tutto sommato lo ammirava per questa sua fedeltà, gli ricordava il Montalbano dei tempi migliori. *** Lunedì mattina fu svegliato dalle grida della moglie. «Andrea, muoviti. Hai l’appuntamento al centro per l’impiego.» «Vado subito», rispose Andrea. Aprì l’armadio e pensò a cosa mettersi. Ricordò, non senza malinconia, i suoi primi colloqui di lavoro in cui indossava un orrendo spezzato e una cravatta che poco si abbinavano. Negli anni successivi, avendo l’intenzione di diventare una persona importante, stava particolarmente attento che cravatta, camicia e calzini avessero un nesso. Indossava giacca e pantaloni dello stesso colore, mai la camicia a maniche corte, tipica dei bancari, neppure durante l’agosto più torrido. «Vestiti in modo elegante e stai attento a non avere macchie», disse Patrizia dalla cucina. «Stai tranquilla, so quello che faccio!» ribatté lui con un briciolo di stizza. «Io esco. Ci vediamo stasera», salutò Patrizia mimando un bacio. Andrea osservò di nuovo il suo corredo e poi prese un paio di Replay che non metteva da qualche tempo: erano scoloriti e con diversi laceri all’altezza delle cosce, si sentiva rinato, quasi come un ragazzino e non era più interessato al fatto che le persone lo inquadrassero dal modo in cui era vestito, desiderava solo che ne apprezzassero le qualità. Allora niente camicia ma una T-shirt, quella su cui aveva fatto scrivere una frase, il titolo del libro più bello che avesse letto: À la recherche du temps perdu, anche se ora era alla scoperta di quello futuro. Da ultimo calzò le scarpe da tennis e uscì da casa prendendo l’ascensore che lo portò direttamente al garage, dove inforcò la bicicletta e si diresse verso la sua destinazione.
25 Dato che era in largo anticipo, passò a bere qualcosa al Circolo perché Schizzo quella mattina era chiuso. Non sapeva quante associazioni di quel tipo esistessero ormai, ma per lui era un luogo magico, lo sentiva come punto di ritrovo del quartiere, in un mondo in cui a volte non si conosce neppure il proprio vicino. Lì, invece, nessuno era anonimo. E poi a quell’ora avrebbe trovato sicuramente il Professore, era impossibile che non bevesse il suo cappuccino del mattino. Con la bicicletta attraversò la piazza per svoltare in via Del Giglio, quindi sottopasso e nuova svolta al semaforo. Alla fine del lungo rettilineo arrivò nella piazzetta con il circolo dove, seduto a un tavolino, vide il suo amico. «Buongiorno professore, oggi non ho studiato mi può giustificare?» «Smettila Andrea di prendermi in giro. A casa tutti bene, vieni e siediti. Prendi qualcosa da bere?» domandò il Professore che aveva un libro sul tavolo. «Che cosa stai leggendo oggi di bello?» chiese Andrea. «È la storia del labirinto di Franco Maria Ricci a Parma, mi piacerebbe molto vederlo. È fatto di canne di bambù», rispose Carlo. «Il labirinto, l’incubo di Borges e di Jack Torrence. Lo sai che per trovare l’uscita dal labirinto basta andare sempre a destra?» «Allora Teseo non avrebbe avuto bisogno del filo di Arianna per uscirne, stai rovinando un mito della mia giovinezza.» «A proposito di gioventù, ho avuto una rievocazione prima di sedermi qui con te. Da piccolo ricordo sempre mio nonno seduto fuori da un bar con gli amici, sedie di legno e fiasco di rosso, un’immagine di altri tempi. Tra l’altro queste persone indossavano una canottiera bianca con le bretelle e mi apparivano molto anziani, in realtà avevano la nostra età, sicuramente un’altra generazione. Non la rimpiango perché s’invecchiava molto prima, ma quel fiasco di vino sul tavolo era un quadro di genuinità incredibile», disse Andrea dopo aver ordinato cornetto e caffè. «”Messere, io non vorrei che voi credeste che il gran fiasco stamane m’avesse spaventato.” Boccaccio già faceva uso di tale recipiente», dette sfoggio di cultura Carlo.
26 La loro discussione fu interrotta dalla voce di un uomo che entrò cantando con voce alta, ma in un modo completamente fuori tono. «Finally I understand the feelings of the few, ashes and diamonds, foe and friend, we were all equal in the end», le parole dei Pink Floyd lo accompagnarono fino al tavolo. «Basta Bomba! Non ne possiamo più!» urlò Andrea. «Da quando il suo idolo Andrea Scanzi non fa altro che parlare di Waters, Bomba canta solo pezzi dei Pink Floyd e in modo sicuramente orrendo», sentenziò con la sua calma il Professore. Bomba era il soprannome che Andrea aveva dato al suo amico Renzo, consulente finanziario in una banca del paese, nonché assessore di Inportu, ma capace di divulgare notizie inventate una dietro l’altra. «Sta per uscire il nuovo romanzo di Scanzi, non vedo l’ora di leggerlo», disse Bomba dopo essersi seduto accanto a Carlo. «Tu vuoi leggerlo per scoprire qualche cosa in più del suo feticismo. Da quando hai iniziato ad apprezzare le donne con il tacco, non sei più sopportabile», lo apostrofò Carlo. «Sono uscito con una donna ieri sera, mora, gonna aderente e un paio di Louboutin tacco dodici. Una musa!» «Bum, bum, bum! Ecco lo scoppio della bomba!» disse ridendo Andrea. «Non ci credete?» interrogò il Bomba. «Non ci crede nessuno, racconti più bugie tu di Pinocchio», rispose il Professore. «Oltretutto quelle che dici di incontrare sembrano tutte uscite da Sin City. Alte, minigonna e tacco alto, sogna la Dawson un po’ meno», lo canzonò Andrea. «Fai il furbo, a te non piace una donna vestita così? Non capisco perché hai tutta questa riluttanza!» ribatté Bomba. «Riluttanza… io?» rispose Andrea con sorpresa. «Io adoro le donne. Sai che amo una donna per un gesto, per uno sguardo, per una parola. Hai presente Audrey Hepburn quando canta appoggiata alla finestra in Colazione da Tiffany? Ha un asciugamano in testa e indossa un paio di ballerine, non certo le Louboutin. Nondimeno quel piede che ciondola nel vuoto ha una grazia indescrivibile, un
27 lento movimento che lo rende affascinante. Oppure l’inizio del film quando appare quella strada vuota, senza nemmeno una luce: arriva il taxi e, quando lei scende, è come se sorgesse il sole. Una donna, tempo fa, era seduta accanto a me e, mentre parlavamo, mi osservava con uno sguardo magnetico; una battuta su di lei la fece arrabbiare, per vendetta si fece scivolare sulla sedia avvicinandosi e con il piede mi colpì sul polpaccio. Quanta sensualità in quel gesto, un movimento breve ma grazioso, un piede perfetto in un semplice sandalo che però mi dette una scossa incredibile.» «Come sei romantico», disse il Bomba. «Parliamo di cose serie, che cosa è successo al lavoro? Ti hanno promosso?» «No, mi hanno licenziato, o per meglio dire l’ho chiesto io», sospirò Andrea. «Come mai?» domandò ancora l’altro. «Ricordo sempre il giorno in cui è venuto l’amministratore delegato a parlarci degli esuberi e della chiusura della nostra sede di lavoro. Io non rischiavo il licenziamento, ma il trasferimento a centinaia di chilometri da casa era una cosa insopportabile. Aveva una giacca blu di una decina di chili fa, una camicia a righe molto antiestetica e parlava velocemente con una calata napoletana non certa degna di Troisi. Le sue frasi erano piene di sigle e slogan, per mostrare un po’ di cultura citava qualche battuta di Totò, sbagliandola tra l’altro. Lo guardavo fisso negli occhi immaginando cosa provasse a rovinare la famiglia di molte persone, se fosse in grado di comprendere questo dramma o fosse talmente avido di successo da camminare sui corpi di esseri umani. Immaginavo suo figlio con un amico il cui padre fosse stato licenziato da lui, nel momento in cui gli avesse chiesto il motivo di tale disumanità che cosa avrebbe risposto, come si sarebbe posto nei confronti dell’erede.» «I manager sono pagati per questo», intervenne il Professore. «Sapete qual è stato l’assurdo, quando è stato l’attimo degno del miglior Ionesco?» continuò Andrea. «Quando ha affermato che chiudeva la sede per creare sinergia. Avete capito? Un’azienda di telecomunicazioni il cui slogan principale è che, grazie a lei, un chirurgo potrà operare a migliaia di chilometri di distanza, afferma che i suoi dipendenti non possono lavorare da remoto. Sembrava di
28 essere in un romanzo di Kafka. Non riuscivo più a far parte di quel mondo fatto di sigle e apparenza, un mondo in cui si passava più tempo a fare riunioni che a lavorare.» Bomba rimase silenzioso, poi guardò l’orologio e facendo una smorfia con la bocca salutò tutti. «In bocca al lupo», disse ad Andrea, battendogli una pacca sulla spalla e allontanandosi. «Ciao Bomba, beato te che stai bene», bisbigliò malinconicamente Andrea. «Andrà a caricare il cannone!» sdrammatizzò il Professore. «Si tende sempre a fuggire dalle persone in difficoltà, chi come il Bomba non ha mai provato dolore non riesce a sopportarlo. Fino a che non succede a te, non puoi sapere come ci si sente», furono le parole di Andrea. «Linda come sta?» «È andata a un congresso sulle erbe mediche. È molto impegnata in questi giorni», rispose il Professore sorseggiando il suo prosecco. Andrea li invidiava, facevano una vita molto indipendente curando i propri interessi senza mai avere avuto sbandate per altre persone. Carlo era un uomo tutto di un pezzo, l’esatto contrario del Bomba. «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a suo modo. Tu e Linda però siete beati a modo vostro, siete una eccezione», disse sorridendo all’amico. Sul tavolo c’erano altri libri di Carlo e Andrea ne prese uno che aveva un segnalibro più o meno a metà. «Nietzsche in versione originale, stiamo andando sul pesante», disse rivolto all’amico mentre apriva il volume alle pagine marcate dove lesse una frase sottolineata, “Ohne musik wäre das leben ein irrtum“, con a fianco la traduzione scritta a matita: senza musica la vita sarebbe un errore. Anche in questo il filosofo aveva ragione, la musica ci aiuta spesso a superare momenti negativi. Era il momento di andare: «Ciao Professore, vado a cercare un lavoro.» Andrea con la sua bicicletta arrivò nella piazza alberata, dove si trovava il centro per l’impiego. Entrò nella vecchia struttura e chiese dove potersi iscrivere. L’impiegata alzò gli occhi.
29 «Deve prendere il numero e aspettare il suo turno», disse la donna con una voce molto melodiosa. A volte succede, per strada. S’incrocia lo sguardo di una donna e ci si volta nella speranza di incontrarlo di nuovo. Senza chiedersi se quella donna è bella, com’è fatto il suo corpo, quanti anni ha. Solo per quello che passa attraverso lo sguardo, in quell’istante: un sogno, un’attesa, un desiderio. Tutta una vita possibile. Andrea rimase abbagliato a fissare la segretaria. I suoi occhi, intorno al loro centro, disponevano raggi così geometricamente luminosi che davanti al suo sguardo si pensava a una qualche costellazione. «Signore, va tutto bene?» Andrea si riprese dal torpore. «Sto bene, grazie. Sono rimasto colpito da lei. È bellissima, complimenti», disse alla donna facendole un gran sorriso. «Grazie…» rispose la ragazza arrossendo. «Lei si chiama Angelica, vero?» chiese Andrea. «No, non è il mio nome.» «Peccato.» «Come mai me l’ha chiesto?» «Ha il volto ovale, gli occhi scuri, i capelli legati dietro con quella divisa centrale, mi è tornata alla mente la desiderata di Orlando.» «Non lo conosco», rispose la ragazza sorridendo. «Non ha studiato a scuola l’Orlando Furioso? Angelica era la bella tra le belle. Ariosto scrive: “Essa sembrava matutina stella e giglio d’orto e rosa de verzieri: in somma, a dir di lei la veritate, non fu veduta mai tanta beltate”. I cavalieri s’innamorano tutti di lei e cercheranno di conquistarla con imprese clamorose e lei non ricambierà nessuno fino a quando non berrà una pozione magica. Possiede una natura spensierata e vanitosa, si diverte a seminare gelosia tra i suoi pretendenti. A me piacciono molto i versi in cui è esposta nuda sull’isola di Ebuda: “La fiera gente inospitale e cruda, alla bestia crudel nel lito espose la bellissima donna, così ignuda come Natura prima la compose. Un velo non ha pure, in che richiuda i bianchi gigli e le vermiglie rose, da non cader per luglio o per dicembre, di che son sparse le polite membre”. L’avrei vista bene
30 innamorata di Medoro», disse Andrea mentre si dirigeva per prendere il numero. «”Ecco il giudicio uman come spesso erra!”» bisbigliò senza essere sentita la donna, se avesse percepito la frase forse l’uomo sarebbe tornato indietro come colpito dalla freccia di Cupido. Arrivato alla macchinetta distributrice, vide che non c’erano più numeri disponibili, una quantità disumana di persone stava nella sala di attesa. Si rese conto che la realtà era ben lontana da quella favoleggiata dalle forze politiche. C’era questa tendenza a dire che tutto funzionava benissimo, ma non era vero, la povertà aumentava a dismisura e le famiglie, pur ostentando benessere, erano in difficoltà, nonostante tutto questo non ti potevi permettere di dire che le cose non andavano, eri preso per un disfattista. Aveva perso fiducia nelle istituzioni, le illusioni giovanili di una comunità in cui tutti si aiutassero erano scomparse a causa delle tante promesse fatte dai governi che si erano succeduti. Si ricordò una scena dell’infanzia quando uscì a fare una passeggiata con i genitori per le vie della città: camminava dando la mano a suo padre, si sentiva invincibile, la testa alta in segno di sfida al mondo. Sembrava dicesse alle persone: “Guardate, sono con Superman, lui è invincibile, è l’uomo d’acciaio, non ho paura”. Improvvisamente il tempo tese al brutto, nuvoloni minacciosi oscurarono il cielo e un forte vento cominciò a soffiare. Fu un attimo, rombò un tuono dall’intensità di migliaia di bombe e un lampo squarciò l’aria, Andrea iniziò a piangere mentre gocce violente scesero dal cielo. Suo padre lo prese in collo e gli disse di stare tranquillo perché andava tutto bene. Andrea lo strinse forte, l’odore del ferro che ormai era entrato nella sua pelle, quel metallo che lentamente sarebbe penetrato nel suo corpo fino a debellarlo, quelle braccia con muscoli potenti lo tranquillizzarono. Non andava per niente bene, ma aveva fiducia in suo padre, la sicurezza di quell’uomo lo rasserenava. Ora era diverso, le parole dei politici non riuscivano più a farlo, anzi lo deprimevano ancora di più. Malinconico tornò indietro e si fermò davanti alla segretaria. «Ho paura che sarà costretta a rivedermi», le disse Andrea. «Che è successo?» chiese la presunta Angelica.
31 «Non ci sono più numeri, sono tanti a cercare lavoro, però va tutto bene!» rispose ironicamente. «Come mai è alla ricerca?» domandò la donna. «Io sono in cerca», rispose Andrea strizzandole l’occhio. La donna lo guardò leggermente di traverso, ma lui tranquillamente continuò a parlare: «Mi sono licenziato e vorrei un nuovo impiego. So che sembra comico, ma non desidero guadagnare, voglio sopravvivere. Non so quanti anni mi rimangono, ma vorrei trascorrerli in tranquillità e soprattutto a leggere.» «Le piace farlo?» chiese la segretaria. «Sì, ora sto leggendo Il sogno di un uomo ridicolo.» «Se dice freddure come la precedente direi che può esserne il protagonista», commentò ridendo la donna. «È vero, mi sento come Fedor, personaggio principale del romanzo di Dostoevskij, come lui non capisco bene se sto vivendo un sogno oppure la realtà. L’ennesima forma di delitto e castigo», rispose l’uomo continuando a guardarla negli occhi. Per darsi un’aria ancor più da uomo colto aggiunse: «Dostoevskij è un importante romanziere russo, lo sa?» «Ho letto tutto Dostoevskij!» disse sorridendo la donna. «Ha anche visto tutti i film di Woody Allen?» puntualizzò Andrea. «Non capisco», disse la donna. «In un film del regista, il protagonista, professore di filosofia, parla a un’allieva del novelliere russo e lei recita la frase che ha appena detto.» «Lei non mi crede?» «Tranquilla, nessun problema.» «Ma l’uomo è tanto incline alla sistematicità e alla deduzione astratta che è pronto a deformare premeditatamente la verità, pronto nel chiudere occhi e orecchi, pur di giustificare la propria logica.» Andrea rimase abbagliato da quelle parole: mentre lei citava una frase de Il sottosuolo lui la guardava negli occhi, vedeva il movimento delle labbra. Rimase fermo in una specie di catalessi. «Sveglia, lei ha la fede al dito, non può rimanere come un baccalà davanti a una donna. Ascolti, se vuole possiamo pranzare insieme e
32 nel pomeriggio la porto io dal delegato, anche se l’ufficio è chiuso al pubblico.» «Farebbe questo per me?» si meravigliò Andrea. «Da buon maschilista non ritiene che io abbia letto tutto Dostoevskij, devo farla ricredere», disse con voce ferma la donna. «Grazie, lei è Angelica!» «In realtà il mio nome è un altro.» «E quale sarebbe?» chiese curioso l’uomo. «Katerina Ivanovna, ma mi piace farmi chiamare Kate. E lei?» L’uomo cercò una frase a effetto, ma ne scelse una banalissima, tra l’altro detta balbettando: «Andrea, Andrea Neri.» «Non ha lo stesso fascino di James Bond ma va bene lo stesso», disse ridendo Kate. «Mi aspetti fuori nella piazza alla chiusura.» «D’accordo, ci vediamo più tardi.» Uscì nella piazza con una forte euforia addosso, non era successo niente di particolare se non che una persona gentile lo voleva aiutare. Andrea, però, era capace di passare dagli stati depressivi a quelli di gioia per minimi dettagli, nella sua immaginazione Kate aveva subito il suo fascino. Adorava inventarsi con la fantasia universi paralleli in cui tutto andava come desiderava. Vide una panchina libera e corse a sedersi chiudendo gli occhi in modo da vivere quella realtà alternativa in santa pace. «Andrea, Andrea, sveglia!» Andrea ebbe un sobbalzo e aprì gli occhi vedendo davanti a sé il suo amico Faruk. «Ciao, devo essermi appisolato», disse Andrea guardando l’orologio e notando che aveva dormito per più di mezz’ora. «Immagino», affermò l’altro. «Ti ho visto dormiente mentre passavo più di mezz’ora fa e ora sei sempre qui.» «Stavo facendo uno strano sogno. Ero seduto su questa panchina e, alzando lo sguardo, vedevo il cielo a strati di vari colori, ma dall’aspetto gelatinoso, come fosse di marmellata, gli alberi non erano più questi platani e acacie, ma apparivano più bassi con le foglie piccole e strette, carichi di minuscoli frutti arancioni. Osservavo meglio ed erano mandarini: che mi stava accadendo? In terra migliaia di fiori gialli e verdi fatti di cellofan, sulla sinistra un
33 ponte di legno che sovrastava un piccolo fiume dove navigavano barche di carta. Mi sentii chiamare e mi voltai, rispondendo molto lentamente: mi venne incontro una ragazza dai capelli neri e il sorriso molto affascinante, con un vestitino di lino bianco e a piedi nudi. Quando fu vicino a me, la guardai negli occhi e rimasi folgorato perché erano due caleidoscopi, in cui le forme e i colori variavano a ritmo vertiginoso. Rimasi concentrato su quello splendore e mi parve di vedere il popoloso mare, l’alba e la sera, vidi infiniti occhi vicini che si fissavano in me come in uno specchio, vidi tutti gli occhi del pianeta e nessuno mi rifletteva, vidi il cortile interno di una casa, vidi grappoli, neve, tabacco, vapor d’acqua, vidi la prima edizione di Ulisse di Joyce, vidi insieme il giorno e la notte, vidi un astrolabio persiano. Stavo forse vedendo l’aleph? Era forse davvero quello l’oggetto segreto e supposto il cui nome usurpano gli uomini e che nessuno aveva mai contemplato, cioè l’inconcepibile universo? Era bellissimo e stavo annegando i miei dispiaceri, mi sentivo forte. Provai a camminare, il passo era leggero come se non esistesse gravità e provai a oltrepassare il ponte. Sull’altra riva vidi un tavolo e sedute intorno a esso tre persone. Li riconobbi subito, erano Proust, Tolstoj e Hugo. Iniziai a correre per avvicinarmi a loro, ma in quel momento tu mi hai svegliato. Pensa se li avessi raggiunti quante domande gli avrei potuto rivolgere.» «Dove stavi andando?» chiese Andrea a Faruk. «Stavo andando a comprare del pane ci vediamo presto», rispose il marocchino con un sorriso. «Ciao», rispose Andrea che lo invidiava per la sua felicità. *** )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD
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