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PAOLO BRANDI
L’ALTRUISTA
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L’ALTRUISTA Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-853-4 Copertina: illustrazione Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
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DIARIO DI MARCO GALLETTI
Fosso di Guardia 5/12/2013 Una settimana fa ho inoltrato domanda scritta per ottenere carta, penna e calamaio; qui dentro anche per andare a farsi una doccia è obbligatoria una richiesta che poi qualcun altro correda di timbri, visti e una minuscola sigla che significa “va bene”. Dopo due giorni è venuto a trovarmi il dottor Maurizio Giannelli, direttore dell’ospedale psichiatrico giudiziario di Fosso di Guardia. Un tipo simpatico. Dispensa sorrisi e strette di mano a tutti i pazienti, specialmente a quelli che portano il peso di almeno due morti ammazzati sulla coscienza. Non ho ancora capito se gli piaccia fare il missionario dentro a questo girone di dannati - pare che frequenti regolarmente un gruppo di preghiera e questo spiegherebbe la cosa - oppure sia solo un ruffiano, convinto che coloro che hanno spedito al creatore più di una persona abbiano la tendenza a fare casino e dunque, per evitare problemi, sia necessario dedicargli un surplus di attenzione. Per quel che ci capisco credo che lo faccia per tutti e due i motivi. Il desiderio di redimere i peccatori combacia perfettamente con la necessità di scansare le grane. Un atteggiamento abbastanza diffuso tra coloro che professano una fede salda. La redenzione è una mozione d’ordine, significa mettere tutti in fila, ognuno nel posto che Dio nella sua infinita saggezza gli ha assegnato da sempre. Rimango convinto che nonostante la sua apparente umanità, se qualcuno di noi andasse fuori dalle righe una bella lisciatina di pelo a base di cazzotti, docce gelate e letto di contenzione non gliela leverebbe nessuno. Il direttore è un brav’uomo, fin quando gli conviene. Qualunque sia la ragione, con me quel giorno è stato una pasta. Mi ha preso da parte gentilissimo, quasi confidenziale: «Mi dicono che lei ha richiesto una risma di carta, un calamaio con inchiostro azzurro, una cannuccia a sezione tonda e una serie di pennini a punta flessibile. Una pretesa davvero insolita, caro Galletti. Non sarebbe più semplice una bella stilografica o ancora meglio una penna a sfera?
4 Guardi, ne ho giusto una in ufficio bellissima: una Aurora laccata nero e oro, gliela presto volentieri.» Lo guardai pieno di gratitudine, la sua cortesia meritava una spiegazione. «Caro direttore la ringrazio per la premura, ma scrivere non è solo un fatto meccanico. Indubbiamente se dovessi rompere il muro di questa stanza forse le chiederei un martello pneumatico e non una mazza, durerei sicuramente meno fatica. Ma scrivere è un’altra cosa, per raccontare la mia storia una stilografica o una biro non sono sufficienti. Ho voglia di far scorrere sul foglio il pennino gocciolante, regolando l’inclinazione a quarantacinque gradi per avere un tratto perfetto, come mi hanno insegnato nei primi anni di scuola. Chi ha avuto la fortuna di scrivere con penna e inchiostro vi parlerà di una sensazione eccitante. Solo in quel modo prendiamo coscienza che un racconto non è solo trasferire sulla carta le emozioni ma può diventare un misto di memoria e chimica. Le lettere iniziano a dire qualcosa solo dopo che l’inchiostro si è asciugato. Fino a quel momento basta una distrazione e c’è il pericolo di sbaffare tutto perdendo scritto e pensieri. Il bello è stare lì ad aspettare che il liquido faccia la sua crosticina e si trasformi in una parola compiuta, in una frase, in un racconto e se uno ha molte cose da dire perfino in un libro.» Il dottor Giannelli mi osservò come fossi una bestia rara, ci stette un po’ a pensare e poi col tono paterno che il maestro usa verso l’alunno testardo mi disse: «Capisco. Le auguro solo che abbia la mano ferma.» Troppo tardi si accorse della gaffe. Come si può pensare che un uomo che ha mandato sotto terra quattro individui piantandogli una pallottola in mezzo alla fronte non abbia la mano ferma? “Fori perfetti, senza imperfezioni. Un lavoro di cesello che solo un’abile artigiano poteva fare, un’opera da amanuense” …così li ha definiti a suo tempo un giornalista in un bell’articolone a quattro colonne. Quando qualcuno dà il giusto valore alle tue fatiche ti senti gratificato, e io non faccio eccezione. Come mi facevano piacere le lodi per i prodotti che uscivano dalla mia fabbrica, allo stesso modo mi ha entusiasmato quella frase stampata in prima pagina. Il cronista aveva ragione, sparare bene è un’arte quanto lo è la bella calligrafia. Se tra mille anni gli archeologi tireranno fuori i crani fossili di quegli sventurati, penseranno che qualcuno li ha trapanati con un laser. Sono fatti davvero con perizia quei buchi di proiettile. Il direttore sorrise, non capii bene se per mascherare l’imbarazzo oppure perché si era stancato di starmi ad ascoltare.
5 «Va bene avrà, quello che ha chiesto. Però mi raccomando, attenzione alle macchie.» Un consiglio inutile. Lo sapevo per esperienza, non c’era bisogno che il dottor Giannelli me lo ricordasse. Scrivere a mano ha degli inconvenienti. Un pennino difettoso, una goccia più vischiosa delle altre, un tremore della mano ed ecco che le lettere diventavano deformi e sporche. Mi ricordo ancora gli scappellotti della signora Boccioli, la mia maestra, quando le presentavo i quaderni in disordine. “Precisione e pulizia” era il suo motto. Allora non capivo perché si affannasse tanto a insegnarci la cura nella composizione; solo adesso l’ho compreso quando, attraverso l’accuratezza dei gesti, ho quasi raggiunto la perfezione. Ma allora l’unica cosa che sentivo era il bruciore degli scapaccioni sulla mia nuca rasata. Sarà stato per questo che quando è arrivata la Bic nero di china, accompagnata dallo slogan “si scrive più scuro, si legge più chiaro” mi è sembrato di toccare il cielo con un dito. Allora l’ho celebrata come una grande conquista per il genere umano. Non dico quanto gli astronauti sulla luna ma quasi. Ci sono molte cose che semplificano la vita e la biro è stata una di quelle; se non altro mi ha evitato parecchie sberle. Io preferivo il modello “cristal”, dove si riusciva a vedere il livello dell’inchiostro. Peccato che qualche volta si inceppasse, specie con il freddo. Niente a che vedere con le penne d’oggi, quelle con la puntina super scorrevole, ionizzata, che fluidifica l’inchiostro anche a venti gradi sotto zero. A proposito, ho saputo da poco che Bic era il nome di una persona. Il nome del proprietario della fabbrica, un certo signor Marcel Bich, industriale di fama e per di più aristocratico, un barone. Fino ad allora pensavo che Bic fosse una espressione tipo gulp, wow, gasp, quelle cose che trovi nei fumetti per designare uno stato d’animo. Per me indicava la facilità di scrivere senza imbrattarsi. Vuoi scrivere ragazzo? Bic! Tutto fatto, tutto in un Bic. Invece le cose stavano in maniera diversa. Il signor barone decise di chiamare la sua creatura Bic prendendo a prestito il suo cognome. Tolse però l’H finale perché aveva da esportare le sue penne anche in Inghilterra. E la pronuncia inglese è bastarda, sarebbe venuto fuori Bitch che nella lingua di Shakespeare vuol dire “puttana”. Ritengo che fosse difficile per qualunque genitore inglese presentarsi dal cartolaio e chiedere “vorrei una puttana per il mio ragazzo”. Voglio confessarvi un gran segreto. Una cosa che non ho mai rivelato a nessuno: il signor Bich con le sue penne a sfera mi ha reso più scorrevole la vita nello stesso identico modo di come me l’hanno lubrificata le decine di puttane che ho incontrato in cinquantatre anni di esistenza.
6 A essere onesti dovrei dire trentasei perché sono da togliere i primi dieci, in cui il massimo della libidine era scambiarsi le figurine Panini, e quelli per arrivare a diciassette, periodo in cui mi sono masturbato senza pietà sbirciando riviste erotiche. Guarda caso a diciassette anni ho abbandonato gli studi e di conseguenza la Bic e sempre in quel periodo, mese più mese meno, ho smesso di farmi le seghe e ho iniziato a frequentare le donne di strada. Quindi una relazione in fin dei conti c’è. Lasci la Bic e passi alla Bitch; il signor Bich non aveva tutti i torti ad associare la sua invenzione a quelle signore. Per quanto abbastanza precoce nelle faccende di sesso, sono stato un ritardato nello studio. Anzi, a dirla tutta ero proprio duro. Ho cominciato a leggere e scrivere solo al termine della prima elementare, ci ho messo un po’ più degli altri. Fino ad allora facevo parte di quel diciotto per cento di italiani che negli anni sessanta non erano in grado nemmeno di capire quello che dicevano gli annunci mortuari. A mia discolpa ho due attenuanti: la maestra mi aveva subito preso in antipatia relegandomi all’ultimo banco, laggiù in fondo all’aula. Appoggiato alla parete, coperto da un muro di teste, mi distraevo spesso e non sentivo le spiegazioni. A quei tempi in classe eravamo una trentina ed era normale, direi fisiologico, che qualcuno rimasse indietro. Nella scuola come nella vita a qualche bischero tocca sempre l’ultimo posto della fila, quella volta era capitato a me. Il secondo motivo è che a casa non c’era un cane, non dico che avesse voglia di insegnarmi qualcosa, ma nemmeno di spingermi a studiare. Mio padre faceva i turni alla fornace dei mattoni, lavorava anche la notte e non aveva tempo di rompersi i coglioni con me. La mamma sfaccendava tutto il giorno e anche lei poveretta cosa poteva consigliarmi? Di grazia se era in grado di comprendere due righe sul giornale. Per di più il babbo è morto presto, il 16 luglio del 1965. Lo stesso giorno dell’inaugurazione del traforo del Monte Bianco. Quando si dicono le coincidenze! La sua morte ha scavato dentro di me una specie di pozzo artesiano ben più profondo e buio di una galleria. Col tempo ho tentato di riempirlo, però capita sempre qualcosa che mi ricorda che ho questo buco in mezzo al cuore. Ogni tanto avverto un piccolo smottamento e mi devo sforzare per colmare quel vuoto prima che le pareti crollino una sull’altra facendomi collassare. Sarà per questo che ho disseminato la mia esistenza di traguardi da raggiungere. Ogni volta che ne superavo, uno immediatamente pensavo al prossimo. Una tecnica che funziona quando non ci si vuol soffermare troppo sulle nostre disgrazie. Però riconosco che nonostante tutti i miei sforzi l’assenza di mio padre ha pesato nella mia vita.
7 Insomma, è dall’estate del 1965 che in famiglia siamo rimasti in tre. Io, la nonna Elide e la mamma che a quel punto, per tirare avanti, ha smesso i panni di casa ed è andata in fabbrica. Una fabbrica tessile, ci lavoravano a centinaia, quasi tutte donne. Una di quelle fabbriche che hanno fatto la storia della nostra provincia e poi alla fine, ben prima che si affacciassero i cinesi con i loro quattro stracci, ha chiuso i battenti per problemi finanziari. Allora li chiamarono così; la verità è che ci avevano mangiato un po’ tutti, dal magazziniere all’amministratore delegato. Per fortuna lei era già arrivata alla soglia della pensione e quindi grazie a un benedetto scivolino ha scampato il triste destino che attende i cassaintegrati senza speranza. Credo che fu proprio in quegli anni che maturai la decisione di non sposarmi. In questo modo ho voluto ripagare la mamma per la sua dedizione, anche se vi confesso che alla fine non è stato un gran sacrifico. Il celibato non ha coinciso nel mio caso con la castità. Il mio era una sorta di fioretto; mi ero messo in testa di dover restituire a mia madre il tempo che aveva consacrato a me, solo a me. Lei era ancora giovane quando morì il babbo, per l’esattezza aveva trentadue anni. Non sarà stata forse una gran bellezza, però qualche moscone intorno le ronzava. Erano apparsi come tafani sei mesi dopo il funerale. Uno era un vedovo benestante, avrebbe portato a corredo un paio di poderi e due figli: un maschio e una femmina. A occhio e croce sembrava una brava persona, anche se il fiato gli puzzava di cipolla e si lavava quando se lo ricordava. Non furono però quei difetti ad allontanarlo dalla mamma ma il fatto che lei avesse ormai preso la decisione di tirare avanti da sola; credo che la spaventassero anche quei due ragazzetti un po’ più grandi di me. Non se la sentiva proprio di lasciare la fabbrica per dedicarsi a una famiglia che non sarebbe mai stata la sua. Ero io la sua famiglia. Furono le stesse, identiche cose, che ripeté al secondo pretendente, uno scapolo già anziano che riscuoteva la pensione da ferroviere. Lui era solo, non aveva nemmeno un parente, un nipote o un cugino alla lontana. Mia madre mi chiamò in causa ancora una volta “devo pensare a Marco”. Ma in quell’occasione disse una bugia. Con quel tipo le cose sarebbero cambiate poco per noi. Ma lei ebbe paura della solitudine che da sempre accompagnava i passi di quell’uomo, se la trascinava dietro come uno strascico, i suoi vestiti sapevano di muffa, odoravano di stanze chiuse. Il ferroviere in pensione da troppo tempo era diventato il secondino di se stesso, e mia madre non volle attraversare la porta della sua prigione e rimanere ingabbiata per sempre. Solo col passare del tempo ho capito che il debito contratto con mia madre mi è servito a giustificare l’indolente pigrizia dei miei sentimenti.
8 Un giorno una mia ex fidanzata mi disse che ero incapace di amare perché “amare è mettere la nostra felicità in comune con la felicità di un altro” e io essendo un uomo perennemente infelice, cosa mai potevo portare in dote se non la mia grande tristezza? Lì per lì ci rimasi male, colpito dalla profondità di quel ragionamento. Poi un giorno scartando un bacio Perugina trovai scritta sull’involucro del cioccolatino la medesima frase che quella ragazza mi aveva recitato con grande trasporto. Era passato un po’ di tempo, altrimenti niente mi avrebbe trattenuto dal chiamarla al telefono e spedirla a quel paese, lei e la sua massima filosofica impressa sulla carta stagnola. Riflettendoci, io non ero e non sono infelice. Il mio problema semmai risiedeva nel fatto opposto, stavo fin troppo bene. Ero figlio unico, circondato da mille attenzioni. Vi faccio solo un esempio: allo scoccare dei quattordici anni come regalo mi comperarono un motorino da cross fantastico per l’epoca. Si trattava di un Milani a sei marce, quello col motore Minarelli P6 e la “coda” che funzionava anche da parafango. Per quanto ne so lo avevamo soltanto in due nel circondario: io e il figliolo di un meccanico che lo adoperava per le corse. Feci crepare di invidia un sacco di gente. Insomma, non me la passavo male. E anche dopo, quando sono cresciuto, ritengo di esser stato fortunato. Fino a che è vissuta nonna Elide abbiamo abitato nella casa in periferia che i miei nonni avevano tirato su mattone dopo mattone a prezzo di mille sacrifici. Una di quelle case che sembrano disegnate da un bambino sopra un foglio a quadretti. L’ingresso al centro, quattro finestre e un tetto a padiglione. A seconda di quale porta sceglievamo per uscire ci trovavamo miracolosamente in due mondi diversi: l’entrata principale dava su di una strada asfaltata di fresco, da quella parte era già città. Sul retro invece si apriva la campagna, con i campi ancora coltivati e qualche biscia che scappava dai fossi. Oggi quel luogo non lo riconosco più. La vecchia dimora dei Galletti è sparita. Al suo posto hanno tirato su un condominio bianco e giallo e al pianoterra c’è un discount. Quando l’impresa edile Chelazzi propose di acquistare la casa e i due campi che avevamo dietro, gli unici rimasti verdi in quella schifosa periferia, non ci pensai due volte. Mi madre protestò, più per un fatto affettivo che non per altro, ma non c’era nessuno a sostenerla, la nonna se ne era andata da qualche mese. Le decisioni spettavano all’uomo di famiglia. Con i soldi del Chelazzi ho comprato una casa in collina che col tempo e qualche variante al piano regolatore è diventata una bella villa. È stato uno dei migliori investimenti della mia vita.
9 Mia madre ha continuato ad abitare insieme a me, in una dépendance che ho realizzato al posto di un vecchio fienile. Non sta troppo bene ultimamente, cammina male e ogni tanto vaneggia, per questo le ho preso una badante ucraina che la segue notte e giorno, una brava donna ma brutta come il peccato. L’ho scelta di proposito così per non cadere in tentazione, mi conosco, non avrei resistito dal metterle le mani addosso e qualche problema sarebbe venuto fuori. Invece Katia è tonda più di un pallone, ha due gambe come salsicce e il muso largo quanto una padella e in più tre figlioli vicino a Donetsk. Un posto pieno di fumose acciaierie i cui prodotti migliori, a quel che mi dice lei, sono rappresentati dal saltatore con l’asta Serhij Bubka e dalla squadra di calcio dello Shakhtar. Brutta è brutta, però è adatta a fare il suo mestiere e mia madre con lei sta proprio bene. La mia vecchia camperà cent’anni, meglio così, è diventata il miglior alibi quando qualche rompicoglioni mi stressa con la storia della moglie. “Ma perché non ti sposi, la vecchiaia da soli è brutta, se un giorno avrai bisogno non avrai nessuno” e altre amenità di questo tipo. Ovviamente li mando tutti a farsi fottere specificandogli che “devo pensare a mia madre”. Passo per un mammone ma non me ne frega niente, arrivato a questa età chi me lo fa fare di mettermi una donna in casa? Ho tutte le donne che voglio, pagandole si intende, entro ed esco quando mi pare, mi diverto e alla fine ho da rendere conto solo a me stesso. Sono un grande egoista, è vero, ma non faccio del male a nessuno e anche tutto quello che è accaduto dopo non c’entra niente col fatto di non avere una moglie e dei figli. Avrei seguito la medesima strada, anzi a dirla tutta l’avrei fatto con più ragione per difendere con le unghie e con i denti la mia discendenza. Non so se queste cose abbiano connessione con la mia vicenda, forse sono solo ricordi. Di una cosa sono però certo, la perdita di mio padre alla lunga mi ha irrobustito e ha reso vigorosa la mia presa. Ci vuole un bel polso per tenere stretta una Smith and Wesson 460 Magnum. Ma questa sicurezza è venuta dopo. Da piccolo mi sentivo molto, molto più fragile dei miei amici che invece il padre ce l’avevano. Più che un orfano mi ritenevo un reietto, uno di quelli che senza essere malati covano in corpo qualche strano disturbo che fa stare a distanza le persone. Io invece avevo bisogno di stare vicino alla gente. Per questo ogni giorno, a partire dai sei anni, trovavo sempre
10 il modo di fare a pugni con qualcuno; tirare sberle mi restituiva la fiducia in me stesso. Quando il cazzotto incontra la cartilagine del naso e la senti crocchiare, in quel momento avverti che la tua mano è potente, il tuo braccio è forte e tu esisti, sei vivo. La maestra mi definì un caso difficile, evitai per un soffio le differenziali. Non so perché vi racconto queste cose. Non cerco giustificazioni o alibi per quello che ho fatto, anzi se potessi lo rifarei moltiplicato per mille. Forse raccontare la mia storia serve solo a me, forse sono io a cercare un motivo per dirmi: “Bravo Marco, hai fatto bene!”.
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UNA VITA TRA SALITE E DISCESE
Lo studio, l’avrete capito, non era la mia più grande passione e il fatto che mia madre tornasse sempre dopo le sei del pomeriggio rappresentava una vera pacchia. Nessuno mi controllava. Il giorno mangiavo qualcosa insieme alla nonna e poi filavo via con la scusa di andare a fare i compiti da qualche amico. Bugiardo quanto un epitaffio. Approfittavo del fatto che la povera vecchia, cioè a me sembrava vecchia anche se avrà avuto si e no sessant’anni, mi lasciasse andar via volentieri. Doveva badare ai polli, ai conigli, alle faraone e a tutta l’arca di Noè sistemata in una serie di catapecchie vicino casa. “Vado a studiare” questa frase per lei assumeva un alone magico e dopo averla pronunciata tutto mi era concesso. Se avevo da fare i compiti potevo andare in giro da solo e starmene fuori tutto il pomeriggio. Ma i libri non li vedevo nemmeno di striscio. Passavo ore dal Grillo che riparava biciclette e motorini, allora era tutta roba di ferro e acciaio, i materiali che vanno di moda oggi: carbonio, titanio e cose simili non sapevamo nemmeno che cosa fossero. È da lui che ho imparato a saldare, a lavorare col cacciavite e le chiavi inglesi. Quando mi stufavo andavo di corsa da Amilcare il ceramista, un autentico artista nel suo genere. Mentre girava il tornio e dava forma all’argilla mi sembrava un mago. Lo guardavo estasiato tracciare con un pennellino i frutti, i fiori e gli uccellini che andavano a decorare coppi e piatti. Quell’ambiente mi è stato utile per capire quanto sia importante la precisione, l’attenzione ai particolari, insomma quella che oggi i grandi economisti chiamano qualità del prodotto. Terminai la scuola dell’obbligo con un anno di ritardo, dovuto a una bocciatura in seconda media. Non ricordo nemmeno perché mi fecero ripetere l’anno, di quel periodo rammento solo una brutta figura all’interrogazione di storia, quando la professoressa mi chiese “cos’è il foro Romano” e io senza pensarci troppo risposi “un buco”. La classe si mise tutta a ridere e io finii la lezione fuori dalla porta. Ma sicuramente non è stato quello il motivo della mancata promozione; se c’era una ragione - e sicuramente c’era - l’avevo completamente dimenticata.
12 Solo qualche anno fa mi si è aperto uno sprazzo nella memoria, quando un mio compagno di classe di allora mi ricordò che a quei tempi non passava giorno che non combinassi qualche casino a scuola. Io mi ricordavo solo le solenni scazzottate fuori del cancello; quando mi picchiavo con qualcuno lo facevo sempre oltre il perimetro della scuola, l’aula per me era una specie di recinto sacro e i conti li sistemavo all’uscita. «Possibile che non ti rammenti nulla?» mi disse Mariolino. Mariolino se ne era andato anni prima a lavorare in ferrovia nel nord Italia e lì aveva conosciuto una specie di stambecco a due gambe, se l’era spostata ed era rimasto lassù. Qualche volta tornava a trovare il fratello e fu durante una di quelle visite che lo incocciai davanti alle poste. Mi salutò festoso e iniziò a parlarmi dei tempi di scuola; con lui avevo fatto cinque anni di elementari e due di medie. Elencava nomi di insegnati, bidelli, compagni di classe. Rammentava perfino episodi strani come quando un paio di passerotti rimasero intrappolati, passando per il camino, dentro alla stufa di terracotta della scuola. Evidentemente dover ricordare gli orari dei treni gli aveva rafforzato la memoria. Per parte mia gli dissi che quelle cose le avevo cancellate. Lo guardavo come se parlasse di un altro mondo, mi sembrava uno straniero in trasferta, anche perché gli anni passati al nord gli avevano cambiato l’accento. A sentire come distorceva certe vocali chiunque avrebbe pensato che fosse originario della Val Trompia. «Allora non ti ricordi nemmeno quello che combinasti in seconda media. Eppure ti è costato una bocciatura.» «Davvero? E che cosa avrei fatto?» «Non fare il baloss» che nel suo ostrogoto significa “furbetto” «hai allagato mezza scuola. Con gli stracci hai tappato gli scarichi dei lavandini per poi dare il via alle cannelle. Un mese di sospensione e bocciatura.» Le sue parole fecero riemergere dal pozzo dei ricordi una situazione che avevo sepolto. Rividi mia madre piangere e il preside che mi accusava di essere un ritardato. Adesso mi rammento che quell’estate per punizione mi mandarono a fare l’apprendista da Grillo il meccanico. Nelle intenzioni dei miei parenti c’era la voglia di mortificarmi e invece mi resero il ragazzo più felice del mondo. Preferivo stare a trafficare tra viti e bulloni piuttosto che andare a fare i tuffi al fiume con quei cazzoni dei miei amici. L’anno dopo mi comportai bene e anche in terza media non detti più patemi d’animo a mia madre, tranne una caduta col motorino, uno stramaledetto Dingo della Guzzi che avevo preso nell’officina di Grillo approfittando di una sua assenza. Stetti con il gesso per un mese e a tutti sembrò una punizione sufficiente.
13 Venni licenziato, allora si diceva così, dalla scuola dell’obbligo con la valutazione di discreto, che equivale grosso modo a un sette. Il fatto di avere preso qualcosina in più della semplice sufficienza montò un po’ la testa alla mamma che mi regalò il famoso Milani iniziando a fare un sacco di progetti su di me. Sul mio futuro destino nacquero due scuole di pensiero. Lei voleva che continuassi la scuola, propendeva per ragioneria per il semplice motivo che in fabbrica i ragionieri stavano meglio degli operai. Mio zio, l’unico maschio della famiglia che portasse il mio cognome, insisteva perché andassi a imparare un mestiere, in questo la nonna lo appoggiava, convinta che era meglio un uovo oggi che una gallina domani. Cioè era meglio avere subito uno stipendio, per quanto misero, che una paga migliore dopo qualche anno. Alla fine venne trovato un ragionevole compromesso. Mi iscrissero all’Istituto Professionale “Brandimarti” sezione orafi. Una scuola che durava tre anni, dalla quale sarei uscito con un bel diploma che avrebbe fatto di me un operaio specializzato in un settore che in città stava diventando sempre più importante. Ringrazierò sempre Dio per aver illuminato la mente dei miei parenti. Non fu una passeggiata, però per me quella diventò la scuola con la S maiuscola, quella cioè dove si impara qualcosa di utile. Purtroppo c’erano italiano, matematica e geografia, tutta roba che per fortuna passava in secondo piano davanti a materie come incisone, disegno, sbalzo, cesello, arte. Nel laboratorio mi sentivo a casa e le cose che avevo imparato girovagando tra l’officina di Grillo e la bottega di Amilcare mi servirono finalmente a qualcosa. Al termine dei tre anni non conoscevo ancora la data della battaglia di Milazzo, però sapevo saldare alla perfezione, sbalzare il metallo e cesellare a regola d’arte. Chiusi il triennio a pieni voti. Allora non era come oggi che i ragazzi che escono da scuola fanno una fatica incredibile per trovare un lavoro, quando lo trovano. A quel tempo, si parla dei primi anni settanta, le ditte facevano la fila per accaparrarsi i migliori alunni delle scuole professionali. Il mercato tirava e c’era bisogno di gente capace. Chi aveva una fabbrica si informava dai professori per sapere chi erano i più bravi e poi passavano all’attacco. Una settimana dopo il diploma mi vennero a cercare in tre. I titolari di due ditte affermate e quello di un piccolo laboratorio. Il pensiero di andare in una grossa azienda non mi allettava per niente. Sarei stato solo un numero, messo lì, in mezzo a tanti, non avrei migliorato di n’anticchia il mio livello, per usare l’espressione di un mio amico siciliano. Aspettare col fuoco al culo l’ora di timbrare il cartellino non faceva per me. No, già allora volevo qualcosa di più.
14 «Se vieni da me comincerai come apprendista» mi disse il proprietario della fabbrichetta «però se ti dimostri valido in poco tempo puoi salire in alto, abbiamo bisogno di ragazzi con le palle. Uno dei tuoi insegnati mi ha detto che sei uno che capisce al volo le cose, mi piacerebbe che tu imparassi il lavoro di preparatore.» Il preparatore, per chi non lo sapesse, rappresenta l’élite dell’operaio orafo, è quello che fonde, sistema i fili e le lastre e li prepara, da qui il nome, per il banco dove verranno assemblati. La proposta mi sembrava buona e accettai. E poi quel riferimento alle palle suonava come una sfida e Dio solo sa se le sfide mi piacciono.
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IN FABBRICA
Iniziai a lavorare subito dopo le vacanze estive. La fabbrica era in un piccolo capannone di periferia. Prima doveva esserci stata un’autorimessa di camion, ancora si sentiva in giro odore d’olio minerale e nafta. Pochi operai, la maggior parte giovani e con lo spirito giusto. Ragazzi a posto che non giocavano per se stessi ma per la maglia. Una lezione che mi sono portato sempre dietro nella vita: oggi lo chiamerebbero gioco di squadra. In mezzo a loro ci stavo bene, ho sempre odiato i posti dove la gente si guarda in cagnesco e te lo tira al culo per farsi bella agli occhi del padrone. Anche quando ho avuto la fortuna di passare da dipendente a imprenditore ho sempre diffidato di chi faceva la spia oppure metteva in cattiva luce i compagni. Questa gente oggi ti lecca gli stivali ma domani è la prima a voltarti le spalle. Per parte mia osservavo e imparavo in fretta. Madre natura mi ha regalato una grande abilità con le mani e così riuscivo bene in cose che ad altri costavano un sacco di fatica. In breve mi resi conto che lavorando sodo potevo diventare uno in gamba. Ma tenni per me questa convinzione. L’invidia è una brutta bestia e corrode peggio dell’acido muriatico. I miei colleghi erano tutti ottime persone, però il tarlo maledetto della gelosia non risparmia nessuno e poteva accadere, anzi sarebbe successo di sicuro, che qualche vecchio operario nel vedere un apprendista diventare più capace di uno specializzato non gradisse. Meglio evitare problemi. Mi conveniva per un po’ fare il finto tonto, tant’è che qualcuno dei miei compagni di allora continua a considerarmi un coglionaccio e non si spiega come abbia potuto mettere su un’impresa e fare i soldi. Dunque cercavo di mettermi in evidenza il meno possibile, però chi aveva l’occhio per queste cose vedendomi al lavoro capiva subito che ci sapevo fare. Per non avere beghe rimanevo defilato anche durante la pausa pranzo. In quel posto non c’era la mensa e ognuno si portava il gavettino da casa. Un giorno, mentre me ne stavo sul piazzale tranquillo e beato a gustarmi i maccheroni al sugo d’ocio della nonna, mi sento chiamare dal capo fabbrica, un tipo smilzo con gli occhi azzurri come il mare. Per i miei gusti erano troppo azzurri per essere quelli di un uomo.
16 «Marco, puoi venire un secondo?» Mi portò dietro l’angolo come se dovesse confidarmi un gran segreto mettendomi un braccio sopra alla spalla. Lì per lì non sapevo che pensare. Non vi nascondo che sul capo fabbrica circolava qualche voce strana. Si diceva che gli piacessero sia gli uomini che le donne, come mi disse un mio amico “gli fa tanto un tordo che una cesena”. Ovviamente per cesena non intendeva l’omonima città ma il volatile che porta questo nome. Insomma lo seguii un po’ preoccupato. «Ti piacerebbe guadagnare qualche extra?» mi chiese senza preamboli. “Ci siamo” pensai “sta a vedere che ora mi invita a seguirlo al bagno. Vero iddio, gli stampo un cazzotto nel muso e poi quel che succede, succede.” Mi sbagliavo. «Ho visto che te la cavi bene a trattare il metallo.» «Sì, è un lavoro che mi piace.» «Ti faccio una proposta, liberissimo di rifiutare sia chiaro. Ti chiedo solo una gentilezza, nel caso tu scartassi l’idea tieni la bocca cucita.» Si guardò in giro sospettoso, sono convinto che lo fece più per scena che per altro. «Ci può contare.» «Hai notato che il titolare va a mangiare a casa e torna dopo un paio d’ore?» «L’ho visto, è uno dei privilegi della carica» risposi sorridendo. «Lui mangia a una tavola apparecchiata, però anche noi possiamo ricavare qualche piccolo vantaggio dalla sua assenza. Per esempio trasformando l’ora di pausa in denaro.» «In che modo?» domandai interessato «Per esempio utilizzando i macchinari per schiacciare il filo per qualche altra ditta. Oro o argento a seconda dei casi. Ti va?» «Se il compenso è buono, perché no?» Mettere in tasca qualche soldo in più non mi faceva schifo, e già da allora avevo stabilito di lavorare non solo per vivere ma anche per guadagnare. Era bastato poco perché mi rendessi conto che nell’ambiente orafo sgobbando di brutto ci si potevano levare parecchie soddisfazioni. Era un po’ come il Far West, chi era più furbo e aveva un pizzico di spregiudicatezza poteva fare dei bei soldoni. «L’avevo visto che eri un ragazzo sveglio» e mi fece l’occhiolino. Quel gesto confidenziale non mi piacque per niente, viste le dicerie che correvano sul suo conto, ma accettai il complimento con un sorriso disarmante, da puttanella. «Ti do cinquecento lire al giorno.»
17 Feci due conti. Cinquecento lire al giorno voleva dire duemila e cinquecento lire alla settimana, cioè diecimila al mese. Considerato che allora portavo a casa quarantamila lire in busta, paga significava aumentare il mio stipendio di un quarto con poche ore di lavoro in più. Mi sembrò un discreto affare. Rapportato a oggi sembrerebbero cifre da poco, ma tenete conto che allora un pacchetto di Marlboro costava meno di trecento lire. Insomma, era un inizio. Da quel momento invece della pasta mi portai in tasca un panino che trangugiavo in fretta mentre con le mani schiacciavo il filo. Rimasi in quella ditta per due anni. Tempo sufficiente per diventare un buon preparatore, anzi uno dei più promettenti giovani sulla piazza. Ormai lì dentro ci stavo stretto e cominciai a guardarmi intorno. Non ebbi bisogno di andare molto lontano. La mia reputazione viaggiava veloce nel nostro piccolo mondo e così un giorno mi venne a trovare a casa il signor Adelmo Incerti, titolare della A&O, da non confondere con il supermercato che porta lo stesso nome. A&O voleva dire Argento & Oro. La sua era una fabbrica abbastanza grande, a quei tempi dava lavoro una trentina di persone. Il signor Incerti lo conoscevo di vista perché ogni tanto capitava da noi a prendere dei semi lavorati. Per come mi parlò, sembrava che lui invece mi conoscesse da sempre. «Allora Marco, come va il lavoro?» «Bene grazie.» Non la feci tanto lunga, volevo capire il motivo di quella visita inaspettata. «Il tuo capo fabbrica mi dice che sei molto bravo.» «Il mio capo fabbrica è troppo buono.» «Ascoltami, io non ho tanto tempo da perdere. Ti faccio un’offerta. Ti va di venire a lavorare da me?» «Dipende…» «Queste sono le condizioni: ti assumo come operaio e ti aumento lo stipendio di ventimila lire al mese, più il premio di produzione.» La cosa si presentava allettante. Sapevo bene che in una fabbrica come quella il premio di produzione significava raddoppiare lo stipendio. Per altro esentasse, rigorosamente al nero. «Per me va bene.» Accettai senza riflettere troppo; se mi fossi trovato male, dopo due giorni altre dieci ditte sarebbero state disposte ad assumermi. A quei tempi funzionava così, il lavoro non mancava e se solo avevi un po’ di voglia non c’erano problemi. Se poi eri anche bravo ti venivano perfino a inseguire per strada.
18 Tutto il contrario di quello che avviene oggi dove tra tasse, burocrazia, banche, ditte turche e cinesi ci hanno messo tutti col culo per terra e un ragazzo non trova un cane disposto a farlo lavorare. Allora era un altro mondo, parlo del 1975. Me lo ricordo bene quell’anno. Intanto perché finivo diciotto anni ed entravo nella maggiore età, secondo perché era stato proclamato da papa Paolo VI il giubileo. Cosa c’entra il giubileo con la mia storia? C’entra e ora vi spiego il motivo. Il giubileo è la ragione principale del perché il signor Incerti aveva tanta fretta di assumermi. Passati due giorni dal mio ingresso in fabbrica mi convocò in ufficio. Sempre che ufficio si possa chiamare un bugigattolo accanto agli spogliatoi, semi illuminato da una finestrella stretta e per arredo un tavolo, due sedie, un telefono e un calendario di donne nude, di quelli che regalano i carrozzieri. Ma era lì che il titolare prendeva le decisioni importanti. L’odore di chiuso gli esaltava i sensi, come a un ratto di fogna. L’ufficio di rappresentanza con poltroncine in pelle e tavolo di vetro lo utilizzava solo quando aveva da ricevere qualche cliente importante. Per il resto trascorreva il tempo tra quella topaia e i banconi dove saldava, montava i pezzi e sorvegliava il lavoro. «Allora, come va?» «Tutto bene.» «Ti ho chiamato perché volevo farti vedere questi» e tirò fuori una serie di disegni con croci, madonne, cristi sofferenti e risorti. «Dobbiamo essere più veloci della luce per mettere in produzione questa roba. È un affare grosso, tra due mesi deve essere tutto pronto.» Lo guardai poco convinto. «Bisognerà lavorare giorno e notte.» «E noi lavoreremo giorno e notte. Un’occasione così non ci ricapita più.» L’anno santo fu la fortuna della A&O. Dopo poco mi dissero che quel gran figlio di puttana di Adelmo aveva dei buoni agganci in Vaticano. Un suo bis cugino prete svolgeva le funzioni di segretario per un cardinale, uno di quelli che contavano nell’organizzazione di quel grandioso evento. Insomma a furia di spinte, spintarelle e donazioni a qualche ente ecclesiastico la A&O si era aggiudicata la fornitura di un bel po’ di oggettini sacri, articoli che in quell’anno santo andarono a ruba. Purtroppo il signor Incerti non ebbe molto tempo per godersi quella pioggia d’oro. Tre mesi dopo la fine del giubileo un coccolone se lo portò via all’improvviso. L’azienda passò in mano ai due figli Piero e Aldo, due ragazzotti che pensavano più alle auto e alle donne che non alla fabbrica. Il timone ri-
19 mase a un vecchio commercialista che tempo un anno si mangiò pane e companatico facendo affondare la A&O nei debiti. Per fortuna io avevo capito per tempo l’antifona e meditavo già da un po’ di levarmi dalle scatole. La decisione definitiva la presi durante il funerale del povero Adelmo. Mi ricordo come fosse oggi che mi trovavo dietro alla terza colonna di destra della navata centrale. Accanto a me si appoggiò un tipo vestito con un logoro abito di fustagno, scarpe grosse e sformate, non aveva nemmeno la cravatta e teneva il collo della camicia di flanella abbottonato. A vederlo chiunque avrebbe pensato di trovarsi davanti a un montagnino sceso in pianura per vendere la legna. Chi avesse pensato questa cosa avrebbe sbagliato, ma solo in parte. Io quel tipo lo conoscevo di fama. Si trattava di Giancarlo Lanzi, titolare della ARG1, una delle più antiche fabbriche d’argento della città, e veniva per davvero da uno dei posti più sperduti delle nostre montagne. Trent’anni prima aveva abbandonato la raccolta delle castagne e il taglio del bosco per andare a lavorare in fabbrica. Col tempo si era fatto una solida fama, prima come tornitore e poi come artigiano in proprio fino a quando non aveva fatto il gran salto diventando uno dei primi a lavorare l’argento. Da allora aveva messo insieme un bel po’ di capitale ma era rimasto un personaggio semplice, anche se dietro ai suoi panni dimessi nascondeva una volontà di ferro e una tenacia da mastino. Lo salutai con un cenno del capo. Mi si avvicinò strusciando le spalle alla colonna. Parlava sottovoce, come se pregasse. «Buon giorno signor Marco. Il povero Adelmo se n’è andato nel momento migliore, proprio ora che l’azienda aveva spiccato il volo. Era un bravo imprenditore e poi avere un cugino monsignore fa sempre comodo» aggiunse con un pizzico di malizia. Mi meravigliai che mi conoscesse per nome. Soltanto dopo seppi che il Lanzi lavorava un po’ come quei talent scout che seguono i giovani calciatori; prendeva informazioni sugli operai più validi e poi, a seconda delle necessità della sua azienda, proponeva loro di entrare a lavorare alla ARG1. Le sue offerte erano sempre seducenti, ma non tutti accettavano. Il difetto che suggeriva ad alcuni di girare alla larga era il suo carattere duro, ereditato dai suoi avi boscaioli. Non era, per dirla tutta, un tipo da mezze misure. Era raro che si incazzasse, ma quando succedeva conveniva trovare un rifugio antiatomico e aspettare che la bufera passasse. Anni dopo, durante una battuta di caccia, capitai nel posto dove Giancarlo era nato. Un gruppetto di case in pietra in cima a un cucuzzolo, intorno solo boschi e qualche radura che un tempo doveva essere un campo, alberi da frutto ormai inselvatichiti e un torrente che nei giorni di piena interrompeva la strada. Guardandomi intorno compresi bene perché il
20 Lanzi si portasse dietro quella asprezza d’animo. Per secoli la sua famiglia aveva lottato solo per arrivare alla fine della giornata, e quando si combatte per non crepare si diventa callosi oltre che nelle mani anche nell’animo. A seconda delle latitudini, la durezza si trasforma in spietatezza. Me ne sono reso conto anni dopo guardando alla TV le storie di certi narcotrafficanti sudamericani, dalle facce ho capito perché sono capaci di tagliare in due una persona con una motosega. I loro occhi sono quelli di chi ha vissuto fin da piccolo fianco a fianco con quella brutta bestia che si chiama fame. Il Lanzi aveva quegli occhi anche se credo che non avrebbe mai amputato le braccia a qualcuno. Anch’io, secondo il sentire comune, sono stato crudele. Ma quando vi illustrerò per intero la mia storia capirete che non di crudeltà si tratta, ma di amore per l’umanità, di puro altruismo. Ma ancora è presto. Per conoscere quello che è successo occorre sapere da dove sono partito. Il giorno del funerale di Adelmo il signor Lanzi mi invitò a visitare la fabbrica, una settimana dopo mi presentai al cancello. A confronto delle aziende dove avevo lavorato, quella sembrava un parco con l’erba all’inglese. Era tutto preciso, ordinato, nemmeno una vite fuori posto. Giancarlo venne personalmente sulla porta ad accogliermi. «Buon giorno Marco, sono contento che abbia deciso di farmi visita.» A differenza di molti continuava a darmi del “lei”. Ancor oggi non so se lo facesse per rispetto o per mantenere le distanze. In ogni caso mi faceva piacere. Il lei mi collocava sopra un gradino più alto rispetto a quelli in cui mi avevano abituato a stare. Il tu non mi dispiaceva, mi faceva sentire a mio agio, il componete di una grande famiglia ma il lei, al di là della barriere che creava, dava il senso di appartenere a una categoria superiore, mi caricava di responsabilità e io quelle non le ho mai scansate. Il suo ufficio era spazioso, molto diverso dal covile del mio defunto datore di lavoro. La cosa che mi colpì di più furono i mobili; non erano i soliti arredi impiallacciati che a quel tempo andavano tanto di moda. I suoi erano di legno pesante, scuro: scrivania, libreria, sedie avevano un sentore di chiesa. Accarezzai il piano del tavolo. «Vedo che apprezza l’arredamento» mi disse contento. «Mi ricorda, scusi il paragone, quello di una sagrestia.» Si mise a ridere. «Forse non è molto lontano dal vero; le sagrestie hanno arredi fatti per durare. Questi mobili li ho fatti fare apposta per questo ufficio, ma al di là dello stile quello che conta è il legno. È noce e castagno delle mie parti. Quando ho avuto un po’ di disponibilità mi sono comprato un bosco nel posto dove sono nato. E questi mobili sono fatti con il legno di quelle
21 piante. Stando qui dentro dodici ore al giorno respiro l’aria di quando ero ragazzo.» E avvicinò il naso al tavolo aspirando con voluttà. «Una bella idea» mi limitai a dire. Non ero per niente convinto che quei mobili si portassero dietro l’odore del bosco. Un albero vivo ha un profumo diverso da quello del legno morto segato, piallato e inchiodato. «Comunque non l’ho fatta venire per parlare di mobilio. Desideravo chiederle se le poteva interessare passare dalla A&O alla ARG1.» «Mi trovo bene dove sono.» Dissi una mezza verità, anzi una mezza bugia. In effetti fino ad allora non mi potevo lamentare della mia ditta, ma iniziavo ad avere molti dubbi su quello che sarebbe potuto accadere. Quei due debosciati dei figli di Adelmo non mi offrivano nessuna garanzia e anche senza essere geni della finanza si capiva che il vecchio ragioniere non dava nessun affidamento, pensava parecchio per sé ma ben poco al domani della azienda. Il Signor Lanzi sembrò leggermi nel pensiero, una cosa che avrei sperimentato anche in altre occasioni. C’era chi sosteneva che sua nonna fosse stata una specie di fattucchiera. Ma io credo che invece conoscesse bene, meglio di ogni altro, le passioni che agitano l’animo delle persone. «Non lo metto in dubbio, Incerti era una bravissima persona. Però io vedo nel prossimo futuro qualche difficoltà. Conosco Piero e Aldo, due ottimi ragazzi ma senza nessuna esperienza. In quanto al ragioniere lasciamo perdere: un fenomeno a chiacchiere, capace a fare bene i suoi affari ma non quelli degli altri. Nel nostro mondo ci vuole poco a fallire.» «Quali sarebbero le condizioni che mi offre?» chiesi senza pensarci troppo, tanto avevo capito che rimandare non sarebbe servito a niente. «Stipendio base cinquantamila lire al mese. Più altrettanti di premi, come minimo.» Una buona offerta, ma niente di eccezionale. Mi aspettavo qualcosa di più. Quello che mi fece decidere fu la sua profezia sul futuro della A&O, previsione che coincideva con le mie angosce. Aveva ragione, prima me ne andavo e meglio era. Il mese successivo iniziai a lavorare alla ARG1. L’azienda tirava a tutto vapore e stando là dentro ebbi modo di conoscere diverse altre ditte che collaboravano con noi. Oro e argento giravano a mille, sembrava di stare dentro a un caleidoscopio dove al posto dei frammenti di vetro c’erano collane, bracciali, catene, anelli. Io avevo una voglia matta di guadagnare di più e le occasioni non mancavano. Ve l’ho detto, era il Far West, bastava allungare la mano per cogliere un’opportunità.
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LAVORARE PER ME
Alcune ditte che lavoravano in conto terzi per la ARG1 mi fecero una proposta interessante che accettai subito. Investimento minimo - una bombola del gas, un cannello - e iniziai a saldare a casa ganci e chiusure nelle ore libere. Mi spezzavo la schiena. Dopo il lavoro tornavo a casa di corsa, cenavo presto e iniziavano a saldare dalle sette di sera fin verso mezzanotte, sabato e domenica mi facevo dieci ore filate. Insomma, mentre gli altri se ne stavano al bar a giocare a carte oppure facevano i cazzi loro nelle sale da ballo, io rimanevo chino su di un minuscolo banco da lavoro. Non ero il solo, un sacco di aziende orafe andavano avanti grazie ai piccoli laboratori collocati nei sottoscala oppure dentro ai garage. Erano decine quelli che come me barattavano il tempo libero con un secondo lavoro. Tutta gente di buona volontà, molti di loro alla fine sono diventati dei bravi imprenditori. La cultura di impresa non è solo quella che si insegna alle università, parecchi l’hanno imparata sulla propria pelle saldando chilometri di catene e scaldandosi con una stufetta elettrica. E oggi, dopo essersi fatti il culo per anni, a noi artigiani ci stanno asfaltando per colpa di uno stato incapace che ci riempie di leggi, di tasse, di adempimenti mentre quello che chiamano il mercato mondiale se ne strafotte delle nostre regole e galoppa come un cavallo allo stato brado. Ma allora era tutto diverso e le cose andavano bene. In sei mesi di lavoro extra guadagnai qualcosa come cinque milioni. Una bella cifra, sufficiente per comprarmi una Alfa Romeo Giulia 1300 super colore blu, interni in similpelle, cruscotto in radica e autovox stereo 8. Una bomba. Se non avessi lavorato al nero col cavolo che avrei potuto comprarla, il concessionario sarebbe rimasto con un’auto in più sulla gobba e l’Alfa Romeo avrebbe prodotto una macchina in meno. Insomma, le migliaia di persone che come me si sfiancavano per mettere in tasca qualche lira davano un bel contributo all’economia. Ovviamente le malelingue, specie quelle di chi passava il giorno a trastullarsi a briscola e tresette, entrarono subito in azione. Non si spiegavano come un semplice operaio avesse potuto comprare quella bella macchina, un’auto che possedevano in pochi. Ci fu perfino chi insinuò che avessi portato via qualche chilo d’argento dalla ditta.
23 Insieme al signor Lanzi ci facemmo due belle risate sopra a quelle cazzate. Tutti e due sapevamo che per arrivare a togliersi qualche soddisfazione bisognava lavorare sodo e non perdere tempo dietro alle donne di picche o agli assi di cuori. Per quello ci sarebbe stato tempo. Rimasi con il signor Giancarlo per circa tre anni. Il tempo sufficiente per diventare uno dei preparatori più bravi sul mercato. Da quel momento cominciai a guardarmi in giro. L’argento funzionava ma i margini che dava l’oro erano enormi, profitti incredibili e uno come me a lavorare l’argento era sprecato. Con il Lanzi fui sincero e lui lo fu altrettanto. «Mi dispiace che tu voglia andare via. Però ti capisco, hai del talento e fuori di qui potresti intascare molto, molto di più. D’altra parte voglio dirtela tutta, grazie anche te ho guadagnato bene, non sarebbe giusto trattenerti.» Mi dette la mano e ci lasciammo senza rancore. Per quanto mi riguarda io devo solo ringraziarlo. Con lui ho affinato il mestiere e soprattutto ho appreso una grande lezione di vita: ho compreso quanto nella vita di un uomo contino le radici. Sapere da dove veniamo serve a decidere in quale direzione andare. Una lezione che in molti oggi hanno dimenticato e purtroppo i risultati si vedono. Passai a una ditta più piccola, eravamo una quindicina di dipendenti. Svolgevo più funzioni, ero una sorta di capo fabbrica. E anche lo stipendio lievitò come una torta. Prendevo circa cinquecentomila lire al mese che diventavano un milione con premi e incentivi. Andate a vedere la media degli stipendi di allora e vi renderete conto che non me la passavo male. Per farvi un esempio, a quei tempi un operaio guadagnava intorno alle trecentocinquantamila lire. Quei soldi rischiarono di essere la mia dannazione. Proprio perché ogni mese portavo a casa una bella sommetta, corsi il rischio di adagiarmi sugli allori: avevo una bella macchina, qualche ragazza e per la prima volta in vita mia andai una settimana a Rimini in vacanza. Il mare fino ad allora l’avevo visto solo in due occasioni grazie alle gite organizzate dalla parrocchia, una volta al santuario di Montenero vicino a Livorno e l’altra alla Madonna di Loreto, quella volta ci portarono fino a Porto Recanati. Anche l’azienda dove lavoravo viaggiava sul velluto, produceva canna vuota per collane e bracciali e un unico cliente di Milano assorbiva l’intera produzione. Il titolare non doveva nemmeno fare lo sforzo di andare in giro con la valigetta del campionario a cercare acquirenti, ogni mese puntualmente partiva una spedizione per il nord e tutti erano contenti. Ogni cosa girava per il verso giusto, un meccanismo oleato che però induceva in tentazione, la tentazione di abbandonare il gusto del ri-
24 schio. Il troppo benessere, le cose facili spengono sul nascere la fiammella che alimenta la voglia di fare. Per fortuna una bombola di gas mi richiamò con prepotenza alla realtà. Il gas, mi pare si trattasse di GPL, stabilì intorno alle tre di una notte senza luna che era arrivato per lui il momento di evadere dalla prigione d’acciaio della bombola, forzò la valvola e iniziò la fuga. Coincidenza volle che proprio in quel momento una scintilla elettrica avesse avuto l’idea di andare a farsi una girata. Il botto disintegrò il capannone e la ditta in quattro e quattr’otto chiuse i battenti. «Danni irreparabili» dichiarò il padrone, e con i soldi dell’assicurazione aprì un ristorante ritirandosi a vita privata. I guadagni facili l’avevano fatto diventare un mollusco. «Cerca di capire» mi disse «chi me lo fa fare di stare in fabbrica tutti i santi giorni? Meglio una trattoria. La gente potrà anche smettere di comprare le collane ma non smetterà mai di mangiare.» Un calcolo errato. Diversi anni dopo, quando è iniziata la crisi vera, molti miei colleghi hanno chiuso la baracca e si sono buttati sulla ristorazione. C’è solo un piccolo problema: quando le persone hanno meno soldi in tasca, i primi costi che tagliano sono quelli delle cene e dei pranzi. E poi il mestiere di cuoco non si improvvisa. Così ho visto parecchi di quelli che all’oro hanno sostituito i tortellini far fiasco uno dietro l’altro, un catena di sant’Antonio che ancora non s’è interrotta. A essere cinici c’è un solo mestiere che anche nei momenti di difficoltà va avanti: le pompe funebri. Ma non è un lavoro per tutti e soprattutto è legato a un fattore fisiologico. Senza epidemie e guerre, in un paese come quello in cui sono nato muoiono circa centoquaranta persone all’anno, c’è lavoro al massimo per un paio di ditte. Ripensandoci oggi, quella fuga di gas fu la mia salvezza; col tempo stavo diventando come quel pappamolle del titolare, mi accontentavo. La mia spina dorsale stava assumendo la consistenza di un budino. Mi illudevo di aver raggiunto la stabilità, senza rendermi conto che nulla al mondo è stabile. Bastava guardare le macerie del capannone per capirlo; era stata sufficiente una banalissima bombola da due soldi per far saltare tutto per aria. Al mondo non esistono sicurezze, tutto è precario, e allora tanto vale azzardare. Quel botto mi proiettò in alto, come un missile, e da allora non mi sono più fermato. Almeno fino a oggi. La giostra continuava a girare a mille, il settore orafo filava a tutto vapore e per il momento nessuno avrebbe fermato quel carosello. Per non perdere l’occasione dovevo salire al volo senza pensarci due volte. Se quella sarabanda si fosse fermata, col cazzo sarebbe ripartita a quella velocità, chi voleva divertirsi doveva saltare in groppa.
25 Una bella occasione mi capitò dopo venti giorni dall’incidente della bombola. Avevo saputo che una ditta importante, quasi cento dipendenti, cercava un buon preparatore. Presi appuntamento e mi presentai la mattina dopo. Fu il titolare in persona a ricevermi. Nel nostro ambiente era un mito. Una sorta di prototipo da ammirare ma non da imitare. E adesso vi spiego il motivo. Intanto non era della nostra razza, non era per intendersi uno che veniva dalla gavetta. La sua famiglia possedeva parecchie sostanze, soldi come li definiamo noi “di cuoio”, cioè di antica data. Guadagnati in passato con la terra, col commercio del grano e l’allevamento delle vacche. Una di quelle famiglie che un tempo molto lontano erano stati contadini ma poi avevano fatto il gran salto diventando negli anni proprietari terrieri stimati e rispettati. Un avanzamento sociale ottenuto grazie al duro lavoro e a qualche matrimonio vantaggioso il tutto condito da una buona dose di prepotenza. Tanto per fare un esempio, un suo avo venne condannato a vent’anni di bagno penale per aver ucciso a fucilate un vicino per controversie di confine. Dopo quello spiacevolissimo incidente i Del Lungo, si chiamavano così, le avevano indovinate tutte. La loro fortuna all’inizio del novecento fu di possedere i terreni in cui doveva passare la ferrovia. Bernardo, il capoccia di allora, fece un gran rigirio e a furia di speculazioni guadagnò un bel po’ di milioni. In quel momento non si accontentò più di essere ricco e con abilità, conoscenze e qualche mancia riuscì a ottenere perfino un piccolo titolo nobiliare, sicché da quel momento poté fregiarsi del titolo di Nobil Homo. Fu il re Umberto in persona a insignirlo di quello status prendendo a motivo l’intraprendenza dei suoi antenati che, sebbene di umili origini, erano riusciti a raggiungere un alto livello sociale. Ovviamente il “re buono” si dimenticò nell’occasione di quel bisnonno finito a Porto Longone. Nobiltà di soldi non di sangue, ma tanto bastava. Anche solo a guardarlo si capiva che il signor Francesco Del Lungo era di un’altra classe: scarpe bicolori, vestito di lusso, cravatta intonata. Qualche maligno giurava che vestito in quel modo ci andasse pure a dormire. Ma non era quello il motivo per cui tutti lo ammiravano; una cravatta la puoi mettere anche a un maiale, ma sempre maiale rimane. Lui possedeva quel qualcosa in più che non si può comprare al mercato. Aveva iniziato la carriera di imprenditore con una ditta di carpenteria che era fallita miseramente per colpa di un appalto andato male. In quell’occasione bruciò un bel po’ di soldi ma soprattutto perse del tutto la stima del padre. Il vecchio gli chiuse i rubinetti mettendolo davanti a una drastica scelta: o tornava a occuparsi dell’azienda agricola oppure
26 poteva andare a frasi fottere. Chiunque, nelle sue condizioni, si sarebbe ritirato nella tenuta di famiglia a campare di rendita. Ma non era da lui. Il signor Francesco non si perse d’animo, mandò a quel paese il padre e i fratelli e tempo due anni, firmando un pacco di cambiali alto quanto la Bibbia, ripartì puntando sul settore orafo. A onor del vero aveva avuto la buona sorte di sposare una signora in gamba. La Carla, oltre a essere una gran bella donna, aveva un cervello sopraffino. Fu lei a spingerlo a buttarsi di nuovo nella mischia. Con la moglie al timone dell’ufficio commerciale e lui alla guida della produzione, in pochi anni l’azienda prese il volo. Sarà stato per la sua particolare inclinazione verso le cose belle, ma decise di scommettere da subito sui prodotti di fascia alta. Il catename gli faceva schifo, mirava all’alta moda ed ebbe ragione. Lui vendeva la qualità dei prodotti, non l’oro. Per farvi un esempio, le sue creazioni di oreficeria andavano intorno alle quattro, cinquemila lire al grammo quando gli altri vendevano le loro a cento lire. Per questo tutti lo ammiravano ma nessuno lo imitava. Troppo complicato pensare al design, alle presentazioni negli atelier, a un mercato di ricchi che in fin dei conti era piccola cosa di fronte alle masse sterminate pronte ad acquistare la medaglina dell’amore o il braccialetto con il corallo per il battesimo del bambino. Questo era l’uomo che mi preparavo a incontrare. Prima di entrare nel suo ufficio mi fermai un attimo con degli operai che conoscevo da tempo. «Venga, venga signor Galletti, non perda tempo con quegli sfaccendati» mi disse bonario spalancando con un gesto deciso la porta dell’ufficio. Una volta entrato la chiuse alle mie spalle con cura. La plancia di comando, come la chiamavano tutti, era arredata con gusto. Scrivania di rovere, quadri di paesaggi toscani. A me la campagna è sempre piaciuta; mi soffermai davanti a un dipinto che rappresentava un barroccio carico di paglia. «Belli vero? Sono tutte opere dei macchiaioli.» Macchiaioli era un nome che non mi diceva niente. Per me le macchie erano quelle sul vestito punto e basta. Però quelle pitture erano interessanti, le vacche maremmane erano proprio vacche e non c’era traccia di quegli sgorbi che caratterizzano l’arte moderna. Davanti al tavolo due poltroncine in pelle scura e sulla parete di fondo una mensola piena di fotografie di famiglia, dentro a una cornice d’oro il diploma di cavaliere del lavoro con tanto di medaglia annessa. Era un titolo al quale il signor Francesco teneva ben più che a quello di “Nobil Homo” concesso al suo progenitore da Sua Altezza Reale Umberto di Savoia.
27 «Si sieda» mi additò una delle poltroncine «le do subito un consiglio spassionato: non si confonda con quella gente là fuori. Sono tutti comunisti, fino al midollo.» Voleva apparire serio ma si capiva che scherzava, tant’è che dopo un secondo si mise a ridere accarezzando la capoccia in bronzo di un busto del duce che teneva sopra il tavolo. Lo sapevano anche i gatti che era fascista, ma in fabbrica non aveva mai discriminato nessuno per le idee politiche, nutriva il massimo rispetto per le persone purché facessero il loro dovere. Il bene supremo era l’azienda. Per capirsi, lui sarebbe stato capace di imbracciare il mitra contro i tedeschi se questi, come era avvenuto in qualche città del nord nel ‘44, avessero tentato di smontare i macchinari della sua fabbrica per trasferirli in Germania. «Lei non sarà mica comunista?» «Non saprei» dissi la verità. Fino a qual momento non mi ero mai posto il problema. Avevo votato cinque volte da quando avevo compiuto diciotto anni: politiche, europee, regionali, provinciali e comunali. A guidarmi nella scelta erano sempre stati argomenti che con la politica c’entravano poco. Le mie preferenze infatti risultavano piuttosto variegate: alle politiche e alle regionali per esempio avevo votato per il PCI, convinto che se il mio babbo fosse stato vivo avrebbe messo la croce sopra la bandiera rossa. O almeno questo era quello che mi dicevano a casa. Alle provinciali avevo votato per il PSI, per il solo motivo che nel collegio si candidava il padre di un mio amico. Alle europee - non ci credereste - scelsi Democrazia Proletaria, tanto non contavano un cazzo, e per finire alle comunali votai Democrazia Cristiana per far piacere alla moglie di un cugino che aveva il fratello in lista. Non ero un mostro di coerenza ma mi interessava poco, tanto il mio obbiettivo era un altro e che ci fossero i rossi, i banchi o i neri per me non sarebbe cambiata la musica. «Che significa “non saprei”? Di solito chi non mi vuol rispondere dice che non è interessato alla politica. E poi appena gli capita l’occasione vota per i rossi.» «Se lei mi domanda se sono comunista, le rispondo che non lo so, non capisco proprio cosa voglia dire essere comunista. Se essere comunista significa cercare di stare un po’ meglio tutti potrei dire di essere comunista. Ma credo che stare meglio tutti sia una aspirazione diffusa. Se invece essere comunista vuol dire diventare tutti uguali allora non lo sono.» «Ben detto.» L’avevo spiazzato Continuai, ormai avevo preso il via.
28 «Se poi essere comunisti vuol dire votare per il PCI le confesso che un paio di volte l’ho votato. Ma ho votato anche per la DC e per il PSI» tralasciai DP che forse non l’avrebbe digerita. Il Del Lungo si mise a ridere. «Una bella risposta. La prossima volta metta nel mazzo anche il MSI, così andremo d’accordo.» «Va bene.» «Ma queste sono tutte stronzate. Parliamo di cose serie. So che ha perso il lavoro per via di quel malaugurato incidente della bombola.» «Sì, purtroppo, ma sarei venuto via comunque. Pochi stimoli, ambizioni al minimo. Lo ha visto anche lei, il titolare non è ripartito e ha preferito mettersi a cucinare la pastasciutta.» «Brutta fine. Comunque mi dicono che lei è un ottimo preparatore. Per gente così da me le porte sono sempre aperte. Per quanto riguarda la paga è quella del contratto. Per il resto ne parli con mia moglie.» «Dunque sono assunto?» «È un po’ duro di testa. Certo che è assunto.» Entrare in quella ditta fu un affare da tutti i punti di vista: la busta, tra stipendio e premi, andava intorno ai due milioni e trecentomila lire al mese. Il giorno di paga era un giorno speciale, non solo perché si prendevano i soldi. Ogni dieci del mese sembrava Natale, una cerimonia all’Altare della patria non avrebbe avuto la stessa solennità. Il signor Del Lungo in quella ricorrenza arrivava sempre vestito di un completo scuro con in mano una borsa di coccodrillo piena di fogli da diecimila. Erano i famosi fuori busta, non distribuiva mai meno di venti milioni. Ripartiva le banconote in piccoli mazzetti soppesandole sul palmo della mano, poi chiamava per nome ogni dipendente consegnando quei soldi con un gesto solenne, un gesto di regale benevolenza. Ma non erano solo gli incentivi economici a stimolarmi; lavorando a contatto di gomito col titolare, compresi l’importanza delle parole “qualità” e “serietà” e quanto potessero rappresentare un valore in più da far valere sul mercato. Su questi aspetti il signor Francesco era intransigente fino alla paranoia. Nella sua ditta non si fregava sul titolo, se era 7,50 doveva essere 7,50. Altri potevano pure comportarsi diversamente spacciando per 7,50 titoli che invece erano 6,00 o 6,30. Ci guadagnavano, è vero, ma sempre rischiando il culo e il buon nome. Bastava un controllo o una contestazione per sputtanarli. La ditta Del Lungo in trent’ani di lavoro non ha mai avuto una protesta. Questo vuol dire far bene il proprio lavoro, anche la correttezza è un prodotto che alla fine si vende bene. Per coloro che non lo sanno, il titolo è la quantità di oro puro contenuta nell’oggetto. Per esempio, un titolo del 7,50 significa che su cento
29 grammi di oro ce ne devono essere settantacinque di oro puro, il resto sono leghe di rame o argento. Il titolo varia a seconda della richiesta dei mercati. L’oro puro, quello a ventuno carati per capirsi, è apprezzato in pochissimi paesi, uno tra tutti il Portogallo. In Germania va forte il titolo a 5,85, così come negli USA e in Inghilterra si piazza bene il 5,75. Il resto del mondo è innamorato del diciotto carati, cioè del 7,50. In quella fabbrica ci stavo come un topo nel formaggio. Fu proprio in quegli anni che assaporai il gusto di cacciare di frodo. Ma le prede non erano fagiani o starne bensì prosperose sposotte. Una passione per il gentil sesso che da allora non mi ha mai abbandonato, anche se nel tempo ha avuto un’evoluzione, come avrò modo di raccontarvi. Quando entrai per la prima volta in ditta mi accorsi che una buona metà del personale era composto di donne: quattordicenni alle prime armi ma anche signore intorno ai trenta. Fino ad allora avevo visto poche rappresentanti femminili in fabbrica, e quelle poche non stimolavano pensieri peccaminosi. Nella maggior parte dei casi erano bruttine e le poche decenti se le teneva strette il padrone nella sua piccola corte. Lì invece c’era l’imbarazzo della scelta, e quella scoperta mi provocò una vera tempesta ormonale. Dovete capire che le mie esperienze sessuali si limitavano a qualche saltuaria scopata con un paio di “fidanzate” più sveglie della media e a regolari amplessi con le prostitute lungo il raccordo. Da casa mia ci voleva una mezz’oretta per arrivare in zona e la mia Alfa Romeo era ormai come quei cavalli scossi che ritrovano da soli la via della stalla. La sera del venerdì, appena mettevo in moto le ruote sapevano già in quale direzione andare. Lì dentro il mondo si mostrò invece sotto una luce nuova. Non c’erano solo le pollastrelle da palpeggiare e le puttane da pagare. In mezzo esisteva una terra incognita fatte di donne che possedevano le qualità di entrambe. Devo dire che non fu nemmeno troppo difficile entrare nel giro. Quando uno ha l’istinto del cacciatore, la preda lo capisce al volo e gli rimangono solo due strade: la fuga oppure arrendersi. In capo a qualche mese in molte respinsero le mie attenzioni ma con un paio strinsi una solida amicizia. Maddalena, una mora dal senso prosperoso e un po’ tracagnotta, e Delia, filiforme, castano chiara e con gli occhi verdi. Fu uno spasso. Ogni settimana le alternavo. Il metodo era sempre lo stesso, un cenno d’intesa durante il giorno e poi all’uscita aspettavo la prescelta in macchina, poco lontano dalla fermata del bus. Non c’era pericolo che si incrociassero, utilizzavano linee diverse: una andava a Nord l’altra a Sud e poi in fin dei conti non erano gelose.
30 Con loro ho scoperto che anche con le donne di casa è possibile una sana scopata, fino ad allora pensavo che solo le puttane possedessero quel magico talento. Invece in quelle serate a cavallo tra l’autunno e l’inverno, quando la nebbia dilata i contorni e l’umidità diventa una seconda pelle, dentro alla mia Alfa spuntava il sole, poco importava che fossi nell’angolo più buio del parcheggio del cimitero. Dopo venti minuti, al massimo mezz’ora, le riportavo alla fermata, giusto in tempo per arrivare a casa e preparare la cena al marito.
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UNA DITTA PER CONTO MIO
Dopo appena un anno sentii un’uggia crescermi in petto, un sentimento di insoddisfazione di cui non comprendevo la ragione. Qualche mese prima nell’ufficio del gran capo avevo letto una specie di pergamena che lui aveva fatto inquadrare. Recava la firma di un certo Luigi Einaudi, che poi mi hanno spiegato essere stato il secondo presidente della repubblica italiana. Grosso modo diceva: …migliaia, milioni di individui lavorano, producono e risparmiano nonostante tutto quello che noi possiamo inventare per molestarli, incepparli, scoraggiarli. È la vocazione naturale che li spinge; non soltanto la sete di denaro. Il gusto, l’orgoglio di vedere la propria azienda prosperare, acquistare credito, ispirare fiducia a clientele sempre più vaste, ampliare gli impianti, abbellire le sedi, costituiscono una molla di progresso altrettanto potente che il guadagno. Se così non fosse, non si spiegherebbe come ci siano imprenditori che nella propria azienda prodigano tutte le loro energie e investono tutti i loro capitali per ritrarre spesso utili di gran lunga più modesti di quelli che potrebbero sicuramente e comodamente con altri impieghi. Quelle parole mi illuminarono la strada. Sentivo che sarei potuto diventare un buon imprenditore, anzi dovevo diventare un buon imprenditore. Mi divenne chiaro perché, come la formichina delle favole, mi ero messo a risparmiare come un matto, non spendevo nemmeno cinquanta lire per un pacchetto di gomme americane. La mia non era oculatezza, il bisogno di avere qualche palanca se per caso fossi rimasto senza lavoro e nemmeno tirchieria, quell’avarizia che assomiglia tanto a una malattia. Io stavo solo assecondando il mio istinto, inconsapevolmente mettevo da parte i soldi per puntarli tutti in una volta al tavolo verde della vita. Possedevo senza saperlo quella “vocazione naturale” di cui parlava Einaudi. Finalmente ne ero convinto, la mia aspirazione più grande consisteva nell’avere un’azienda tutta mia. Quando lo dissi al signor Francesco lì per lì non parlò. Sembrava proprio che pensasse agli affari suoi. Poi mi batté la mano sulla spalla come di solito fanno gli allenatori di calcio quando mandano in campo un giovane promettente.
32 «Fai bene. L’avevo capito subito che non eri un animale da basto ma un cavallo da corsa. Spero che le cose che hai imparato qua dentro ti possano servire.» Fu quello il suo commiato. Ebbi l’impressione - ma non ne sono sicuro che avesse gli occhi lucidi. Sicuramente gli giravano le palle perdere uno dei migliori preparatori sulla piazza, però capiva che una volta messe le piume la natura pretende che l’uccellino cominci a sbattere le ali. Dopo un po’ si riprese e serio come non lo avevo mai visto mi disse: «In ogni caso, fino alla fine del mese sei un mio dipendente. Torna al banco e datti da fare.» Partii con pochi soldi e tante speranze. Devo dire che allora le banche erano molto generose con gli artigiani orafi. Forse anche troppo, molti si buttavano in questo mestiere come fossero quei disperati che cercavano le pepite nel Klondike. Ma questa è un’altra storia, se ne avranno voglia la scriveranno gli economisti, quelli che per mestiere studiano, analizzano e alla fine danno un responso che, nella maggior parte dei casi, non corrisponde quasi mai a quanto accade nella vita reale. Quello che so è che misi su un capannone nella zona industriale impegnando tutto quello che avevo, compresa la casa e due pezzi di terra ereditati dai nonni. In quella fase mi dette una grossa mano un certo geometra Bollani che possedeva le giuste conoscenze in Comune. Un signore di cui avremo modo di parlare per altre vicende. Ma ancora è presto per la storia del geometra Giorgio Bollani. Adesso devo raccontarvi la mia, di storia. All’inizio stentati un po’ a partire, poi presi il via. Compravo da altre ditte catene d’oro semilavorate, con quelle realizzavo collane e bracciali, guadagnavo bene rischiando molto poco. Il mio, come quello di tantissimi altri, era un prodotto di massa che in quel momento andava forte. Ma non avevo dimenticato la lezione dei miei maestri: l’amore per la qualità e la memoria delle radici. Un giorno decisi che era arrivato il momento di fare meglio. Iniziai a produrre anelli da donna utilizzando il metodo della fusione a cera persa. Poi, quando dopo qualche mese arrivarono i macchinari giusti, cominciai a lavorare la canna vuota. Un procedimento che consente di ottenere delle splendide creazioni. Si mettono insieme due lastre di rame e di oro e, una volta lavorate, con un bagno nell’acido nitrico si fa scomparire il rame. Il risultato sono gioielli meravigliosi che non sembrano nemmeno lontani parenti di quelli ricavati dalla catena semilavorata. Qui c’è l’ingegno, la creatività, il design. La catena è una lavorazione che anche una scimmietta ammaestrata sarebbe in grado di fare, io invece mi ispiravo ai disegni che avevo visto fare al ceramista Amilcare nei suoi piatti: frutti, fiori, piccoli uccelli caratterizzavano i miei gioielli. In-
33 somma mi specializzai su di un prodotto medio/alto e i fatti mi diedero ragione. I rapporti con le altre ditte erano nella maggior parte dei casi ottimi. Ognuno di noi aveva la sua fetta e almeno fino all’anno 2000 la richiesta superava l’offerta. Insomma eravamo felici e il mondo appariva tinto di un rosa pesca che rendeva tutti più buoni. Furono anni febbrili. La mia azienda l’avevo chiamata PR.ORA. che vuol dire produzioni orafe ma a me quell’acronimo piaceva perché dava l’idea della prora della nave, quella che fende le onde e rompe ogni ostacolo. Mi sentivo un gladiatore nell’arena. Dopo un paio d’anni avevo clienti sparsi un po’ ovunque: in Italia, in Francia, In Spagna, in Belgio, in Francia, negli Stati Uniti. Entrare negli USA non fu semplice alla fine ripiegai su Panama. In America ci stroncavano le gambe con la storia dei dazi e noi gli andavamo bellamente in tasca vendendo il prodotto a Panama dove i dazi doganali praticamente non esistono. Poi da lì i nostri clienti lo trasferivano negli USA senza pagare quell’odiosa gabella. Quelli che lavoravano per me non si potevano lamentare; tra nero, premi e paga base un mio dipendente portava a casa oltre due milioni di lire. In quel periodo un operaio del comune guadagnava intorno a un milione. Capite la differenza? C’era gente che rinunciava al posto pubblico per venire a lavorare da noi. Oggi probabilmente qualcuno rimpiange quella scelta, ma allora fruttava bene. Con quei soldi c’è chi si è fatto la casa, chi ha comprato terreni, chi ha fatto studiare i figlioli e c’è anche chi li ha sputtanati fino all’ultimo centesimo e oggi piange miseria. Era una manna: pochi controlli fiscali, qualche trucchetto per arrotondare e un mercato che tirava quanto una locomotiva. Intendiamoci bene, non era un luna park, ognuno di noi lavorava per dodici ore filate e tempo per rifiatare ce n’era poco. E nelle pause non avevo certo voglia di pensare troppo, se l’avessi fatto mi sarei reso conto di molte cose che oggi dopo tanto tempo mi appaiono finalmente chiare. Ma allora certe idee se ne stavano sullo sfondo come le scene di un teatro. Oggi che di tempo ne ho un po’ di più ho capito che la nostra fortuna ha rappresentato la fortuna di molti altri, che ci hanno sfruttato fino al midollo. Intorno al nostro settore girava un indotto pauroso. Banche, fornitori, commercianti, concessionari di auto, impresari edili, proprietari di ristoranti e di night, tutti ci erano debitori di una parte dei loro profitti. Ognuno di loro addentava un pezzo del panino di cui noi orafi rappresentavamo il companatico. I vantaggi portati da quel turbine consigliavano a tutti di chiudere un occhio, anzi tutti e due sui giochi di prestigio con i quali aumentavamo quello che gli economisti di fama chiamano “il valore ag-
34 giunto del prodotto”, che tradotto in italiano vuol dire guadagnare dieci volte su di un grammo d’oro invece di cinque. Volete un elenco? Eccovelo servito: del sottotitolo vi ho già parlato, una cosa che non ho mai amato perché sa proprio di truffa. Così come nella mia azienda nessuno ha mai provato a mettere un’anima di rame alle catene vuote per aumentarne il peso. Però ve lo confesso, su altre cose non sono andato troppo per il sottile. Per esempio un giorno capitò da me un rappresentante, uno di quelli che batteva i mercati del medio oriente. «Ti va di fare un buon affare?» «Secondo te cosa ci faccio qui? Conto le pecore? Certo che mi va» gli risposi sgarbato; quel tipo mi stava sulle palle. Non si presentava male, aveva sempre la battuta pronta e i capelli pettinati per il verso giusto. Ben vestito, roba di marca, però appena lo sfioravi sentivi l’unto, tale quale un prosciutto quando gli tagli via la cotenna e in superficie rimane solo il grasso. «Ho dei clienti negli emirati che vorrebbero dei gioielli particolari e tu sei uno dei migliori in questo campo.» «Hai qualche esempio?» «Ecco qua» e tirò fuori una specie di album dove una mano indubbiamente capace aveva tracciato il disegno di una collezione di bracciali, orecchini e collane con mille arzigogoli. Incastonate nell’oro c’era un numero infinito di pietre multicolori. «Non si tratta mica di smeraldi, zaffiri e diamanti? Solo un bracciale verrebbe a costare una fortuna.» «Scherzi? Le solite pietre colorate, niente di più. Naturalmente pesiamo tutto insieme.» «Si può fare.» Questo era un altro dei trucchetti per far salire in alto i guadagni: vendere a peso d’oro pietre di scarso valore. Io non ho avuto molte opportunità, ma c’è gente che ha venduto quintali di pezzi di vetro come fosse oro e con un paio di colpi ha guadagnato un monte di soldi. Un altro espediente era quello di conteggiare nel peso del gioiello le molle in acciaio delle chiusure. Detto così può sembrare un’inezia, ma provate a moltiplicarlo per mille, per decine di migliaia di pezzi e poi ditemi voi quello che viene fuori. Giocavamo poi con il calo. Lo stratagemma è semplice e del tutto legale; da parte del cliente ci veniva riconosciuto un titolo del 790 sull’oro che lavoravamo perché è inevitabile che una parte del metallo si perda nel corso della lavorazione. Tradotto in numeri su cento chili d’oro - era la media che lavoravo in un mese - mi veniva riconosciuto un calo di circa quattro chili. Ma alla fine, quando tiravamo le somme, non era proprio
35 così: tra lavaggi, recupero della polvere d’oro dispersa nella spazzatura e tutta una seria di accortezze alla fine del mese riuscivo a recuperare quasi due chili d’oro. Moltiplicato per dodici mesi a sedicimila lire al grammo, parlo del prezzo di allora, riuscivo in capo all’anno a procurarmi gratis il controvalore di trentadue milioni di lire di metallo giallo. Oggi a trentun euro al grammo sarebbero circa sessantaduemila euro. Un’altra cosa che ci avvantaggiava era il prestito d’uso che le banche graziosamente, per modo di dire, concedevano a noi orafi. In pratica ci fornivano il metallo per lavorare. Il metallo si poteva ottenere a interessi fissi, ogni anno pagavi il dovuto oppure con quello che veniva chiamato il prestito rotativo. Ovvero entro tre mesi si restituiva l’oro oppure si saldava il controvalore. Qualunque fosse la scelta a noi andava bene tanto caricavamo tutto sul conto del cliente, in pratica quell’oro non ci costava niente. Un’ulteriore trovata era il conto lavorazione. Funziona così: è il cliente stesso che ti fornisce l’oro da trasformare. Mettiamo che l’impegno era di riconsegnargli il prodotto finito entro due mesi. Noi con quell’oro ci lavoravamo due volte. Se arrivava un secondo cliente che aveva fretta nella consegna lavoravamo l’oro del primo cliente e poi una volta che il secondo cliente aveva pagato coi quei soldi ci riprendevamo altro metallo per finire il lavoro del primo cliente. In pratica si evitava di investire capitale proprio, un bel risparmio. Anche quando mi davano in pagamento delle verghe d’oro giocavo un po’ con il titolo. Insomma, da ogni limone riuscivo a spremere tutto il succo e alla bisogna strizzavo anche i semi. Tutto questo rigiro funzionava perché alla fine nessuno ci rimetteva: ci guadagnavo io, ci guadagnava il grossista, ci guadagnava la banca, ci guadagnava il negoziante. Alla fine chi ci rimetteva qualche soldo era il cliente finale che pagava il gioiello un po’ di più di quanto avrebbe dovuto. Ma quando uno entra in un’oreficeria non si mette certo a guardare il pelo sull’uovo, anche perché non è come comprare un chilo di mele. Anche sul fronte fiscale mi ero attrezzato bene: come commercialista avevo scelto un ex graduato della Guardia di Finanza. Quell’uomo dopo trent’anni di onorata carriera aveva fatto il salto della quaglia, passando dalla nostra parte. Non che ci insegnasse a evadere, questo no, però l’elusione rappresentava il suo pane quotidiano. Era arrivato al punto da organizzare delle simulazioni dei controlli che i suoi ex colleghi mi avrebbero potuto fare, erano un po’ come le esercitazioni militari fatte con armi vere. Quel diavolo trovava mille modi per tutelarmi dalle verifiche fiscali. Fu lui a portarmi per la prima volta a San Marino; in quelle banche bastava aprire un conto e i vantaggi erano immediati. Per esempio se portavi loro
36 degli assegni post datati a due, tre mesi quelli ti anticipavano subito dal settanta all’ottanta per cento della cifra. Le nostre banche mai e poi mai avrebbero fatto una cosa simile e poi, rimanga tra noi, al riparo del monte Titano i nostri conti stavano al sicuro. Erano davvero pochi quelli in grado di ficcarci il naso. Insomma, affidandomi a lui mi sentivo in una botte di ferro. Mi toglieva dalla testa un sacco di preoccupazioni e questo giovava alla mia tranquillità e alla mia forma fisica. Quando mi diceva di non preoccuparmi, che tutto era a posto, quella frasetta funzionava meglio del Viagra. E infatti appena uscito dal suo studio non potevo fare a meno di telefonare a qualcuna delle mie amiche. Quella situazione ha retto fino a quando la gente aveva soldi da spendere, i concorrenti internazionali non esistevano, le banche non avevano vincoli e il fisco non rompeva troppo le scatole. Poi a un certo punto questo equilibrio si è rotto: qualcuno dice che si sono modificate le mode, forse è così. Può darsi che effettivamente un cambio di mentalità nella testa delle persone ci sia stato, si preferisce regalare un cazzabubbolo elettronico piuttosto che un braccialetto. Ma il problema non è lì. Il problema vero è che la gente ha meno soldi in tasca e soprattutto, specie per i mercati internazionali, sono arrivati cinesi, turchi, indiani che con un pezzo di pane pagano i loro operai, vanno in culo alle regole, ai diritti, all’ambiente e inondano i mercati di prodotti a un costo più basso. Perché se è vero che l’oro più o meno costa uguale in tutto il mondo, non è la stessa cosa pagare un operaio cento euro al mese rispetto ai millecinquecento che diamo noi. Si può girare in mille modi ma la sostanza rimane questa. Se poi ci mettete sopra il fatto che quella gente non ha sul collo il fiato della finanza, dell’ARPAT e dell’ispettorato del lavoro, il gioco è belle fatto. Io parlo per me, ma se andate a interrogare chi produceva scarpe, vestiti, tessuti vi dirà la stessa cosa. Per amore del mercato globale ci siamo suicidati. Ma per almeno vent’anni non è stato cosi, noi abbiamo dato alla nostra bella città un’identità, noi abbiamo consentito che ci fosse quello che un mio amico professore ha definito “un nuovo rinascimento”.
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LE MIE PASSIONI
Non pensiate che io abbia passato gran parte della mia vita a lavorare e a rincorrere gonnelle. Oddio, una bella fetta del mio tempo l’ho spesa in queste dignitosissime occupazioni, però avevo altre passioni che mi coinvolgevano. Una era la caccia. Iniziai a sedici anni per fare un piacere a mio zio, lui era proprio fissato, una cosa da non credere. Il giorno prima dell’apertura gli si chiudeva la bocca dello stomaco e mangiava pochissimo; il digiuno durava qualche mese, fino a quando non arrivava la chiusura. A me invece la caccia piaceva perché, dopo aver fatto una bella girata, ci fermavamo con tutta la combriccola ad arrostire le salsicce sul fuoco sgranocchiando bruschette favolose con l’olio nuovo. Si sta bene in collina di primo mattino, quando ancora il terreno è bagnato dalla rugiada oppure in pianura dove dai campi appena coltrati vien su una nebbiolina leggera. Quei momenti rappresentano la vera poesia della caccia, mica tirare a un animale. Infatti alla fin fine sparavo poco, quasi niente. La mia testa è sempre stata troppo piena di scrupoli morali. Ve lo confesso: non avevo cuore di mettere quaranta grammi di piombo in corpo a un fagiano o a una lepre. Non mi avevano fatto niente di male per meritare una fine così. Le poche volte che non potevo fare a meno di premere il grilletto miravo alto e così nel tempo mi sono fatto una consolidata fama di “spadellatore”. Il mio amore per l’arte venatoria subì una impennata quando insieme a un gruppo di amici scoprimmo i vantaggi di andare a caccia nei paesi dell’est Europa. La nostra meta nei mesi di ottobre, novembre e dicembre divenne l’Ungheria, in un posto dal nome impronunciabile - Hajdúböszörmény una simpatica cittadina di trentamila abitanti nella provincia di Hajdú-Bihar. Il programma era chiaro: al mattino andavamo a tirare alla selvaggina e il resto della giornata lo dedicavamo ad altri svaghi. Nello spazio di cinquanta chilometri dal nostro albergo conoscevamo ogni discoteca, nights, locale di dubbia fama. Insomma, se al mattino sparavamo con il fucile la notte adoperavamo altre armi. Un vero spasso, anche se abbastanza co-
38 stoso. In compenso le ragazze erano delle dive e meritavano tutti interi i cento marchi di spesa. Come tutte le cose belle, anche quella è finita. Si è chiusa quando si è disfatta la comitiva con cui dividevo gioie e dolori dell’arte venatoria. Eravamo una compagnia unita, poi abbiamo cominciato a perdere pezzi: c’è chi è morto, chi ha abbandonato il fucile per attaccamento alla moglie e chi alla fine ha stabilito che col passare degli anni era meglio tirare al piattello. Così in poco tempo mi sono ritrovato da solo, e andare fino in Pannonia senza uno straccio di compagno non è per niente divertente, anche agli occhi dei magiari fai la figura dello sfigato. Un’altra passione è la ricerca dei tartufi. Quella non l’ho abbandonata, anche perché riesco a praticarla da solo evitando così un sacco di rompimenti di coglioni. È un grande vantaggio fare le cose senza nessuno intorno. Il motivo è semplice; a meno che uno non abbia litigato con se stesso, si è sempre comodi per partire e non c’è un’anima che arriva in ritardo all’appuntamento. Ho cominciato presto a cercare tuberi sottoterra. Al principio il mestiere del tartufaio mi è stato propinato al pari di una medicina, poi col tempo è diventato qualcosa di cui non posso fare a meno. La cerca è un po’ come fare breccia nel cuore di una bella signora. In effetti il tartufo ha l’anima di una femmina: lo devi corteggiare, cercare, maneggiare con cura, accarezzare. L’unica differenza è che ci vuole il cane. Dio mi è testimone che se inventassero un cane che punta le donne più disponibili lo comprerei immediatamente. O forse no, visto che proprio dal naso di un cane è partita la catena delle mie disgrazie. Come vi dicevo la passione per la trifola è iniziata per cura, dove per cura intendo proprio una cura medica. Lorenzo Aglietti, uno dei più cari amici del babbo e notissimo tartufaio, mi aveva preso sotto la sua ala protettiva dopo che la mamma gli aveva raccontato le mie performance pugilistiche fuori dalla scuola e il rischio, se avessi continuato a fare il bischero, di finire in una classe differenziale in mezzo ai bambini scemi. Lorenzo pensò che un buon rimedio sarebbe stato portarmi in giro per la campagna a cercare tuberi. Macinando chilometri su chilometri mi sarei stancato e non avrei avuto la forza di alzare nemmeno il dito mignolo. Una terapia d’urto che in fondo aveva una sua logica, e devo ringraziare Lorenzo per avermela applicata senza risparmio. Quel brav’uomo purtroppo è morto di crepacuore qualche anno fa, e io non ho mai avuto modo di ripagarlo come sarebbe stato giusto. Tecnicamente parlando è schiantato per un infarto del miocardio, la verità è che non sopportava che la ricerca dei tartufi fosse diventata un fenomeno di massa. Ormai vanno tutti in giro armati di vanghetta e sperano che qual-
39 che santo gli confezioni la grazia di fargli trovare la trifola gigante, quella che in una botta sola ti leva di torno parecchi problemi. Il tartufo miracoloso, più pesante di quello per cui un cinese faccia di merda ha sborsato a un’asta americana trecentocinquantamila dollari senza fiatare. Lorenzo non sopportava più questo mondo. «I tartufai» mi diceva sconsolato «stanno diventando come quei cercatori di diamanti che passano la vita ricercando il fratello gemello del Pink Panther, il diamante rosa più famoso del mondo. E alla fine, dopo aver setacciato fiumi e monti, si ritrovano con un pugno di mosche in mano e finiscono a bere e dopo poco schiantano con il fegato spappolato. In verità qualcuno di loro è perfino peggio di quei disgraziati. Quelli almeno sono sognatori, quest’altri solo dei poveri stronzi. Guarda la faccia stravolta che hanno quando tornano a casa senza aver trovato niente, per la rabbia pigliano a calci il cane, la moglie e se gli capita a tiro anche la suocera. Lo sai chi mi fanno venire in mente?» «Non saprei.» «Quei brutti ceffi che scavano montagne in sud America e spianano le foreste equatoriali. Gentaglia puzzolente e senza Dio. Vedrai, anche tra i tartufi si arriverà a quei livelli, qualcuno comincerà a viaggiare pistola alla mano. È il denaro che rovina tutto.» Visto quello che sta succedendo non mi sento di dargli del tutto torto. Allora quando parlava di quelle cose lo pigliavo per deficiente. Se uno voleva fare un po’ di soldi, perché metterlo sotto accusa? Le lire di allora e gli euro di oggi sono un rimedio per parecchi mali. Lo pensavo da ragazzo e lo penso anche ora, però col passar del tempo ho capito che ci sono cose che offrono altrettanta soddisfazione, anzi ne danno di più. Per esempio diventare all’improvviso, stando dalla parte del grilletto, il signore della vita e della morte. Ma questo fa parte dell’ultimo capitolo della mia storia e non voglio rovinarvi il finale o, come direbbe un mio amico, non voglio rovinarvi il piacere dell’attesa. È stato Lorenzo a insegnarmi il metodo per addestrare il cane da tartufo. All’inizio non lo capivo, faceva dei discorsi strampalati, poi col tempo ho iniziato a entrare nell’argomento. Al principio fu dura inquadrare i suoi esempi. Ragionamenti che non c’entravano niente con i cani e il mondo degli odori che ruota intorno al loro naso, però col senno di poi mi sono reso conto di quanta ragione avesse. La sua prima lezione ebbe questa premessa: «Devi sapere, caro Marco, che qualunque scultura - anche quella più bella, perfino quelle di quel gran finocchio del Canova - nasconde un segreto.»
40 Qualificava il Canova con quell’epiteto - detto tra noi pare che lo fosse davvero - non perché ce l’avesse con gli omosessuali ma perché provava per lui un’invidia morbosa. Da quando aveva adocchiato in un rotocalco la Paolina Bonaparte nelle vesti di Venere, quell’immagine discinta lo ossessionava. Non era una rivista d’arte, sia chiaro, ma uno di quei giornali da donne pieni di pubblicità. La signora Paolina ci stava a fare la réclame a una marca di occhiali da sole. Dopo quella volta Lorenzo se la sarebbe fatta a colazione, a pranzo e a cena con buona pace del principe consorte, il ben noto Camillo Filippo Ludovico Borghese. La cosa che lo faceva incazzare era il pensiero che il Canova avesse avuto quel fiorellino tra le mani senza combinarci un bel niente. Da qui la poco elegante definizione di “finocchio” tributata al grande scultore. Pur conoscendo quella storia, non riuscivo a collegare la statua col tartufo. Devo aver sgranato gli occhi per la meraviglia, ma Lorenzo continuò imperturbabile. «Il segreto è che le sculture vivono da sempre dentro al marmo, sono come congelate; l’abilità dell’artista sta nel metterle a nudo. Allo stesso modo anche nel cane più bastardo, mezzo spelacchiato, perfino rognoso, c’è in potenza un grandissimo cercatore di tartufi. Sta a noi farlo venire fuori.» Non ho mai capito se le cose stessero veramente così, però devo dire che lui addestrava i cani in maniera superba. Non ne toppava uno, portare un cane dall’Aglietti era come mandare uno studente a Eton. Alla fine del corso usciva fuori perfetto, un po’ rigido forse ma pronto per i difficili compiti che lo attendevano nella sua vita canina. I principi che ispiravano Lorenzo erano per così dire soft, detestava i metodi di ammaestramento crudeli che invece altri dispensavano senza parsimonia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD