In uscita il 30/4/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2018 ( ,99 euro)
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GABRIELLA GRIECO
L’AMORE LIQUIDO
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni
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L’AMORE LIQUIDO Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-197-6 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Aprile 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
Ai miei cari, bipedi e quadrupedi
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CAPITOLO UNO. GIORNO UNO DELLA NUOVA VITA
Più che camminare, arrancava, appesa alla mano della donna vestita di nero che non le aveva sorriso neppure una volta lungo il cammino. La costringeva a fare tre passi per ciascuno dei suoi, e neppure se ne accorgeva. Faceva tanto caldo, era tutta sudata, ma la mano che stringeva la sua non cedeva di un millimetro. Sembrava una morsa. Lei era così piccola da non conoscere ancora il significato di tutte le parole che sarebbero state necessarie per quel momento, ma se le avesse sapute, ecco, avrebbe detto che era proprio come una morsa. Fredda, insensibile. Indifferente. La stradina era in salita, stretta e tortuosa. Una tipica strada della Salerno medioevale, che si incuneava tra vecchi palazzi addossati l’uno all’altro e tracciava col suo percorso la linea di congiunzione tra il mare azzurro lì in basso e il cielo turchino che si vedeva oltre i tetti. La donna procedeva spedita come se non vedesse l’ora di arrivare, incurante del viso rosso e accaldato della bambina che si tirava dietro. Sarebbe stata una bella passeggiata… se solo l’avessero fatta con calma, fermandosi a dare un’occhiata al paesaggio là dove si aprivano gli scorci suggestivi nei varchi tra le case – squarci in cui lo sguardo volava rapido come una freccia dal colle al mare – o a raccogliere un fiore di quelli che crescevano timidi tra le mura. Ma era la fretta a regolare il ritmo dei loro passi, non il dolce indulgere sulla bellezza del panorama. Erano occhi, quelli della donna, abituati a soffermarsi senza far caso, a guardare senza vedere ciò che non le interessava. E adesso non le interessava altro che arrivare il prima possibile per togliersi il pensiero. Perché questo era diventata, la bambina: un pensiero sgradevole. La strada, lì in fondo, terminava contro un muro. Per un momento la piccola si illuse che, una volta arrivate a quella parete che sbarrava i loro passi, sarebbero tornate indietro. Non aveva notato, poco più
6 avanti, il portoncino di legno, grigio come la pietra, che si apriva alla loro sinistra. La donna posò in terra la valigia di cartone pressato che conteneva le poche cose che aveva reputato necessarie e alzò la mano sinistra per picchiare il batacchio sull’ansola. Con la destra continuava a stringere saldamente la sua, non aveva nessuna intenzione di mollarla! Non le era mai piaciuto il colore di quella valigetta. «Color cacca», diceva tra sé a bassa voce per non farsi sentire dalla mamma. Alla sua mamma non piaceva che dicesse certe cose. Veramente, erano tante le cose che non le piacevano, ma era la sua mamma e solo per questo era la migliore del mondo. Un’altra mano reggeva adesso la sua piccola valigia marroncina. Un’altra mano stringeva la sua, guidandola lungo corridoi in penombra, piacevolmente freschi dopo la calura esterna. Il sudore le si asciugò sul volto mentre il cuore batteva all’impazzata come dopo una folle corsa. Non voleva piangere, non avrebbe pianto! ma non poteva calmare il battito accelerato del suo cuore. La suora si arrestò davanti a una porta socchiusa, la aprì e poi sospinse la piccola leggermente in avanti. Una cinquantina di bambine vestite tutte uguali con un grembiulino nero fissarono la nuova arrivata. «Bambine, vi presento Anna».
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CAPITOLO DUE. IL FUNERALE
Anna esce di casa e chiude silenziosamente la porta. Non c’è nessuno che possa essere disturbato, a quest’ora del pomeriggio, ma l’abitudine prende come al solito il sopravvento. Anna vive la sua vita in silenzio, in punta di piedi, per non dare fastidio. È poco importante, lei. Non ha responsabilità, non è un manager, non dirige un’azienda. Solo una colf creola proveniente da Capoverde. Che è solo un altro simbolo dell’importanza di suo marito che se la può permettere, come fosse un altro oggetto di lusso. Lui glielo ricorda sempre. È importante, lui. E si irrita con facilità. Lei lo sa benissimo, lo ha imparato sulla sua pelle nel corso degli anni in cui è stata sua. Prestare attenzione a non stuzzicare, in uno qualsiasi dei mille modi in cui può accadere, è diventata così tanto un’abitudine che neanche più se ne accorge in modo cosciente. È un limite invisibile ma sempre presente, una linea rossa che le lampeggia nella mente: attenzione! Pericolo! Immediatamente la parola – o il gesto, perché anche un innocuo semplice gesto può urtare la sua suscettibilità – rientra al suo posto. Anna china la testa e ingoia amaro. E quel che è peggio, adesso lo fa con l’indifferenza di chi ha rinunciato a lottare e non ha più speranza. La giornata è fredda e grigia come il suo stato d’animo. Una leggera pioggerella è caduta lungo tutto il percorso fino al cimitero, fra anonime case e lunghi viali, inzuppandola fin nelle ossa. Triste il percorso fino alla meta. Forse, se accanto a lei ci fosse stato l’uomo che ancora adesso, nonostante tutto, dice di amarla… Forse la sofferenza si sarebbe addolcita, il dolore l’avrebbe oppressa di meno. Ma il freddo che avverte non è quello esterno. È un gelo profondo, interiore, che ghiaccia l’anima e brucia il cuore. Novembre, il mese dei morti. E alla sua amica piaceva tanto la primavera. Non ce ne sarebbero più state, non per lei. Gloria aveva
8 lottato, aveva cercato di resistere. Aveva dato fondo a tutta la sua fame di vita, e lei era una che la vita la divorava con gusto. Aveva tanti progetti, tante idee. Aveva un credito sul suo futuro, non lo sapeva quel male balordo che le stava divorando lo stomaco? Non lo sapeva. O forse lo sapeva, ma non gliene importava nulla. Lui era “IL CANCRO”. E si sa che il cancro non guarda in faccia nessuno. Aveva vinto lui. Non aveva sconfitto la sua anima, radiosa e solare fino all’ultimo strozzato respiro, ma il suo corpo aveva dovuto arrendersi. Amica. Che termine riduttivo per esprimere il legame che le aveva unite. Erano (state) sorelle, amiche, complici. Amanti. Perché era amore il loro. Clandestino, negato, mai ammesso. Nemmeno tra loro. Anzi, tra loro sì. Una sola volta. Con quell’ultimo profondo respiro che aveva trascinato via, insieme alla parola sussurrata, anche la sua scintilla vitale. Era morta dicendo: «Io ti a…». Maledetto il cancro che gliel’ha rubata! E adesso. Adesso è sola. Non è un dolore straziante quello che avverte mentre segue a passo lento la macchina funebre, scivolando nella nebbia che pesa sulle strade sudice, coi riflessi dei lampioni già accesi che cercano invano di aprire squarci di luce nel suo cuore. Più che altro è sollievo, quello che prova. Sembra incredibile. Ma in fondo Anna era preparata a questa morte, l’aveva desiderata, quasi. Purché il maledetto tumore smettesse di distruggerla, ogni giorno più del precedente, purché il dolore cessasse e i suoi lineamenti si potessero distendere. Quando non si ha più nulla in cui sperare, l’unica speranza è che la fine arrivi in fretta. Ricorda come fosse appena ieri quando aveva accompagnato Gloria a ritirare il risultato degli esami a cui si era dovuta sottoporre. A cui era stata lei, Anna, a convincerla a sottoporsi. «Vuoi nascondere la testa nella sabbia?» le aveva chiesto un giorno, arrabbiata. Arrabbiata con lei, con la paura, con la vita... Non avevano già sofferto abbastanza, tutt’e due? «E se avessi…» si era interrotta, l’emozione le aveva strozzato la parola in gola. «Se fosse qualcosa di brutto?» aveva continuato facendosi forza. Erano mesi ormai che l’amica lamentava quei bruciori di stomaco, quelle fitte improvvise che le congelavano gesti e parole in un sussulto di
9 dolore incontenibile. Le rispondeva sempre con una battuta: «Ma chi, io? Non ti ricordi che io sono SuperGloria?». SuperGloria, già. Era il nomignolo che proprio lei le aveva dato, tanto tempo prima. La felicità è la cessazione del dolore. Chi l’aveva detto? Anna non se lo ricorda più, ma certo è una delle grandi verità della vita. E adesso Gloria è felice perché non soffre più. Lei invece è piena di un’angoscia sorda, di una rabbia impotente che si sente gravare addosso. Perché lei, perché proprio lei, miodio? Che stupida domanda. A queste cose non c’è mai un perché. Mai un perché che basti. Non piange. Non riesce mai a piangere, ad affidare la sua pena alle lacrime. Ma c’è il cielo che piange al posto suo, e Anna gli è grata per quelle lacrime fittizie che le rigano il volto. Avrebbe sempre avvertito in maniera così cruda la sua assenza? Nella tasca del cappotto giace ancora chiusa la lettera che lei le ha dato poco tempo prima di morire, nell’ospedale dove ha passato gli ultimi giorni. Come in tutti gli ospedali, anche in questo la stanza era spoglia e fredda. In quei lunghi giorni della sua malattia, Anna si è resa conto che non è un semplice luogo comune. La verità è che quegli ambienti sono proprio così, spogli e freddi, senza sconti. D’altronde, come pretendere che ci sia colore e calore nei luoghi deputati alla sofferenza e alla morte? Perché per quanto facciano medici e infermieri, i loro sono soltanto dei tentativi, in una continua scommessa col destino. Colorare le pareti sembrerebbe quasi una mancanza di rispetto nei confronti dell’unica inquilina che non se ne va mai. E così, nel migliore dei casi, solo pareti bianche. A volte un crocifisso che interrompe la monotonia, se non c’è qualcuno che si offende per la sua presenza. Gloria è morta in fretta, non hanno avuto nemmeno il tempo di chiedere se avessero preferito riportarla a casa. E a chi avrebbero dovuto chiedere, poi? Alla burocrazia non interessava il loro legame, loro erano due estranee senza rapporti di parentela, e lei non aveva nessun potere decisionale sulla sua amica. Ma tanto, anche se avesse potuto decidere, l’avrebbe comunque lasciata tranquilla in quel letto, dove almeno era stata assistita fino all’ultimo. Dove mai avrebbe potuto portarla, in ogni caso? Non certo in casa di suo marito. Stringe la lettera fra le dita senza tirarla dalla tasca. Gloria si era fatta promettere che l’avrebbe aperta solo dopo la sua morte, ma adesso non
10 può. È troppo presto per leggerla. Quando il sordo rancore che prova per la sua scomparsa si sarà attutito, allora sarà il momento. Ora no. Ora riesce solo a tenerla in mano, e il contatto con la carta le dà un illusorio e momentaneo conforto. C’è la voce di Gloria, in quella busta. A passi lenti, incurante del vento che le scosta il cappuccio dal capo e consente alla pioggia di bagnarle la fronte, torna alla sua macchina. È di lusso, come tutto ciò che la circonda, oggetti che dicono agli occhi di chi guarda quanto sia importante l’uomo che li ha comprati. Seduta all’interno della vettura gira la chiave dell’accensione e mette in moto. Non si muove subito. Accende il riscaldamento al massimo nella speranza di allontanare il gelo che la avvolge. I vetri appannati la mantengono in un limbo umidiccio. Poggia le mani sul volante, porta la testa all’indietro e socchiude gli occhi. «È così il luogo in cui sei adesso, amica mia? Sei infine tranquilla, Gloria, o ti senti come me, persa, smarrita?». Il picchiettio delle gocce sul tettuccio aumenta d’intensità e la riscuote. La mano guantata pulisce il lunotto anteriore. Si avvia. Cinque minuti per tornare a casa, per dimenticare se stessa e ricominciare a essere la donna che lui vuole.
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CAPITOLO TRE. LA DONNA CHE LUI VUOLE
Ciao, vera Anna, devi rimanere fuori, tu non puoi entrare qui. Chiude la porta alle sue spalle con una leggera spinta. Il piccolo tonfo attutito la fa sobbalzare. L’altra se stessa, obbediente, rimane in attesa sul pianerottolo. È un bel cantuccio, in effetti, e il ficus Benjamin che lo decora è un posto accogliente per quel fantasma sbiadito che vi si rifugia nell’attesa di tornare a vivere. Non temere, sono qua, come sempre. Ad aspettarti. Si leva il cappotto che cade a terra con una strana, insolita lentezza. Lo raccoglie subito. A lui non piace il disordine. Fa per riavviarsi i capelli scompigliati dal cappuccio davanti allo specchio nell’ingresso, ma il gesto rimane incompiuto. La mano si ferma, raggelata nell’attimo in cui gli occhi si riflettono. Così sono adesso i suoi occhi? Nere pozze liquide di cui non si vede il fondo. Potrebbe annegare in questa oscurità, smarrirsi nel frammentato ricordo della ragazza di un tempo… E nel dimenticarsi di sé ritrovare un’opaca serenità. Sarebbe bello perdersi. Già. Sarebbe bello anche rimanere sull’uscio a tenere compagnia a quell’altra… Con un sospiro soffocato, si dirige in camera da letto. Si sta facendo tardi, pochi minuti e non sarà più sola. Meglio sbrigarsi. I passi di lui, la sua voce. Ha sempre un’asprezza di fondo, adesso, quella voce, una sorta di fastidio inespresso. «Mia moglie è in casa?». La risposta della ragazza: «Credo di sì. Mi pare di averla sentita rientrare, poco fa». Ancora i suoi passi, lenti e pesanti. Non lo vede, ma può descrivere con esattezza i suoi gesti, sempre gli stessi. Suo marito è un abitudinario che nella reiterazione trova un appagante senso di soddisfazione. “È noioso” insinua una voce nella sua mente. “Taci!” le risponde spaventata.
12 Lo sente mettere le chiavi della macchina sulla mensola a destra della porta d’ingresso, quella stessa sulla quale poggia lo specchio in cui pochi minuti prima è annegata, facendole tintinnare sul marmo. Si toglie il cappotto, sicuramente lo appende vicino al suo, ma stando attento che non si tocchino. Anna ha sempre la sensazione che non voglia essere contaminato da… chissà mai da cosa. Ecco, adesso si dirige in salone, apre il mobile bar e si versa un liquore. Non importa quale, purché sia forte. Gli uomini di successo bevono sempre un drink dopo il lavoro, no? A lui lo stomaco non brucia mai. Bicchiere in mano, beve dirigendosi a passo lento verso la poltrona di cuoio. Si siede con un rumoroso sospiro. Finisce il liquore e lascia il bicchiere vuoto sul piano di marmo del tavolino. Riordinare non è mai stato compito suo. Si alza. Lo sente camminare nel corridoio. Ancora pochi passi e la maniglia della porta girerà. Senza bussare. Un attimo prima che lui entri – la mano sta per posarsi sulla maniglia – lei si ricompone e trova la forza di ridisegnarsi un viso senza pensieri. La porta si apre. «Ciao, tesoro». Chissà perché lo chiama ancora così, con questa parola che è ormai vuota di ogni significato. Forse proprio perché non significa più nulla. Potrebbe dire: «Ciao, coso» e sarebbe uguale. «Ciao, Anna». Porge il volto al tiepido bacio di lui, in un rituale immutabile. Si siede sulla poltroncina accanto al letto per levarsi le scarpe. «Dove sei stata? Ti sei divertita?». «Era il funerale di Gloria, oggi». «Ah, già, me l’avevi detto». Un mezzo sorriso gli increspa lievemente le labbra. Ricordava. Probabilmente voleva solo mostrarle la sua indifferenza, o ancora meglio il suo disprezzo per un’amicizia che aveva inutilmente cercato di cancellare dalla vita di sua moglie. «Be’, lo sapevi, no? Voglio dire, adesso non rimarrai con questa faccia tutta la sera per una cosa che già ti aspettavi da tanto tempo!». Lei guarda quel viso così familiare eppure estraneo, gli occhi grigio cupo, gelidi, senza la minima traccia di comprensione. «E poi, se lo vuoi sapere, non mi è mai piaciuta molto quella donna. Sì, d’accordo, de mortui nihil e quel che ne segue, ma non puoi negare che ti metteva strane idee in testa».
13 Ah! Strane idee! Sapessi quante volte mi ha detto di lasciarti, andarmene… Ogni volta le opponevo una nuova buona ragione che lei accettava, per amor mio. E adesso non ci sono più ragioni che valgano. Non c’è più nessuno che mi voglia bene. Non come lei, perlomeno, di un affetto (amore) che chiedeva ben poco in cambio. I suoi pensieri divampano come fuoco – e quando pensa così c’è sempre quella precisazione, quella puntualizzazione che si sforza di chiarire il rapporto – ma lo guarda sottomessa. Non le piace mostrarsi così, eppure non sa evitarlo. È stata addestrata bene. «Forse hai ragione, caro, ma lo sai, le ero affezionata…». No, stupida, non è vero! Digli che l’amavi, di un amore diverso magari, che non hai mai avuto neppure il coraggio di ammettere con te stessa ma non per questo di minor valore, di’ che ti senti vuota, che soffri, digli… Con l’esperienza dovuta ad anni di pratica mette un freno ai pensieri proibiti, imbrigliandoli con tutti gli altri in fondo alla sua mente senza farli trasparire. «Ma mi stai ascoltando?». La voce di lui, una sferzata. Senza avvedersene raddrizza la schiena, quasi a mettersi sull’attenti. Signorsì, signore! «Scusa, mi ero distratta, che hai detto?». «Ho detto di farti bella. Stasera vengono a cena Luca e Giulia De Martino, ricordi? E voglio che tu mi faccia fare bella figura. Levati quello straccio che hai messo, indossa qualcosa di elegante e truccati un po’, per amor del cielo!». Apre il suo armadio, violenta i suoi abiti. Pare che anch’essi, come lei, si facciano piccoli piccoli per non ingombrare. «Ecco, metti questo» le ordina buttandoglielo addosso. È un tubino nero con una greca argentea sulla profonda scollatura. Sarebbe anche bello se non glielo sbattesse davanti agli occhi con tanta freddezza. «Voglio essere orgoglioso della mia donna, specialmente di fronte a Luca. E tu lo sai». Non ha alzato un dito su di lei, ma il tono glaciale con cui pronuncia quest’ultima frase è carico di sottintesa minaccia. Anna ne avverte chiaramente il pericolo. Non ha alzato un dito su di lei. Non ancora.
14 Luca De Martino è il suo socio. Lei non lo sopporta, tronfio e impettito e grigio, grigio fuori e grigio dentro, l’aria da padreterno. È una persona importante e lo fa pesare. Giulia è più simpatica, più alla mano. Forse avrebbe anche potuto stringere amicizia con quella donna gentile, ma ogni volta che loro quattro si incontrano sente sempre su di sé lo sguardo del marito e si ritrae nella sua corazza di fredda cortesia. Finalmente la lascia sola. Con la mano a pugno sulla bocca soffoca un singhiozzo. L’abito sul letto pare schernirla: “Be’, che vuoi? Sono nero, vedi? L’ideale per il lutto”. Già. Stasera veramente avrebbe preferito scrivere, stemperare la sua angoscia in una favola dolce, una di quelle da raccontare ai bambini per farli addormentare al sicuro: il mostro viene sconfitto e l’eroe torna sano e salvo al castello. Scrivere è il suo lavoro, la sua gioia, la sua via di fuga. I suoi libri non si trovano in bella vista sugli scaffali dell’elegante libreria in noce, tra i tomi di economia aziendale. Non c’è posto lì per le sue favole. Il posto giusto è nel suo piccolo studio, il suo regno. Lì, perfino lui sa di non poter entrare. È l’unico diritto per il quale Anna ha lottato, l’unica limitazione che lui ha accettato alla sua sopraffazione. Non gliela fa passare liscia, però. Battutine, frecciatine, allusioni sprezzanti… non le risparmia nulla. I primi tempi lei si chiedeva il perché di quel lampo di irritazione che gli solcava gli occhi ogni volta che accennava ai suoi libri. Eppure lo sapeva che la scrittura era la sua grande passione! Anna non gliel’aveva mai nascosto, anzi. Quando si conobbero lei aveva appena pubblicato il suo primo volume e lo diceva orgogliosamente a chiunque le prestasse attenzione. Quando parlava della sua scrittura, si trasfigurava. Il suo carattere schivo e taciturno scompariva, e subentrava una nuova persona, una che faceva dire a chi la conosceva: «Ma che cosa ne hai fatto di quell’altra?», tanta era la passione che la animava, il fuoco che le bruciava dentro. Diventava di punto in bianco socievole e spiritosa, addirittura un’esibizionista, le diceva Gloria scherzando. No, lui non poteva dire di non conoscere questo aspetto di sua moglie. C’era voluto diverso tempo perché infine comprendesse e smettesse di cercare di condividere con lui le sue emozioni.
15 A conti fatti, la sua è solo gelosia. Delle ore che lei vi dedica, dei sentimenti che trasfonde nelle sue parole, persino dei suoi piccoli successi. Tutte cose che rubano tempo all’unica attività che ritiene ammissibile: essere perennemente a sua totale disposizione.
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CAPITOLO QUATTRO. UNA SERATA (POCO) PIACEVOLE
Le sta bene addosso, quel nero sacrificale. Le stanno bene anche le calze satinate, e le Chanel argento. Non porta i tacchi a spillo. Non li ha mai portati, nonostante le pressioni e il profondo disprezzo espresso da suo marito ogni volta che la vede con quelle scarpe raso terra. Per fortuna è alta, e adopera la sua altezza come scusa. Un filo di perle al collo. Una signora porta sempre un filo di perle al collo. Il trucco. Non le piace molto truccarsi, ma stasera è troppo pallida e un poco di colore sulle guance l’aiuterà a fingere, giusto una spolverata di cipria per una sfumatura rosea che non le appartiene, ma le dona una parvenza di dolce felicità. Come è vero che è proprio l’abito a fare il monaco! Disegna solo un’ombra di rossetto sulle labbra. Lui si arrabbierà, gli piacciono le labbra scarlatte, sanguigne e sensuali, ma stasera il suo pallore sarebbe troppo in contrasto. Pazienza, tanto sa già che poi gliela farà scontare. Non gli mancano mai occasioni, per questo. Lui è pronto, l’aspetta in salotto. Si è cambiato, rinfrescato e profumato. Il suo profumo fu una delle cose che più la colpì, quando lo conobbe. Le piacevano, le piacciono, gli uomini che si prendono cura del proprio corpo. È un bell’uomo, dal fisico prestante. A quarantacinque anni ha il volto liscio e roseo come quello di un bambino e per sembrare più serio da un paio d’anni a questa parte si è fatto crescere una barbetta bionda, folta e sottile come i suoi capelli, appena spruzzati di grigio alle tempie. Ha un aspetto molto distinto e se ne compiace. «Bene, sei pronta». La frase è priva di ogni calore. La scruta con occhio critico, lascia scorrere lo sguardo lungo il corpo. «Avresti potuto truccarti un po’ meglio, ma ormai è tardi, staranno per arrivare. Marisol!».
17 «Sì?» risponde la ragazza affacciandosi dalla cucina ricca di odori e calda di forno. Ha ancora un forte accento straniero, ma parla molto bene l’italiano. È in Italia da quando era una ragazzina. «È tutto pronto?». «Certo, certo, tutto a posto». «Brava ragazza. Precisa, ordinata, sempre sorridente» commenta rivolto verso la colf. Poi, immancabile, la frecciata nei suoi confronti: «Dovresti prendere esempio da lei». Anna vorrebbe non dovergli rispondere. Sa che qualunque cosa lei possa dire, lui avrà le parole pronte per ferirla. Ma probabilmente tacere sarebbe peggio e fa un goffo tentativo per scusarsi. «Ma caro, lo sai, il mio carattere è sempre stato un po’ cupo…». «E cavoli, Anna, un po’ cupo ok, ma una volta sapevi pure sorridere ogni tanto! Ora sembra che ti costi una fatica d’inferno, ma cosa vuoi, si può sapere? Non faccio abbastanza per te? Poco ci manca che ti ricopra d’oro e d’argento, e tu non sai fare altro che questa faccia appesa? Che diavolo pretendi da me, me lo dici? Ah, ma forse i miei amici non ti piacciono, è così? Peccato che il lusso che ti circonda sia anche merito loro! Ma questo non ti riguarda, sei superiore tu a queste sciocchezze, vero?». Ma sai quanto me ne importa dei tuoi soldi e dei tuoi regali? vorrebbe rispondergli. La sua voce interiore scalpita, ma quando infine riesce a parlare è la solita triste Anna che prende il sopravvento. In questi momenti, quando il viso di suo marito si trasforma, rosso e carico di furia, ogni coraggio le viene meno. Ha già assaggiato la sua ira. «Per favore, io non…» esordisce a voce bassa, una mano levata in alto a inconsapevole difesa. «No, guarda, lascia perdere» la interrompe brusco bloccando sul nascere le sue parole di scusa. «Non ho voglia di fare discussioni adesso, eh! Incollati un sorriso addosso, se ne sei capace, e andiamo avanti con la serata, va bene? Già mi hai fatto venire il voltastomaco!». Riesce a essere così sgradevole, così… Così. In quel momento bussano alla porta. La trasformazione è istantanea e lui diventa allegro e premuroso. Il tono con cui esclama: «Sono loro!» è allegro ed eccitato. E lei, stupida, ogni volta si illude. Lo sa che è la presenza di estranei a far avvenire questa miracolosa trasformazione, a rendere il marito gentile e affettuoso come era una volta. Una volta, tanti anni fa.
18 «Buonasera, Giulia. Ciao Luca, come va? Benvenuti, vi stavamo aspettando, vero Anna?». È un anfitrione perfetto. Aiuta Giulia a togliere la pelliccia, li guida con elegante scioltezza in salotto. «Abbiamo fatto tardi, perdonateci» si scusa De Martino quasi in contemporanea con la moglie, che commenta: «C’è un tempo orribile fuori, piove a dirotto». «Ma no, non vi preoccupate» interloquisce Anna prima che il marito le lanci un’occhiataccia per spingerla a parlare. «Ho dovuto guidare a passo d’uomo, piove così forte che quasi non si vede la strada». «A me invece questo tempo piace molto, il cielo tempestoso, il fragore dei tuoni, la luce improvvisa e vivida dei fulmini che squarciano il buio…». «Ma brava! Appena appena un po’ egoista tua moglie, eh? E non hai pensato a noi sotto la tempesta?». La serata procede come al solito. Chiacchiere superficiali, l’aperitivo, tutto il repertorio classico dei riti conviviali. «Ottima cena, complimenti alla cuoca» conclude De Martino dopo aver terminato il dolce. «È stata Marisol a cucinare» precisa lei. Non vuole prendersi un elogio per ciò che non ha fatto. «Sì, ma il merito è stato tutto di Anna!». Lui si alza e gira intorno alla tavola, fermandosi dietro di lei. Le mette una mano sulla spalla, e lei reclina il capo fino a toccarla con la guancia in una carezza rubata alla scena. Com’è dolce l’inganno, finché dura. «È stata Anna a insegnarle a cucinare». Lei si alza di scatto, suscitando leggere occhiate stupite nella sua ospite. I due uomini non si sono accorti di nulla. «Vado a preparare il caffè» dice a mo’ di spiegazione, poi aggiunge: «Questa è una cosa che Marisol proprio non riesce a fare bene». Si rifugia in cucina chiedendosi perché non sia riuscita ad assaporare fino in fondo quel momento. Sapere che era artefatta non sminuiva il calore della carezza. E allora perché? Forse per un pudore istintivo a mettere in mostra la sua vulnerabilità, il timore che gli altri potessero vedere la sua gioia nel sentirselo così vicino, la certezza che fosse
19 proprio quello che lui voleva, per poi ferirla in privato con sadica soddisfazione. Dopo il caffè, i due uomini si appartano per qualche minuto a discutere di “cose da uomini”. Certo. Loro sono donne. Devono essere belle, seducenti, invidiabili. Il cervello non è una dotazione indispensabile. Ma una volta non era così! Una volta lui la apprezzava davvero, apprezzava la sua intelligenza, le sue battute pronte… Altrimenti lei come avrebbe fatto ad amarlo? Adesso si allontana con malcelato disprezzo, lasciando alle due donne le chiacchere futili. Tanto, che importa? Tutto è stato già detto, tutto è concluso. Il suo è un matrimonio perfetto. Perfetto, perché non suscettibile ai mutamenti e alle novità; perfetto, perché ormai chiuso in un circolo vizioso dal quale è impossibile venirne fuori; perfetto, quindi finito. Eppure, ostinatamente ancora vivo, a reggersi sul suo sacrificio, sulla sua tacita accondiscendenza. Loro due si siedono in poltrona, vicino al tavolo verde dove tra poco si troveranno per una partita di scopone scientifico. Lo schema delle loro serate è sempre quello, fisso e immutabile. Proprio come il suo matrimonio. Anna si accende una sigaretta per colmare il silenzio. Si rende conto di non essere una brava padrona di casa, sa di star mettendo a disagio la sua ospite, ma davvero non riesce a trovare nulla da dire. I pensieri che le nascono in mente si smarriscono lungo il cammino fino alla bocca, e giunto il momento di parlare si ritrova con frasi vuote e prive di significato. Le parole pensate sono fuggite via, in un luogo lontano dove lei non riesce a raggiungerle, volate su ali di farfalla lì, dove vivere non fa male. Vorrei essere morta, come Gloria. «Come sei pallida stasera, Anna. Cos’hai, non ti senti bene?». Oh, meno male, ha parlato Giulia per prima. Ora le tocca solo rispondere, è più facile che iniziare a parlare per prima. Occorre soltanto un piccolo sforzo per disserrare le labbra. «Sì, scusami. So di non essere stata una piacevole compagnia stasera, ma ho avuto una terribile emicrania tutto il giorno…».
20 La buona, vecchia emicrania. La più cara amica delle donne. Una scusa per tutte le occasioni. «Ma, Anna, avresti dovuto avvertirci, non ci saremmo trattenuti. Vorrà dire che ce ne andiamo adesso. Non è che cada il mondo se non giochiamo a carte, questa sera». «No, ti prego, rimanete. Davvero, ora mi è passata, mi ha solo lasciato un senso di stordimento. Mi fa piacere che restiate, credimi». Non è una bugia, assolutamente no. Tutto le fa piacere, tutto ciò che possa servire a rimandare il momento in cui lui verrà, avido di amore feroce, a chiederle ciò che lei non riesce più a dare. E spera che si faccia tardi, così che poi decida di essere troppo stanco per quella sera. La partita è estenuante. Anna non è una gran giocatrice, ma magari si divertirebbe comunque se potesse giocare senza l’ansia che il marito le mette addosso. Lui la studia, la soppesa, la critica in ogni sua decisione. Quali che siano le carte che cala, è sempre la mossa sbagliata. E che lei sappia che dopo, inevitabile, partirà la battuta scherzosa (scherzosa per lui, e forse per i loro ospiti innocenti) non facilita la sua scelta e le porta uno stress che le divora l’intestino dall’interno. È ambizioso, suo marito, e non gli piace perdere nemmeno in una stupida partita a carte. Eppure un’abitudine ormai consolidata dagli anni, troppo radicata anche solo per proporre un cambiamento, li fa giocare in coppia, loro due contro Giulia e Luca. Anna non è all’altezza del suo compagno di gioco, che ricorda tutte le carte uscite con assoluta precisione. Certo, è così che si vince, non è questione di fortuna. Non solo, quantomeno, o non tanto, lo sa benissimo. Ma non ne è capace. Giocando con lei è più facile perdere che vincere, nonostante tutta la bravura e l’abilità di suo marito. Gli amici lo prendono sempre leggermente in giro per la facilità con cui si innervosisce quando giocano. Si lanciano divertiti sguardi di intesa, convinti che i loro siano quei battibecchi che tanto spesso vivacizzano la routine degli innamorati. Invece per lei sono fonte di continua sofferenza. La partita finisce, termina la serata. Saluti, abbracci, convenevoli… poi il silenzio che grava su tutto l’appartamento. La ragazza è a letto da un pezzo. La mattina successiva si alzerà presto come al solito e metterà tutto in ordine prima che loro si sveglino.
21 Anna è la prima a lavarsi e coricarsi. Stesa sul letto, pensa che non è troppo tardi. Lui verrà. Ode lo scroscio familiare dell’acqua, lo sfregare dello spazzolino sui denti. Ecco, ha finito. Nell’oscurità della stanza si distingue solo la striscia luminosa sotto la porta del bagno. La striscia si allarga, diventa un fascio di luce violenta che le ferisce gli occhi, preludio di offese più gravi. Lo scatto dell’interruttore, il buio, il silenzio. Poi la voce di lui. «Sei sveglia?». L’impulso, subito respinto, di nascondersi dietro le palpebre abbassate e il respiro tranquillo. «Sì, ti sto aspettando». È stato molto dolce prima, forse questa volta sarà simile a quelle di tanti anni fa, forse si risveglieranno la tenerezza e la passione di un tempo, quando lei pregustava con ansia dolce quella domanda: “sei sveglia?” che portava ad amplessi carichi di soddisfazione. Era attento ai suoi desideri e ai suoi tempi, allora. Anzi, erano reciprocamente attenti l’uno all’altra. Non avevano fretta, e concedevano un complice spazio a ogni preliminare, perché a entrambi piaceva quel lento montare della passione verso l’orgasmo finale. Adesso la stessa domanda reca con sé il timore di quello che avverrà. Le si corica accanto e la tira violentemente a sé, come sempre, godendo del potere che esercita. Non è cambiato nulla, sciocca lei a illudersi che potesse essere diverso. Le fa male, ma Anna non reagisce, lascia passivamente che il rituale si compia e intanto la sua mente si astrae e si allontana da quel letto. Purché finisca presto. Non riuscirà a reprimere a lungo la repulsione che adesso le ispira l’uomo che una volta amava. Lui la spoglia frettoloso, ansimando nel piacere imminente. Lei risponde ai suoi gesti meccanicamente, gli carezza con dita di ghiaccio la schiena e la testa, senza trasporto. O è molto brava Anna, o è del tutto indifferente lui. Certo è che non fa caso alla freddezza di sua moglie. Accarezza possessivo il suo corpo, la stringe in silenzio, con forza. Domani sarà piena di lividi che nasconderà accuratamente. Nessuna parola dolce, nessun sussurro d’amore. Sente le sue mani avide passare su di lei, afferrarle i seni e strizzarli in una stretta egoista, non per dare piacere ma per prenderne. La bocca, bruciante e umida al tempo stesso, si posa rabbiosa sulla sua, le fa male, la lingua si infila prepotente fra le labbra, le sembra che arrivi fino in gola.
22 Le mani sono nervose e brutali, la frugano, toccano e stringono e spingono… Esplora ogni anfratto del suo corpo con dita feroci, gli piace sentire i gemiti che le strappa a forza mentre le intinge nel suo umore. Le sale addosso, la schiaccia, le toglie il respiro. Il corpo di lui è pesante sul suo seno mentre le infila il membro tra le labbra, fino in fondo, quasi a violentarle la bocca, provocandole conati di vomito a stento repressi, mascherati da singulti di passione. Poi le si allunga addosso, si agita convulso, ogni spinta è un affondo di scherma. Gocce di sudore dalla sua fronte le cadono sugli occhi, aspre e salate. Infine l’esplosione finale che la squassa e lo lascia, finalmente esausto, accasciato su di lei mentre il cuore calma i battiti e il respiro ritorna normale. Quando le sembra di non farcela più a sopportare il suo peso, e sta per urlargli di togliersi di dosso, lui si volta e le rotola al fianco. Si addormenta soddisfatto, senza una parola o uno sguardo al suo corpo dolorante e sporco. Sconfitta, Anna aspetta che il suo respiro si faccia tranquillo e profondo, e quasi non osa respirare fin quando non sente un placido russare che le dà la certezza del suo sonno. In questi momenti le pare di odiarlo. Un urlo trabocca e muore, una lacrima sfugge alla sua prigione. Scivola verso il basso, costretta dalla gravità. È una sola, non dovrebbe nemmeno avvertirla, eppure brucia mentre le scava un solco amaro sul viso. Amaro, come la piega che le sue labbra hanno preso con gli anni. Ci sono tutti i suoi sogni, in quella lacrima ribelle. Silenziosamente, leggera, si alza. Attraversa l’appartamento, si dirige al bagno di servizio. Ha bisogno di una doccia che la ripulisca, almeno esternamente, perché per l’anima non v’è sapone a sufficienza, e non può farla nel bagno padronale. Se lui si svegliasse… Non lo sa. Non vuole sapere di cosa sarebbe ancora capace. Rimane quasi mezz’ora sotto l’acqua calda, lasciando che porti via con sé tutta la sporcizia e il ribrezzo che si sente gravare addosso. Una volta non era così… Indossa la sua calda vestaglia che la difende dal freddo, vi si avvolge dentro, vi si rifugia come una bambina nell’abbraccio materno. Va nel suo studio. In quella stanza i vetri delle finestre non sono mai ciechi alla notte, soltanto una tendina leggerissima, quasi trasparente, dissimula il suo volto pallido che scruta il mondo fuori. Appoggia la fronte scottante al vetro. Il freddo tagliente e umido le corre sotto la pelle come una
23 scossa elettrica e le inturgidisce i capezzoli. Lui avrebbe apprezzato. Pur con tutte le sue dolorose manipolazioni, non c’era riuscito. Guarda in alto. Peccato, non ci sono le stelle stasera. È vero, che stupida, ha piovuto tutta la giornata. Ci sono solo nuvole basse più nere della notte che le ospita e che adesso cominciano a rompersi lasciando intravedere la luna. Solo a tratti, però, perché subito ci pensa il vento a sospingere le nubi nuovamente una contro l’altra, cicatrizzando lo squarcio. Una sigaretta accesa si consuma lentamente tra le sue dita. Il fumo si alza a spirale, traccia un percorso arcano. Forse se lo segue fino alla fine troverà la sua pentola d’oro, la sua felicità. Ora le sembra impossibile anche solo il ricordo dei giorni felici. Quindici anni. Quindici anni in cui si sono trovati, amati, e persi. Cosa è successo al loro amore, quali errori hanno commesso per ferirlo in modo così grave da portarlo sull’orlo della morte? Perché si amavano, questo è certo. Percorrendo il loro rapporto a ritroso, Anna non riesce a trovare un giorno, un momento di cui dire: ecco è da quel giorno, da quel momento che le cose sono cambiate. È stato un mutamento lieve e graduale, un piccolo morire ogni ora, una scintilla smarrita senza che se ne accorgessero e potessero porvi rimedio. E così i giorni si sono sommati, uno sull’altro, uno più pesante dell’altro, consentendo al rancore per i torti subiti, reali o immaginari, di espandersi e lievitare fin quando il loro matrimonio non si è perso. Quanti anni aveva, quindici anni prima? Non certo i mille che si sente addosso oggi. Eppure non è così diversa dalla se stessa di ieri. Ancora le capita di pensare a “cosa farà da grande”, a sognare gli identici sogni. Chissà, forse è proprio questa la colpevole differenza: Anna non è cambiata, suo marito sì. Eppure era stata proprio la sua innocenza a conquistarlo, la sua voglia di sognare, la sua dolcezza. Forse lui ha scambiato la sua dolcezza per mansuetudine, la sua innocenza per stupidità. E i suoi sogni? Per cosa mai avrebbe potuto scambiarli? Lei non l’aveva ingannato. L’acuto lamento di una sirena (chi ha bisogno nella notte?) la riporta al momento presente. Posa la sigaretta spenta in un portacenere. Con un sospiro la volontà si arrende alla stanchezza e Anna ritorna al letto coniugale. La notte ha riconquistato il silenzio che le spetta.
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CAPITOLO CINQUE. L’ORFANOTROFIO
Non erano cattive, le suore. Cercavano sempre di aver buona cura delle bambine che erano state loro affidate, ma non potevano uguagliare l’amore di una mamma. Non vi sarebbero mai riuscite, nonostante tutta la loro buona volontà. In un orfanotrofio, e in particolare in uno che si reggeva sull’elemosina della gente, non c’era mai abbastanza tempo per pensare a ogni singola bambina. Le priorità erano altre. Le suore erano impegnate ad assicurare la sopravvivenza delle orfanelle, e della loro sofferenza lasciavano che se ne occupasse il Signore. Per questo le obbligavano a pregare tanto. «Se sarete buone,» ripetevano in continuazione, «le vostre preghiere raggiungeranno il buon Gesù in cielo». Ma evidentemente Anna non era abbastanza buona, perché nonostante le sue preghiere la mamma non tornò mai a riprenderla. Inutilmente aspettava dietro i vetri di vedere la sua amata figura affacciarsi nell’atrio del palazzo in cui era stata rinchiusa. Inutilmente pregava, e prometteva a quel Dio di cui parlavano le suore di essere brava e di non fare capricci. Gesù non l’ascoltava. O, se l’ascoltava, non credeva alle sue promesse. Era la più piccola di tutte e questo fatto, che per le altre costituiva una sorta di “raccomandazione”, per lei era motivo di ulteriore tristezza. Non aveva neppure otto anni – l’età minima per essere accettata dalle suore – ma questo, invece di essere fonte di tenerezza, faceva sì che le altre bambine la prendessero in giro. «Anna è raccomandata, Anna è raccomandata!» cantavano facendo girotondo intorno a lei. Solo Gloria, di sei anni più grande e tutta la sua piccola vita trascorsa in vari istituti dal giorno della sua nascita, sapeva la verità. Aveva ascoltato per caso la conversazione fra la madre di Anna e suor Ausilia, mentre faceva le pulizie nel corridoio dell’ufficio.
25 La direttrice non voleva accogliere la bambina prima del compimento dell’ottavo anno, di lì a sei mesi, ma la madre aveva offerto una piccola somma perché soprassedesse. Il suo fidanzato voleva sposarla, però non voleva bambini tra i piedi. Così, Anna era improvvisamente diventata di troppo. Un fastidio di cui liberarsi a poco prezzo. «Lasciatela in pace!» le sgridò Gloria interrompendo il crudele girotondo. Visto che né le suore – perennemente affaccendate – né le educatrici – ragazze agli ultimi anni di permanenza prima della maggiore età – facevano nulla per interrompere quel gioco crudele, era intervenuta lei spezzando il cerchio delle altre bambine. «Vieni con me» le aveva detto piano. E le aveva teso la mano come un’ancora a cui aggrapparsi.
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CAPITOLO SEI. VOGLIO UN BAMBINO
«Voglio un bambino». Quanti anni erano passati da quando aveva pronunciato questa frase? Nove, dieci… Non ricorda più, la memoria di quel giorno si è confusa nel nebbioso limbo degli anni trascorsi. Non ha dimenticato la sua risposta, invece. Non ha dimenticato come i suoi occhi grigi fossero diventati d’un tratto neri come nubi in tempesta. Lo aveva disturbato mentre stava leggendo qualche importantissima relazione, come capitava sempre più spesso da quando si era messo in società con Luca. «Che cosa?». Si era tolto gli occhiali da lettura, con la giusta dose di offensiva lentezza. «Puoi ripetere, prego?» le aveva sussurrato gelidamente. Lo ricordava quel gelo. Ricordava come avesse avuto la sensazione che la sua figura si allontanasse mentre un alito di ghiaccio le ricopriva il cuore. Eppure quella volta, per una volta, Anna non si era immediatamente ritirata di fronte alla chiara dimostrazione di fastidio. Cosa quasi inconcepibile ormai nel loro rapporto, aveva insistito. «Non far finta di non capire, per favore! Ho detto che voglio un figlio». «Ma davvero. Però non ti sei chiesta cosa voglio io. No, certo. Perché è una cosa che riguarda solo te, vero? Io non c’entro, io non conto nulla, è così?». Il tono della voce era andato gradatamente aumentando in quello che era il preludio di un’altra delle sue frequenti sfuriate. Si era alzato in piedi, aveva sbattuto i fogli sul tavolo con uno scatto nervoso, poi li aveva ripresi e glieli aveva agitati davanti al viso. «Lo sai cosa sono questi? Sono il mio lavoro, sono quello che ti fa vivere in questa bella casa, che ti pagano l’automobile di lusso e tutto il resto». Ormai stava gridando. «Ma a te basta che porti i soldi, e tutto il resto non ti riguarda, perché tu vuoi un figlio!». Era un maestro, suo marito, nella tecnica del “la miglior difesa è l’attacco”.
27 «Ti prego, non fare così, fammi parlare» l’aveva implorato, sperando che ancora la discussione potesse tornare a svolgersi civilmente come lei aveva immaginato. «E mi spieghi da dove ti viene tutto a un tratto questo desiderio di maternità? Non stai bene come stai? Che bisogno c’è di complicare le cose?». Aveva chinato il capo, lo sguardo fisso sul tappeto a perdersi nell’intreccio dei nodi, sperando inconsciamente che lui si calmasse di fronte a quell’atteggiamento di sottomessa vigliaccheria. «Non… non è una voglia improvvisa, io...». L’aveva interrotta bruscamente. «Guardami in faccia quando parli» l’aveva rimproverata. “Ma c’è qualcosa che ti va bene?” Aveva continuato a parlare, con un coraggio che non credeva di avere. «Io ci sto pensando da tanto. Ormai siamo sposati da diversi anni, non credi anche tu che sia giunto il momento di allargare la famiglia?». «Be’, mia cara, continua pure a pensarci se ti fa piacere. Io...». «Tu avevi detto che lo volevi, un figlio!». Lo aveva interrotto di nuovo. Una ruga si era allargata sulla sua fronte. Lei l’aveva vista, l’aveva correttamente interpretata. E volutamente ignorata. «Ma sì, l’avrò anche detto, però…». Era chiaro che non voleva essere infastidito. Perché questo era, per lui, quella proposta: un semplice fastidio. «Però?» Anna aveva insistito, sfidandolo, pur sapendo che rischiava. Tuttavia lei voleva un figlio, lo voleva così tanto che non le importava quanto lui potesse gridare, e alterarsi o addirittura… “Noo, non oserebbe!” “Ne sei sicura? Hai già dimenticato l’impronta rossa della sua mano sul tuo volto? E quel fermacarte che ti scagliò contro perché eri entrata nel suo studio con la sigaretta in mano? E…” “Basta, basta, non l’ha fatto apposta!” “Se ne sei così sicura…” Il dialogo immaginario si era svolto nello scorrere di pochi secondi. Era stata la prima volta che aveva sentito quella voce interiore rinfacciarle le sue bugie, e non era stato facile ricacciarla nel fondo della sua mente. Intanto l’uomo le stava già rispondendo. Non si era accorto per nulla dell’uccello impazzito che sbatteva le ali nel corpo di sua moglie.
28 «Però non è ancora il momento, come te lo devo spiegare? Io sono agli inizi della carriera e non posso permettermi di sprecare né tempo né energie appresso a un bambino che non farà altro che piangere e pretendere attenzioni e cure! Come se non avessi altro da fare! Pensavo fossi più intelligente». «Ma sarò io sola a occuparmene, tu non avrai nessun problema…». «Ma sarò io sola a occuparmene!» l’aveva scimmiottata lui con la voce in falsetto. «A chi credi di darla a bere? No, ascolta, il discorso è chiuso, va bene? Finito, superato. Ci mancherebbe altro che vederti tutto il giorno con pappe e pannolini! Ho bisogno di una donna al mio fianco, elegante e ben curata, non me ne faccio nulla di una casalinga sciatta alle prese con mocciosi che frignano!». Anna ricorda che la guardò con un sorriso falsamente conciliante prima di aggiungere a mezza voce: «Magari, tra qualche anno…». Lei non si era lasciata ingannare: dietro quella smorfia ipocrita si leggeva chiaramente che il momento giusto non sarebbe mai arrivato. Perché non l’aveva lasciato allora? Invece di prendere finalmente atto che aveva commesso un errore, che lui non era la persona che credeva, ne aveva commesso un altro. L’aveva ingannato. Aveva smesso di prendere la pillola. E lui era un amante vigoroso. Non c’era voluto molto perché restasse incinta. Non gli aveva detto nulla. La gravidanza non le aveva portato nessun malessere, giusto un accenno di nausea all’odore del latte, ma aveva risolto facendo colazione con l’orzo. Lui, se anche l’aveva notato, non ci aveva dato peso. Non dava mai peso alle piccole cose. Erano cose piccole, di scarsa importanza. Come sua moglie. Lo sapeva che non era giusto, che invece era un argomento troppo importante per tacerlo, ma era convinta che se avesse parlato l’avrebbe convinta ad abortire. Andando all’estero, certo, mica si poteva far sapere in giro una cosa del genere! Meglio che lo venisse a sapere quando ormai un aborto sarebbe stato impossibile. Si era illusa che, messo di fronte al fatto compiuto, lui avrebbe cambiato opinione e si sarebbe innamorato di suo figlio. Gli aveva confessato la verità solo quando non aveva più potuto farne a meno. I segni della gravidanza si erano fatti visibili: il ventre si era arrotondato (e quante battute aveva sopportato sul fatto che dovesse mettersi a dieta!), il seno si era inturgidito e i suoi occhi avevano acquistato una luce nuova, quella dolcezza particolare che si legge negli occhi delle mamme in attesa. Ricordava l’emozione con cui gli si era
29 avvicinata, un misto di speranza e timore condito dalla sensazione che nulla sarebbe potuto andare male… Aveva bussato alla porta del suo studio con tocco leggero, per non disturbarlo, per consentirgli di far finta di non averla udita, se avesse voluto. Reggeva tra le mani un vassoietto con una tazza di caffè su una tovaglietta di lino. Una simbolica offerta al suo dio. Un misero tentativo di captatio benevolentiae. «Posso? Ti disturbo?» aveva mormorato socchiudendo la porta, pronta ad accostarla di nuovo. «Visto che sei già entrata…» aveva ribattuto, asciutto. «Cosa vuoi?» aveva aggiunto sorseggiando il caffè, visto che non se n’era andata subito dopo. Non era vero! Non era vero che fosse già entrata, lei l’aveva sentito chiaramente il suo “avanti”. Ma anche quello era un modo per umiliarla, per farla sentire come una bambina colta in fallo. Nulla sarebbe potuto andare male? Era andata peggio! La sua reazione era stata una negazione totale, un rifiuto assoluto del suo stato. Lui quel bambino non lo voleva, “mi sembrava di essere stato chiaro, no?” e non lo avrebbe accettato. Mai. Che se lo schiaffasse bello forte e chiaro in mente. Avrebbe affrontato da sola quel “capriccio”, lui se ne sarebbe lavato le mani, che non si aspettasse il minimo aiuto da parte sua! «E non sognarti di trascurare i tuoi doveri! Esigo che per me non cambi nulla! Se ti sta bene così… Altrimenti la porta è quella, torna pure dalla tua amica a far l’artista, va’!». E così, Anna aveva imparato a vivere una doppia vita, scissa in due parti ben distinte. Da un lato la sua attesa, i suoi giri nei negozi per acquistare tutte le piccole cose che servono a un bimbo, le visite mediche, i controlli periodici; dall’altro la sua vita col marito, in cui non c’era spazio neppure per un accenno piccolo piccolo a quello che le stava accadendo. L’unica differenza era che non le chiedeva più rapporti fisici. Forse gli faceva senso accostarsi a sua moglie adesso che non era più sottile come prima. Ma lei non ne aveva idea. Non ne avevano parlato. Non parlavano mai del bambino. Come se nel suo ventre che si gonfiava di loro figlio non stesse crescendo nulla. Nonostante la sofferenza che questo atteggiamento le procurava era stato comunque un bellissimo periodo, un sogno dorato intessuto di speranze.
30 «Bimbo mio, non temere. La tua mamma sarà sempre con te. Io ti amerò per due» sussurrava teneramente al piccino che le scalciava in pancia. Eppure le sarebbe tanto piaciuto dividere con suo marito l’emozione di quei momenti, avrebbe voluto sentire la sua presenza accanto a lei quando durante l’ecografia le avevano mostrato il cuore pulsante del bambino, avrebbe voluto riuscire ad ammorbidire la sua dura indifferenza. L’uomo si era sempre fermamente rifiutato di lasciarsi coinvolgere, insofferente a qualsiasi accenno. Non erano fatti suoi. E quando era stata male, e il ginecologo le aveva raccomandato assoluto riposo a letto, non aveva voluto sentir ragioni. Invece di aiutarla l’aveva trascinata con sé in un vortice di incontri, cene di lavoro e conferenze, indifferente alla sua stanchezza, al suo pallore sempre più accentuato, alle dolorose fitte che la coglievano all’improvviso levandole il fiato. Imperturbabile, la stava sfiancando e faceva finta di niente. Lei non si era mai lamentata. Non voleva dargliela vinta. Non poteva dargliela vinta! Non era stato senza conseguenze. Era presto, troppo presto, doveva ancora compiere il settimo mese di gravidanza, come poteva essere già il momento? Eppure le fitte che si presentavano sempre più ravvicinate, e più dolorose, l’avevano convinta a chiamare un taxi. Non l’aveva neppure avvisato. Avrebbe dovuto disturbarlo sul lavoro, e per dirgli cosa? Non stava accadendo nulla che lo riguardasse. Per fortuna aveva già preparato da tempo la piccola borsa per la sua degenza e per il bambino. Aveva comprato tutine gialle e bianche perché non sapeva, non aveva voluto sapere, il sesso. Non le interessava se fosse un maschietto o una femminuccia, amava già di un amore assoluto quel piccolo essere che le dormiva in grembo. Ma era sola. Non c’era nemmeno Gloria a tenerle la mano quando i dolori si erano fatti davvero violenti. La sua amica era lontana per lavoro, e lei volutamente non l’aveva avvertita per non distoglierla dai suoi impegni. Non aveva nessun altro. Nessuno, perlomeno, che lei volesse. Ed era stata sfortunata. Nel momento in cui il taxi le si fermava davanti, le si erano rotte le acque e l’autista si era rifiutato di farla salire a bordo. «Non sono un’ostetrica, signora, a chi vuole far passare il guaio? Io non so mica come si fanno nascere i bambini, non sono nemmeno sposato!»
31 Però aveva chiamato un’ambulanza tramite la centrale, e l’aveva fatta sedere in auto, almeno, fin quando questa non era arrivata. L’ultima cosa che ricordava con certezza era la sirena che ululava senza sosta. Rammentava vagamente anche il suo arrivo al pronto soccorso, ma ormai le cose dovevano essersi messe proprio male e l’avevano addormentata. Avrebbe ignorato per sempre cosa significasse partorire. L’unico ricordo sarebbe stato il dolore. Dolore prima, e dolore dopo. Al suo risveglio aveva provato una strana sensazione di vuoto e di leggerezza. Si era guardata la pancia che non c’era più, se l’era toccata, molliccia come un soufflé afflosciato. Aveva subito alzato gli occhi sulla dottoressa che si trovava accanto al suo letto, le aveva sorriso. Che strano, la donna non aveva ricambiato il suo sorriso, anzi aveva assunto un’espressione di circostanza, di quelle che si vedono sul volto di chi sta per darti una notizia e non vorrebbe farlo. «No, no, no!» aveva protestato ad alta voce scuotendo la testa, ancora prima che iniziasse a parlare, ma non era riuscita a evitare di ascoltare… «Signora, mi dispiace». La sua voce era così lontana, così lontana… ma perché continuava a sentirla? Aveva girato la testa dall’altra parte ma le parole continuavano ad affondarle nel cuore come coltellate, e ancora e ancora e ancora. E il maledetto che continuava a battere, come era possibile che non si fermasse, stremato da quelle parole taglienti come lame! «Abbiamo fatto il possibile, ma… sono sopraggiunte delle complicazioni impreviste. Suo figlio è nato morto. Era un maschietto». Non glielo avevano detto. Non apertamente perlomeno. Ma qualcuno, un infermiere forse?, le aveva lasciato capire che magari, se si fosse strapazzata meno, se fosse rimasta a letto invece di pensare solo al lavoro… Ma quale lavoro. Non era stato certo quello a uccidere il suo bambino. L’assassino di suo figlio era il suo stesso padre. Ma che ne sapevano, loro? Che ne sapevano del suo personale inferno? Non glielo avevano neanche fatto vedere. Pensavano fosse un atto di pietà, ma lei non avrebbe mai conosciuto il volto di suo figlio. Come avrebbe mai potuto ricordarsi di lui, se nemmeno lo aveva guardato anche solo per dire, straziata: «Come è bello, il mio bambino!». Aveva lasciato l’ospedale il giorno dopo, contro il parere dei medici, ma le era impossibile restare. Non ne aveva il diritto. Le altre donne sì, loro erano mamme. Lei era solo un guscio vuoto. Non aveva neanche più il
32 latte. Le avevano fatto un’iniezione per farlo andar via. Non aveva un figlio da allattare, lei. Era stato un sogno troppo breve. Ed era stato un bene che suo marito non lo avesse condiviso. Certo. Ora tornare a casa, riprendere la vita di sempre, le sarebbe stato più facile. Sarebbe stato più facile, si ripeteva, dimenticare un bimbo mai conosciuto, dimenticare il battito del suo piccolo cuore, quei piedini che scalciavano pieni di vita. Dimenticare. Avrebbe dovuto solo buttare gli oggetti che, a casa, aspettavano un bimbo nuovo. Un bimbo? Quale bimbo? Lei non aveva figli. Non ne aveva mai avuti. Non ne avrebbe avuti mai più. Anche di questo, anche di questo doveva ringraziare l’uomo che non aveva mantenuto neppure una delle sue promesse. Si era alzata, aveva aperto la valigia che aveva contenuto un sogno, e l’aveva svuotata di quegli strani oggetti. Lei si era ricoverata per un intervento. Doloroso, ma necessario. E adesso doveva tornare a casa, a riprendere il suo posto nella sua vita. Lui non le aveva chiesto nulla. Aveva accolto il suo solitario rientro senza una parola di commento. Lo sapeva, certo. Qualcuno, non lei di sicuro, glielo aveva riferito. Forse il medico che l’aveva visitata, pensando di aiutarla in qualche modo, se mai ci fosse stato un aiuto possibile. Sicuramente si erano chiesti perché fosse sola. Se almeno avesse detto un “mi dispiace” chissà… forse sarebbe stato più facile affrontare il dolore che la sbranava a piccoli morsi feroci se avesse avuto la consapevolezza di una sua comprensione. Chissà. Forse no. In ogni caso, il problema non si era posto. Lui aveva accettato il suo solitario ritorno come un qualcosa che gli era dovuto. Il suo atteggiamento soddisfatto lasciava intendere che ciò che era successo era giusto, che l’incubo nero in cui si trovava era la meritata conclusione del suo errore, della sua disobbedienza. Bambina cattiva. Non aveva mosso un dito per aiutarla a portare in strada la carrozzina, la culla, il fasciatoio… giocattoli inutili e dolorosi. Era rimasto tutto il tempo appoggiato allo stipite, a guardarla con aria annoiata. E quando lei gli aveva chiesto aiuto – si sentiva così debole! – si era girato di spalle e se n’era andato, senza dire nulla. Non avrebbe potuto esprimersi più chiaramente nemmeno se avesse profuso un mare di parole.
33 Comunque, ce l’aveva fatta. Gli scatoli, appoggiati ordinatamente al muro, aspettavano. Forse qualcuno, passando, li avrebbe trovati utili e li avrebbe consegnati a un diverso destino. Nei giorni seguenti si sorprendeva a guardarlo, come se osservasse una cosa aliena. Non aveva manifestato nessun sentimento, nulla. Solo un rapidissimo accenno di un sorriso compiaciuto, troppo veloce perché ne fosse veramente sicura, quando le cose avevano ripreso il posto che avevano prima di… Prima. E la sera, la sera stessa, quando lei si era coricata distrutta da dolore e stanchezza, lui era tornato a pretendere. Come se nulla fosse accaduto, come se non fossero trascorsi dei mesi dall’ultima volta, mesi in cui lei aveva sperato, in cui la speranza era morta, e lui non c’era stato mai. «Sei sveglia?» le aveva chiesto, sicuro di sé. «No» aveva risposto, indifferente alla sua reazione. Che facesse pure quel che voleva, arrabbiarsi, gridare, colpirla... Non avrebbe potuto farle più male di quanto gliene aveva già fatto. Almeno per quel giorno. Il giorno dopo, avrebbe ripreso la sua vita di sempre. La sua vita, con un buco dentro. Un buco nero, che aveva assorbito ogni sentimento. Non era nemmeno più un dolore. Era soltanto un’assenza, un vuoto. Qualcosa che doveva esserci e non c’era. Era come un sacco dell’immondizia, e ci puoi buttare dentro qualsiasi cosa, sempre immondizia resta.
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CAPITOLO SETTE. UN LUOGO ESTRANEO
Non era più andata al cimitero, dopo quell’unica volta che aveva accompagnato la piccola bara bianca, sotto il caldo sole di maggio. Non c’è nulla al cimitero che l’attiri. Sa che altri trovano conforto al proprio dolore andando a trovare le tombe dei propri cari. Pulirle, mettere i fiori freschi, sedersi sul marmo in cerca di un impossibile contatto fisico… Non lei. Per Anna non sono altro che vuoti simulacri. Sterili. Quale rapporto può nascere con una lapide, con una foto di pietra? Non è lì che dorme il suo bimbo! Il suo bimbo ha un posto tutto suo dentro al cuore della sua mamma, un angolino che lei conserva con amore; ha un posto in cielo, fra le mille stelle che trapuntano la notte; dorme in una nuvola bianca e rosa, cullato dal vento che gli sussurra una ninnananna, riscaldato dai baci del sole. Di sicuro non riposa lì, al freddo e al buio, il viso celato alla luce e al calore, senza conoscere il canto degli uccelli né lo stormire delle foglie, né il profumo dei fiori. C’è una breve scritta sul marmo a sostenere la menzogna, ma lei sa che non è così. Se fosse stato vero avrebbe provato di sicuro qualcosa quando la bara fu murata, invece non provò nulla. Solo una sensazione di vuoto, una mancanza che non si sarebbe mai più colmata. I suoi occhi erano rimasti asciutti. E ora anche Gloria, la sua amica, è finita lì. È stata la sua morte a farle rivivere con tale intensità la perdita precedente e adesso Anna si sente esausta. Si ritrova in macchina, a guidare per strade poco familiari. Non si è accorta di essersi messa alla guida, non sa neanche dove stia andando. In apparenza. È solo quando si ritrova davanti al pesante cancello di ferro che riconosce il luogo. Che strano. Credeva che non avrebbe mai sentito il desiderio di tornare. Come quella volta, anche questo lutto sembrava essere scivolato inerte sulla sua pelle, senza reazione a parte la stretta al cuore.
35 Eppure oggi, non è neanche una settimana che la sua amica è morta, Anna si trova all’ingresso del cimitero. Si sente in colpa, non aveva mai provato questo desiderio col suo bimbo. È una madre così terribile, allora? Così snaturata? Ma le cose non si ripetono mai uguali a se stesse, dovrebbe saperlo. Tranne i giorni del suo matrimonio. Se volge lo sguardo alle settimane, ai mesi e agli anni trascorsi, non vede altro che una foschia, un pesante grigiore che li accomuna e li rende indistinguibili gli uni dagli altri, così rivestiti di sorda amarezza e di risentimenti mal covati. Non bisognerebbe mai dare spazio al risentimento silenzioso. Si dovrebbe parlare, confrontarsi, esprimere i propri desideri, i propri sogni, le proprie rimostranze. Altrimenti, anche il matrimonio diventa una tomba. Si arrende all’impulso che l’ha guidata. Parcheggia la macchina nello spiazzo semivuoto. C’è la bancarella di un fioraio proprio lì davanti, di fianco al cancello. Anna si ferma incerta davanti ai fiori esposti. Cerca qualcosa che possa piacere a Gloria, che stupida, come se a lei adesso importasse di quali fiori le portano! Eppure, il suo sguardo si ferma sui gerani. Erano i preferiti della sua amica. Ne compra una piantina e si dirige al cancello, ma fatti pochi passi torna indietro. Sullo stesso banco aveva notato dei mazzolini di fiori bianchi, leggeri come una nuvola e di cui non conosce il nome. Forse glieli porterà, li lascerà finalmente sulla piccola tomba. Forse. Il cancello è aperto a malapena, bloccato da una catena che impedisce alle porte di allargarsi più di tanto. Bisogna entrare di sbieco. Non manca molto all’orario di chiusura, e un cartello ammonisce che dopo tale ora l’ingresso verrà sbarrato. «Perché?» si chiede Anna tra sé e sé, entrando incurante del poco tempo a disposizione. Hanno forse paura che i morti fuggano, per doverli rinchiudere quando non c’è più nessuno? Temono che cerchino di tornare alle loro case, disturbando i vivi che si sono ormai rassegnati alla perdita? Domande senza risposta. O anche risposte senza domanda. Intanto va avanti lungo il viale ornato di lapidi, croci e angeli benedicenti, tutto architettato per dare sollievo ai vivi. I defunti sono lontani e assenti, non hanno bisogno di consolazione o conforto. Non ha esitazioni, ricorda bene il percorso per arrivare da Gloria. Ai suoi fianchi è tutto un canto di fiori colorati che iniziano a reclinare il capo: la
36 loro effimera vita sta per concludersi, sacrificata all’altare della commemorazione. Muoiono anch’essi, in silenzio. Fa freddo. Il sole sta per tramontare, pallido, e non ha la forza di dare colore al mondo. I contorni delle cose appaiono sfumati nella bruma della sera che sopraggiunge. L’atmosfera è uggiosa, ma Anna si accorge con stupore misto a sollievo che quel silenzio ovattato le placa l’angoscia. I suoi passi si fanno via via più leggeri e lo sguardo precorre con levità il cammino. Qualcuno ha già deposto dei fiori sulla tomba. Certo, Anna era la più cara, ma Gloria aveva anche altre amicizie. Sul marmo una sua foto le sorride, pare che le dica: «Finalmente, ti aspettavo!» Anna ricambia il sorriso e all’improvviso comprende perché la gente si rechi al cimitero, e si scopre capace di dialogare con lei come se potesse ricevere risposta. «Ciao, cara. Come vedi, sono qua». Avverte un leggero imbarazzo, ma continua a parlare. «L’avresti mai creduto possibile? Guarda, ti ho persino portato dei fiori, ti piacciono? Li metto insieme a questi altri, è solo un piccolo vaso, ci sta bene, non occuperà troppo spazio…. Questi?» aggiunge guardando il mazzetto più piccolo che stringe ancora in mano, meravigliandosi di averli comprati. Quasi non se ne rammentava già più. «Non lo so, forse sono per…» un piccolo sforzo, coraggio! «per il mio bambino. Ma non lo so. Non so se riuscirò a portarglieli». Lancia un’occhiata intorno, forse per controllare inconsciamente che nessuno possa sentirla. Si siede sulla pietra, è gelata! e tende una mano esitante a carezzare il marmo in cerca di un contatto. Uno qualsiasi, che la faccia sentire più vicina alla sua amica. China il capo. Rimane un paio di minuti così, immobile, in silenzio, senza pensare a nulla di preciso. Lascia che la profonda pace che per la prima volta sente aleggiare in quel luogo le penetri nell’animo. Guardando la foto della sua amica eternata nel sorriso che era suo, sente che gli ultimi mesi della sua vita, quei mesi dolorosi che avevano impresso segni indelebili sul corpo di Gloria, stanno sfumando lasciandole intatto il ricordo della loro amicizia, nata nell’orfanotrofio in cui avevano vissuto entrambe. E così, è giunto il momento di leggere la lettera che ancora riposa nella tasca del cappotto. Ora che l’angoscia è svanita e al suo posto è comparsa la dolcezza può affrontare con serenità le ultime parole di Gloria.
37 La sua mano scivola nella tasca e afferra con delicatezza la busta. Seduta in favore dell’ultima luce, comincia a leggere. La scrittura è incerta. Si intuisce, attraverso i segni imperfetti vergati sulla carta, il dolore che era stato il suo assiduo compagno negli ultimi tempi, anche se dalle parole scritte non traspare. “Mia più che cara Anna, so che quando leggerai queste parole io sarò morta. È strano dire questo ora, mentre ancora posso pensare e respirare. È strano pensarmi senza vita, ma è così facile ormai... Eppure, credimi, non provo dolore di morte. Mentre ti scrivo io so che continuerò a vivere. In te, nel tuo ricordo. Si muore per davvero solo quando non si è più nel cuore di nessuno. Ecco perché io so che continuerò a vivere. Vivrò in te, con te, perché parte di me non ti lascerà mai. E anche tu non mi lascerai mai. C’è una cosa che devo dirti, una cosa che avrei voluto dirti tanti anni fa. Ma tu facesti la tua scelta prima che io trovassi il coraggio, e poi non seppi fare altro che cercare di aprirti gli occhi, inutilmente. Temevo, a insistere troppo, che tu decidessi di lasciarmi, e ho avuto paura di perdere anche solo quel poco che eri disposta a darmi. Ho questo peso, sul cuore. Se solo fossi stata un po’ più coraggiosa… Stai sorridendo, forse? Sì, credo di sì. Se ti conosco bene, e tu lo sai quanto bene ti conosco, adesso un leggero sorriso è apparso sulle tue labbra. Perché io ti ho voluto subito bene, sai, da quando arrivasti al Galdieri, così piccola e triste e infelice. E poi ti ho amata, per la tua dolcezza, la tua sensibilità, la tua fantasia. Ecco, te l’ho detto. L’avevi intuito, vero? E credo che anche tu mi abbia amata, a modo tuo. Purtroppo, non era quello il nostro destino. Io comunque sono stata felice, perché ti ho avuta, anche se non tutta per me. Ma non sentirti sola adesso, amica mia. Quando mi vorrai, chiamami, io sarò accanto a te. Quando alzerai lo sguardo a vedere le nuvole rincorrersi come bianchi puledri, io sarò là; quando il vento farà sbattere le imposte della tua casa, io sarò là; quando sentirai gli uccelli cantare al nuovo giorno, io sarò là. Sarò nuvola, vento, uccello. Se tu mi vorrai e penserai a me. Non dimenticarti di me e io non sarò mai davvero morta. Lo so, ci eravamo ripromesse di invecchiare insieme, ma non fa nulla. Non è importante, se continuerai a volermi bene. Io, lo sai, te ne vorrò sempre. Anzi, ti amerò sempre.
38 Speravo di resistere fino a Natale perché avevo in serbo una sorpresa per te, ma non mi è stato possibile. Il destino aveva fretta, ha mutato le carte e i miei piani, e io sto morendo adesso. Non sarò fisicamente presente al tuo Natale. Ebbene, cosa cambia? Ti immagino ora, ed è lo stesso. Hai trovato la chiave del mio appartamento, in questa lettera. Va’ a casa mia. L’affitto è pagato fino alla fine dell’anno e la padrona di casa è stata avvertita del tuo arrivo, così non potrà opporti nulla. Scegli fra le mie cose ciò che più ti piace e il resto buttalo pure via. Non farti prendere da inutili sentimentalismi, tanto dove sto per andare non mi servirà più nulla e non ci sono altri che tengano a me. Ma non è questa la sorpresa che avevo in mente per te. Nel mio studio c’è un quadro ancora sul cavalletto, coperto da un telo: è la prima parte del regalo. L’ho dipinto per te quando mi diagnosticarono il cancro. Sapevo che ti avrei lasciato, lo sapevi anche tu: le metastasi erano già troppo diffuse. Tu non l’hai mai visto. Poi, dietro il quadro, appuntata con gli spilli, troverai una seconda busta indirizzata a te. Aprila: è la seconda parte del mio regalo, usala come meglio credi. Buon Natale, amica mia. Ti auguro un sereno viaggio nella vita, con tutto il cuore; vivila un pochino anche per me. Non rinunciare mai a te stessa, ti prego. So che è difficile, che è più semplice lasciarsi andare e seguire il cammino che altri hanno già predisposto, ma non farlo. Solo tu puoi decidere ciò che è meglio per te. Ti voglio bene. Gloria” La mano che fino a quel momento ha retto il foglio, tremante, cede d’un tratto e le ricade sulle gambe. Chiude gli occhi. Finalmente, sconosciute, scorrono le lacrime, quasi da sole, senza sforzo. Gloria aveva ragione: piangere fa bene. Per la prima volta si scopre capace di piangere per la commozione, dolcemente, e ciò la riempie di stupore. È un pianto liberatorio, senza il dolore che scivola via con le lacrime, si perde nella constatazione del legame che le aveva unite, così forte che neppure la morte ha potuto spezzare. Davvero la sente viva, accanto a lei, con gli occhi brillanti di una maliziosa attesa. Si recano insieme alla tomba del bimbo innocente che per anni ha aspettato in silenzio l’arrivo della sua mamma, che gli portasse un fiore, che si ricordasse di lui.
39 Anna raccoglie da terra quel mazzolino di fiori comprato per dovere e se lo stringe al petto come per abbracciarlo, e con esso suo figlio. Cerca con lo sguardo il posto dove dovrebbe trovarsi la tomba. È stata l’unica concessione del marito al suo lutto. Non è facile, non c’è stata più da allora, quando venne sepolto. Eppure non dovrebbe essere difficile, sulla cappella è inciso il nome di famiglia. Di quella di lui, naturalmente, perché lei non ne ha. Era stata Gloria, la sua famiglia. Mancano pochi minuti alla chiusura quando infine la riconosce. È quella giusta, ma non può entrare. È chiusa a chiave, e lei non l’ha mai posseduta. Ma che importa, non ne ha bisogno. Posa i fiori incastrandoli tra il ferro lavorato e il vetro della porta. Non ha bisogno di entrare. Anche da lì il profumo dei fiori giungerà ugualmente al suo bambino. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD
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