La nota stonata, Carmine De Mizio

Page 1


In uscita il 2 / /20 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine PDU]R H LQL]LR DSULOH ( ,99 euro)

AVVISO Questa è un’anteprima che propone la prima parte dell’opera (circa il 20% del totale) in lettura gratuita. La conversione automatica di ISUU a volte altera l’impaginazione originale del testo, quindi vi preghiamo di considerare eventuali irregolarità come standard in relazione alla pubblicazione dell’anteprima su questo portale. La versione ufficiale sarà priva di queste anomalie.


CARMINE DE MIZIO

LA NOTA STONATA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/

LA NOTA STONATA Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-443-4 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Marzo 2021


Alla mia famiglia, che mi sostiene e incoraggia. Ma soprattutto a mio padre, che mi ha trascinato con passione nel travolgente mondo del rock.



5

CAPITOLO I

Londra, 1969 La folla assiepata sotto il palco era in totale delirio, c’era quasi il rischio che qualcuno potesse finire schiacciato o si sentisse male. Il caldo cominciava a essere soffocante nel locale e quella massa di giovani dai lunghi capelli scarmigliati, dalle giacche di pelle frangiate, dalle camicie colorate, dai jeans troppo stretti che dovevano essere stati cuciti addosso, lo combatteva con litri di birra e whiskey ghiacciati. Il decennio stava volgendo al termine e con esso lentamente svanivano le speranze di tantissime famiglie che avrebbero voluto finalmente vedere i propri figli riacquistare il senno perduto seguendo l’esempio di centinaia di musicisti e artisti che, a detta loro, professavano e predicavano la ribellione spacciandola per libertà, Dio solo sapeva da cosa. Il ’68 aveva dato il colpo di grazia a quella moralità, ritenuta ormai solo un felice ricordo dai padri e inutile ipocrisia dai figli: la strada di non ritorno era stata imboccata senza indugio alcuno. Billie si affacciò appena da dietro il palco per ritemprarsi col vociare della gente che acclamava lui e i suoi compagni. Era una specie di rito propiziatorio che si portava dietro dal primo importante concerto, quello in cui per la prima volta un enorme cartello dietro di loro riportava in morbide lettere viola e oro il nome della band, il primo concerto suonato da protagonisti e non come gruppo di apertura o d’accompagnamento di musicisti più famosi, o in cui avevano intrattenuto ragazzini ubriachi in qualche squallido pub dei sobborghi londinesi. Ormai da quasi cinque anni erano in cima alle classifiche di tutta Europa e il tour di pochi mesi prima negli Stati Uniti, il primo in quel paese, aveva avuto un successo tale da consacrarli nell’Olimpo del rock: erano semplicemente leggenda. Billie però era tornato molto diverso dall’America, l’incontro con una persona lo aveva cambiato profondamente. Una giovane ragazza, con cui era entrato in contatto


6 durante la tournee americana, lo aveva iniziato ad alcune teorie e dottrine mistiche, alle quali era già molto sensibile e dalle quali era attratto quasi patologicamente. Nessuno dei suoi compagni sapeva però chi fosse questa persona, poiché Billie non aveva mai fatto alcun accenno a questo incontro con nessuno degli altri membri della band. Di tutte le persone con cui aveva intrattenuto rapporti durante quelle settimane parlò loro solo del più grande musicista che avesse mai avuto modo di incontrare, un giovane afroamericano capellone che aveva scandalizzato l’America con la sua chitarra distorta e che aveva promesso di turbare ancora con la sua musica. Nonostante il successo Billie non riusciva a fare a meno di quel rituale, era un qualcosa di più della semplice e banale scaramanzia, come se quello fosse il filtro che rendeva possibile ogni volta il rinnovarsi e il ripetersi della magia che stregava lui e il pubblico in un unico turbine, in una spirale di complicità e follia. Anche quando era ubriaco o fatto prima di un concerto, cosa che negli ultimi mesi era diventata quasi una costante, circa trenta minuti prima dell’inizio si affacciava anche solo con gli occhi da dietro le pareti o da dietro le cortine sul fondo del palco e si lasciava trascinare dal tornado di voci e suoni deliranti, quasi un oceano che lo cullasse sulle proprie onde, invitandolo ad abbandonarsi e ad addormentarsi. Quella sera l’incantesimo lo catturò nuovamente. Era su di giri, le pasticche che aveva assunto con mezza bottiglia di scotch l’avevano sballato al limite della facoltà di intendere e di volere, se solo la quantità fosse stata microscopicamente superiore, probabilmente non sarebbe stato in grado nemmeno di reggersi in piedi. Però volle affacciarsi comunque, esaltato come non mai: si ritirò pochi minuti dopo, si stese per terra e, guardando un punto fisso sul soffitto, un sorriso folle sul volto, un braccio piegato sotto la testa, si accese una sigaretta. Intanto la folla acclamava, chiamava, pretendeva, beveva ed esagerava, aveva cominciato a cantare le loro canzoni, soprattutto il loro ultimo successo “The Wizard”, lo stregone. «I am the wizard…». Gridava e cantava, Billie, si dimenava, scalciava, lanciò finanche la bottiglia, che si fracassò in mille pezzi contro il muro. E rideva, ripetendo i versi della canzone che aveva scritto e composto in una


7 notte, una notte in cui aveva superato i limiti dell’eccesso. «La notte in cui ho capito la mia missione su questa Terra» recitavano alcuni versi. «Io sono lo stregone… io sono il collegamento, il tramite, hanno scelto me e mi hanno dettato la dottrina». Non aveva mai spiegato a nessuno chi lo avesse scelto e di quale dottrina stesse parlando. Neanche ai membri della band aveva voluto dire niente, affermando che il momento non era ancora giunto, che era troppo presto, non erano pronti per quella verità che era talmente grande da rischiare di schiacciarli o anche ucciderli. «Al momento giusto saprete». Il successo della canzone fu subito strabiliante e forse questo bastò ai suoi amici per convincerli a non insistere. Will, il cantante del gruppo, lo trovò ancora sdraiato per terra alcuni minuti dopo: «Billie, dannazione, dobbiamo cominciare, tirati su! Non puoi fare così ogni volta!». «Non urlare, maledetto imbecille. Per due motivi, primo perché ci sento benissimo e sto meglio di tutti voi messi insieme. Secondo, perché sennò ti si abbassa la voce» rispose, sempre con quel sorriso serafico sulle labbra, gli occhi dilatati in maniera innaturale a causa delle sostanze stupefacenti che aveva assunto per la seconda volta nel giro di nemmeno un’ora. «Sono pronto per officiare il rito» disse prendendo da un angolo la sua Fender Stratocaster nera e bianca e testandone l’accordatura. «Andiamo!». Scoppiò in una risata demoniaca che fece ghiacciare il sangue ai suoi compagni, che intanto si erano radunati tutti intorno a lui. Billie, il vero frontman del gruppo, colui che aveva scritto quasi tutte le loro canzoni, l’autore di tutti i più grandi successi, quelli che scalavano le classifiche e ci rimanevano per settimane intere. Il loro chitarrista, quello più amato dalle ragazzine e odiato dalle madri, che però non rimanevano indifferenti del tutto al suo fascino, che i padri e i preti ritenevano donatogli dal demonio in persona. I ragazzi facevano a gara per avere vestiti il più possibile simili ai suoi, che disegnava personalmente e poi si faceva cucire: camicie con maniche larghe e polsini stretti, sempre aperte sul petto, dai colori sgargianti di tutti i toni del viola e del rosa scuro, pantaloni di pelle stretti, strettissimi, con


8 nuvole dello stesso colore delle camicie applicate ai lati, oppure jeans o pantaloni di velluto, in vita una cintura enorme, sulla cui fibbia di metallo aveva inciso lui stesso due lettere, S e L. Souls’ Leader, il nome della band che aveva messo su lui stesso, insieme a suo fratello e due amici, conosciuti durante un concerto in un pub di Londra sette anni prima. Quella sera i fratelli Mc Davis suonavano ancora musica beat con un paio di compagni di Keith, il maggiore, si chiamavano i Bully Beat e il connubio del gruppo era in crisi già da tempo a causa di Billie, cui cominciava a stare stretto quel genere che riteneva musica da ragazzini. Il suo genio desiderava visitare i vasti orizzonti del rock che cominciavano a schiudersi proprio in quegli anni e che si preannunciavano vasti, molto vasti. Così una sera di febbraio, con la neve sporca e grigia sparsa qua e là sulle vie di Londra, al termine di un litigio che seguì a quello che si rivelò essere l’ultimo concerto dei Bully Beat, Billie si ritrovò a scrivere su un foglio sudicio trovato sul bancone del pub Dark Star una specie di contratto con due giovanotti, appena esiliati dalla loro band blues, William, per gli amici Will, e James, che amava farsi chiamare Conrad. Erano tutti ubriachi fradici di whiskey di terza categoria e Conrad decise di suggellare quel patto tirando fuori dalla tasca interna della sua giubba nera alcune pasticche che porse ai due amici, offrendo loro un viaggio allucinogeno. Durante il quale Billie, che già da qualche mese era avvezzo a quel tipo di esperienze, trovò ispirazione per il nome del gruppo e decise la linea che la band avrebbe dovuto seguire, prese con carisma la direzione del complesso. Keith lo trovò addormentato o svenuto, non seppe dirlo, sul bancone insieme a quei due sconosciuti. Lo svegliò, ricominciarono a bere insieme a lui e all’alba i Souls’ Leader, davanti alla facciata di Westminster, nascevano ufficialmente e componevano, sotto forma di grida di ubriachi, la loro prima canzone. Erano passati ben sette anni da quella notte favolosa, anni in cui quei quattro ragazzi di vent’anni o poco più si erano imposti nel panorama musicale, avevano scritto decine e decine di successi, si erano resi protagonisti di altrettanti eccessi e avevano diviso il mondo in due grandi fazioni: chi li odiava e chi li amava alla follia. E quella sera avrebbero suonato nel club più agognato dell’intero panorama del rock mondiale, il Blue Thames. Salirono sul palco, Billie per primo, barcollando e ridendo, agitando le


9 braccia in segno di saluto ai suoi ammiratori che urlavano come ossessi. Gli altri lo seguirono, non senza un filo d’ansia, dovuta più all’incognita del loro chitarrista strafatto, che al concerto in sé per sé. Ma la performance fu strepitosa, straordinaria, epica. Billie suonò come non aveva mai fatto prima, improvvisò quasi tutti gli assoli, ovviamente senza aver concordato la cosa con i suoi compagni, ma il connubio e la magia che si era creata nel tempo all’interno del gruppo era tale che gli altri membri riuscirono ad andargli dietro creando un qualcosa di favoloso. Alla fine del concerto, dopo che i Souls’ Leader ebbero suonato l’ultimo brano in scaletta, Billie si strappò di dosso la camicia e cominciò a farla a brandelli che sparse per tutto il palco, poi riprese a suonare da solo una musica selvaggia, coinvolgente, onirica, impetuosa, dolce, amara, potente, devastante. I compagni, superato lo stupore iniziale, cominciarono a suonare insieme a lui il brano loro sconosciuto, lo accompagnarono in quella danza mistica fatta unicamente di musica, che durò a lungo. Quindi il giovane si tolse la chitarra dalla spalla e iniziò a sbatterla per terra: lo strumento lanciava grida lancinanti sotto forma di note distorte e acute. Grida di dolore, wham-wham, terrore, whaaaaam, sofferenza whiiiii, paura, whii-whii. A ogni colpo il basso incalzava sempre più quel sacrificio, la batteria scandiva i tempi della lotta. Infine Billie estrasse da una tasca un piccolo flacone di benzina per accendini e cosparse i frammenti, quel che restava della sua chitarra, ordinando agli altri musicisti di continuare a suonare, a improvvisare. Poi le diede fuoco con l’accendino, e danzò intorno a quella specie di falò. L’esaltazione del chitarrista era al massimo mentre le fiamme salivano sempre più, si riflettevano nelle pupille dilatate del folle e poi si estinguevano, lasciando sul palco i tizzoni ardenti del suo strumento che emanavano un odore acido. Solo molti anni più tardi si scoprì che questi furono quasi devotamente raccolti, ancora caldi e fumanti, da un fan. Il pubblico era in visibilio, in estasi, in contemplazione davanti all’estremo sacrificio officiato da quello che si era autonominato ministro e gran sacerdote di una nuova, personalissima religione. Se ne andò, senza nemmeno guardare i compagni esterrefatti, che più tardi lo videro sparire con una bellissima ragazza, cosa che non stupì nessuno, abituati com’erano alle sue conquiste. Il braccio le cingeva il


10 fianco, mentre teneva gli occhi bassi, come se fosse stato stanco e prostrato, ancora mezzo nudo, con una giacca da donna appoggiata sulle spalle sudate, lei, invece, procedeva con lo sguardo fisso davanti a sé, alto e fiero. I suoi amici non ebbero notizie fino alla sera successiva, quando apparve improvvisamente nella hall dell’albergo, in tempo per prendere il taxi che li avrebbe portati tutti all’aeroporto. Questo comportamento non lasciò nessuno stupefatto più di tanto, essendo abituati, almeno da quando erano tornati dagli Stati Uniti, a stranezze di questo genere da parte di Billie. Durante il viaggio non aprì bocca, gli occhi fissi su un piccolo libro senza titolo sulla copertina e che non aprì mai in presenza dei suoi amici.


11

CAPITOLO II

Londra, 1970 Quella ragazza era diventata ormai una presenza costante. Non era una delle tante conquiste di Billie, la cui bellezza e fascino avevano sedotto decine di ragazze in quegli anni. Molly era qualcosa di più di una storia, ma chiamarla fidanzata rischiava di essere riduttivo. Esercitava su Billie un fascino e un potere, se così si può dire, particolare, come se lui la venerasse, o forse la temesse. Aveva infinito bisogno di lei. Si erano conosciuti in America durante il tour del ’68, era lei la persona che lo aveva messo a parte di alcune personali dottrine teorizzate sulla base della lettura e dello studio di decine e decine di testi strani, scritti da personaggi che si spacciavano per stregoni o maestri e che assicuravano di riuscire a mettere in contatto gli iniziati con gli spiriti del mondo ultraterreno, le anime dei morti o gli angeli. Billie si era avvicinato a quel mondo da quando suo padre era morto, nel 1965. Non erano mai andati granché d’accordo, soprattutto dal momento in cui aveva deciso di abbandonare gli studi per dedicarsi completamente alla musica. Quando era bambino il vecchio Mc Davis aveva permesso al figlio di studiare il pianoforte, strumento che a Billie piaceva poco e perciò, già a dieci anni, aveva chiesto di poter intraprendere lo studio della chitarra. Al rifiuto del padre il giovane aveva cominciato a risparmiare, finché riuscì ad acquistare una chitarra di seconda mano, che suonava di nascosto dal genitore, molto, troppo spesso fuori città a causa del suo lavoro. In breve tempo divenne bravo, molto bravo, come ebbe modo di fargli notare un giovanotto che passeggiava un giorno nel parco dove, seduto su una panchina con la sua chitarra sgangherata, Billie suonava svogliatamente un pezzo vagamente blues, le dita che correvano veloci, troppo veloci per la sua età, sulla tastiera. Un bel giorno, però, Arthur Mc Davis scoprì il posto dove il figlio nascondeva lo strumento e glielo distrusse sbattendolo più volte per terra e riducendolo in mille pezzi: fu il primo di una lunga


12 serie di litigi. Billie quel giorno ebbe una crisi isterica e iniziò a urlare, a piangere e a rompere tutto ciò che trovava sottomano. Il padre rispose, come spesso accadeva in quella casa, con un aristocratico, pesante, umiliante, insindacabile schiaffo che significava la fine di ogni questione. Quello fu il momento in cui il legame tra padre e figlio, già precario per l’autoritarismo eccessivo del genitore e l’indole ribelle del figlio, cominciò a sfilacciarsi, come le corde della chitarra distrutta davanti ai suoi occhi, per poi rompersi definitivamente pochi anni dopo. Non si parlarono più. Era il 1956, Billie aveva dodici anni, quando scappò di casa per la prima volta: voleva lasciare per sempre la sua meravigliosa villa nella campagna londinese per seguire il suo sogno di diventare un chitarrista, era disposto a tutto, a lavorare come sguattero, a fare la fame, finanche a rubare, ma aveva giurato di non tornare mai più in quella casa. Vedere il padre gettare nel camino i dischi in vinile dei musicisti blues che ascoltava in segreto per studiare la loro tecnica, che aveva collezionato con tanta fatica e nascosto per mesi con tanta devozione era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Quella volta, però, aveva deciso di non dare soddisfazione a quel mostro e non pianse, non si lamentò, non pronunciò una sola parola di disappunto, ma cominciò a preparare il suo piano di fuga. Riuscì in qualche modo a raggiungere Londra, ma fu ritrovato poche ore dopo che girovagava per le strade di periferia e i due poliziotti che lo individuarono si presero pure una buona dose di calci prima di riuscire a bloccarlo e a ricondurlo a casa. Qui la sua schiena assaggiò la cintura del padre, fu rinchiuso in camera tutto il giorno, tutti i giorni: ogni mattina un domestico era incaricato di aprire la porta e accompagnarlo a scuola e la sera era costretto a consumare la cena da solo in cucina. Andò avanti così per due lunghi anni, in cui Billie sembrò accettare l’autorità paterna. In realtà continuava a covare silenziosamente il suo odio. Arrivò l’adolescenza e con essa le prime cattive compagnie, poi l’alcool, poi l’odio per l’autorità degli insegnanti, gli anni ’60 e il vento di cambiamento, il rock’n’roll e il primo approccio alla droga. Con il fratello maggiore cominciò a frequentare un gruppo di studenti che come lui amavano la musica e formarono la loro prima band, affrontando i temi più cari alla nuova cultura giovanile di quegli anni. Suonavano di nascosto dal padre, tenevano gli strumenti nel garage dei loro compagni del gruppo, anche loro due fratelli di una famiglia


13 borghese. Trascorrevano i pomeriggi tra le prove e i mille lavoretti più o meno onesti con i quali si erano potuti permettere l’acquisto di una chitarra elettrica e una batteria per Keith, che era diventato un vero mostro delle percussioni, in quanto il padre non passava loro neanche uno spicciolo. Lo studio cominciò subito a risentire di questa vita e i risultati negativi non tardarono ad arrivare, in parallelo ai primi, timidi, successi della band. Per circa sei mesi, infatti, Arthur Mc Davis fu tenuto lontano dall’Inghilterra dal suo lavoro e la madre, nel tentativo di raddolcire il rapporto bellicoso dei fratelli nei confronti del padre, permise loro di suonare ad alcune feste universitarie o in turbolenti pub di provincia, in cambio della promessa di migliorare le prestazioni scolastiche. I Bully Beat si fecero conoscere, ma quando il signor Mc Davis rientrò a Londra e venne a sapere dei concerti, ordinò loro di lasciare la band. I due fratelli non ne avevano alcuna intenzione, perciò, non ancora maggiorenni, abbandonarono definitivamente gli studi e la casa, anche in maniera piuttosto violenta. «Non avevamo altro che la nostra musica, Molly. Io la mia chitarra, le mie note, le mie distorsioni, Keith i suoi tamburi, i suoi piatti e quel modo ossessivo di suonare». Lo sguardo di Molly aveva il potere magico di calmarlo durante le crisi, la sua voce era il balsamo dolce che faceva sparire il tremore e gli incubi che da un po’ di tempo a questa parte lo perseguitavano. Un incubo in particolare era diventato ricorrente: erano lui e suo padre, soli, al buio in un enorme salone di un castello scozzese che avevano visitato insieme quando era solo un bambino e che se non fosse stato per quei sogni non si sarebbe forse neanche mai ricordato, a malapena aveva memoria di quel viaggio. Arthur era seduto su una poltrona di legno al centro del salone, per il resto del tutto spoglio e privo di qualsiasi altro oggetto o arredamento. Un debole e pallido fascio di luce, di cui non era possibile individuare la sorgente, in quanto le pareti di grossi blocchi di pietra erano prive di feritoie o finestre, illuminava appena il suo volto paralizzato dal terrore, gli occhi sgranati, la bocca semiaperta, la pelle sulle tempie talmente tesa e tirata da tremare per le pulsazioni del sangue. Un rumore di passi nell’ombra, una mano che appare nel piccolo e fioco cono di luce, la mano di Billie, poi un pugno e il padre che si accascia privo di vita per terra. «Sono i tuoi sensi di colpa» gli ripeteva come ogni volta Molly.


14 «Quando andasti via di casa alzasti le mani su tuo padre. Mi sembra chiaro che fu un gesto che non ti sei mai perdonato, anche perché da allora non l’hai più rivisto e quando è morto non eri presente nemmeno ai suoi funerali. È una cosa che ti porterai dietro per sempre, non te lo perdonerai mai e questo incubo è solo un modo del tuo subconscio di comunicarti la sua sofferenza». Gli accarezzava i lunghi capelli neri mossi, gonfi e scarmigliati, la luce di una candela posata sul comodino alla destra del letto creava lucidi riflessi bluastri sulla chioma selvaggia del giovane, di cui qualche ciuffo si era attaccato alla fronte sudata. Stava disteso sul copriletto di velluto rosso, tremava tutto, le mani stese lungo i fianchi erano contratte e tra le dita stringeva i lembi della coperta, le unghie conficcate con tanta forza che sembrava volessero strapparla in mille pezzi, come faceva con le sue camicie. «Non può andare avanti così, Molly. Devo porre fine a questo tormento o diventerò pazzo». «Lo so, tesoro, però ti ricordi cosa abbiamo detto? Non siamo ancora pronti per l’esperienza suprema, siamo ancora troppo fragili, troppo soli, troppo ignoranti». «Non è così» la voce di Billie si era fatta un fischio acuto. «L’altra notte nel mio viaggio sono entrato in contatto con loro, capisci con loro! Mi hanno detto che mi ritengono pronto e che anche lui lo vuole». Il tremito era diventato agitazione, girava continuamente la testa a destra e sinistra sul cuscino mentre parlava, dimenava le gambe. «Billie, devi darti una regolata con quelle pasticche o finirai per ammazzarti un giorno di questi». Ma Billie non l’ascoltava: «Sei davvero bella, Molly». Si era finalmente calmato. Mentre le rivolgeva queste parole il suo sguardo era perso negli occhi azzurri della ragazza, le accarezzò i capelli e poi le prese la mano, stingendola forte nella sua. A un tratto però sobbalzò, il cuore prese a battergli nuovamente all’impazzata, riprese a sudare. Sulle prime Molly non riuscì a capire a cosa fosse dovuta la sua agitazione, in quanto solitamente quando le crisi gli passavano non tornavano più per giorni o almeno fino a quando non esagerava nuovamente con i suoi cocktail di alcool e allucinogeni. Poi notò che Billie fissava l’anello che lei portava al dito: sembrava terrorizzato da quello, perciò decise di sfilarselo e metterselo in tasca.


15 «Ti prego, Molly, stenditi accanto a me, voglio dormire…».


16

CAPITOLO III

Poggio Greppo, fine agosto 2019 Si erano inerpicati sul fianco della collina con molta fatica. Nonostante fosse mattina presto, il caldo si faceva già sentire e vampate bollenti salivano dalla terra umida per le piogge delle settimane precedenti, mentre la vegetazione cominciava di nuovo a seccare in tutte le sfumature del giallo, dall’oro al paglierino. Aldo e Barbara avevano lasciato la loro automobile in un campo a mezza costa, in quanto il sentiero che conduceva alla cima del colle con il suo parco era impraticabile: l’acqua e le ruote dei grossi fuoristrada avevano scavato veri e propri fossi profondi diverse decine di centimetri e la loro utilitaria avrebbe rischiato di impantanarsi e non uscirne mai più. Aldo arrancava a ogni passo, perché, nonostante la strada in salita, non voleva rinunciare alla sua sigaretta e ciò gli spezzava il fiato. Barbara aveva rinunciato a farglielo capire già da una settimana, ovvero dal primo giorno in cui avevano cominciato il loro lavoro di ricognizione in quei terreni, la proprietà di una ricca signora americana, tale Lady Saviour. Durante lavori di disboscamento effettuati l’autunno passato, aveva individuato in uno dei due boschi di cui era proprietaria alcuni muri e, credendoli appartenenti a strutture antiche, aveva richiesto l’intervento degli archeologi. Amministrazione e soprintendenza furono concordi nell’affidare questo lavoro agli archeologi dell’università di Pisa visti gli ottimi risultati delle campagne di scavo che già avevano compiuto negli ultimi due anni. Per il momento erano riusciti a liberare dalla vegetazione un lungo tratto di muro costruito in grossi blocchi di pietra, che emergevano per soli due filari, ma che probabilmente proseguivano anche nel sottosuolo. Le operazioni non erano state affatto semplici, in quanto ogni mattina si erano dovuti caricare sulle spalle e poi trasportare per circa un chilometro una serie di strumenti, con cui effettuare rilievi e fotografie, non proprio leggeri e maneggevoli. Erano riusciti a comprendere che il muro in questione


17 apparteneva probabilmente a un tempio e la primavera seguente avrebbero potuto iniziare in quel tratto di bosco uno scavo che si preannunciava molto promettente. Esattamente di questo avevano intenzione di parlare con la signora Saviour, della quale non avevano ancora avuto modo di fare conoscenza, in quanto si trovava in vacanza in America da almeno un mese. Per questo tutte le operazioni di ricognizione erano state progettate con l’avvocato Ricci, che da almeno trent’anni si occupava dei suoi affari. Ma finalmente la signora era rientrata e aveva fissato ai due giovani un incontro da lei per quella mattina, in quanto sosteneva di avere alcune questioni importanti da discutere con loro. Poiché il progetto non era stato ancora delineato in tutti i particolari, necessari tra le altre cose a preventivare le spese che la ricca donna aveva intenzione di coprire interamente, i ragazzi avevano provato a rimandare l’incontro, quando tutta la documentazione fosse stata redatta in maniera definitiva, ma questa aveva insistito perché si recassero subito da lei. La cosa aveva appena incuriosito i giovani, però non abbastanza da far sì che trovassero troppo strana la sua richiesta: dopotutto la signora aveva tutto il diritto di sapere cosa si celasse nei suoi possedimenti e poteva avere anche solo un semplice desiderio di conoscerli. Il sentiero si snodava come la bianca scia di un’imbarcazione nel verde oceano dei filari di viti, tanto ordinati da dare l’impressione di estendersi all’infinito o almeno fin dove l’occhio fosse in grado di arrivare, appesantiti dal nero carico che striava qua e là queste onde perfette. Tutto era bellezza e monotonia, persino la colonna sonora naturale, con i canti delle cicale e delle rondini in partenza che si modulavano senza sosta e sembravano annunciare che in quell’angolo di mondo, tra quelle colline, tra quei filari, nessun altro suono potesse avere modo di esistere. Questa l’impressione che ebbero Aldo e Barbara mentre camminavano assorti nei loro pensieri, stranamente silenziosi, come se temessero con le loro voci umane di disturbare o interrompere il canto millenario della natura. A un tratto, però, i filari terminavano e il viottolino si andava a infrangere contro un muro verde e arancio all’apparenza aspro e impenetrabile. Qui il sentiero diventava un bianco viale di ghiaia che proseguiva diritto attraverso alberi maestosi che nascondevano allo sguardo la meravigliosa dimora della


18 ricca Lady Saviour posta in realtà solo qualche centinaio di metri più avanti, in una specie di larga radura in mezzo al parco che circondava da ogni lato la villa. Ed ecco infatti apparire, tra le fronde dei castagni, la sua facciata quadrata, una scala di quattro o cinque gradini conduceva al portone di legno scuro sovrastato da un bassorilievo in marmo, probabilmente proveniente da qualche monumento antico e lì murato dal primo proprietario di quella residenza che aveva almeno trecento anni. Lo stemma nobiliare della famiglia che aveva costruito quella reggia in miniatura campeggiava precisamente in mezzo alla facciata, tra le foglie dell’edera rampicante, un enorme scudo coronato in pietra, diviso in quattro riquadri raffiguranti ognuno uno strano oggetto: a partire da quello in alto a sinistra vi era una spada la cui punta terminava in una specie di cucchiaio; poi proseguendo in senso orario vi era quella che sembrava una lanterna con due ali spiegate, una di falco e una di pipistrello; arricchiva la decorazione una sorta di fulmine circoscritto all’interno di una fiamma con tre lingue di diversa lunghezza; infine vi era una ruota dentata con una clessidra all'interno. Aldo e Barbara rimasero con lo sguardo fisso su quella scultura misteriosa per qualche secondo. Due occhi azzurri di ghiaccio li scrutavano da dietro la porta semiaperta. Poi una voce li ridestò: «Anche io i primi tempi ero rapita da quegli strani decori». I ragazzi scossero la testa come per liberarsi da un incanto o come per scacciare il sonno che li aveva pervasi. Il tono di quella voce era soave e deciso, morbido, dolce, penetrante e armonico nel suo italiano appena velato da un’inflessione anglofona che lo rendeva quasi più musicale e profondo. La voce ebbe finalmente un volto, quello di una signora di circa settantatré o settantaquattro anni che uscì dal portone della dimora, vestita con una camicia e un pantalone di lino bianchi, le spalle coperte da una mantella di velo finissimo dello stesso colore, chiusa alla spalla destra da una grande spilla d’oro e corallo, al collo una collana di grani anch’essi di corallo e un paio di orecchini d’oro cesellati a forma di falce di luna. I capelli erano di un colore cinereo e insieme agli occhi chiarissimi contribuivano a donare a quei tratti un qualcosa di siderale. Il sorriso era quello di una giovane, solo un velo di leggera malinconia calava su di esso dalla strana increspatura delle sopracciglia. «La casa è stata costruita da un nobile italiano del 1700, un certo


19 Olderico Uberti. Era un uomo fissato con la magia, l’esoterismo, il misticismo e l’occultismo. Si narra che fece costruire questa villa seguendo precise direttive astronomiche e secondo istruzioni contenute in non so quale manoscritto antico, in modo da ottenere il luogo perfetto per ascendere al mondo degli spiriti e delle anime, con il quale dichiarava di essere in contatto. Lo stemma che vedete tra le foglie, è lì a simboleggiare gli strumenti necessari alla conoscenza occulta». I due giovani rabbrividirono un po’, ma l’anziana signora non parve accorgersene e continuò: «Il mio compagno era un conoscitore di queste arti arcane, perciò nel 1970 decise di acquistare questa villa, proprio per cercare di acquisire l’immenso sapere del suo antico proprietario: sperava che vivere tra queste mura costruite appositamente per entrare in contatto col mondo superiore, studiare le migliaia di volumi sull’argomento contenuti in questa biblioteca gli avrebbe permesso di diventare anche lui un saggio come il marchese Uberti. Purtroppo non ne ebbe il tempo…». La voce era diventata melodia malinconica a quelle ultime parole. Parvero accorgersene i due archeologi, perciò Aldo disse: «Non ci siamo ancora presentati, ci scusi signora. Io sono Aldo Lascemi e lei è Barbara Diretti, siamo gli archeologi dell’università di Pisa. Ci siamo occupati del rilievo delle strutture emergenti nei suoi terreni e siamo qui per metterla a conoscenza dei risultati ottenuti. È un piacere fare la sua conoscenza». «Il piacere è mio, come già saprete io sono la signora Saviour». La serenità si era fatta nuovamente largo. «Mi dispiace davvero tanto non essere stata presente per tutto il tempo in cui avete lavorato. Spero solo non abbiate avuto problemi di alcun tipo. Ma per favore, vogliate seguirmi in casa, ho fatto preparare per voi la colazione». Salirono le scale che conducevano a un porticato antistante l’ingresso, lasciato aperto dalla proprietaria di casa. Varcata la soglia c’era una buia e stretta anticamera, poi un enorme salone luminoso li accolse. Il pavimento era di marmo giallo, lucido e liscio a tal punto che i raggi del sole si riflettevano come su uno specchio, emanando una luce calda, come se fosse fatto esso stesso di luce. Alle pareti erano numerosi ritratti di uomini e donne in abiti sfarzosi, un esercito di antenati dagli occhi fissi sui visitatori, lo sguardo che li seguiva perennemente e in


20 ogni loro movimento, un albero genealogico di circa trecento anni era materializzato sotto forma di tela. Agli angoli di quella stanza quadrata dalle dimensioni spropositate erano quattro busti maschili, ogni parete aveva una porta, ognuna delle quali fiancheggiata da due busti femminili, tutti in marmo bianco. Al centro un enorme tavolo circolare in legno scuro, quasi nero: sopra, una strana scultura di cristallo, lo si sarebbe detto una specie di globo terrestre, screziato da un’anima di foglie d’oro all’interno. Tutto era luce in quella stanza. Lo sguardo attonito dei due archeologi volava tutto intorno a loro, si posava su quei simboli di opulenza e di gusto, ora ammiravano i meravigliosi affreschi colorati del soffitto o i suoi stucchi, ora i pochi mobili che componevano l’arredamento, ora le enormi finestre che parevano aprirsi tra le pitture, come se quelle fossero le vere pareti e non fossero unicamente un decoro. Eppure, in quegli animi pur sensibili al bello e all’arte si fece largo un certo senso di inquietudine, percepivano qualcosa di inappropriato in quelle opere d’arte, come un elemento estraneo minuscolo, infinitesimale, che macchiava le tele e scalfiva le superfici polite dei marmi, tanto piccolo da non essere quasi visibile, ma tanto inopportuno da non poter passare inosservato. Dopo alcuni minuti trascorsi ad analizzare in silenzio quadri e busti capirono finalmente cosa aveva turbato la loro ammirazione. Ogni ritratto portava la raffigurazione, dipinta in un angolo seminascosto della tela o scolpita alla base del busto, di uno strano simbolo, ognuno diverso dall’altro. Alcuni sembravano riprodurre oggetti o animali della vita quotidiana, altri, come quelli raffigurati sullo scudo della facciata della villa, erano specie di ibridi più o meno mostruosi di cose realmente esistenti, altri ancora, infine, erano oggetti mai visti prima dai due giovani. Cosa volessero dire, Aldo e Barbara non potevano saperlo, immaginavano unicamente che avessero a che fare con la fissa per l’esoterismo del marchese Uberti. Lady Saviour parve leggere nei loro pensieri: «Avete l’occhio allenato, in fondo siete archeologi, siete abituati a porre la vostra attenzione anche sui più piccoli particolari. Quegli strani simboli che vedete sui quadri e sulle sculture sono altrettante metafore con cui i maestri del misticismo trasmettevano le loro conoscenze agli iniziati». Detto questo, attraversò il salone facendo strada ai suoi interlocutori e


21 imboccò la porta che si trovava di fronte a quella dalla quale erano entrati pochi minuti prima. Barbara e Aldo si guardarono per un istante, rabbrividirono nuovamente e seguirono la signora.


22

CAPITOLO IV

1970 Il buio era opprimente da togliere il fiato, freddo, tangibile, doloroso, spaventoso. Era un fluido vellutato in cui ogni suono era sparito, ogni sussurro ingoiato dalle sue fauci perennemente spalancate, in cui anche lui era caduto come preda. O vittima sacrificale, ancora non era in grado di dirlo. Un passo, poi un altro e l’impressione di non muoversi, poi di galleggiare nell’aria oscura, sorretto da forze misteriose e maligne. Le braccia erano aperte a cercare un appiglio, girava la testa in tutte le direzioni in cerca di uno spiraglio di luce inesistente, gli occhi affaticati nel vano sforzo. Provò a gridare per cercare aiuto e per sfogare il terrore, per sentirsi vivo, ma quell’entità solida eppure invisibile assorbì le note stonate che uscirono dalla sua gola. Ecco finalmente un rumore, sordo, regolare, lo si sarebbe detto quasi un ticchettio o un rullare debole in lontananza. Le orecchie erano tese per cercare di individuare da dove provenisse quel suono, una possibile salvezza da quell’inquietudine che rischiava di farlo impazzire. Ma niente, non riusciva a comprendere da dove venisse quel rumore. L’ansia e la paura aumentarono con il passare dei minuti e così di pari passo aumentò il rumore, diminuirono gli intervalli tra un colpo e l’altro di quell’invisibile tamburo e divennero più insistenti, martellanti. Le lacrime cominciarono a scivolare sul suo volto, il contatto con la pelle gli dava, però, una sensazione strana, come se fossero fredde e ruvide, gli graffiavano, corrodevano le guance. Riuscì a trovare la forza di portarsi la mano al volto e di asciugarsele col polsino della camicia. Poi, disperato, cominciò a correre, in quale direzione nessuno avrebbe potuto saperlo. Correva, correva all’impazzata, il suolo sotto i suoi piedi aveva la stessa consistenza delle nuvole di fumo della pipa di suo padre quando fumava davanti al camino. La vedeva quella pipa, come se in quel momento l’avesse lì davanti agli occhi, illuminata unicamente dalla luce dei suoi ricordi. Era una pipa lunga, di legno


23 chiaro, con una curva molto accentuata che ricordava le onde del mare dei dipinti giapponesi. L’orlo dell’imboccatura per il tabacco era dipinto in nero, una linea poco spessa che correva a delimitare il foro nero da cui usciva un fumo denso e bianco, liscio e morbido. Guardò meglio: le linee curve degli anelli di fumo diventavano grigie, poi scure, poi nere e sopra di esse vi era lui che correva, girava in tondo sul margine della pipa, diventato enorme, e si asciugava ancora le lacrime con il polsino ormai zuppo. Se solo fosse inciampato sarebbe caduto nell’enorme buco, che diventava sempre più grande, e non ne sarebbe mai più uscito. Perciò si fermò di colpo. Il suono, ora cupo, si era fatto più forte e vicino, lo sentiva a un passo da sé. Però veniva da davanti, da dietro, dalla sua destra e dalla sua sinistra, da sopra la sua testa e da sotto i suoi piedi, gli martellava nelle orecchie, lo stava portando alla follia, gli dava il mal di testa, era diventato un nodo alla gola ormai soffocante, gli straziava il cuore. Il cuore. Quel rumore che inseguiva forse da un minuto o forse da un’ora era unicamente il battito del suo cuore nelle tenebre. Cadde a terra privo di forze, sfinito dalla consapevolezza della sua solitudine, smarrito nel cieco abbraccio delle tenebre che lo cingeva e lo soffocava con braccia nere. Dopo un’ora o due passate a disperarsi e a piangere, si rialzò di botto e cominciò a tirare pugni e calci al vuoto, in tutte le direzioni, poi urlò come un forsennato fino a graffiarsi la gola: «Io sono lo stregone, squarcio i veli dell’oscurità per giungere alla luce della vita». Chissà come mai in quel deserto di tenebrosa solitudine l’unica cosa che riuscì a venirgli in mente e l’unico grido che riuscì a emettere senza che venisse soffocato fu il primo verso della sua canzone. Poi solo l’eco, che si spense lentamente assorbito dalle tenebre, e di nuovo il silenzio. Un fruscio in lontananza, lieve, sottile, selvaggio, si fece largo fino alle sue orecchie. Un ansito; poi, finalmente, un debolissimo lume. Ogni due secondi scompariva, per poi riapparire sempre più intenso, anche se molto fioco, e sempre più vicino. Dopo circa dieci minuti, con una brezza pungente e fredda che si era alzata e lo colpiva diritto nel viso, apparvero due punti luminosi viola, talmente vicini da togliergli il respiro, diventato affannoso per la paura mista all’emozione datagli da quello spiraglio di speranza che si presentava a lui. A un tratto i raggi


24 luminosi si fecero improvvisamente più intensi e gli ferirono gli occhi, abituati oramai a ore e ore di buio più totale. Billie si portò le mani al volto come per difendersi, la forza della nuova luce violacea, però, sembrava oltrepassare la carne delle braccia portate a protezione degli occhi e continuavano a colpirlo implacabilmente. Poi fu di nuovo il buio. E un fruscio più forte di quello precedente. E un ringhiare sordo. Riaprì gli occhi e davanti vide una sagoma nelle tenebre. La luce si era fatta nuovamente debole e mostrava in maniera sfocata un’ombra. No, non era un’ombra, ma uno strano scherzo giocato dalla luce che si rifletteva unicamente sul contorno di ciò che era lì, a due passi da lui. Un qualcosa di enorme, vagamente rotondo, nero quasi più delle tenebre intorno. Quelle due luci altro non erano che gli occhi, mobili e frementi, di quella creatura oscura. Aveva davanti a sé una pantera gigantesca. Le gambe di Billie cominciarono a tremare, i nervi erano tesi al punto che sembrava volessero uscire dalla pelle, gli occhi sbarrati, gocce di sudore fredde esitavano sull’arcata delle sopracciglia e non volevano cadere, immobilizzate anche loro, ghiacciate come il sangue nelle vene del giovane. I muscoli non reagivano più a nessun impulso, sembravano essersi fermati anche il cuore e il respiro. Rimasero uno di fronte all’altra per una manciata di secondi che ebbero su di lui l’effetto di secoli, la vita sembrava scorrere via con un lento e doloroso fluire dalla punta delle dita. La belva durante tutto questo tempo non smise mai di ringhiare, digrignando i denti che al buio emanavano una luce opaca come una lastra sottile di alabastro attraversata dal sole. Poi il rumore selvatico si interruppe all’improvviso, lasciando spazio a una serie di suoni strani, profondi e caldi. Stava articolando delle parole.


25

CAPITOLO V

Primavera 1970 Guarda! Vedi la collina non è la stessa di ieri La sua schiena nera maschera il dolore Docile e silenziosa inganna chi è all’oscuro. Senti! Non senti il respiro, il ringhio sordo Le parole di minaccia Il racconto che ti giunge piano piano alla memoria. Guarda! Il suo sguardo è nella luce Che si accende al tramonto E lei è lì, aspetta te. Senti! La sua voce che ti chiama Tu sei pronto per andare Forse non avrai neanche il tempo di un saluto… La melodia era delle più struggenti che Molly avesse mai udito. La chitarra acustica tra le mani di Billie sembrava piangere sommessamente, le note scorrevano via dalle corde come altrettante lacrime, scivolavano sulle dita e si perdevano come vapore nell’atmosfera. La malinconia si era fatta vivida, percezione sensibile che si trasmetteva attraverso le vibrazioni che si facevano suono, diventava sentimento condiviso. Molly sentì scorrere una calda lacrima sulla sua guancia: non si era nemmeno resa conto di piangere. Si asciugò lo zigomo con il pollice e si nascose dietro lo stipite della porta


26 per non farsi vedere da Billie che non si era accorto della sua presenza, anche perché dava le spalle all’ingresso della stretta e piccola stanza. Stava evidentemente componendo una nuova canzone, infatti la ragazza non conosceva quelle parole piene di sgomento e tristezza e nemmeno quella musica struggente. Eppure il musicista sembrava recitare a memoria un testo a lui noto da tempo, la musica scaturiva dalle sue mani con una naturalezza che poco si addiceva a una composizione nuova, pur se fosse stato posseduto dal demone dell’ispirazione in persona. Non poteva essere una canzone scritta già da tempo e solo allora tirata fuori dal cassetto, di questo Molly era sicura e due indizi sembravano deporre a favore del suo pensiero: il primo era che a ogni strofa il giovane si interrompeva per appuntare su un quadernino nero testo e note. Ma soprattutto era sicura che Billie non le avrebbe mai tenuto nascosta una nuova canzone, non l’aveva mai fatto prima di allora, era sempre stata al suo fianco durante le sessioni di scrittura. Sento la voce che mi chiama. Ti sento, ma non sono ancora pronto per il viaggio. Quando lo sarò non temere, salirò sulla cima, tra le fronde nere dei castagni e con il rosso del tramonto che diventa già viola senza voltarmi indietro risponderò. La penna stilografica gli cadde dalle mani come se le forze gli fossero mancate tutto a un tratto. Ebbe solo il tempo di posare a terra la chitarra con la vernice nera scrostata in più punti per l’uso, la vecchia chitarra che aveva sin da quando era un ragazzino, quella comprata dopo che il padre gli aveva distrutto la prima. La testa china, i capelli spettinati gettati davanti agli occhi, la giacca aperta sul petto nudo, le braccia penzoloni come quelle di un ubriaco, si diresse verso il divano sotto la finestra e si stese. Gli ultimi raggi del giorno filtravano dalle tendine bianche e andavano a infrangersi sulla parete di fronte in un unico cerchio di luce. Tutto intorno la penombra melanconica che solo la primavera possiede, con quel senso di incompiuto dovuto al contrasto con la tanta vita che possiede il giorno e la sera che giunge troppo presto, portando con sé ancora gli odori e il freddo dell’inverno alle sue spalle.


27 Billie cadde in un sonno profondo, il braccio destro che pendeva senza vita dal divano. «È successo di nuovo» pensò Molly, che aveva preso una sedia e si era accomodata al fianco del suo fidanzato. «Ancora una canzone scritta dalla sua anima senza che la ragione se ne rendesse conto». Non era la prima volta che Billie sperimentava quel processo in cui le canzoni scaturivano da sole e lui le doveva solo mettere in musica. Chi, come lui e Molly, credeva a certe teorie mistiche chiamava questo fenomeno “scrittura automatica” e credeva che Billie fosse solo un mezzo di cui si servivano gli spiriti per trasmettere determinati messaggi. Altri, invece, davano la colpa agli acidi e all’alcol che il musicista consumava in grandi quantità e sempre più spesso e che potevano portarlo a estraniarsi momentaneamente dal mondo reale e compiere azioni di cui non si rendeva conto. Quale che fosse la ragione, dopo ogni sessione di scrittura di quella natura Billie era prostrato, sfinito: crollava per ore e ore e al suo risveglio non ricordava più nulla, almeno finché non trovava sul tavolo il suo taccuino. Molly lesse più e più volte le parole scritte con una grafia confusa e irregolare. Pianse a lungo, in silenzio, gli occhi che correvano lungo i versi e poi si posavano con amore su Billie. “The Poetry of the Hill”, “La poesia della collina” era un nuovo capolavoro e sarebbe stato sicuramente un altro successo. Un successo che racchiudeva in quelle poche strofe un enorme dolore.


28

CAPITOLO VI

Poggio Greppo, fine agosto 2019. «Certo che è strana forte la signora Saviour, non trovi?». Disse Aldo, estraendo dalla tasca laterale dei pantaloni, all’altezza del ginocchio, il pacchetto di sigarette e accendendosene una, lo sguardo perso sulla valle che si estendeva al di sotto della piazza, circondata dai profili arancio-verdi delle colline al tramonto, qua e là chiazzati già dai primi angoli abbracciati dal buio della sera. «Io se ci penso ho ancora i brividi: quella casa, quelle strane opere d’arte e poi lo sguardo di ghiaccio della signora…». Rabbrividì davvero Barbara e si strinse nel foulard che teneva sulle spalle per proteggersi dalla brezza fresca della sera. In quel momento, a pochi passi dal tavolino del bar a cui erano seduti i giovani, passò il maresciallo Del Fiore. I due lo videro e lo chiamarono: «Maresciallo, buonasera!» disse Aldo «Si fermi qualche minuto con noi». Il carabiniere li salutò con la mano, guardò l’orologio, si strinse nelle spalle in un gesto che significava “va bene, perché no”, mandò un messaggio con il cellulare e si avvicinò. Aldo spostò un paio di cartelle di stoffa nera dalla sedia alla sua destra e le posò in terra, facendo così posto al maresciallo. «Era un po’ di giorni che non vi vedevo in giro» esordì il militare. «In effetti, maresciallo,» disse Barbara «durante l’ultima settimana abbiamo lavorato talmente tanto che la sera eravamo sempre troppo stanchi per uscire di casa. Oggi ci siamo concessi un aperitivo». «State ancora lavorando nei terreni di Lady Saviour?». «Esattamente» rispose Aldo. «Anzi oggi abbiamo avuto modo di conoscere la signora… e, detto tra noi, mi sembra proprio un personaggio piuttosto singolare…». «Siete stati al castello degli spiriti?» chiese il maresciallo, faticando a trattenere la sua risata gioviale. «Mi spiego meglio scusate, volevo dire


29 siete stati a casa della signora? Quella bellissima villa in cima al colle, circondata da un fitto bosco di castagni?». «Sì, maresciallo!» rispose Aldo, cui la curiosità aveva fatto dilatare gli occhi e che si sporgeva nervosamente sul bracciolo della sedia, protendendosi verso il carabiniere come per comprendere meglio le parole che uscivano dalla sua bocca. «Aspetti un secondo, lei ha nominato un castello…». Barbara, che sapeva bene come il suo fidanzato rischiasse di sembrare maleducato a causa della sua curiosità, gli lanciò uno sguardo di rimprovero. Aldo però non capì e si sporse ancora di più verso il maresciallo. «Sara, per cortesia, ci porteresti tre Vermentini?». Disse Barbara alla cameriera che passava tra i tavolini all’aperto. Aldo sembrò ridestarsi, si ricompose e volse il suo sguardo interrogatore verso Del Fiore che, non appena smise di ridere, ricominciò il suo racconto: «Sicuramente la signora Saviour vi avrà raccontato la leggenda che sta dietro la costruzione di Villa Uberti: il marchese che acquistò i terreni su cui sorge era uno con la fissa per la magia e si dice che per l’edificazione della sua dimora ricorse a rituali stregoneschi o qualche sciocchezza del genere. Addirittura pare esistano, nel nostro archivio comunale, dei fascicoli contenenti la copia di alcune pagine del diario del nobile signore che parlano di una porta per il Mondo di là ubicata proprio sul promontorio prospiciente la villa. Quindi è molto probabile che il marchese si fosse trasferito da Siena qui a Poggio Greppo proprio per officiare strani rituali magici, cosa che gli valse non solo l’odio di tutta la cittadinanza, all’epoca composta praticamente solo da contadini molto superstiziosi, ma anche della Chiesa di Roma. Fatto sta che nei pochi anni che visse in quella dimora, il marchese non riuscì a trovare un solo uomo, pur povero che fosse, che gli lavorasse le terre che in breve tempo vennero invase dalla boscaglia e dalle erbe infestanti». Il maresciallo si interruppe per assaggiare un paio di sorsi del vino che gli era stato appena servito. Poi riprese, gli occhi dei due ascoltatori fissi su di lui, le espressioni interessate: «Comunque sia, alla sua morte nessuno più sembrò ricordarsi delle fisse del vecchio proprietario e gli eredi trasformarono il podere in uno dei più ricchi e redditizi di tutta la zona. Nessuno parlò più di magia.


30 Almeno per un po’…». Il maresciallo sembrò divertirsi a giocare con la curiosità dei due giovani e perciò si fermò per qualche secondo per bere ancora un po’ di vino e per accendersi una sigaretta. Aspirò una, due, tre volte, sorrise e riprese a raccontare: «Per più di due secoli buoni tutti parvero scordarsi del marchese Uberti e di tutte le sue stregonerie. Ma la sua fama evidentemente non sparì del tutto, non tutti si erano dimenticati di lui, membro di una congregazione assai importante nel mondo di quei matti che credono alla magia. Così avvenne che una cinquantina di anni fa, più o meno, giunse in paese un uomo d’affari americano per trattare l’acquisto della villa con i suoi terreni per conto di un musicista famoso. Lì per lì la cosa non stupì più di tanto la popolazione, in quanto, come accade ancora oggi, non era raro che ricchi imprenditori o persone dello spettacolo innamorati della Toscana acquistassero ville o casali di campagna per trascorrere periodi anche piuttosto lunghi di tranquillità, lontani dallo stress del loro lavoro. Però dopo alcuni mesi in paese cominciò a circolare una voce: che l’uomo che aveva acquistato la villa insieme alla sua compagna lo avesse fatto perché interessato anche lui allo spiritismo». «Quindi, maresciallo» lo interruppe Barbara «Lady Saviour è la moglie di questo musicista famoso?». «Non proprio, pare che i due non fecero in tempo a sposarsi…». «Che intende dire?». «Voglio dire che pochi anni dopo l’acquisto della villa, il signor Mc Davis sparì in circostanze piuttosto misteriose e inspiegabili e di lui si perse ogni traccia». «Che vuol dire?» chiese Aldo, sempre più attento a ogni sillaba proveniente dalla bocca del maresciallo. «Significa che quasi sicuramente è morto cadendo in qualche dirupo o ucciso da qualcuno che ne ha fatto sparire il corpo… questo secondo me… chi invece diresse le indagini in quegli anni archiviò il caso, peraltro dopo poche settimane, come sparizione volontaria». Aldo accese l’ennesima sigaretta e cominciò a guardare un punto fisso in basso, nella valle ormai tutta all’ombra. Come al solito, quando seguiva il filo di un pensiero che richiedeva il massimo della sua concentrazione, sembrava essersi estraniato totalmente dal mondo. «Leggendo le carte dell’inchiesta» continuò il maresciallo «si apprende


31 che fu sentita la compagna, unica sospettata, in quanto sola intestataria di tutti i beni del giovane, ma poiché non solo mancava un cadavere, ma soprattutto mancavano le prove di un omicidio, tutto cadde nel dimenticatoio. Inoltre la signora Saviour è sempre stata una convinta sostenitrice della sparizione del compagno, anche se ammette non essere stata volontaria, ma indotta. Ma quando le fu chiesto, più volte tra l’altro, da chi potesse essere stato costretto a sparire il giovane musicista, le sue risposte furono sempre molto vaghe o insensate: parlò anche lei di spiriti, fantasmi o che diavolo ne so io. Fatto sta che a me questa storia ha sempre convinto assai poco, secondo me quella donna sa molto più di quel che dà a credere». Aldo intanto era sempre muto. «Tutta questa lunga storia» concluse Del Fiore «per spiegarvi l’origine del soprannome “castello degli spiriti” con cui è stata ribattezzata Villa Uberti qui in paese». «Maresciallo» disse Barbara «le posso fare una domanda?» «Prego, dottoressa Diretti». «Come mai lei è così ben informato riguardo questo caso?». Il maresciallo sorrise bonariamente: «Mio nonno ha lavorato come fattore in quella tenuta per tutta la vita e quando ero poco più che un bambino mi raccontò che la sparizione del suo datore di lavoro avvenne proprio il giorno prima della mia nascita» qui fece una pausa, un poco imbarazzato: «E poi, se proprio devo essere sincero, quando ho saputo che avreste iniziato quel lavoro di ricognizione nei boschi della tenuta Uberti non ho resistito alla tentazione di riprendere in mano il fascicolo di quel caso di quasi cinquant’anni fa, è stato come una specie di riflesso incondizionato dettato dall’istinto: quella Molly Saviour mi ha sempre fatto tanta paura, lei e la sua villa, non mi vergogno a dirlo, ma non saprei dire perché. Vi confesso che non mi sento sicuro sapendovi a giro in quei boschi, è come se aleggiasse un qualcosa di malefico tra le fronde di quegli alberi». «Lei è un vero amico!» disse Aldo, che sembrò essersi ridestato dai suoi pensieri «Ma stia tranquillo, non c’è niente da temere». Sorrise e diede una leggera pacca amichevole sulla spalla del carabiniere. Poi aggiunse: «Come si chiamava il compagno della signora Saviour?».


32 «Billie Mc Davis. Sì, dottor Lascemi» aggiunse dopo un attimo di pausa e rivolgendo un cenno di assenso verso i due ragazzi. «Proprio quel Billie Mc Davis».


33

CAPITOLO VII

Primavera 1970 «Ciao sorellina! Come stai?». Molly si voltò di scatto, il vestito lungo fino ai piedi scalzi tremava alla brezza fresca del primo mattino. La ciotola piena d’acqua le cadde dalle mani e si rovesciò sull’erba alta e morbida, senza infrangersi. I lunghi capelli biondi erano raccolti in due trecce che scendevano scomposte sulle spalle, in fronte un nastrino rosso, al collo un medaglione indiano, lungo fino all’ombelico. «David!» urlò felice la ragazza, correndo incontro al giovane in abito di lino beige che si trovava al centro del giardino di fronte alla villa. I mille colori del suo vestito sembravano scaturire a mano a mano nell’impeto della corsa e si fondevano con i fiori che le circondavano i piedi da ogni parte. Gettò le braccia intorno al collo del ragazzo: «Mi sei mancato, fratellone!». Rimasero stretti in quell’abbraccio per qualche minuto, poi i due si diressero sul retro della costruzione e si addentrarono tra le ombre del parco. Camminarono per circa duecento metri, poi si sedettero su due panchine di pietra poste ai lati di una grossa mensa, anch’essa di pietra grigia e iniziarono a parlare. «Non appena mi hai chiamato, Molly, sono corso a Nashville e ho preso il primo aereo per Roma. Raccontami con precisione, però, quello che succede, perché tre giorni fa al telefono non ho capito assolutamente niente e sono preoccupato. Per prima cosa dimmi, dov’è Billie?». La giovane ragazza si incupì e abbassò la testa. Un velo di tristezza era calato su tutta la sua persona, si torceva le mani in preda all’angoscia, infine scoppiò in lacrime. Poi, quando il fratello si sedette accanto a lei e le passò un braccio intorno alla spalla, stringendola a sé, si calmò: «È da quattro giorni che non lo vedo, se n’è andato nel bosco sul colle


34 al di là del torrente, dicendo di non cercarlo. Dopo l’ultima crisi, un paio di settimane fa, è cambiato radicalmente, non lo riconosco più. Mi ha detto che ha trovato il modo di parlare con il suo Demone, quello che lo tormenta nei suoi incubi. Io ho paura e ho paura soprattutto perché vuole essere da solo in questa battaglia, temo che gli possa accadere qualcosa di assai brutto, David. Ti prego aiutami». Il ragazzo sembrò diventare freddo tutto a un tratto. Sciolse l’abbraccio con cui consolava la sorella e tornò a sedersi di fronte a lei, un cipiglio nervoso si era dipinto sul bel volto. Rimase in silenziosa meditazione, guardando un punto fisso al centro della mensa su cui aveva posato le mani. Dopo qualche secondo passato così, si alzò in piedi all’improvviso e cominciò a camminare impaziente avanti e indietro alle spalle della panchina. Quindi si fermò di scatto, si girò verso la sorella e appoggiando le mani allo schienale scolpito, stringendolo con le sue bianche e sottili dita come se volesse staccarne un pezzo, urlò in preda a una rabbia repressa da troppo tempo: «Ancora con queste idiozie, Molly, dannazione! Quando la finirete di credere a queste sciocchezze!». Intanto le vene sul collo gli si erano gonfiate in maniera spropositata, sembrava volessero uscire da sotto la pelle, scoppiare per l’ira. Molly, invece, piangeva in silenzio, il silenzio del vinto, dello sconfitto che sente venire meno l’ultima ancora di salvezza. «Vi state trascinando in un baratro senza fondo, Molly, siete come due naufraghi in mezzo a un oceano in tempesta con ai piedi due zavorre che finiranno per farvi affondare completamente: le vostre idee strane e assurde sugli spiriti e la droga!». «Non dire così… lo sapevo che non dovevo chiamarti…» provò a protestare la ragazza. «Invece è proprio come dico io. Guardatevi, due giovani, belli, ricchi, che si stanno a mano a mano consumando per correre dietro a cosa? Alle ombre, agli spiriti, ai fantasmi. Siete ancora in tempo a tornare indietro, potete ancora essere felici e tornare a vivere. Ti prego, sorellina» il tono del ragazzo si era fatto calmo e dolce «basta, finitela. Tra pochi mesi partiremo tutti per gli Stati Uniti, per il tour e per registrare il nuovo album, ho già organizzato tutto. Approfittate di quel momento per provare a mettere la testa a posto. Tu potrai tornare per un po’ di tempo a casa, da mamma che non ti sente da settimane e Billie,


35 quando non è impegnato con i concerti o le sessioni di registrazione, ti raggiungerà nella nostra casa di campagna: per favore cercate di riappacificarvi col mondo. Ti ho già detto che mi sto occupando di tutto io, non solo come manager, ma anche e soprattutto perché sono tuo fratello e ti voglio bene. Ho parlato con la casa discografica e con l’agenzia, si sono impegnati per fare in modo che gli impegni ricadano sempre in quattro, massimo cinque giorni alla settimana, cosicché Billie nel week-end potrà venire a stare da noi e riposarsi insieme a te. Ho anche ottenuto il permesso di farlo viaggiare con un aereo privato, visto che dovrà girare tutto il paese. In quelle settimane, ti prego, uccidete per sempre le vostre maledette credenze, seppellitele e tornate a essere sereni. Tu potrai ricominciare a scrivere le belle poesie che componevi una volta. Lo so che hai smesso da tempo, è un peccato davvero». Se David si era finalmente calmato, probabilmente perché credeva, in cuor suo, di essere riuscito a fare breccia nel cuore e nella mente della sorella, Molly, invece, a ogni frase, parola, sillaba pronunciata da lui, si alterava sempre di più, stringeva forte tra le mani il medaglione che portava al collo, quasi volesse piegarlo o conficcarselo nella carne dei palmi, che nello sforzo si erano fatti rossi. Le lacrime non smettevano di scendere dagli occhi azzurri della ragazza, ma si erano fatte amare, velenose, così come l’iride sembrava aver assunto la colorazione cupa dei cieli estivi quando sta per giungere improvvisa la tempesta. Il labbro inferiore, che fino ad allora si mordeva come per trattenere i singhiozzi, ora tremava a causa della rabbia e della paura, un sentimento tanto pericoloso poiché scaturito dalla più pura irrazionalità. Il volto, generalmente pallido, era paonazzo, teso all’estremo. Tutto in lei faceva presagire una bomba pronta a scoppiare. D’un tratto questa si alzò di scatto, in preda all’ira che finalmente aveva innescato l’ordigno facendolo esplodere nel suo cuore e, portatasi di fronte al fratello, alzò la testa per fissare il suo sguardo negli occhi di lui, che la superava in altezza di parecchi centimetri, ma che in quel momento sembrava un bambino inerme che si trovasse a tu per tu con un orco delle favole. Gli occhi della giovane erano dilatati all’estremo, quasi in maniera grottescamente innaturale, la bocca era un ghigno demoniaco, una treccia si era persino sciolta, lasciando ricadere i capelli ancora più scomposti sulla spalla destra. I pugni erano serrati come tenaglie e sembravano pronti a colpire da un istante all’altro, come se bastasse un minimo movimento per far partire la molla o il meccanismo che li teneva precariamente fermi ai fianchi. Poi cominciò a gridare come un’ossessa, suoni appena articolati, che solo dopo qualche secondo


36 riuscivano a riunirsi in frasi di senso più o meno compiuto nella testa dello sbigottito, ancor più che spaventato, David: «Non sai quello che dici, pazzo! Non lo sai e quindi faresti meglio a tacere!». L’aggressività della sorella era tanta e tale che il giovane si trovò costretto, suo malgrado, ad arretrare di qualche passo, finché si trovò con le spalle contro un albero, che frenò la sua ritirata. Intanto Molly non la smetteva di gridare, sempre ferma al suo posto, sempre più folle: «Non capisci quanto sia pericoloso quello che dici? Non sono favole o storielle, io e Billie siamo stati scelti e questo è un compito pericoloso, capisci! Non voglio più sentirti dire queste idiozie, David, mai più! Non trattarmi mai più come una ragazzina stupida! Ho paura che possa accadere qualcosa di brutto anche a te, se loro venissero a sapere…». «Ma loro chi, Molly?» rispose il giovane. «Ma ti senti! Gli spiriti con cui parlate quando siete strafatti? I demoni degli incubi? Ma per favore, falla finita con queste sciocchezze!». «Smettila! Ti ho detto di smetterla!». Urlò la ragazza, gettandosi contro il fratello e iniziando a tempestarlo di colpi con le mani e a graffiargli il volto con le unghie. Questi riuscì, però, a liberarsi e contemporaneamente la sorella si buttò in terra e iniziò a piangere come una bambina. Il giovane le si avvicinò, per cercare di calmarla, ma quella si voltò come una fiera pronta ad attaccare, gli occhi fiammeggianti erano quelli di una persona completamente fuori di sé. David fece istintivamente due passi indietro, timoroso, poi ripreso coraggio e ferito dall’atteggiamento della sorella, ma non intenzionato a retrocedere dalle sue posizioni, aggiunse: «Vado a cercare Billie e parlerò con lui, magari è più ragionevole di te». Poi si allontanò seguendo il sentiero davanti a lui, sperando che fosse quello giusto per condurlo al torrente e, da lì, al bosco dove sperava di trovare il musicista. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO I .................................................................................... 5 CAPITOLO II ................................................................................. 11 CAPITOLO III ............................................................................... 16 CAPITOLO IV ............................................................................... 22 CAPITOLO V................................................................................. 25 CAPITOLO VI ............................................................................... 28 CAPITOLO VII .............................................................................. 33 CAPITOLO VIII............................................................................. 37 CAPITOLO IX ............................................................................... 40 CAPITOLO X................................................................................. 47 CAPITOLO XI ............................................................................... 53 CAPITOLO XII .............................................................................. 58 CAPITOLO XIII............................................................................. 66 CAPITOLO XIV ............................................................................ 74 CAPITOLO XV .............................................................................. 77 CAPITOLO XVI ............................................................................ 81 CAPITOLO XVII ........................................................................... 85


CAPITOLO XVIII .......................................................................... 96 CAPITOLO XIX .......................................................................... 104 CAPITOLO XX ............................................................................ 109 CAPITOLO XXI .......................................................................... 116 CAPITOLO XXII ......................................................................... 120 CAPITOLO XXIII ........................................................................ 126 CAPITOLO XXIV........................................................................ 133 CAPITOLO XXV ......................................................................... 139 CAPITOLO XXVI........................................................................ 145 CAPITOLO XXVII ...................................................................... 151 CAPITOLO XXVIII ..................................................................... 157 CAPITOLO XXIX........................................................................ 161 CAPITOLO XXX ......................................................................... 171


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2021) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.