La scomparsa della Svizzera, Pierfrancesco Prosperi

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PIERFRANCESCO PROSPERI

LA SCOMPARSA DELLA SVIZZERA

ZeroUnoUndici Edizioni


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LA SCOMPARSA DELLA SVIZZERA Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-509-7 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Novembre 2021


“La Svizzera è un piccolo Paese accidentato, dove si procede quasi sempre in salita o in discesa; sparso di grossi alberghi color marrone, in quello stile comunemente detto «orologio a cucù». Ogni spazio ragionevolmente vasto, intorno a un albergo, è sapientemente aménagé, e tutti gli alberghi sembrano ritagliati dalla stessa persona con la stessa sega da traforo”. Ernest Hemingway

“La sua superficie totale copre 41.295 chilometri quadrati, vale a dire lo 0,15% delle terre abitabili del pianeta. La sua popolazione è inferiore allo 0,03% di quella mondiale. La Svizzera è il primo mercato monetario del mondo, il primo mercato dell’oro e il primo mercato delle riassicurazioni; è la terza potenza finanziaria del mondo, l’undicesima potenza industriale e la sede della massima industria alimentare. Gli svizzeri sono al secondo posto tra i popoli più ricchi della terra”. Suisse, OCDE, Études économiques, Parigi 1975



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CAPITOLO PRIMO LA FRONTIERA SCOMPARSA “La Svizzera non esiste”. André Gorz, pensatore francese, 1969. Ben Vautier, artista francese, 1992. Ada Marra, deputata socialista svizzera, 2017. “Questo è quello che è splendido a proposito della Svizzera. Mentre tutta l’Europa è in guerra – erigere le barricate qui in Svizzera! Una rivoluzione in Svizzera. In questo Paese si parlano tre maggiori lingue europee. E attraverso le tre lingue la rivoluzione si riverserà in tre direzioni e inonderà l’Europa”. Vladimir Ul’janov detto Lenin (Aleksandr Solženicyn, Lenin a Zurigo, 1976)

“La frontiera scomparsa”, il titolo di un libro di Luis Sepúlveda, letto in gioventù, gli rimbalza da un lato all’altro del cervello mentre, pervaso da un senso straniante d’irrealtà, percorre lentamente l’autostrada A9. Autostrada italiana, la Milano-Como, che superato il confine italo-svizzero di Brogeda, prosegue nell’arteria elvetica A2 in direzione di Basilea.


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Oggi, tuttavia, di quel confine non c’è traccia. Non c’è traccia dell’immenso piazzale doganale che costituisce la cerniera fra le due autostrade, dei lunghissimi fabbricati doganali a due piani, della grande tettoia con l’insegna “VALICO TURISTICO DI BROGEDA”, dei cartelli bilingui “POLIZIA-POLIZEI” e “DOGANAZOLL”. Niente di tutto questo. Semplicemente, l’autostrada A9 prosegue senza interruzioni. Come deve proseguire lui, quasi sospinto in avanti dai clacson furenti delle auto che arrivano alle sue spalle e lo sorpassano strombazzando, con i conducenti che si esibiscono in gestacci all’indirizzo di quel conducente-lumaca. Alla fine si ferma, esasperato, in una piazzola di sosta. Si guarda attorno, cercando disperatamente di svegliarsi, di uscire da quell’incubo, di capire che cosa gli sta succedendo. Attorno, nel traffico che prosegue indifferente, il paesaggio è quello che conosce da una vita, i luoghi sono sempre quelli, ma c’è qualcosa di diverso. A parte qualche edificio o qualche gruppo di case o di capannoni che non ricorda di aver mai visto, la differenza principale riguarda la cartellonistica. Non c’è traccia di bilinguismo, sono tutti solamente in italiano. Si stropiccia a lungo gli occhi. Poi, cercando di dominare un senso di gelo che gli sta lentamente salendo su dalle viscere, riparte con cautela. Il tragitto fino a Lugano è un lento cauchemar, dal quale non riesce a tirarsi fuori. È tarda mattinata quando arriva a vedere le acque del lago brillare sotto il sole. Con gli occhi fissi alla mole rassicurante del monte San Salvatore, il piccolo Pan di Zucchero luganese, che gli arreca un minimo di tranquillità in


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quell’ambiente così sottilmente mutato, percorre a bassa velocità le strade interne in direzione nord, verso il quartiere di Pregassona. Il suo quartiere. L’incubo riesplode, però, puntualmente a un crocicchio della strada cantonale, quando si trova il cammino sbarrato da un passaggio a livello chiuso. Si sente lentamente sollevare tutti i peli del corpo nel guardare il minuscolo convoglio di tre vagoni biancoazzurri, che passa lentamente dietro le sbarre. “No, no, no”, ripete tra sé, mentre gocce di sudore gli si addensano tra le sopracciglia, e una scende a offuscargli la vista. “Non è possibile, non lo sto vedendo”. La piccola linea ferroviaria Lugano-Cadro-Dino, nota come LCD tra i pendolari che la usavano, la linea che collegava il lungolago di Lugano con le frazioni del versante orientale del Cassarate, con un percorso di neanche otto chilometri, è stata chiusa nel 1970. Eppure quei vagoni sono dannatamente reali. Riparte lentamente al sollevarsi delle sbarre. Le ruote del SUV Toyota sobbalzano lievemente nell’intersecare i binari, com’è giusto e normale che facciano, ma lui prosegue verso nord guardandosi attorno di continuo, dardeggiando occhiate a destra e a sinistra in cerca di altri elementi dissonanti. Come, ad esempio, la chiesa che si affaccia su via Terzerina, a un passo da casa sua. Che fine ha fatto l’edificio ultramoderno – che peraltro non gli è mai piaciuto e ha sollevato violente polemiche – dedicato a San Massimiliano Kolbe? Al suo posto c’è una normalissima chiesa simil barocca, con un campanile più antico, forse romanico.


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Ma il peggio deve ancora arrivare. Il peggio si chiama via Roncobello, la strada interna che porta alla sua villetta, raro esempio di edificio unifamiliare incastrato in una selva di condomìni. Ebbene, via Roncobello non c’è più. Scomparsa. Kaputt. Dall’incrocio con via alla Piana, si passa direttamente all’incrocio con via Arbostra. Gira la macchina e torna indietro, percorre la strada a passo d’uomo, in cerca del crocicchio scomparso. Solo recinzioni, siepi, cancelli, passi carrabili privati. Il suo incrocio non c’è più. È la mazzata finale. Nell’agitata ridda di pensieri che lo ha accompagnato per tutto il viaggio dalla frontiera scomparsa fino a quell’incrocio inesistente, aveva meditato di rifugiarsi tra le proprie solide quattro mura, chiudendo fuori quel mondo irriconoscibile, per cercare di fare il punto, chiamare amici e conoscenti – ovviamente la prima sarebbe stata Loriana – e ricostruire un minimo di normalità. Niente da fare. Come un naufrago, scorre lentamente con la Toyota per le strade familiari del quartiere, fino al grande parcheggio che, all’angolo tra via Arbostra e via Terzerina, dà accesso alla scuola media Pregassona, ancora al suo posto. Parcheggia scompostamente e si getta sullo smartphone. L’incubo non vuol saperne di svanire. Premendo nella rubrica il nome di Loriana, una voce registrata lo informa che il numero chiamato è inesistente o non disponibile. Prova inutilmente tre o quattro volte, poi passa a chiamare Andrea, Federico, Matthias. Sempre la stessa risposta registrata, oppure il segnale di occupato.


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Alla fine fa il numero di Walter, a Milano. Tre o quattro squilli, poi finalmente una voce conosciuta. «Pronto.» «Ciao, Walter.» «Oh, Claudio. Com’è, tutto bene in Svizzera?» D’improvviso realizza di non avere nulla da dire. Di non potere raccontare quello che gli sta succedendo. Perché si rende perfettamente conto che sembrerebbero i vaneggiamenti di un pazzo. «Tutto a posto. Semplicemente, non mi ricordavo se ti ho parlato degli ultimi sviluppi dell’affare Preganz.» «E del fatto che rischiamo di rimetterci un sacco di soldi. Sì, ne abbiamo parlato un paio di giorni fa.» «Ah, ecco. Non ero sicuro di averlo detto a te, oppure a Daniele. Bene, scusami e arrivederci.» Che figura da perfetto imbecille. Saluta e depone il telefono, fissandolo come un oggetto estraneo, anzi ostile. Benché non faccia per niente caldo, suda copiosamente all’interno dell’auto. Apre la portiera e muove passi anchilosati sull’asfalto del parcheggio. Artigliando lo smartphone, riprende a percorrere la litania dei numeri di telefono già fatti. Sempre con gli stessi esiti. I numeri di Loriana, Andrea, Federico risultano inesistenti o non disponibili. Il numero di Matthias è sempre occupato. Tentativi di ottenere qualche contatto tramite Messenger e WhatsApp non danno risultati. Guarda il traffico delle auto scorrere indifferente lungo via Terzerina. Gli sembra il simbolo di un mondo che lo esclude, un


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mondo di cui gli sfuggono i contorni, un mondo in cui non è benvenuto. Potrebbe… potrebbe andare da Loriana. Dà un’occhiata all’orologio: tra poco dovrebbe rincasare. Ma se… una serie di se lo travolge, uno più angosciante dell’altro. Se anche la sua casa fosse sparita? Se non abitasse più lì? Peggio… se non ci fosse posto per lei in questa dannata non-Svizzera in cui è piombato? Il pomeriggio si sgrana lento tra tentativi di chiamata sempre più svogliati. Alla fine, a capo chino, abbandona l’auto e raggiunge a piedi un bar lungo via Arbostra. Il locale è deserto. Sprofonda su una sedia davanti a un tavolino poco distante dal bancone, e chiede un doppio whisky. Sa di reggere abbastanza l’alcol, che si concede di tanto in tanto senza esagerare, e ha anche l’attutita sensazione di fare qualcosa di sbagliato. Sente di aver bisogno di un aiuto esterno che gli faccia sembrare meno angoscianti i contorni del sogno, o di quello che è, in cui è sprofondato. Fissa il liquido ambrato nel bicchiere che il barista gli ha posto davanti, lo solleva controluce, poi lo butta giù di colpo. Assapora il gusto bruciante del liquore che gli scende nella strozza. Depone il bicchiere vuoto con un colpo forse troppo forte sul tavolino, e richiama il barista. «Un altro.» L’uomo arriva al tavolino a mani vuote, asciugandosele con uno straccio. È un solido quarantenne baffuto dalla faccia cotta dal sole; chissà a quali attività si dedica nel tempo libero, magari si arrampica sulle montagne. «È sicuro di sentirsi bene, signore? Non credo le faccia bene bere tanto, soprattutto a quest’ora. Perché non se ne va a casa?»


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Finalmente qualcosa cui attaccarsi. «Perché non ce l’ho una casa, ecco perché! Io abito in Svizzera, capisce?» L’altro lo fissa guardingo, scuotendo lentamente la testa. «In Svizzera? E sarebbe?» Allarga le braccia esasperato. «Qui intorno, Cristo di Dio! Io abito a Lugano, qui a poca distanza…» Il barista sceglie con cura le parole. «Ma… non ha detto che sta in questa… Svizzera? Cos’è, un nuovo quartiere?» «Ma quale quartiere! La Svizzera è qui, tutto attorno! Qui è tutta Svizzera, per chilometri e chilometri! È uno Stato, uno Stato federale, capisce? È la nostra patria!» Il barista rinuncia alla possibilità di stabilire una conversazione normale. «Mi dispiace, ma credo che lei si sbagli di grosso. Di questa Svizzera non ho mai sentito parlare. Qui siamo in Italia.» Preso da una furia improvvisa, riprende in mano il bicchiere vuoto. Con un gesto repentino lo scaglia lontano. Lo guarda rimbalzare contro il bancone e infrangersi al suolo. Il suono dello schianto echeggia lontano. Il barista sta facendo appello a tutta la sua calma. «Adesso basta, signore. Lei non può più stare qui. Per favore, paghi e se ne vada. Torni nella sua… come si chiama? Svizzera.» «Non mi prenda per il culo!» urla. «Ha deciso di farmi diventare matto?» «Non mi sembra che ce ne sia bisogno» asserisce l’altro. «Qui siamo in Svizzera! Svizzera, capito? Stato federale, Confederazione Elvetica! L’Italia è lontana trenta chilometri, il confine è a Chiasso!»


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Il barista scuote la testa. «Non so di che cosa parla. Se ne vada, per favore, o devo chiamare la polizia» e si rintana dietro il bancone. Claudio si alza pesantemente, lo raggiunge con passi incerti. «Mi dia da bere. Sono un cliente, ho diritto. Le pagherò il bicchiere, pagherò tutto. Non può rifiutarsi di servirmi!» «Posso, e come. Se ne vada, se ne vada immediatamente!» Claudio perde definitivamente la ragione. Si sporge attraverso il bancone e, afferrando il barista per il colletto, cerca di tirarlo a sé. Sembra riflettere se colpirlo, e nel frattempo entrano due avventori, due tizi sui trent’anni. Il barista li vede e ingiunge con voce decisa: «Mi lasci. Lei è ubriaco!» I due nuovi venuti sembrano afferrare la situazione al volo. Raggiungono il bancone e si mettono ai lati di Claudio, gli afferrano un braccio per uno, obbligandolo a lasciare la presa. Il barista respira forte e si tasta il collo per qualche secondo, prima di gettarsi sul telefono. «Lasciatemi!» ordina Claudio ai due che lo tengono stretto. Cerca di divincolarsi, si dibatte con goffi movimenti da ubriaco. Vorrebbe fare a pugni ma non riesce a liberare le mani. Gli altri sono giovani e forti, e lo stanno ancora trattenendo, quando nel piazzale antistante irrompono le luci azzurre di un’autopattuglia. Alla stretta dei due sconosciuti si sostituisce quella di due robusti agenti in divisa blu. «Venga con noi» tuona ruvido il più anziano dei due. «Sono un cittadino svizzero!» biascica Claudio. «Non potete trattenermi!» «Certo, certo. Venga.»


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CAPITOLO SECONDO CLAUDIO GORLIER SI STIRA SBADIGLIANDO

Claudio Gorlier si stira sbadigliando. Dopo una notte passata sulla scomodissima cuccetta dell’unica cella del posto di polizia di Pregassona – in pratica una lastra di acciaio ricoperta da un sottile strato di gommapiuma – ai dolori ai muscoli e alle ossa si è aggiunta una cupa consapevolezza: ossia, che l’incubo del giorno precedente è tutt’altro che un sogno. Sperava di svegliarsi in un mondo normale, sperava che la notte avesse spazzato via quell’avventura ai confini della realtà. Invece, l’avventura continua. Dopo che un ingrugnito poliziotto gli ha portato una tazzona di risciacquatura di piatti spacciata per caffè, e se n’è andato senza rispondere alle sue domande, si chiede che cosa lo aspetta quel giorno. Sa che non possono certo trattenerlo per le stupidaggini che ha combinato, e che lo rimanderanno via, magari dopo la ramanzina di qualche magistrato. Il problema è: dove accidenti può andare? Verso le nove la porta a sbarre si apre di nuovo. L’agente di prima, seguito da un collega, lo prelevano senza una parola. Poco dopo, un’autopattuglia identica a quella con cui lo hanno arrestato la sera prima, lo trasporta senza fretta in direzione sud,


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verso il centro di Lugano. È una mattina di sole pallido, e il traffico è robusto ma senza ingorghi. Subito dopo la rotonda di via Pazzalino, l’auto si ferma davanti a quello che appare un anonimo palazzo per uffici. Di sicuro non fa parte della filiera giudiziaria. Di quella ufficiale, perlomeno. «Venga» dice l’agente che lo ha trasportato lì. Il suo collega gli si mette dietro. Sul portoncino dell’edificio una targa commerciale che Claudio non fa a tempo a leggere. Segue i due per una rampa di scale e poi lungo un corridoio, fino a una stanza che sembra un anonimo ufficio simile a milioni di altri. Una scrivania dozzinale, tre o quattro sedie, un armadio metallico, uno scaffale ingombro di libri. Telefono, fax, una fotocopiatrice in un angolo, un tavolino dattilo con un laptop e una stampante. Tutto quello che gli viene in mente è che quella in corso è una procedura decisamente anomala. Se ne convince ancora di più quando i due agenti, dopo averlo fatto sedere davanti alla scrivania, se ne vanno piantandolo in asso. Resta per un po’ a lisciarsi gli abiti spiegazzati dalla scomoda nottata. Sente lo stomaco borbottare sommessamente, l’unica cosa che gli hanno dato la sera prima sono state due barrette energetiche. Ma non ha particolarmente fame. L’uomo che entra un quarto d’ora dopo dimostra trentacinque o trentotto anni. Volto anonimo, naso troppo grande, fronte spaziosa con capelli neri che si diradano al centro, bocca sottile, occhi dallo sguardo vivace e indagatore. Vestito elegante pur se di serie. Aria nel complesso energica ed efficiente.


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Claudio si alza e il nuovo venuto si presenta: «Manrico Viel» gli stringe la mano con gesto asciutto e vigoroso. «Claudio Gorlier» replica lui. «Si sieda, signor Gorlier. Si chiederà chi sia io e perché l’abbiano portata qui, ma di questo parleremo dopo. Mi hanno affidato al suo caso perché lei ha dichiarato di sentirsi fuori dal mondo. Da questo mondo.» «Sì» replica Claudio dopo una breve riflessione «penso si possa dire così.» Viel gli si siede di fronte, di là dalla scrivania. «Che cosa le è capitato, dunque?» Claudio continua a tastarsi come a sincerarsi di essere sveglio e soprattutto reale. Manca solo che si prenda a pizzicotti. «Semplicemente, non so dove mi trovo. Sono un cittadino svizzero che lavora in Italia e abita a Lugano; faccio il consulente finanziario a Milano, e stavo semplicemente rientrando a casa. Solo che a Lugano casa mia non c’è, e quello che è più grave, sembra che Lugano sia in Italia.» «Certo che è in Italia. Dove dovrebbe essere?» «Nella Svizzera italiana.» «Cioè mi sta dicendo che una città della valle del Ticino, posta a sud del crinale delle Alpi, farebbe parte di questo fantomatico stato svizzero?» «Lugano» spiega Claudio in tono paziente «è il capoluogo del Canton Ticino, uno dei cantoni svizzeri posti in quello che geograficamente sarebbe territorio italiano. Un’anomalia, se vogliamo, che riguarda anche Bellinzona, Locarno, Mendrisio:


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città sul versante sud delle Alpi che fanno parte della Svizzera italiana.» Viel sembra occupatissimo a prendere appunti. «Bene. Mi dica i nomi di qualche altra città… svizzera.» «Ginevra. Berna, la capitale federale. Zurigo. Losanna. Basilea. Lucerna. Sankt Moritz.» Viel continua a scarabocchiare. «Uhm, devo darle qualche notiziola. Ginevra e Losanna, ovvero Genève e Lausanne, si trovano in Francia, hanno sempre fatto parte della République Française. Tutte le altre città che ha nominato sono città tedesche, eccettuata Sankt Moritz che è in Austria. Mentre le città di quello che ha chiamato Canton Ticino, ovviamente sono in Italia.» Claudio china il capo con aria pensosa, sembra ruminare le informazioni. «Bene» dice infine. «Se le cose stanno così non le resta che spiegarmi questi.» Si fruga nella tasca della giacca. Dal portafogli estrae un tesserino di plastica azzurro. Gli affianca un libretto dalla brillante copertina rossa con una piccola croce bianca e li porge entrambi a Viel.


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Questi osserva a lungo il libretto rosso con aria assorta, poi sillaba: «Schweizer Pass. Passeport suisse. Passaporto svizzero. Passaport svizzer. Swiss passport.» Senza commentare, sfoglia corrucciato le pagine interne, osserva annotazioni e timbri. Poi passa a studiare il tesserino azzurro intestato “Confederazione svizzera” in cinque lingue. Alla fine chiede, quasi in un sospiro: «Chi glieli ha dati questi?» «Come chi me li ha dati! Li ho presi al Centro di registrazione di Lugano. La carta d’identità poi è nuovissima, è quella elettronica con dati biometrici. Risale a pochi mesi fa.» «Oh, certo, certo.» Viel studia assorto i due documenti, passa il pollice sulla liscia superficie del tesserino. «Sì, credo che ci sia un problema.» «Che tipo di problema?» «Credo che ci sia un… come chiamarlo? Disallineamento, ecco. Qualcosa che non combacia. Vediamo un po’… le dispiacerebbe spiegarmi com’è fatta fisicamente questa… Svizzera?» «Ha una carta geografica e una matita?»


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Viel si alza, si accosta allo scaffale pieno di libri. Estrae da un ripiano un atlante dell’Europa, lo apre a una certa pagina e lo depone al centro della scrivania. Poi fruga in un portapenne sul tavolo e porge a Claudio una matita di quelle grasse, facilmente cancellabili. Claudio la impugna come un’arma e l’appoggia sull’atlante, nella zona dell’Alta Savoia, vicino ai confini orientali della Francia. Riflette un po’, poi la sposta con tratti maldestri verso oriente, entra profondamente in territorio tedesco e descrive un largo arco. Poi scende verso le Alpi e torna indietro, con una lunga linea a zig-zag, fino a tornare in Francia. «Che cosa sarebbe questa specie di… tartaruga?» chiede incuriosito Viel, tornato a sedersi alla scrivania. «Lo so, come disegno fa schifo» ammette Claudio. «Ma grosso modo, questa è la Svizzera.» Viel studia attentamente il disegno. «Vediamo» dice in tono paziente. «Lei ha preso una fetta di Francia, nella zona dei monti del Giura, poi si è annesso un bel pezzo di Germania e un po’ di Austria, scendendo praticamente fino alle Alpi, e per non far torto a nessuno, ha pensato bene di prendersi anche un po’ d’Italia, nonostante il confine naturale rappresentato dalle Alpi. Mi scusi, ma questa non è una nazione, è un patchwork.» «È uno dei paesi più antichi d’Europa e del mondo» ribatte vivacemente Claudio. «Le sue origini risalgono alla fine del XIII secolo.» «E secondo lei Germania, Francia, Austria e Italia si sarebbero lasciate portar via tutto quel territorio? Specie la Germania? Voglio dire, qui non stiamo parlando di San Marino o della Città


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del Vaticano. Questo staterello è bello grosso e panciuto, si è preso l’intera zona delle Alpi tedesche con tutti quei laghi…» Claudio scuote le spalle. «Quelle nazioni all’epoca non esistevano. A parte la Francia. Il resto era un coacervo di staterelli in perenne lotta tra di loro. A un certo punto, alla fine del Duecento, alcuni di questi piccoli Stati si sono federati in un patto, lo hanno chiamato Patto eterno confederale, e hanno costituito una nazione. Tutto qui.» Viel si raddrizza, fa un mezzo giro per la stanza. «Tutto qui» ripete. «D’accordo, continuiamo con il giochino. Che lingua si parla in questa… Svizzera?» Claudio fa una smorfia imbarazzata. «Be’, quanto a questo… una lingua nazionale non esiste. Nella maggior parte dei cantoni, così si chiamano le ventisei unità amministrative dello Stato federale, si parla il tedesco. Nella porzione confinante con la Francia si parla francese, e in quel pezzetto incuneato tra le Alpi, che s’insinua in Italia, si parla italiano. Ci sono poi isole linguistiche come quelle in cui si parla il romancio, una lingua romanza affine al ladino e al friulano, ma lo parlano poche migliaia di persone.» «Non ci posso credere» sbotta Viel. «Lei mi sta dicendo che esisterebbe in Europa una nazione vecchia di quasi mille anni… senza una lingua propria?» Claudio si stringe nelle spalle. «È padronissimo di non crederci, ma è così. Una lingua svizzera non c’è mai stata. La Svizzera è sempre stata una federazione, e ogni cantone aveva la sua lingua.» «Anche la Germania e l’Austria sono Stati federali» ribatte vivacemente Viel «ma hanno una lingua nazionale. Anche se in


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Austria parlano tedesco austriaco. E pure la Spagna, nonostante alcuni stati pretendano di avere una lingua propria come il basco e il catalano, ma la lingua ufficiale è lo spagnolo. Quando mai si è vista una nazione senza una lingua?» «Vorrebbe dire» chiede sardonico Claudio «che è il particolare della lingua a farle sembrare inverosimile che esista una nazione svizzera?» Viel scuote la testa. «No. Questo particolare non fa che aggiungere irrealtà all’irrealtà. Resterebbe tutto incredibile anche se lei dichiarasse che esiste una lingua ufficiale svizzera.» Claudio si arresta, come folgorato da un pensiero. «Aspetti un momento» fa poi guardando Viel con aria serissima. «Ebbene?» Si fruga in tasca con movimenti frenetici. Salta fuori di nuovo il portafogli. «Che idiota sono stato a non pensarci prima. Non avremo una lingua ufficiale unica, ma abbiamo qualcos’altro di molto unificante e di molto ufficiale.» «Se ha finito con gli indovinelli…» «Guardi. Come tutti i frontalieri, ho un portafogli con due scomparti per le banconote ben divisi. In uno ho un po’ di euro, non troppi per la verità, e nell’altro scomparto… Cosa mi dice di questi?» sciorina sul tavolo una serie di banconote. Viel allunga una mano a palpare quei biglietti coloratissimi. «Franchi svizzeri, eh? Che buffi biglietti, stampati in verticale… Sembrano proprio i soldi del Monopoli.» «Non penserà che li abbia stampati io, no?» riprende Claudio in tono sostenuto. «Non crede che l’esistenza di una moneta unica presupponga l’esistenza di uno Stato unitario?»


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L’altro risponde con una domanda: «Come mai non avete adottato l’euro?» Claudio si stringe nelle spalle. «La Svizzera è un Paese particolare. Fa parte a pieno titolo dell’Europa, ospita addirittura le sedi di molti organismi internazionali, ma è sempre rimasta neutrale. Perché neutralità era sinonimo d’indipendenza. Quindi, pur aderendo a tutti gli accordi sulla libera circolazione delle persone, compreso il trattato di Schengen, non è mai entrata nell’UE e non ha mai abbandonato la propria moneta.» Viel studia la banconota da dieci franchi. «Questo tizio con gli occhiali, mi sembra di conoscerlo.»


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«È Le Corbusier, il più grande architetto svizzero, e uno dei più famosi architetti del mondo.» L’altro annuisce. «So chi è Le Corbusier. Però, tanto per cambiare, la devo correggere. Non è svizzero. È nato a La Chauxde-Fonds, nel dipartimento francese di Neuchâtel.» «Svizzera francese. Il cantone di Neuchâtel fa parte della Svizzera francese.» Viel allarga le braccia con un’espressione che sembra voler dire “così non andiamo da nessuna parte”. Claudio gli si piazza davanti guardandolo in cagnesco e chiede: «Bene. Adesso mi dica che cosa pensa della situazione, in generale.» Viel fa spallucce. «La verità è che non so cosa pensare. La spiegazione più semplice, ossia che lei sia un pazzo o un burlone, contrasta con i suoi documenti. La spiegazione allora sarebbe che lei sia un pazzo o un burlone con documenti abilmente falsificati. Per non parlare di quei soldi stranissimi. Ma viene subito da chiedersi perché? Avrebbe un senso, forse, se lei fosse una spia o un agente segreto, ma qui si entra veramente nel campo della fantascienza.» «Dal mio punto di vista» replica Claudio «la situazione è un tantino diversa. Nel senso che io ritengo di essere una persona sana di mente, un normalissimo cittadino svizzero che per qualche motivo non riesce a tornare a casa.» «Si tratta, evidentemente, di due realtà inconciliabili» controbatte Viel, in tono filosofico. «Lei si sente normalissimo, ma è chiaro che le è successo qualcosa.»


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«In un certo senso, mi sono perso. Ma lei ha detto, all’inizio, qualcosa che mi deve spiegare.» «Ovvero?» «Che l’hanno chiamata perché mi sentivo fuori del mondo. O qualcosa del genere.» Viel annuisce a lungo prima di fissarlo negli occhi. «In effetti, è il mio turno di darle delle informazioni. Vede, signor Gorlier, lei non è il primo che dichiara di sentirsi fuori posto. È già capitato.» «Che cosa? Che cosa è capitato?» Viel adesso appare stranamente imbarazzato, quasi reticente. «Ecco, già in qualche occasione è successo che venisse fermato qualcuno che pretendeva di essere arrivato in uno Stato inesistente… in questa fantomatica Svizzera. Qualcuno che sosteneva che Lugano non è una città italiana.» Il sollievo che pervade Claudio ha un sapore inquietante, quasi sinistro. «Quindi non sono l’unico! Che fine hanno fatto questi… squilibrati?» «Ah, dopo qualche giorno di smarrimento completo li abbiamo lasciati andare, se ne sono tornati a casa. Perché vede, erano stranieri, o almeno si consideravano tali. Turisti, in sostanza. Alcuni italiani, e un francese, che pretendevano di aver superato un’inesistente frontiera e di trovarsi in questo fantomatico Stato federale.» «Se ne sono tornati a casa» ripete Claudio in tono deluso. «Eh già. Perché venivano da fuori. Lei, invece, è il primo che dichiara di abitare in questo Stato che non esiste. Il suo caso è diverso, non la possiamo rimandare a casa. A quella casa che a quanto sembra esiste solo nella sua testa.»


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Claudio si aggrappa alle parole dell’uomo. «Sì, ma se non sono l’unico, vuol dire che non sono matto!» Viel annuisce quasi a malincuore. «Sì, evidentemente c’è qualcosa che ci sfugge. Come se da qualche parte e in qualche modo questa fantomatica entità statale nata nel Medioevo esistesse realmente. È un fenomeno che stiamo studiando. Lo sta studiando l’ufficio di cui faccio parte.» «Nel frattempo cosa facciamo? Io sono scomparso dal mio mondo. Non riesco a comunicare con la mia ragazza, con i miei parenti, con i colleghi di lavoro a Milano. Per loro sono scomparso, magari si sono rivolti alla polizia, o mi stanno cercando negli ospedali. Il GPS del mio cellulare ha smesso di lanciare segnali. Non esisto più!» Viel si stringe nelle spalle. «Non posso aiutarla. Purtroppo, non sono in grado di rimandarla di là. Ma c’è di peggio: non posso nemmeno permetterle di andarsene in giro per questa Italia che per lei è Svizzera, perché sarebbe un fattore di disturbo, incapace d’integrarsi in questa realtà, di vivere una vita normale. Non possiamo permetterci avvenimenti anomali, che possano incrinare la superficie della nostra quotidianità. Il Ticino è sempre stato una zona tranquilla, con una normalità senza scosse, e vogliamo mantenerla così.» Claudio lo fissa ingrugnito. «Che cosa vorrebbe dire? Che sono prigioniero? E con quali accuse, di grazia? Quali leggi del vostro strambo Paese avrei violato?» Viel si agita blandamente sulla sedia. «Ma che prigioniero. Lei non ha fatto niente di male, è ovvio. Ma resterà nostro… ospite finché non avremo capito qualcosa di più della sua situazione.»


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«Ma siamo impazziti?!» Claudio quasi si strozza. «Magari ci vorranno mesi o anni, ammesso che arriviate a capirci qualcosa. Non potete tenermi qui! È… è sequestro di persona!» «Mi dispiace. La tratteremo benissimo, ma resterà con noi per un po’. È una questione di forza maggiore.» «Non potete! È… è illegale!» «Lei dice?» Viel si gira sulla poltroncina, fissandolo con aria un po’ sorniona. «Ne è sicuro? Vede, sul piano legale lei è un cittadino extracomunitario, dato che questa sua Svizzera per quanto risulta non ha aderito alla UE. Ed è senza documenti.» «Lo dice lei! I miei sono perfettamente validi, glieli ho appena fatti vedere!» «Perfettamente validi in Svizzera. Per noi sono documenti falsi, semplicemente.» «E allora?» scatta lui. «Vede, un cittadino extracomunitario senza documenti non se ne può andare in giro. Può essere denunciato per aver fornito false generalità e rischia l’arresto fino a sei mesi.» «Dopo essere stato processato!» quello di Claudio è quasi un urlo. «Non potete mettere in galera uno che non ha commesso reati, a meno che non rompa la testa a qualche agente! Denunciare non vuol dire arrestare!» «Questi sono dettagli» cerca di sminuire Viel, ma Claudio ormai è invalvolato. «Stia a sentire. Io vivo… ho sempre vissuto in Svizzera, ma leggo i giornali italiani e guardo la TV, e so benissimo che il Belpaese è pieno di extracomunitari che se ne vanno in giro senza documenti


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e fanno quello che gli pare, vengono arrestati solo se commettono furti o altri reati, e i giudici poi li rimettono fuori subito!» Viel alza una mano. «Con queste discussioni non approderemo a nulla. Lei deve accettare una realtà semplicissima: per adesso deve rassegnarsi a restare qui. Per il minor tempo possibile, le assicuro.» «Vada al diavolo!» sbotta Claudio. «Non finisce qui. Qualcuno pagherà, oh se pagherà.» «Mi dispiace» Viel si alza con l’aria di aver chiuso la discussione. «Torno a trovarla prima possibile.» Claudio non risponde. A braccia conserte, fissa imbronciato la parete.


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CAPITOLO TERZO COSÌ, NE ABBIAMO TROVATO UN ALTRO

«Così, ne abbiamo trovato un altro» commenta Giannini. Manrico Viel fissa corrucciato il suo braccio destro. «Proprio così, Fabio. Un altro squinternato, apparentemente, che spergiura che qui non siamo in Italia ma in… Svizzera.» «Cominciano a essere davvero tanti. Non trova, ispettore?» «Direi di sì. Con l’aggravante che questo non sostiene di essere italiano, come gli altri sciroccati che abbiamo incocciato finora. Questo dichiara solennemente di essere svizzero. Dice di abitare a Lugano ma sostiene trattarsi di una città svizzera. Mi ha mostrato documenti e soldi che sarebbero perfetti… se la Svizzera esistesse. E me l’ha anche disegnata su una carta geografica!» Tira fuori l’atlante dallo scaffale. Non ha cancellato i segni di matita tracciati da Gorlier sulla mappa dell’Europa Centrale. La mostra al collaboratore. «Ti rendi conto, Fabio? Ti rendi conto che questo fantomatico stato svizzero si sarebbe preso una bella fetta d’Italia, senza alcun motivo storico, etnologico o geografico?» Indica la zona del Ticino. «Ammesso che avesse una qualche giustificazione storico-militare, avrebbe dovuto essere uno Stato transalpino, racchiuso nel versante settentrionale delle Alpi, quello che degrada verso Francia e Germania. Viceversa sembra


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che questa assurda entità statale sia debordata verso sud prendendosi un bel po’ di Alpi e Prealpi italiane, arrivando fin quasi ai confini della Val Padana. Ti rendi conto che il confine passerebbe a neanche cinque chilometri da Como?» «Cinque chilometri?…» «Sì, sarebbe a dire che prendi la macchina, esci dalla città in direzione nord e sei in Svizzera! Lugano, Locarno, Bellinzona, Ascona, Mendrisio. Città italianissime, come tutta la parte settentrionale della valle del Ticino, incorporate in un cantone straniero, in cui si parlerà pure l’italiano, ma che non fa parte della Repubblica! È un assurdo storico-geografico. Il crinale delle Alpi segna il confine settentrionale dell’Italia dovunque, tranne che nel cosiddetto Canton Ticino!» Giannini riflette. «Sì, è un’assurdità» dichiara alla fine. «Ma se si accetta il principio che possano esistere altre realtà storiche e geografiche, dobbiamo riconoscere che anche questa sistemazione dei confini fa parte delle possibilità. Ci possono essere, anzi, ci saranno senz’altro altre situazioni, altre realtà parallele in cui magari uno stato italiano unitario non si è mai formato, e sopravvivono ancora il Regno delle Due Sicilie e lo Stato Pontificio. Oppure in cui la Francia ha mantenuto il controllo di una buona fetta di Piemonte, e l’Austria del Veneto.» Viel ha un gesto di fastidio. «Ma certo, sappiamo che in base alla teoria degli universi paralleli – che è assurda quanto vuoi ma a quanto pare ha delle basi – tutto è possibile, qualunque assurda sistemazione politico-geografica. Solo che di quelle altre situazioni ancora più incredibili possiamo solo discettare in teoria, mentre dell’esistenza di questo incredibile stato svizzero


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abbiamo avuto più volte segni, prove di esistenza. Insomma dobbiamo pensare che sia qualcosa di dannatamente reale!» «Dobbiamo cercare di ricavare qualcosa da questo Gorlier, o come si chiama in realtà.» Viel annuisce nervosamente. «Non sarà semplice, visto che dobbiamo muoverci nell’ombra. Gorlier non esisterà, ma è pur sempre un cazzo di cittadino di qualche cazzo di Stato. Dobbiamo camminare sulle uova, Fabio, cercando di non inciampare.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

CAPITOLO PRIMO: La frontiera scomparsa .............................. 5 CAPITOLO SECONDO: Claudio Gorlier si stira sbadigliando. 13 CAPITOLO TERZO: Così, ne abbiamo trovato un altro ........... 27 CAPITOLO QUARTO: Lo hanno portato in una villetta .......... 30 CAPITOLO QUINTO: Scervellandosi ....................................... 37 CAPITOLO SESTO: Le luci di Campione d’Italia .................... 40 CAPITOLO SETTIMO: Qualche chilometro più a nord ........... 48 CAPITOLO OTTAVO: Si studia a lungo nel grande specchio.. 59 CAPITOLO NONO: Ha deciso di dire la verità ......................... 65 CAPITOLO DECIMO: Le è sempre piaciuto fermarsi .............. 71 CAPITOLO UNDICESIMO: Ordel guarda fuori ....................... 77 CAPITOLO DODICESIMO: Uno sporco traffico ..................... 80 CAPITOLO TREDICESIMO: È sparito .................................... 84 CAPITOLO QUATTORDICESIMO: Prima o poi doveva succedere ..................................................................................... 88 CAPITOLO QUINDICESIMO: Girando per la città ................. 94 CAPITOLO SEDICESIMO: Silbermann ................................... 98 CAPITOLO DICIASSETTESIMO: Il prato con vista sul lago 101 CAPITOLO DICIOTTESIMO: Piove a dirotto........................ 107 CAPITOLO DICIANNOVESIMO: La casa di via Roncobello111 CAPITOLO VENTESIMO: Dovevo immaginarmelo.............. 117 CAPITOLO VENTUNESIMO: Ne abbiamo presi altri due .... 122 CAPITOLO VENTIDUESIMO: Il palazzo della Commissione .................................................................................................. 124 EPILOGO: Il raccordo che conduce all’autostrada A2 ............ 133 APPENDICE: Mu’ammar Gheddafi politico «ucronico» ....... 139



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