Legion X

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In uscita il 30/4/2015 (14,00 euro) Versione ebook in uscita tra fine aprile e inizio maggio 2015 (2,99 euro)

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MASSIMILIANO MURGIA

LEGION X L’invincibile Decima Legione di Cesare

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LEGION X Copyright © 2014 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-881-7 Copertina: immagine Shutterstock

Prima edizione Aprile 2015 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Dedicato a chi, come me, crede che il proprio destino non sia scritto e che tutti abbiamo diritto a una seconda occasione.



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PREFAZIONE

Sui banchi di scuola, attraverso le biografie, o anche in televisione e al cinema, abbiamo imparato a conoscere le gesta di innumerevoli grandi comandanti, sovrani e conquistatori. Grazie alle loro vittorie si sono ritagliati un ruolo da protagonisti nella storia, diventando in questo modo immortali. Quello che non sempre si evidenzia è se il loro successo sia dovuto a effettive capacità personali o ad altri fattori. In molti casi la supremazia sugli avversari era determinata dal loro scarso valore, altre volte dalla mancanza di mezzi, raramente anche dal caso. Ovviamente in passato le cronache delle battaglie erano riportate da chi le combatteva e spesso vinceva, come nel caso degli scritti di Cesare, libero quindi di interpretare gli eventi o descriverli a proprio piacimento. Il soffermarsi troppo a lungo sulla strategia o sull’inventiva di chi deteneva il comando ci ha però negato di conoscere a fondo i veri protagonisti delle battaglie, cioè i soldati. Un valido condottiero non potrà mai prevalere con un esercito scadente, mentre non è detto che una grande armata non possa vincere, anche se guidata da un comandante mediocre. È prendendo spunto da questa mia convinzione che ho deciso di scrivere questo libro, cercando di celebrare per una volta co-


6 loro i cui nomi non sono stati consegnati alla storia, ma che ne meriterebbero un posto di rilievo. Nessun altro esercito è stato in grado di eguagliare le imprese delle legioni romane, capaci di affrontare e sconfiggere armate dieci volte più numerose. Questo risultato non era determinato da una supremazia tecnica o dall’uso di armi più avanzate, ma era frutto di tre elementi: organizzazione, disciplina e addestramento. Il termine moderno “esercito”, deriva proprio dalla “exercitatio”, cioè le esercitazioni costanti ed estreme cui si sottoponevano i soldati di Roma. Il loro livello di preparazione farebbe impallidire persino i corpi speciali moderni, marines e teste di cuoio incluse. L’aspetto più eclatante della loro superiorità non era evidente solo dal punto di vista del puro e semplice scontro armato con i nemici, ma nella capacità di volgere a loro favore anche le situazioni più intricate. Non esisteva ostacolo ambientale, geografico o artificiale che potesse farli desistere. Erano in grado di costruire ponti, strade, dighe, navi, acquedotti, deviare fiumi, bonificare paludi, modificare l’intero aspetto di un territorio per adattarlo alle proprie esigenze… e altro ancora. Ed è proprio a loro che Roma deve la propria gloria, non certo a re, imperatori o senatori. Perché non va dimenticato che proprio a Roma hanno origine pratiche come la corruzione, il nepotismo, la compravendita di cariche, l’eliminazione - spesso fisica - degli avversari politici, l’uso manipolativo dell’opinione pubblica, l’oppressione e l’invadenza della burocrazia e, ancor più grave, le controversie personali di pochi che sfociavano in guerre civili. Pratiche a noi note e che sono l’unico elemento tramandato per duemila anni, mentre tutto il resto sembra assopito nell’animo delle genti italiche, diventate passive e incapaci di reagire alle difficoltà. Mi verrebbe da dire


7 che Roma è stata grande nonostante abbia originato cose tanto negative e banalmente mi trovo a costatare che il nostro passato condiziona il presente; peccato che siano sempre gli aspetti negativi a radicarsi maggiormente in ogni cultura. In dieci giorni le legioni hanno realizzato un ponte sul Reno a perfetta regola d’arte, mentre oggi non bastano decenni per completare un’opera, nonostante il progresso tecnico e le attrezzature moderne a disposizione. Dico questo da uomo avulso dalla politica, perché mi considero un semplice osservatore. C’è stato un tempo in cui le genti straniere entravano nelle legioni per acquisire la cittadinanza romana, perché era considerata un onore. Oggi mi trovo a osservare le nuove generazioni, augurando loro di cercare fortuna fuori da questo paese. Lo stile narrativo utilizzato è duplice, perché volevo creare una sorta di contrapposizione tra la figura di Cesare e quella del narratore, Massimo Lucio Andronio, che vive le celebrate vicende del suo comandante partendo da semplice recluta fino a diventare il prescelto per guidare la più famosa legione di tutti i tempi. Le parti del libro che riguardano Cesare sono narrate con lo stesso stile dei suoi De Bello Gallico e De Bello Civilis e cioè in terza persona, mentre il legionario racconta la sua vita in prima persona. Per tenere divise le parti, ho scritto in corsivo quelle di Cesare, perché all’interno della narrazione s’intersecano e in alcuni momenti si sovrappongono. In tali momenti è sempre Massimo a rievocare, per approfondirne l’aspetto psicologico nelle occasioni in cui i due s’incontrano e si parlano. Il racconto quindi si sviluppa come romanzo storico, nel quale ho cercato nel limite del possibile di conservare l’attendibilità


8 dei fatti, affiancati ad altri di fantasia al fine di conferire una sembianza di veridicità globale. Per quanto riguarda il protagonista, il personaggio è inventato, ma questo è dettato da tre ragioni principali: -la prima è che avevo bisogno un legionario che avesse seguito interamente i tredici anni di campagne militari di Cesare all’interno della X e nessun comandante della stessa si è prolungato in tale ruolo così a lungo. Questo era dovuto dal fatto che le posizioni di comando non erano fisse e le legioni si spostavano con frequenza in luoghi anche molto distanti. Il comandante provvisorio che cito fino a Gergovia è pure lui inventato, perché mi serviva un personaggio sconosciuto per effettuare il passaggio di consegne nelle mani di Massimo. -la seconda ragione è che per raccontare la mia storia dovevo partire da una recluta e portarla fino al comando della legione in un tempo non troppo lungo. Un legionario però non poteva raggiungere i vertici di una legione, al massimo dopo dieci anni diventava centurione poco altro gli sarebbe stato concesso. Il mio protagonista beneficia di alcuni avvenimenti favorevoli che gli spianano la strada verso il comando. -l’ultima motivazione è strettamente legata al finale, situazione che potevo ricreare solo con un veterano della X, devoto, per sua stessa ammissione, unicamente a Roma e ai suoi compagni. Questo è un libro sulla guerra, ma contro la guerra, perché è inutile nascondere che è l’unico elemento che caratterizzerà sempre l’essere umano. Forse raccontarla ci può aiutare a capire quanto sia inutile e assurda. Ho voluto raccontarne i protagonisti, che non sono però semplici esecutori ma anche spettatori, spesso passivi, eppure in grado di giudicare le proprie azioni…


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PROLOGO

Mi chiamo Massimo Lucio Andronio e sono il comandante della X Legione, la più celebre armata di Roma al tempo di Cesare. Ho partecipato alle campagne militari in tutto l’impero, dalla Britannia al Nord Africa, dall’Ispania alla Grecia, passando attraverso la Gallia. Sono un veterano, devoto alla mia patria e ai miei compagni d’armi… questa è la mia storia. Lui è Gaio Giulio Cesare, l’ultimo grande conquistatore di Roma antica. Questa è la cronaca dei suoi trionfi sui campi di battaglia, ottenuti con l’ingegno, il coraggio e l’astuzia, ma soprattutto grazie alla forza delle sue legioni. *** Sono nato e cresciuto a Roma e per questo mi considero un privilegiato. In casa mia il termine legionario è sempre stato impiegato con grande orgoglio. Un mio avo partecipò alla guerra contro Cartagine e combatté al comando di Scipione l’Africano. Mio nonno e mio padre sono stati anch’essi veterani di molte battaglie, all’ombra dei vessilli delle legioni.


10 Poco più che infante, fui sottoposto da mio padre a severi addestramenti. Dai rami dell’albero che cresceva nel cortile, intagliò un corto gladio1 e un giavellotto e dalla dura corteccia un piccolo scudo. Non mi pesavano quelle lunghe sedute di allenamento, perché per me era un gioco e potevo trascorrere del tempo prezioso in sua compagnia. Rari erano i momenti in cui gli erano concessi congedi temporanei e a questi alternava lunghi periodi in cui era distante, perché per Roma lo stato di guerra era perenne. Da adulto avrei compreso il fine di quella preparazione. Consapevole che avrei dovuto passare una parte della mia vita sui campi di battaglia, mio padre stava cercando di garantirmi, in quel modo, maggiori possibilità di sopravvivere. Le imprese delle legioni rappresentarono quindi l’argomento principale di conversazione in casa mia, anche se mia madre non era favorevole e s’infuriava con me e mio padre. Probabilmente con quell’atteggiamento cercava di impedire o perlomeno ritardare la partenza per il fronte anche del figlio minore. Mio fratello infatti si era già arruolato quando io ero ancora piccolo e di lui si avevano notizie sporadicamente. In quelle occasioni vedevo tornare la serenità negli occhi di mia madre, abituata da sempre a temere per la sorte dei suoi cari, spesso distanti e impegnati in campagne militari. Sapevo di provocarle un dolore con il mio entusiasmo, ma il destino dei figli maschi di Roma era scritto fin dalla nascita e il

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Gladio: spada corta, a doppio taglio, con lama larga e appuntita, usata dai legionari.


11 modo migliore per accettarlo era riuscire a condividerlo a pieno. Potevi adempiere i tuoi doveri di leva e poi congedarti, oppure dedicare la tua intera esistenza alle legioni. Io avevo scelto quest’ultima possibilità. Quando rientravano a Roma dalle lunghe spedizioni, il popolo le celebrava con lunghe parate attraverso le vie principali e io non ne perdevo una. Ammiravo i soldati transitarmi davanti e ai miei occhi apparivano come prodigiosi giganti, muscolosi e invincibili. La pelle bronzea, annerita dal sole, conferiva loro un’aria ancor più combattiva. Accadde però tutto durante un afoso pomeriggio di tarda primavera. Mentre tornavo a casa, sentii un trambusto provenire dalla centrale piazza. Una folla numerosa accompagnava la sfilata di una legione e la curiosità mi spinse a cambiare il tragitto. Mi unii a essa, cercando di avvicinarmi il più possibile per osservare meglio. Rimasi folgorato dallo stendardo che precedeva il nutrito gruppo di soldati. L’effige del toro simboleggiava tutta la forza di quell’armata. E in quell’istante decisi che mi sarei arruolato nella X Legione. Cesare era assorto nei suoi pensieri. Aveva trentasette anni ed era stato da poco nominato pontefice massimo. Sentiva il tempo scorrere troppo celermente, mentre la sua carriera procedeva a rilento. Il triumvirato con Pompeo e Crasso era una creatura ibrida e instabile e iniziava a stargli stretta quella condizione di equilibrio forzato. Voleva di più, agognava il potere assoluto e doveva trovare il modo per conquistarlo. Era convinto che l’unico sistema per garantire un nuovo ordine fosse instaurare la dittatura, condizione in cui era possibile accentrare le decisioni in due sole mani, al fine di poter intraprendere senza ostacoli un’operazione di pulizia interna.


12 Affidandosi ai soli intrighi, ai favoritismi e alle compravendite di personaggi scomodi, la strada sarebbe stata troppo lunga e imprevedibile nell’esito finale. L’unico sistema infallibile era quello già impiegato da suo zio Mario e cioè la ricerca del prestigio e del consenso ottenuto attraverso i trionfi militari. Mario, dall’alto della sua esperienza vittoriosa di mille tenzoni, lo aveva largamente istruito al Campo Marzio sul fronte dell’arte bellica. Insegnamenti che non si limitavano alla sola teoria, ma puntavano a temprare anche il fisico, con frequenti e impegnative esercitazioni. Il nipote però non aveva ancora potuto dimostrare sul campo le innate doti di comando e il carattere fermo e determinato. All’interno dell’impero non mancavano certo le occasioni per trovare soddisfazione in guerra. Ovunque abbondavano tribù che migravano in cerca di sistemazioni migliori o perché minacciate da altri popoli. Per non dire di famigerati condottieri che sfidavano impunemente Roma, convinti di poter prevalere con la sola presunzione. E dai confini c’era sempre qualcuno che sbirciava, alla ricerca del momento opportuno per tentare una sortita e invadere l’impero. La riforma dell’esercito avviata da suo zio iniziava a produrre i benefici sperati. Da una parte non si arruolavano più tutti i maschi abili in modo forzoso, finendo spesso per creare armate male assortite e inesperte. Dall’altra si stava migliorando l’efficienza delle legioni, composte di soldati addestrati e motivati, ricompensati in modo adeguato e in grado di svolgere una professione a tempo pieno. Ed è questo di cui aveva bisogno Cesare per conseguire i propri obiettivi. In mancanza del presupposto di un esercito affidabile su cui contare, il suo proposito di dominio totale non era realizzabile.


13 Essendo un perfezionista che non lasciava nulla al caso, decise che avrebbe selezionato, tra quelli in circolazione, solo i corpi militari d’eccellenza. Fedeltà, preparazione, ferocia e determinazione erano gli elementi che dovevano caratterizzare le legioni prescelte. E tra queste aveva individuato quella che avrebbe legato alle sue vittorie e alla storia… la X Legione. Nell’attesa dell’occasione propizia per agire, si sentiva come un felino in caccia; percepiva l’odore della preda, ma ancora non poteva aggredirla.


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L’ADDESTRAMENTO

Dall’età di dodici anni fui introdotto all’addestramento preparatorio obbligatorio, necessario per plasmare fisicamente i futuri legionari. Reduce dagli allenamenti paterni, quella preparazione non fece che completare e migliorare le mie prestazioni corporee e mentali, infondendomi uno spirito di squadra che ancora non mi apparteneva. Al compimento del mio diciannovesimo anno di età, arrivò per me l’opportunità di presentarmi all’arruolamento. Stavo per uscire dalla porta di casa quando mio padre mi chiamò indietro, si accostò a un baule e vi prelevò una cintura di cuoio con un fodero. «Prendilo, figlio. Questo coltello l’ho forgiato e sagomato all’incudine con le mie mani e più di una volta mi è stato d’aiuto. Impara a lanciarlo con precisione e portalo sempre con te. Un giorno forse ti salverà la vita.» Non aggiunse altro, se non un lungo e profondo abbraccio. In quel momento non sapevo che il mio commiato sarebbe stato un addio. La riforma dell’esercito non prevedeva più arruolamenti automatici, ma ci si doveva sottoporre a una selezione la cui severi-


15 tà dipendeva dalla località e dalla legione cui si voleva essere destinati. In mancanza di preferenze l’assegnazione era immediata e si era impiegati per sostituire i caduti in battaglia, in qualunque luogo dell’impero fosse richiesto. Ovviamente alla mia domanda di reclutamento non mancai di indicare a chiare lettere il desiderio di affiancarmi alla X Legione. L’unico ostacolo consisteva nel fatto che quella era una legione di veterani alla quale raramente si aggiungevano delle reclute, preferendovi reduci esperti di precedenti campagne. Mi presentai con qualche apprensione dinanzi alla commissione di ufficiali che stabilivano l’idoneità. Passai brillantemente la valutazione dello stato fisico, ma non era quella la mia preoccupazione: ero alto sei piedi2 e un palmo3, quindi superavo ampiamente il minimo consentito, pesavo trecento libbre4, ero robusto e godevo di ottima salute. La mascella pronunciata e lo sguardo deciso mi conferivano un’aria bellicosa, particolare che ben si sposava con la professione che mi accingevo a svolgere. Al colloquio conoscitivo cercai di essere naturale e sincero nelle mie risposte, intuendo che lo scopo degli esaminatori era di comprendere la reale convinzione della mia scelta.

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Piede: unità di misura pari a circa 30 cm.

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Palmo: unità di misura pari a circa 7.5 cm.

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Libbra: unità di misura pari a circa 330 gr.


16 Per fortuna la mia determinazione e la preparazione mi consentirono di superare quelle limitazioni; insieme a un’intera centuria5 di giovani promettenti fui inviato a Narbona6 - località in cui era acquartierata la X - situata nella florida Gallia Narborensis7. Adempiuta la formalità del rito di giuramento, ritirai la piastrina di riconoscimento con impresso il mio nome e mi preparai a partire. Il viaggio non fu avaro di difficoltà e di contrattempi; attraversare le Alpi non era impresa agevole, soprattutto alla fine dell’inverno, con le vette ancora colme di neve e i sentieri ghiacciati o pieni di fango. In più di un’occasione fummo costretti a cambiare percorso a causa di una valanga o di un cedimento del terreno, ma alla fine riuscimmo a raggiungere la nostra meta in una soleggiata e mite giornata. L’accampamento non era come me lo immaginavo. Dalle dimensioni sembrava un vero e proprio insediamento e l’impressione trovava conferma muovendosi all’interno. Evidentemente la legione doveva essersi stanziata in quei luoghi

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Centuria: unità dell’esercito romano, composta di circa 80-100 uomini e comandata da un soldato scelto, il centurione.

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Narbona: città francese situata nella regione della LinguadocaRossiglione.

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Gallia Narborensis: regione francese, era nota in origine come Gallia Transalpina (ossia “al di là delle Alpi”) per distinguerla dalla Gallia cisalpina (ossia “al di qua delle Alpi”).


17 da parecchio tempo, perché avevano rimediato un luogo accogliente, molto differente dal tipico accampamento provvisorio. L’arena per l’addestramento era enorme ma non fu una sorpresa, perché Roma mi aveva da sempre abituato alla realizzazione di opere smisurate. Aveva la forma di un quadrilatero, con massicce palizzate di legno alte quanto tre uomini, provviste di passatoia e torrette a ogni angolo, sempre vigilate da una squadra di legionari. Ogni lato era lungo almeno cento pertiche e solo su un fianco era presente un portone, anch’esso presidiato da due soldati armati. Era evidente la necessità di celare le tecniche di addestramento a occhi estranei, soprattutto quando le armate si trovavano in terra straniera. Più che un luogo per gli allenamenti aveva l’aspetto di una fortezza, ma non era da escludersi che all’occorrenza potesse diventarlo. All’interno era perfettamente attrezzata e suddivisa in vari settori, compreso uno stretto e allungato per il lancio dei giavellotti e delle frecce, uno per la lotta, uno per i combattimenti armati e persino una zona costantemente irrigata per simulare condizioni ambientali estreme. Completava lo scenario l’area recintata per le esercitazioni della cavalleria, dotata di ostacoli e percorsi vari in cui cimentarsi, compresa una grossa vasca interrata colma d’acqua. Lungo una palizzata c’erano i locali a uso spogliatoio, i bagni, le cucine, la mensa e l’infermeria. In effetti l’aspetto più affascinante delle legioni non era solo l’eccellenza nell’arte della guerra; i suoi membri erano in grado di realizzare costruzioni sorprendenti, dai forti, agli accampamenti, ai ponti, persino le strade. Riuscivano all’occorrenza a stravolgere l’aspetto di un territorio, deviando fiumi o abbat-


18 tendo intere foreste, allagando i campi di battaglia o bonificando paludi. Avevano un’organizzazione tale da poter fronteggiare qualsiasi situazione o imprevisto, con una capacità di adattamento unica e inimitabile. Era stata creata una perfetta macchina da guerra, ma anche un’organizzazione efficiente in tempo di pace. Ci si allenava tutti i giorni, la mattina presto e a pomeriggio inoltrato, con l’eccezione di una mezza giornata la settimana dedicata al riposo, alternando le varie tecniche di combattimento e concentrandosi prevalentemente sulla prestanza fisica e la resistenza. Dopo alcuni giorni di allenamenti preliminari, fummo assegnati a un addestratore esperto e molto rispettato dai suoi compagni. Si chiamava Caio, soprannominato Colonne d’Ercole. Mentre ci stavamo schierando per presentarci a lui, chiesi al mio attiguo compagno se conoscesse l’origine di quel soprannome. «Tra poco lo scoprirai da solo» fu la risposta a bassa voce. Il portone d’ingresso al campo si spalancò all’improvviso sotto l’azione di due braccia poderose. Non tardai a soddisfare la mia curiosità: alto almeno un palmo più di me e largo il doppio, tutto muscoli e con un collo taurino, era l’uomo più imponente che avessi mai incontrato. Sguardo deciso, capello corto e barba incolta completavano il quadro. Il corpo era pieno di cicatrici, ma una spiccava tra le altre e si trovava all’altezza della coscia destra e aveva determinato qualche danno permanente, poiché il colosso zoppicava vistosamente. Forse era per quella menomazione che Caio era stato destinato all’insegnamento, esonerandolo in tal modo dai campi di battaglia.


19 Ben presto avrei sperimentato a mie spese che quell’appariscente problema non era però in grado di limitarne il vigore. Dopo un paio di sedute ci convocò per una prima lezione di lotta libera, alla quale si dedicava in prima persona. Dato che doveva scegliere un possibile volontario per mostrare alcune prese, iniziò a squadrarci attentamente, finché non puntò un dito verso di me. «Fai un passo avanti, recluta! Come ti chiami?» «Massimo» risposi con voce ferma, ma un timore reverenziale m’irrigidì i muscoli. «Mi sembri il più dotato fisicamente tra questi novellini. Proviamo qualche presa per scaldarci.» La dimostrazione non durò molto e per i successivi tre giorni ebbi parecchi problemi a muovermi, facendo ricorso a diversi impacchi e unguenti per mitigare i dolori. La settimana successiva ci trovammo di nuovo nel medesimo scenario e fui ancora io la prima scelta. La cosa non mi entusiasmava, ma non avevo intenzione di restare inerme come nel primo scontro. Lui era possente ma poco agile rispetto a me, quindi cercai di tenermi a distanza per colpirlo ripetutamente evitando di espormi alla sua presa. Dopo un paio di tentativi falliti di afferrarmi, si scoprì su un fianco e io gli sferrai con forza un calcio mirando alla sua gamba destra, all’altezza della cicatrice. Come un grosso animale ferito appoggiò il ginocchio al suolo, sostenendosi al terreno con una mano. Non emise urla di dolore, ma l’espressione sofferente del viso dimostrava che aveva accusato il colpo. «Bravo Massimo, hai capito qual è il mio punto debole, ma non ti basterà per vincermi.» Si alzò lentamente e con aria minacciosa iniziò ad avanzare verso di me. Allargò simultaneamente le braccia alla massima


20 estensione, quasi per farmi intendere che da lì non si passava. Mi limitai ad arretrare alcuni passi, cercando di capire cosa avesse in mente. Quando compresi le sue intenzioni, era tardi; senza rendermene conto ero finito dentro alla fossa della melma. «Maledizione!» imprecai. Prima che potessi riprendermi dalla sorpresa, ero sprofondato con le gambe nel pantano fino alle ginocchia. Mi soffermai un istante a guardare in basso e quel gesto mi fu fatale. Sollevai lo sguardo in tempo per vedere Caio che si lanciava con un grido di rabbia verso di me. L’impatto fu terribile e ci proiettò entrambi nella fossa, lasciandomi intontito e dolorante. Ci rialzammo e nonostante la maschera di fango che gli ricopriva il volto, potei scorgere il suo ghigno di sfida. «Come vedi ho trovato il sistema per azzerare lo svantaggio. Ora possiamo lottare ad armi pari.» Aveva ragione. In quella situazione era decisiva la sola forza bruta e lui ne aveva da vendere. Era riuscito a ribaltare una situazione a lui sfavorevole in una vincente. Ancora adesso mi ricordo le sofferenze che mi accompagnarono per una decade e le notti passate insonni, impossibilitato a sdraiarmi sul giaciglio. Avevo dimenticato uno degli insegnamenti di mio padre: mai sottovalutare il tuo avversario. E ne avevo pagato le conseguenze, per fortuna non irrimediabili. In battaglia il mio atteggiamento mi sarebbe probabilmente costato la vita. In seguito mi resi conto che mi ero conquistato la stima di Caio, perché lui iniziò a non sminuirmi negli incontri successivi, notevolmente più equilibrati e meno violenti dei primi. Durante la fase successiva dell’addestramento iniziammo a impiegare le armi e la prima della lista era il giavellotto, micidiale


21 strumento usato in battaglia per indebolire e creare varchi nelle prime linee avversarie. Concepito in modo tale da deformarsi quando perforava lo scudo avversario, non poteva essere rimosso o riutilizzato e quindi rendeva lo scudo inservibile o ne comprometteva la manovrabilità. Particolare cura era riservata all’insegnamento della tecnica di lancio e delle altre componenti fondamentali, come la potenza e la precisione. Gli insegnamenti paterni mi favorivano rispetto alle altre reclute, ma erano molti i dettagli che dovevo ancora apprendere. Il nostro istruttore si chiamava Lepido ed era un veterano ancora in forza alla legione. Non molto alto ma dotato di spalle e braccia possenti, sembrava quasi sproporzionato nelle forme a causa delle gambe più esili. La testa era rasata e gli occhi color ghiaccio davano al suo sguardo un aspetto inquietante e una vitalità travolgente. Al collo portava una grossa catena e indossava sempre una fascia di cuoio legata intorno alla mano che proseguiva fino all’avambraccio. Il poligono per il lancio non era altro che una striscia di terreno lunga e stretta, delimitata ai lati da paletti collegati da spesse funi. Una corda fissata a terra trasversalmente indicava il limite per il lancio, mentre uno spazio di un paio di pertiche era lasciato disponibile per la rincorsa. Dopo alcune nozioni teoriche iniziammo il riscaldamento in preparazione di qualche lancio. «Sono proprio curioso di vedere all’opera questi novellini» urlò Lepido all’improvviso. Ci fece dividere in gruppi di dieci e io fui inserito nella prima squadra. Mentre si disponevano le rastrelliere, fui colto una curiosità e mi rivolsi a Lepido.


22 «Ho notato che all’interno del settore dei lanci c’è un giavellotto conficcato nel terreno, con un panno rosso legato in cima. Che significato ha?» «Quella rappresenta la massima distanza mai raggiunta da un veterano della X Legione. Inciso nel legno, troverai il nome del legionario che l’ha scagliato.» «A occhio non mi sembra una distanza così rilevante. Non capisco.» A quell’affermazione Lepido scoppiò in una fragorosa risata, subito imitato da altri veterani che avevano ascoltato le nostre parole. «Pivello, per gli allenamenti non utilizziamo le normali lance da battaglia, ma quelle.» Così dicendo si diresse alla rastrelliera e ne estrasse una per mostrarmela. «Ecco prendi e dimmi cosa ne pensi ora.» La impugnai, rendendomi subito conto che aveva qualcosa di anomalo. Era più grossa e più lunga di quelle che conoscevo e il peso era maggiore. «Continuo a non capire.» Mi sentivo stupido, ma volevo una risposta. «Per l’addestramento usiamo armi più pesanti, per aumentare la nostra forza e la resistenza. Sei ancora dell’idea che quel lancio non sia da primato?» Un altro coro di risate accompagnò la sua affermazione. Serrai la mascella in preda a un attacco d’ira. Mai schernire un avversario; un uomo troverà nella rabbia, nella frustrazione e nell’orgoglio le riserve di energia per affrontare qualunque sfida. In quel momento mi tornarono in mente le parole di mio padre. Lasciai che terminassero di deridermi, poi mi diressi verso la zona di lancio. Avevo le mani sudate e mi sfregai della terra sul


23 palmo per migliorare la presa. Impugnai con forza il giavellotto e presi la rincorsa. Un grido di rabbia accompagnò il volo del dardo. Piedi ben piantati al suolo, braccio teso, movimento ampio, potenza e traiettoria perfetti e nessuna oscillazione. Quel dannato pezzo di legno si piantò nel terreno circa dieci piedi oltre la misura da superare. Alzai le braccia al cielo in segno di trionfo, accorgendomi subito che un silenzio glaciale aveva avvolto l’arena. La fragorosa risata di Lepido interruppe quella quiete improvvisa. «Ma bene. La nostra recluta ci ha dimostrato di avere carattere da sfoderare in abbondanza. Speriamo che sia così anche sui campi di battaglia. Bene Massimo, ora puoi recarti a incidere il tuo nome sul giavellotto e a legarci in cima il panno del campione. E riporta indietro l’altro, così lo consegniamo al precedente detentore.» Mi avvicinai al punto indicato e subito cercai sul legno i segni del nome inciso. Recava a chiare lettere un nome che già conoscevo. Era stato Lepido a scagliare l’arma fin lì: provai subito una sensazione di disagio. A causa del mio orgoglio mi ero messo sicuramente in cattiva luce. Tornai da Lepido a testa bassa e gli riconsegnai il giavellotto. «Mi dispiace» furono le uniche parole che mi uscirono dalla bocca. «Dispiacerti? E di cosa? Ragazzo, tu devi cambiare completamente la tua visione delle cose se vuoi restare nella legione. Non c’è spazio qui dentro per invidie o inutili competizioni. Non è un gioco questo. Tutto quello che impari nell’arena, ha lo scopo di aiutare te e i tuoi compagni a sopravvivere in guerra. La legione è composta di uomini, ma quando agisce deve muoversi come una sola entità, un sol corpo con un’unica mente. Questo la rende unica e invincibile, nient’altro.»


24 «Credo di iniziare a comprendere.» «Non ne sono convinto. Sai perché è importante riuscire a scagliare il giavellotto il più lontano possibile? Perché avrai il tempo di lanciarne altri, prima che le nostre linee avanzate vengano a contatto con il nemico. Ogni tuo colpo a segno rappresenta un avversario in meno che i tuoi compagni dovranno affrontare a distanza ravvicinata. E la potenza non è l’unica cosa che conta, devi saperlo tirare anche con precisione. Per questo il corridoio di lancio è così stretto, per abituarti a indirizzarlo in una direzione ben definita. Ricordati: questa filosofia è parte di noi, la trovi celata in ogni nostro gesto. Devi solo essere abile a scoprirla e a farla tua.» Quel giorno appresi una lezione di vita importante e indimenticabile e ancora adesso sono grato al mio maestro per quell’insegnamento. Ricordo ancora adesso le marce massacranti che ci impegnavano costantemente. Una volta la settimana dovevamo preparare un bagaglio simile a quello previsto per le campagne militari. All’interno non mancava niente, se non la scorta di viveri prevista per lunghi spostamenti. Corazza, elmo, gladio, scudo e giavellotto erano gli attrezzi del mestiere che non potevano mancare. A questi andavano aggiunti piccone, vanga e ascia, con un solo manico intercambiabile per i tre attrezzi, la tenda e gli effetti personali, tra cui la preziosa ciotola per cucinare e mangiare. Il tutto pesava all’incirca cento libbre e dovevamo essere in grado di trasportarlo a passo alternato, a tratti normale, ma spesso forzato, per una distanza di quindici leghe e senza consentirci pause. I percorsi erano vari, ma si preferivano quelli misti, con pendenze a volte impegnative e fondi dei sentieri insidiosi, pietrosi e duri. Le condizioni del tempo non pregiudicavano mai lo svolgimento della trasferta settimanale.


25 Anzi, la pioggia era ben accolta dai nostri addestratori, perché rendeva il tutto più impegnativo e realistico. E loro non si risparmiavano di certo, sempre in testa alla fila a scandire a gran voce il passo da tenere. Poco prima del tramonto ci si fermava per allestire il campo, completo di fossato e palizzate e ogni legionario doveva provvedere anche a montare la propria tenda. Il tutto era realizzato in un lasso di tempo di un paio d’ore al massimo e tutti contribuivano a svolgere, in base ai compiti assegnati, i lavori per le parti comuni. Le prime uscite mi stremavano a tal punto di non avere neanche la forza di mangiare, imponendomi l’assoluto riposo non appena completata la tenda, ma dopo un paio di mesi ero ormai ben temprato e riuscivo persino a trarre un autentico beneficio fisico da quelle lunghe marce. La mattina seguente si smontava tutto e si faceva ritorno a Narbona, con l’allettante prospettiva che il resto della giornata era di libertà. A tre mesi dal mio arrivo fummo introdotti all’uso delle altre armi, in particolare il gladio e lo scudo, sotto la supervisione di un maestro d’armi. Gli allenamenti erano intervallati da lezioni teoriche molto istruttive, con l’intento di inculcare nelle nostre menti alcuni concetti fondamentali. Scudo e gladio dovevano essere usati entrambi per difendersi e anche per offendere e andavano impiegati in sincronia, come se si trattasse di un unico oggetto. Durante il movimento della spada, lo scudo doveva sempre proteggere le parti del corpo rimaste scoperte e per questo erano banditi movimenti del gladio troppo ampi o scoordinati. La pratica si svolgeva su due livelli, uno di potenziamento e l’altro di tecnica pura e velocità.


26 Il primo consisteva nel colpire ripetutamente grossi tronchi di legno conficcati nel terreno, disposti in vari punti del campo, spesso passandoli tutti in sequenza, quasi a simulare un cambio di posizione e di avversario. Il secondo non era altro che un confronto con un compagno, in cui ci si scambiava ripetutamente la posizione di attacco e difesa. In entrambe le attività s’impiegavano armi di legno molto pesanti per rinforzare i muscoli, e nel caso del confronto a due si indossavano spesse protezioni di cuoio a salvaguardia di torace, spalle e braccia e l’elmetto per la testa. Saltuari furono invece gli allenamenti a cavallo, anche se era doveroso saper cavalcare con destrezza ed essere in grado di governare l’animale. Essendo io un soldato di fanteria, non mi era richiesto di sapermi esprimere ad alti livelli, frutto sicuramente di un impegno costante di anni. A volte mi soffermavo ammirato a osservare i cavalieri durante le loro esercitazioni. Erano in grado di fare cose per me strabilianti, prima fra tutte la fase di combattimento in sella, riuscendo con una sola mano a tenere redini e scudo e con l’altra a vibrare il gladio. Fu un periodo avvincente della mia vita, in cui attendevo con ansia il sorgere di ogni alba perché - ero convinto - mi avrebbe regalato qualcosa di nuovo. Dopo oltre sei mesi intensi completammo l’addestramento, ma non le esercitazioni, che ci avrebbero impegnati sempre, in ogni luogo e con ogni condizione climatica possibile. Ricevetti le mie armi personali, di cui ero padrone ma anche responsabile, oltre al completo equipaggiamento previsto per le campagne militari. Finalmente ero un vero legionario. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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