Lucida follia, Giuseppe Bertolini

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In uscita il 28/2/2018 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2018 ( ,99 euro)

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GIUSEPPE BERTOLINI

LUCIDA FOLLIA

ZeroUnoUndici Edizioni Â


ZeroUnoUndici Edizioni

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LUCIDA FOLLIA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-179-2 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2018 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Teresa Dovunque sei A Teresa Dovunque andrai

Il fallimento di un progetto Disillusione del futuro sognato Reazioni e rinascita Abbandono, follia

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CAPITOLO 1

«Vede direttore?» chiese il giovane agente speciale Alan Parker al suo superiore. Il volume delle sue parole tradiva, in modo forse eccessivo, l’entusiasmo che derivava dalla sua scoperta. Molte paia di occhi, perlopiù con sguardi di rimprovero piuttosto che di curiosità, distolsero la loro attenzione dalla lettura e dall’analisi di atti relativi a questo o quel crimine. «Vedo» rispose il direttore con aria scettica, pettinandosi tra pollice e indice della mano destra il pizzetto che si era fatto crescere a “onore del mento”. «Ha notato come la storia sembra ripetersi?» lo incalzò Alan desideroso di stimolare nel suo superiore un interesse reale che andasse al di là del mero formalismo. «Certo, ma che mi dici delle date in cui si sono svolti i fatti? Non vedi come sia difficile se non impossibile collegare episodi delittuosi accaduti a distanza di alcuni anni?» «Eppure un motivo ci deve essere» stabilì Parker, convinto delle sue asserzioni. «Desiderio di emulazione, probabilmente» affermò il direttore Gerald con un tono che sembrava chiudere la discussione su quell’argomento. «Non ne sono convinto.» «In ogni caso non è nostro compito, lascia il caso allo sceriffo della contea di Callahan. Non mi sembra che un omicidio accaduto in un piccolo paesino possa interessare il Bureau.» Il direttore aveva ragione, loro non avevano la competenza su casi che non destavano l’interesse dell’intera nazione federata. Tuttavia il direttore Gerald non aveva considerato che il Bureau è formato da uomini, ciascuno con la propria storia e con un proprio vissuto personale alle spalle; e lui, il giovane agente speciale Alan Parker, proprio in quella contea era nato più di trent’anni prima. Uscendo dal portone dell’edifico, Parker si accese una sigaretta. Sostò sotto il porticato d’accesso. Pioveva. Fissare l’ampliarsi nell’aria degli anelli di fumo che uscivano dalla sua bocca, pareva consentirgli una concentrazione in grado di dipanare il fumo che avvolgeva i ricordi che si accavallavano nella sua mente.


6 E ricordò. Ricordò il caso che suscitò scalpore e paura quando era ancora un bambino; quando ancora frequentava la scuola primaria. Quanti anni erano passati? Venticinque all’incirca. Due compagni dei suoi giochi, due compagni di classe, due bambini gemelli che invano, in giorno grigio e piovoso, attesero la loro madre all’uscita della scuola. La poveretta fu ritrovata cadavere in casa propria. E ricordò. Ricordò il caso immediatamente successivo al precedente. Franciskus Whitehouse era il postino, benvoluto e amato da tutti. Perché ambasciatore di notizie che il più delle volte erano liete. Portatore di storie di chi aveva lasciato da tempo la contea in cerca di fortuna nel mondo, e con periodicità informava i propri cari rimasti delle proprie conquiste. Alan Parker aveva sette anni a quell’epoca. Anni più tardi anche lui sarebbe stato tra quelli che inviavano notizie al paese; nel mentre frequentava i corsi che gli avrebbero un giorno concesso di fregiarsi del distintivo metallico del FBI. Il postino Whitehouse venne trovato con gli occhi sbarrati e la bocca già invasa da insetti nella corte della chiesa; doveva consegnare una lettera al pastore. Lo trovarono dopo due giorni dalla sua scomparsa dietro al piccolo capanno che fungeva da ricovero per gli attrezzi. Ricordò. Come fu semplice attribuire il delitto al destinatario della missiva nonché proprietario del giardino. A chi con il suo operato cercava la salvezza delle anime. Ma il pastore Farmer si era sempre dichiarato innocente; non era in casa quel giorno, affermò. Il giudice tuttavia decise che anche chi vive dispensando verità è in grado di mentire, e il pastore Farmer era ormai da oltre un ventennio rinchiuso e dimenticato in una cella di penitenziario. Due omicidi pregressi, un terzo attuale. Certo può non essere grossa cosa se spalmati nell’arco di un quarto di secolo, ma divengono importanti se commessi con determinate modalità e in uno scenario che conta un numero assai ridotto di attori. Lasciò cadere il mozzicone di sigaretta che si spense al contatto con l’asfalto bagnato. Si incamminò, con passo tranquillo e quasi incurante della pioggia che continuava a cadere intensamente, verso il piccolo appartamento che fino a


7 pochi giorni prima condivideva con Annie: collega e compagna di un tempo recente. Ormai solo collega e per di più trasferita ad altra sede. Il lavoro unisce, ma talora è il lavoro a dividere coppie che parevano inossidabili. Alan un tempo aveva creduto che Annie potesse rappresentare la donna ideale per lui, ma infine si era reso conto che le notti di passione che avevano condiviso erano unicamente pause di distrazione dal lavoro che nella realtà era il vero padrone delle loro menti. «Perché hai accettato di trasferirti?» le aveva chiesto. «Al» lo chiamava così «è l’occasione della mia vita. Mi viene offerta l’opportunità per fare quella carriera cui ho sempre mirato fin da quando ho deciso di intraprendere questa strada» gli aveva risposto. E lui aveva compreso come nulla le avrebbe fatto mutare opinione. C’era entusiasmo nelle sue parole, c’era luce nel suo volto fintanto che gli comunicava che lo avrebbe lasciato per inseguire il suo sogno. Quell’idea che coltivava fin da quando era bambina. Forse proprio in quel lasciarla andare per la sua strada, era la prova di quanto temeva. Alan amava Annie. Ma forse Annie amava il suo lavoro più di quanto amasse il collega e compagno di giochi d’amore. Ormai nessuno lo avrebbe accolto al suo ritorno, se non il caos che regnava negli spazi di uno scapolo impenitente, poco avvezzo a occuparsi di faccende di natura domestica. Nessuno avrebbe più condiviso con lui quel periodo di venti giorni che costituiva il tempo delle sue ferie annuali. La chiave girò nella toppa con facilità, Parker si sfilò subito le scarpe lasciandole a lato della porta d’ingresso. Era quella l’azione che più rappresentava, per lui, l’inizio della sosta, fosse quella della fine di una giornata di lavoro o quella che sarebbe durata le tre settimane di ferie. La calma e il rilassamento che gli erano consentiti dall’inizio del periodo di vacanza gli permettevano di apprezzare la necessità di un’efficace opera di riordino tra le sue cose. Sia materiali che affettive. Mentre con le mani rimetteva ordine nel suo appartamento, aprendo armadi e rovistando cassetti, nella sua mente cercava di riordinare i propri pensieri e le proprie sensazioni evocando il ricordo di esperienze passate. La prima giornata l’avrebbe trascorsa in quel modo; a riporre immagini di tempi trascorsi, facendole entrare per sempre tra le cose appartenenti al passato.


8 Gli capitarono tra le mani cornici fotografiche che delimitavano scene del vissuto recente di un giovane uomo felice con una giovane donna. Sfilò le fotografie dalle cornici e le ripose nella scatola di cartone che aveva tratto dall’armadio. Quella scatola era già colma di immagini che in quel frangente, tornando alla luce, facevano riaffiorare ricordi ritenuti sepolti. Le immagini di un’infanzia trascorsa nella lontana contea, teatro di giochi di bambini di un tempo; teatro di un efferato delitto poche ore prima. Fu sorpreso di se stesso quando si accorse di riuscire ad abbinare un nome a quasi tutti i volti di bambini che gli sorridevano dal quel pezzo di carta colorata e ancora lucida. Chiaramente c’era lui. Era al centro dell’immagine; sorrideva con due amici a sinistra e altrettanti a destra. Un gruppo più numeroso appariva in secondo piano. Ron Paris, il primo da sinistra, era il più basso. Almeno all’epoca in cui l’istantanea era stata scattata. Chissà che fine aveva fatto! Saul Ford, nulla a che vedere con la famosa dinastia di costruttori di automobili, era il secondo. Era il ragazzino vivace che appariva alla sua destra. Certo per lui la strada si preannunciava in discesa; era figlio di un noto e facoltoso avvocato che per alcuni anni aveva occupato anche la poltrona di primo cittadino del paese. Ricordò perfettamente, e come poteva scordarlo, che erano fratelli di sangue. Un gioco, se visto dagli occhi dell’uomo che era diventato, ma un impegno da rispettare nei tempi della gioventù. Gimmy Fellow invece gli sorrideva in posa alla sua sinistra. Erano quasi abbracciati. Ricordò la sua indole gentile, quasi schiva. Erano amici, e forse lui era l’unico amico di Gimmy. Perché lui lo rispettava a differenza degli altri coetanei. Di certo si era allontanato dal paese; era andato anche in Europa a seguire la sua passione per la moda. A questo proposito ricordò di aver ricevuto un suo invito a una sfilata in Italia. Era chiaro che si trattava solo di una gentilezza in memoria di tempi passati. Gimmy sapeva che Alan mai avrebbe intrapreso un viaggio tra i continenti per vedere sfilare in passerella. L’ultimo a destra dell’immagine era quasi del tutto uguale al bambino che appariva dal lato opposto: era Patrick Paris. Erano gemelli Ron e Patrick… …e un giorno la loro madre non riuscì ad andarli a prendere a scuola. Erano bei tempi quelli rievocati. Erano i tempi nei quali quasi tutti i sogni parevano realizzabili al punto da essere confusi con future certezze. Erano i giorni in cui ogni sogno diveniva programma per il tempo a venire. “E ora? Ora non ho programmi.”


9 La partenza di Annie aveva annullato la progettazione di viaggi alla scoperta di nuovi orizzonti, o la progettazione di soli momenti di completo relax. Era libero; disperatamente libero. Libero di operare la scelta che maggiormente lo avrebbe soddisfatto, libero di decidere qualsiasi destinazione il suo cuore o la sua mente avessero indicato. Libero. Libero di tornare al paese natale. A cercare di capire. A cercare di dare un corpo a quelle ombre che affollavano la sua mente; quei sospetti e quei dubbi che gli lasciavano intendere come nulla, nel mondo, accada per il solo volere del caso.

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CAPITOLO 2

29 Febbraio 1988 Quello era un giorno davvero speciale per Jennifer; era veramente il suo compleanno. È il destino di chi ha avuto in sorte di nascere in un giorno che ricorre solo ogni quattro anni, celebrare la data reale della propria nascita in modo così anomalo. Chiaro che il tempo passava egualmente, e lei in effetti di anni ne aveva ventotto, ma quell’anno celebrava i suoi sette compleanni al pari di quanto avrebbero fatto i suoi figli gemelli il giorno appresso. Ricordava bene quel giorno di sette anni prima. Anche in quell’occasione lei si sentiva festeggiata per la ricorrenza della sua nascita che era solita celebrare il primo giorno di marzo, perché anticipare al ventotto febbraio portava iella; così le avevano detto. Fu un compleanno, quello del millenovecentottantuno che lei si aspettava diverso. In fondo solo un gioco del calendario aveva impedito che i suoi figli potessero portare sulla carta di identità il suo stesso giorno di nascita. Si consolava affermando che tutti erano nati il giorno successivo al ventotto febbraio. Ma adesso vi era un’altra occasione per rallegrarsi: le torte sarebbe state uguali e su tutte e tre sarebbe state accese sette candeline. «Non è bello essere giovani al punto da essere coetanei dei propri figli?!» andava ripetendo alle amiche in tono scherzoso. Si era deciso pertanto di organizzare una doppia festa. La parte pomeridiana riservata ai più giovani, e quella serale nella quale avrebbero trovato posto gli amici e i parenti di Jennifer Lane. Si sa che un giorno di festa implica, a monte, giornate di duro lavoro in preparativi e nell’organizzazione dell’evento. Perché tutto funzioni a meraviglia, perché tutti siano alla fine soddisfatti. Perché la maggior soddisfazione del festeggiato è, in realtà, la soddisfazione degli invitati intervenuti.


11 Certamente vi era anche l’impegno di Roland, il marito di Jennifer, che si era ripromesso di essere d’aiuto nel tempo che il lavoro gli avrebbe concesso. Era importante la presenza di Roland, non tanto nella fase preparatoria quanto il giorno stesso della festa, per intrattenere gli ospiti e sorvegliare all’occorrenza limitare - l’esuberanza dei giovanotti intervenuti. Roland aveva da pochi anni rilevato per intero l’emporio paterno. Quel giorno i compaesani avrebbero dovuto provvedere per tempo alle loro compere. Era da giorni che un cartello, scritto con un grosso pennarello nero e affisso con del nastro adesivo alla vetrata della porta d’ingresso, avvisava i “gentili clienti” che il ventinove febbraio di quell’anno l’esercizio avrebbe osservato un orario di apertura limitato. E così fece; Roland alle tre e mezzo di quel pomeriggio era già nel giardino della loro villetta, pronto ad accogliere i primi ad arrivare. I giorni della preparazione avevano di fatto sconvolto l’ordine quasi maniacale con cui Jennifer era solita mantenere il giardino. Così come la casa del resto. Ma l’ampio gazebo, che trovava la sua naturale collocazione al centro del prato, sarebbe stato d’intralcio a improvvisati lanci con palla e guantone; le grandi fioriere avrebbero sicuramente costituito una minaccia per l’incolumità dei giovani scatenati amichetti dei figli. E la vecchia carriola, ridipinta e innalzata al rango di porta vasi, aveva trovato riparo nel garage al fianco della giardinetta di famiglia, al fine di evitare che diventasse strumento di improvvisati giochi d’azione. Poco prima dell’arrivo dei primi bambini, nel pomeriggio, Jennifer guardava con aria quali sconsolata il prato del suo giardino. «Guarda che ferite Roland!» esclamò rivolgendosi al marito. Al posto delle quattro fioriere, al posto dei quattro pilastri del grande gazebo - rimovibile ma mai rimosso - la terra affiorava macchiando il prato. Uno sfregio che balzava agli occhi. «Vedrai quelle che rimarranno dopo la calata dell’orda dei piccoli barbari!» le rispose Roland. «E tutto per due ore soltanto!» In effetti il tempo che la luce del sole avrebbe consentito per il gioco all’aperto era molto ristretto. Il clima era quello di un inverno mite che stava ormai gradatamente lasciando il passo al rinascere completo della natura. «È giusto aver deciso di farli sfogare il più possibile all’esterno, prima del taglio delle torte in casa» le stava ricordando Roland, quando una prima vettura si fermò di fronte al loro cancelletto in legno dipinto di bianco.


12 Andò meglio di quanto si aspettassero e la festa riservata ai bambini stava ormai volgendo al termine, anche se parecchi di loro si sarebbe fermati anche la sera per la presenza, tra gli invitati, dei loro genitori. La sera era tutta per Jennifer. Era lei al centro dell’attenzione; e si sentiva a suo agio. Non sempre festeggiava i suoi compleanni; mai lo aveva fatto in modo assai vistoso. Ma quell’anno le coincidenze lo facevano apparire come un evento diverso e carico di significati inusuali. Sono occasioni che favoriscono il tornare alla mente di episodi di vita passata. Tra i convitati c’era chi con Jennifer aveva vissuto gli anni della fanciullezza, chi per contro era entrato nella sua vita solo nei tempi dell’adolescenza. Forse l’unico a rimanere escluso era Roland. Il marito di Jennifer era infatti tornato nella contea solo da nove anni, giusto il tempo per innamorarsi e prendere moglie. Quando all’età di circa venticinque anni smise in via definitiva di sognare un suo futuro nel corpo dei marines, Roland non aveva altra scelta se non quella di ritornare all’ovile dal quale era partito e rimettersi al servizio del padre che gestiva ormai da una vita l’emporio del paese. Aveva cercato fortuna distante da casa e tutta la sua fase di adolescente l’aveva trascorsa tra i cadetti. L’umore instabile, venuto ad assumere connotazioni a volte preoccupanti, lo aveva dapprima rallentato e in seguito totalmente escluso dalla possibilità di ottenere l’auspicata idoneità al servizio. Jennifer, al contrario, la sua vita l’aveva vissuta, attraverso tutte le sue fasi, in quella contea e in quella frazione in particolare. Suo padre era il maestro nelle scuole primarie; svolgeva le sue lezioni tra le mura dell’edifico scolastico ma non disdegnava di ricevere in casa gli alunni che richiedevano maggiori aiuti per l’apprendimento. Negli anni successivi la casa del vecchio maestro continuò a essere meta assai frequentata, ma la causa di tale fatto era da ricercarsi nella bellezza indiscutibile della padroncina di casa. Jennifer era molto ambita dai suoi coetanei; dai tanti ragazzini con i quali era cresciuta e che in seguito l’avrebbero guardata con gli occhi dell’uomo. Era proprio quella confidenza, cresciuta e maturata con gli anni, a essere d’impedimento alla nascita di qualcosa che andasse al di là della semplice, sia pur leale, amicizia. Alla festa di quella sera c’era la storia stessa di Jennifer: i protagonisti di anni di gioco; le prime fasi di una crescita condivisa; gli amori reali, presunti o solo desiderati e non corrisposti.


13 «Sei sempre bellissima!» la salutò John con entusiasmo. Era tanto che non si vedevano: eppure vivevano a pochi isolati di distanza. «Bella forza» intervenne Arlette, la moglie di John «lei è una bambina di sette anni!» «Ciao Albert, come stai?» salutò Jennifer tendendo la mano al nuovo arrivato «è un po’ che non ti fai vedere.» Non c’era ironia in quelle parole. Eppure che corte spietata le aveva fatto Albert! Per anni aveva bussato alle porte del suo cuore senza riuscire a dischiuderle. Ma ora anche Albert aveva una sua vita, una moglie e un figlio coetaneo dei gemelli di Roland e Jennifer. «Sto bene grazie» rispose Albert ricambiando il sorriso. «Ti vedo in forma stupenda!» lo incalzò Jennifer. «Ti ho detto che sto bene» il tono era quasi seccato. Jennifer non andò oltre; ma stentava a pensare di essere ancora lei il motivo di tale comportamento da parte di Albert. Sarebbe stato assurdo a tanti anni di distanza. Ma forse Jennifer si stava sbagliando. Probabilmente non comprendeva come certe vecchie profonde ferite possano ancora provocare dolore se vengono, in un modo o nell’altro, parzialmente riaperte. Erano quelle le occasioni in cui Roland veniva a conoscere meglio sua moglie. Lo faceva attraverso i racconti aneddotici dei suoi compagni di gioventù; di chi aveva condiviso con lei le fasi della maturazione. Certo, non vi erano tutti. Molti erano partiti affrancandosi dal paese natale per percorrere nuove strade nella speranza di giungere a mete sognate o, talora, insperate e sconosciute. Di alcuni di loro non si avrebbero avuto ulteriori notizie. Di altri si sarebbe notata la sporadica comparsa in paese nelle occasioni di rituali visite ai parenti rimasti. In altri casi, sia pure molto limitati nel numero, il ritorno sarebbe avvenuto a titolo definitivo. A indicare il fallimento di un sogno, di un progetto. O di un desiderio di fuga. Ed era questo il caso di Roland. *** Erano passate circa sessanta ore da quando l’ultimo degli invitati aveva lasciato la casa al termine della festa.


14 Due giorni di lavoro a risistemare le cose secondo un loro iniziale ordine. La carriola con i vasi di fiori lasciò il box per ritornare al suo posto d’onore in vista in giardino. Anche le quattro fioriere rioccuparono le loro postazioni, sia pure dopo un’opera di bonifica del terreno. Jennifer aveva provveduto a bruciare, dopo avervi versato sopra un po’ di benzina, alcuni termitai che si erano venuti a formare al di sotto dei vasi. Anche il gazebo aveva ripreso la sua collocazione; pronto a fornire riparo dalle leggiadre stille delle prime pioggerelline di primavera e, in seguito, dai caldi raggi di un sole d’estate. Si trattava di attendere. All’interno della casa bisognava riposizionare mobili e tavoli, provvisoriamente spostati di sede per garantire una disposizione sicuramente meno elegante e armonica, ma più funzionale al ricevimento di parecchie persone nel corso di una cena a buffet. E a tutto ciò pensava Jennifer mentre Roland aveva ripreso il suo posto dietro al bancone dell’emporio. La mattina del terzo giorno successivo alla festa, come sempre faceva, Jennifer si infilò una tuta sportiva e accompagnò i suoi due figli alla scuola. Al ritorno aveva ritirato alcune provviste al negozio del marito ed era rientrata in casa. Era questo il suo normale ruolino di marcia. Rientrata in casa si diresse verso la cucina. Dopo averle sciacquate, ripose le tazze, i piatti e le posate usate per la colazione nella lavastoviglie, che fece partire con il carico della sera prima. Nel frigo ripose due bottiglie di latte e alcuni cartoni di succo d’arancia e tropicale. Finalmente poteva pensare un po’ a se stessa e, come ogni mattina faceva, entrò in bagno per farsi una lunga, calda e rilassante doccia.


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CAPITOLO 3

Il taxi che conduceva Alan alla stazione ferroviaria si lasciava trasportare quasi sospinto da lenta forza d’inerzia dalla corrente del traffico cittadino. «È sempre un casino a quest’ora» gli rivolse la parola l’autista. «Se poi ci si mette anche la pioggia!» precisò, quasi a volere giustificare le lunghe soste in mezzo ad altre macchine ferme. «Non si preoccupi per me» gli rispose Alan «non ho fretta. Il mio treno parte solo fra un paio d’ore, ma ormai ciò che dovevo fare prima di partire l’ho già fatto.» «E poi da oggi sono in ferie» soggiunse. «È strano; io mi comporto completamente in modo diverso» rispose il taxista «quando inizio un periodo di ferie, mi prende la fretta. La smania di fare tutte le cose che mi piacerebbe fare fintanto che sono al lavoro intrappolato tra i motori fumanti. Mi capisce vero?» «Certo, certo» rispose Alan sia pure con fare distratto. «È come avessi timore di non fare tutto, di tralasciare qualcosa per poi pentirmi per un’occasione mancata. Non so se mi comprende.» «La capisco non si preoccupi. Capitava anche a me fino a poco fa. Poi ho compreso come quello sia proprio il metodo per non riuscire a far nulla. Ho cominciato a pormi limiti più vicini alle mie reali possibilità.» «E le va meglio?» «Riesco a completare quel poco che mi prefiggo. Ottengo il risultato e quindi la soddisfazione.» La pioggia iniziava a diminuire la sua intensità anche se le nuvole che incombevano sulla città non promettevano alcunché di positivo per le ore a venire. Ma lo avevano previsto; gli esperti avevano affermato che una breve perturbazione avrebbe guastato quei giorni di un’estate che tardava a imporsi. Alan decise di interrompere la conversazione con il taxista e di compiere a piedi le poche centinaia di metri che ancora lo separavano dalla Stazione Centrale dei treni. «Scendo qua» disse al taxista che stava ancora imprecando per l’ennesima sosta. «Vuole che accosti?»


16 «Non è necessario.» In effetti un’eventuale manovra di accostamento avrebbe richiesto parecchi minuti dato che tanto a destra che a sinistra della vettura pubblica sostavano, nell’attesa di un nuovo via libera, lunghe file di auto incolonnate. «Sono undici dollari e settanta cents» disse l’autista scendendo dalla vettura per recuperare i pochi bagagli del suo cliente. Alan prese a camminare dopo aver trafitto il lungo serpentone di automobili. Si teneva vicino alle pareti dei grandi palazzi elevati verso un cielo plumbeo per evitare per quanto possibile le gocce di una pioggia che, pur scemando nella sua intensità, non accennava a cessare del tutto. La stazione era un brulicare di gente. C’era chi aveva eletto quel posto a proprio domicilio e ancora stava riassettando le proprie masserizie raccogliendole dalla sala d’attesa nella quale aveva pernottato. C’era chi in quel posto cercava i mezzi per sbarcare il lunario improvvisandosi artista e proponendo ai passanti il frutto della propria improbabile arte. Un ragazzo suonava una melodia pizzicando con delicatezza le corde della chitarra. Quasi assorto e completamente rapito dalle note che lo strumento emetteva; solo al termine dell’esibizione avrebbe controllato il frutto della sua performance contenuto nella custodia della chitarra che aveva lasciato aperta dinnanzi a sé. E c’erano anche i viaggiatori. Coloro che ancora sceglievano quel mezzo in luogo del più rapido volo d’aereo. Per lo più si trattava di persone che avrebbero compiuto tragitti di breve durata, o di altre persone che, come lui, non avevano fretta. Il cambio improvviso del programma delle sue vacanze non gli aveva consentito di prenotare un volo verso la sua destinazione. Un aereo ci sarebbe stato l’indomani, ma la scelta di un trasporto su terra - più lungo come durata ma immediatamente disponibile - gli avrebbe consentito di staccare lo sguardo e la mente da quelle mura tra le quali era nata, cresciuta e alla fine cessata la sua storia d’amore. E poi non aveva fretta. Aveva deciso di andare alla ricerca di se stesso, tornando a quei luoghi natii che erano assurti agli onori della cronaca, sia pure in un trafiletto di una pagina interna di un quotidiano nazionale, in quelle ore recenti. Gli era improvvisamente sorto il desiderio di rivedere quei luoghi e di incontrare nuovamente i volti, certamente mutati, che la sua mente ricordava di giovani al pari suo e che i suoi occhi avevano appena visto riaffiorare da una scatola di cartone dimenticata dentro a un cassetto. E voleva iniziare a dimenticare l’amore.


17 Quel sentimento, che era anche modo di vita, sul quale aveva basato in tempi recenti la sua realtà e la progettazione del suo futuro. Improvvisamente svanito. Voleva che la sua mente tornasse al ricordo non già di un tempo trascorso da poco, forse ore, ma alla riesumazione di più antiche visioni. E c’erano i suoi genitori. Da quando non li vedeva? Più di un anno, sicuramente un anno e mezzo. Era il Natale di due anni ormai trascorsi quando in volo aveva fatto visita alla sua famiglia di un tempo. Il Natale seguente lo aveva trascorso in servizio, passando i momenti di libertà con quella che avrebbe, nei suoi desideri e progetti, rappresentato la sua famiglia futura. Sperava di trovarli in salute, tanto nel corpo che nell’umore. Si sentivano spesso, questo era vero. Ma la protezione della distanza consentiva molto spesso di travisare stati d’animo realmente provati. «Ciao mamma come va?» La classica frase d’esordio. «Benissimo bambino mio e tu come te la passi?» Risposta scontata. Non li aveva avvisati. Sarebbe stata un’improvvisata. Era sicuro di farli felici. Ma chissà che colpo aprire la porta e vedersi apparire il fantasma di un figlio che avrebbe dovuto trovarsi a parecchie miglia di distanza! D’altronde c’era da considerare che non aveva dato un congruo preavviso nemmeno a se stesso, se è vero che solo due giorni prima la sua mente era già proiettata verso lidi bianchi di spiagge da sogno in compagnia di Annie. “Ma no. Non voglio pensarci” disse a se stesso quasi cercando di comandare al suo pensiero di rivolgersi altrove. Il tempo era trascorso abbastanza in fretta, perdendosi nel ricordo del passato più o meno recente. Si ritrovò di fronte al tabellone elettronico delle partenze e individuò il binario dal quale il suo treno sarebbe partito. Il viaggio prevedeva un cambio convoglio che sarebbe avvenuto verso la sera. Aveva provveduto ad acquistare il biglietto di sola andata in un posto poltrona per il primo tratto di viaggio. Al cambio aveva prenotato una cuccetta che gli avrebbe consentito di trascorrere disteso la notte, fino al giungere a destinazione nella serata successiva. Salì nella carrozza e prese posto al secondo piano di quel convoglio moderno e pulito, risplendente alla luce del giorno nel suo involucro metallico. Uno steward in divisa lo aiutò a posizionare il trolley sulla cappelliera, con sé tenne solo la piccola busta di cuoio, custodia dell’I-pad. Intanto altre persone entravano dopo di lui trascinando pesanti bagagli che andavano a occupare parzialmente i passaggi.


18 Ci volle ancora un quarto d’ora all’incirca prima che il convoglio elettrico iniziasse a muoversi con una lentezza che era quasi pigrizia. Quindici minuti passati ad alzarsi per poi sedersi nuovamente al fine di consentire il passaggio e l’accomodamento degli altri passeggeri. Non aveva un posto accanto al finestrino; ne aveva fatto espressa richiesta. Il bagliore, sia pure fioco, della luce che sarebbe filtrata avrebbe impedito una lettura nitida dei quotidiani sul suo I-pad. Quando tutti i posti a valle di dove lui si trovava furono occupati, poté finalmente estrarre il piccolo tavolino che aveva ripiegato davanti e far uscire l’apparecchio che gli avrebbe consentito di rimanere in contatto con il mondo del quale osservava il lento passare incorniciato dentro al finestrino del treno. La tranquillità di un viaggio con un mezzo di trasporto pubblico dipende essenzialmente dai comportamenti dei compagni che il destino ha voluto assegnarti come vicini di seduta. E il destino era stato, se non crudele, almeno beffardo con lui in quell’occasione. La signora creola che gli sedeva accanto era di dimensioni esagerate per attribuirle quelle minime caratteristiche di grazia ed eleganza che Alan cercava di vedere in ogni donna. Iniziò ben presto una sua battaglia personale a poderosi colpi di ginocchia per rivendicare il suo diritto a posizionare le gambe come meglio le aggradava. Dalla borsa colorata che aveva sulle gambe trasse un panino imbottito con della salsiccia. Da brava madre, un piccolo pezzo lo porse al suo pargoletto che “cavalcava” sulla poltrona di fianco. Il signore che gli sedeva accanto, ma oltre il corridoio centrale, era preda di continui starnuti di probabile natura allergica; e non cercava di mascherare in alcun modo quel suo problema. “Ci vuole una concentrazione anormale per riuscire a farsi i cazzi propri in queste situazioni” si ripeteva, sia pur mentalmente, Alan che fissava senza reazioni le icone che gli erano comparse sull’apparecchio che teneva in mano e che rimanevano in attesa di un tocco per l’attivazione. Si collegò al sito delle principali testate a livello nazionale; scorse rapidamente le prime pagine del Washington Post, giusto per venire a conoscenza delle notizie di maggiore risalto della giornata. In seguito avrebbe approfondito. Non vi erano novità sostanziali in merito all’andamento di quella marea nera che stava divorandosi il mare delle coste della Louisiana, mentre in Iraq le cose rimanevano uguali pur con il cambio del generale comandante delle forze armate.


19 I repubblicani contestavano il presidente perché era un democratico e i democratici lo contestavano perché di fatto si comportava come il suo predecessore repubblicano. Nella prima pagina del Post vi era inoltre la notizia dell’arresto per guida in stato di ebbrezza di una notissima, ma a lui sconosciuta, attricetta dell’ultima ora. Erano quelle le notizie che attiravano i lettori; i problemi della nazione, il patriottismo insito in ogni buon americano e il gossip del momento. Dando il giusto mix di notizie in apertura con titoli colorati e di richiamo, si era certi di catturare l’attenzione del pubblico. Ma la grande federazione di stati, ciascuno diverso dall’altro, che nella sua globalità si sentiva nazione, era fatta dalla gente comune. Ciascuna madre si sentiva madre dei militari in Oriente, a patto che il proprio figlio fosse visibile attraverso i vetri della sala mentre falciava la prima erba del prato di casa. Ciascun padre avrebbe condannato quell’attricetta, la cui improvvisa notorietà e il guadagno facile avevano condotto sulla via dell’etilismo. Ma c’erano sicuramente molti etilisti o tossici sconosciuti e bisognosi di compiere furti per poter godere del loro diritto di avvelenarsi lentamente. Realtà che ci sono in ogni piccolo paese, realtà che non fanno quasi notizia. Ma un assassinio sì; quello era un fatto assai grave anche se non interessava l’intera nazione ma solo una sua piccola particella: quella piccola cittadina di una contea texana dalla quale lui era partito ormai più di vent’anni prima e che in quel momento rappresentava la sua meta. Scorse l’indice generale delle notizie di cronaca e si collegò alla pagina delle notizie locali della “sua” contea. Vi era un resoconto abbastanza dettagliato su quanto era accaduto quarantotto ore prima, e vi erano chiari riferimenti e collegamenti a casi di omicidio analoghi accaduti fin da vent’anni prima e, talora, in rapida successione. Di due di quegli episodi lui aveva chiaro il ricordo, sia pure rielaborato negli anni da una mente che era bambina. All’epoca dei fatti aveva sette anni, e poco prima che il fatto accadesse si era recato, accompagnato dal padre e dalla madre, proprio nella casa della vittima. Era la mamma di due suoi compagni di classe, i due gemelli Patrick e Ron che compivano gli anni quel giorno. E ricordò che pochi giorni dopo il postino venne trovato vittima di una sorte analoga a quella della signora Jennifer.


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CAPITOLO 4

2 Marzo 1988 Non lo aveva deciso quel giorno. Nossignori. Era solo questione di attendere la giusta spinta e l’attimo propizio; ma il destino di entrambi, vittima e carnefice, era segnato Con la vita che conduceva, nessuno avrebbe dubitato del suo alibi. Ammesso che qualcuno gliene avesse richiesto uno. Attese che Jennifer uscisse dalla villetta; poco prima aveva visto Roland partire per l’apertura dell’emporio. La donna fece salire i due ragazzi nel sedile posteriore della giardinetta e uscì dal cancello in legno della villetta guidando con fare prudente in retromarcia. Attese che la vettura svoltasse l’angolo in fondo alla via prima di entrare attraverso il cancello rimasto aperto nel giardino della casa. Dal garage attraverso la porta tagliafuoco entrò nella cucina e si fermò per un attimo. Non doveva riflettere, lo aveva già fatto per molto tempo perdendo le notti di sonno e sottraendo attenzioni alla sua famiglia: una moglie che lo amava e un figlio che lui amava. Trattenne il respiro per apprezzare possibili rumori inattesi, ma non vi era nulla di inatteso che dovesse succedere. Aveva studiato la situazione, mentalmente preparato e rivisto nella sua testa la scena che da lì a poco si sarebbe avverata. Non vi era motivo di preoccupazione; tutt’al più una certa emozione. Quella che prende anche il più abile attore nell’istante di entrare in scena, sia pur consapevole di essersi coscienziosamente preparato alla recita che va a iniziare. Si trattava di attendere; era quello, forse, il momento più difficile. Ma non vi furono ripensamenti. Sapeva di dover aspettare alcuni minuti, forse una ventina. Da dietro alla tenda si mise a osservare dalla finestra la vita del mondo che fuori scorreva ignaro del proprio futuro. Suonò il campanello. Anche quello era previsto.


21 Franciskus Whitehouse, il postino, suonava sempre al suo arrivo ma non attendeva né pretendeva risposta. Si limitava a riempire la cassetta all’inizio del vialetto d’ingresso e ricominciava a pedalare fino alla fermata successiva. “Che cazzo fa?” si domandò. Franciskus, una volta consegnata la posta, si fermò a una decina di metri di distanza per rimirare una bicicletta appoggiata a un albero. Una mountainbike da competizione, nuova di fabbrica. Era un modello non comune, se ne vedevano poche in circolazione. Costosa e vistosa. E… era la sua bicicletta! Dopo pochi secondi Franciskus riprese il suo giro. Passarono ancora pochi minuti e il muso della Ford familiare si affacciò lentamente al viale d’accesso al garage. Lui, con passo deciso ma tranquillo, prese a salire le scale e si nascose in uno stanzino che fungeva da ripostiglio. Aveva scartato l’idea di prendere posizione nella camera matrimoniale perché sarebbe stato possibile un ingresso di Jennifer, né si posizionò nella camera dei gemelli - non sapeva se la donna avesse l’abitudine di riassettare il locale prima di prepararsi per le sue uscite mattutine - né nella stanza da bagno, ultimo vano presente al primo piano, perché sicuramente Jennifer vi sarebbe entrata. Voleva e doveva colpirla quando era maggiormente rilassata, quando la sua sicurezza sarebbe stata tale da non farla minimamente sospettare della presenza estranea nemmeno nel malaugurato caso di un qualsiasi piccolo rumore. Il ripresentarsi alla mente di quelle visioni, già parte ingombrante nel passato dei suoi pensieri, fece affiorare i dubbi e l’incertezza su quanto stava per fare. La sicurezza parve d’improvviso svanire, sostituita da momenti di quasi timore che si tramutarono in gocce di freddo sudore che iniziò a imperlare la sua fronte. Le sue stesse dita, le mani, strumento di una rivalsa che gli appariva come giustizia, tremavano inumidite dal siero della paura. Ma era tardi ormai. La strada imboccata era percorribile in un unico senso. Nessun ripensamento gli era concesso, nessuna possibile inversione della marcia del proprio progetto. Imboccato per volontà, ora quel sentiero lo stava ghermendo impedendogli un qualsiasi ripensamento. La sua vita era ormai preda dell’irreversibilità delle conseguenze che quell’atto, da tempo meditato, avrebbe inevitabilmente prodotto.


22 La sentì salire le scale, udì i suoi passi attraverso la porta leggermente discosta del ripostiglio in cui si trovava, la vide disfarsi della tuta che indossava e infilare la porta del bagno che non si preoccupò di chiudere, se non a metà. Jennifer fece scorrere l’acqua affinché raggiungesse la giusta temperatura, intanto si tolse il reggiseno e le mutandine. Davanti allo specchio si sciolse i capelli e li pettinò, poi entrò nella doccia. Lui rimase a guardarla nella penombra; si stava eccitando ma non si fece distogliere dai propri propositi. Nella tasca dei pantaloni aveva l’arma che lo avrebbe aiutato nel raggiungimento dell’obiettivo. Jennifer uscì dalla doccia e si avvolse nel morbido accappatoio in spugna; sul capo racchiuse i capelli in un turbante confezionato con un asciugamano. E uscì dal bagno. Il bruciore la colse improvviso, la vista le venne a mancare mentre la gola era stretta da una morsa possente. Le mani, armi di un uomo che era carnefice, strinsero il collo bianco che si irrigidiva nell’estremo quanto vano tentativo di difesa. Lui nemmeno percepì il dolore delle unghie, curate e affilate, di Jennifer che si piantavano nelle sue carni. Gli occhi di lei, arrossati e rigonfi, mostrarono solo per pochi istanti la rabbiosa incredulità di chi stava lasciando la vita. Nemmeno quel tentativo di contorcere il corpo, di sgusciare dalla presa che si faceva sempre più forte e decisa, ebbe successo. Solo un vano tentativo estremo, prima che con un sussulto del florido seno il soffio della vita abbandonasse per sempre il suo corpo. Cadde a terra perdendo i sensi per l’eternità. “Com’era bella!” Il sogno di tanti, se non tutti, i ragazzi di Baird era ora ai suoi piedi. Le sfilò l’accappatoio, che piegò al di sotto della testa di lei. Ricompose quel corpo unendo le ginocchia con le gambe leggermente piegate. Le braccia che Jennifer aveva teso, quasi a difendersi senza averne possibilità alcuna, rimasero ripiegate dietro alla testa. Fotografò con la sola sua mente quell’immagine che lo avrebbe accompagnato nel corso di tutta la sua rimanente vita. Impassibile, con calma incosciente, rimase ancora qualche lunghissimo secondo a rimirare la sua opera. Provava un’innegabile soddisfazione per il conseguimento di un obiettivo che da tempo si era prefisso; che da tempo stava preparando. Ma venne pervaso anche da uno strano senso di benessere, di tranquillità, quasi di pace.


23 Solo allora si rese conto di un peso che da tempo portava in cuor suo. Lo poteva apprezzare dopo essersene liberato. Si era abituato nel tempo a convivere con quel mostro celato nel profondo della sua personalità. Finalmente era più libero, sereno, forse appagato. A volte è necessario liberarsi di qualcosa per rendersi conto di quanto questa sia in grado di influire sulla mente e sulle azioni del nostro quotidiano. Con calma ridiscese le scale e uscì ripercorrendo la stessa via dell’andata. Salì sulla sua bicicletta nuova e se ne andò… pensando a un postino troppo curioso. *** Roland non rientrava per il pranzo, non lo aveva mai fatto. Approfittava dell’ora di chiusura del negozio per consumare un sandwich e risistemare gli scaffali del negozio. Vi era sempre qualche cliente che, dopo aver prelevato un articolo, aveva un ripensamento e lo poggiava sul primo scaffale che aveva di fianco. Era quello il motivo per cui la vecchia signora Simpson un giorno si era ritrovata a lucidare le scarpe con della crema di marroni! Passando tra gli scaffali aveva anche occasione di valutare visivamente la quantità delle singole confezioni di merce di cui ancora poteva disporre. Chiaro, anche lui aveva il suo bel programmino al computer con le giacenze di magazzino, e anche lui disponeva di una penna ottica che avrebbe aggiornato in tempo reale la quantità delle merci in entrata e in uscita. Ma i suoi occhi e la matita erano gli strumenti che ancora gli fornivano maggiore sicurezza. I due gemellini facevano il tempo prolungato a scuola. Jennifer era abituata a riprenderli verso le quattro del pomeriggio. Le ore della mattina le passava in casa e in giro per il paese a osservare il mondo nel quale viveva. Le prime ore del pomeriggio, a sudare in palestra, prima di riaccendere il motore della Ford familiare e tornare a riprendere i figli a scuola. Bill non la vide quel giorno. L’istruttore di body building e proprietario della grande palestra, guardò l’ora tra una posizione scultorea e l’altra, controllata allo specchio. Erano passate le due e Jennifer ancora non si vedeva. Lui sapeva perfettamente gli orari dei frequentatori della sua struttura. E quella era l’ora delle signore; più tardi, verso le diciassette, sarebbero arrivati gli uomini a scaricare le ansie di una giornata di lavoro e i bambini che affrontavano il lavoro in palestra come per gioco, o ne erano costretti per la correzione di


24 diagnosticate anomalie posturali. Ma a loro pensava la sua compagna e socia in affari. Non che controllasse le presenze o facesse l’appello di tutti coloro che si servivano dei suoi attrezzi per abbellirsi e curarsi, ma Jennifer era un caso a sé stante. Erano coetanei, cresciuti assieme. Dapprima aveva giocato con lei, poi ne era stato letteralmente conquistato. Ricordava quando il suo unico scopo era quello di cercare di incontrare per caso la bionda ragazza che popolava i sogni della maggior parte dei suoi coetanei. E non solo. E Jennifer quel giorno era in ritardo. Certo, era successo altre volte, forse un paio se ben ricordava. Ma aveva sempre avvertito; perché Jennifer sapeva di essere attesa più di altre, perché sapeva di essere desiderata, e forse in cuor suo se ne compiaceva. Di quel fatto Bill era consapevole e stava al gioco. I complimenti si sprecavano e le frasi a doppio senso e gli ammiccamenti erano un gioco che lui e Jennifer portavano avanti da molti anni oramai; giocatori di un gioco che tale era e sarebbe rimasto. Quel giorno Jennifer non era arrivata, e non aveva avvisato; gli sarebbe mancata. E quel giorno Jennifer non si presentò nemmeno all’uscita della scuola. A poco a poco tutti i bambini, radunati nel cortile dell’istituto, venivano presi da mano amiche e ricondotti ciascuno verso le proprie abitazioni. Rimasero in tre. Con un po’ di ritardo arrivò Albert a prendere il suo marmocchio e si offrì di riaccompagnare a casa anche i gemelli. Non era una cosa di norma permessa. Le regole di sicurezza erano ferree in quel senso e nessuno aveva avvisato che i figli di Roland e di Jennifer sarebbero stati riaccompagnati da una terza persona, pur conosciuta. Fu Roland a dare il consenso telefonico; la moglie non rispondeva al telefono. Non era mai successo. «Ti ringrazio Albert, Jennifer avrà avuto un contrattempo, ma sono sicuro che presto sarà a casa» disse Roland affidando i suoi figli all’amico di infanzia della moglie. Albert aveva fermato la sua vecchia Plymouth di fronte al piccolo cancelletto in legno bianco della villetta degli amici. «Aspettami in macchina, farò presto» disse a suo figlio. I bambini annunciarono il loro ritorno agitando il batacchio alla porta con un’esuberanza che era quasi violenza. Ma dall’interno non giunse alcuna risposta. «Passiamo dal garage!»


25 Albert non sapeva che fare; avrebbe potuto lasciarli da soli in casa? O era meglio avvisare la vicina che, da sopra la siepe che divideva le due proprietà, si era soffermata a osservare la scena mentre, come sempre faceva, attendeva il ritorno di Jennifer per essere ragguagliata sulle ultime novità del paese? A quello stava pensando quando improvvisamente la porta si aprì. Uno dopo l’altro, lentamente dapprima e quasi trattenuti, poi con una corsa di fuga, i due bambini corsero incontro ad Albert. I loro volti erano terrorizzati, un terrore che li aveva quasi paralizzati al punto da impedire loro lo sfogo del pianto.


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CAPITOLO 5

Il treno aveva lasciato il perimetro della grande città. Agglomerati di case di più modesta densità e altezza si affacciavano dai finestrini. Poi un primo tratto di terre desertiche. Essendo venuti a mancare i riferimenti a un corpo in movimento, il treno pareva aver rallentato la sua andatura. Non vi erano più case a sfilare in rassegna, bensì il vuoto di spazi immensi solo a tratti interrotti da qualche gruppo di insegne pubblicitarie in cartone. La strada ferrata correva isolata, ma a tratti veniva ad avvicinarsi alla lunga statale che con il suo nastro d’asfalto solcava le terre arrossate sulle quali qualche isolato refolo ventoso spingeva improvvisate sfere di erba recisa. Quando le due vie di comunicazione venivano a convergere fin quasi a toccarsi, era possibile che dai finestrini di affacciasse qualche costruzione per lo più a un solo piano. Costruzioni grigie o rese tali dalla polvere che sempre riempiva le gole e i polmoni, sospinta dal vento. Solo a volte ravvivate da un’insegna a colori: “Texaco”. Alan leggeva le note luminose sul suo apparecchio, poi con lo sguardo rivolto al finestrino si lasciava andare al ricordo da bambino, le cui lacune venivano colmate dalle suggestioni di adulto. Si ricordò come con il trionfalismo tipico di chi ottiene una vittoria sperata da tutti, lo sceriffo di allora annunciò l’arresto dell’assassino. Dell’autore di un misfatto tremendo di per sé, ma reso ancora più atroce fin quasi a essere paradossale in quanto compiuto in una comunità che si muoveva con ritmi diversi dal mondo globale, dove un omicidio può giungere a non destare clamore. Ma nella sua contea e nel suo paese, no. Non era mai accaduto e nessuno avrebbe minimamente ipotizzato che sarebbe potuto accadere. Gli adulti dell’epoca erano quasi tutti stati bambini assieme, la loro visione della vita spesso coincideva. Le liti erano piccola cosa. Gli unici problemi, sia pure di modesta portata, erano stati legati a qualche piccolo furto, legato più all’invidia che al delinquere vero e proprio.


27 La maggior parte della popolazione non soffriva di problemi legati al denaro, il suo era un paese benestante. In molti erano giunti, un tempo, a pensare che la presenza di uno sceriffo fosse solo un dovere imposto e forse uno spreco di denaro pubblico. Il tutore della legge veniva il più delle volte disturbato, con motivazioni banali, mentre con la canna da pesca cercava di battere il suo precedente record di prede catturate nel piccolo laghetto. E non erano molto vicini al confine messicano. Era raro che qualcuno proveniente da quella terra di mezzo arrivasse fino alla contea. Di norma veniva sorpreso e rimpatriato ben prima, oppure era già riuscito a trovare i mezzi per portarsi più all’interno della federazione, sfuggendo ai controlli. E se per caso qualche peone arrivava in paese, era anche lesto ad andarsene dopo un breve soggiorno, giudicando egli stesso di poco interesse una sua permanenza. Un duplice omicidio! Quello di Jennifer poi! Di quella signora che le cronache riferirono come la più amata delle donne della contea. Colei che era stata a un passo dall’andare sulle cronache nazionali per la sua bellezza. Prima del matrimonio aveva vinto molti concorsi di selezione per essere scelta a rappresentare il Texas nelle gare di bellezza. Ma l’assassino era stato trovato. E chiaramente non era una persona originaria del luogo. Quel pastore era divenuto reggente della chiesa Battista solo da due mesi. Proveniva da poco fuori contea perché il precedente pastore, ritiratosi a vita privata per raggiunti limiti di età, non aveva lasciato eredi. Anche in quell’occasione vi era stato chi aveva manifestato l’inutilità di un nuovo prete “Un paese senza Dio e senza legge” si auspicava. Ma solo perché si riteneva quell’angolo di mondo alla stregua di un’isola felice e indipendente, in grado di gestirsi in maniera autonoma senza l’intervento di autorità, fossero esse civili e terrene o divine. La seconda vittima, ritrovata il sette Marzo del 1988 ma la cui morte venne fatta risalire al giorno immediatamente successivo a quello del brutale assassinio di Jennifer, era il postino. Franciskus, un cinquantacinquenne dall’aria bonaria, amico di tutti e frequentatore di tutte le case. Era lui il personaggio atteso e temuto che ogni giorno suonava alle porte delle case. Il suo era solo un cenno del suo passaggio, forse un saluto per l’augurio di una buona giornata. Non si aspettava risposte e il più delle volte non le riceveva.


28 Portava le buone notizie di parenti partiti alla ricerca di fortune più grandi della banale tranquillità della vita in contea. Portava, ma con meno frequenza, notizie indesiderate. Il più spesso provenienti da un mondo all’esterno. Eppure anche il più mite degli uomini aveva un destino segnato, e una fine tragica che lo aspettava. La sua unica colpa, l’essere stato nelle vicinanze del luogo del primo misfatto e aver indugiato nell’osservare un modello di bicicletta assai raro e costoso. Una telefonata giunse alla casa del nuovo pastore alle otto del mattino di quel giorno ai primi di marzo. «Padre buongiorno, temo che per mia madre siano giunte oramai le ultime ore» diceva la voce gentile e impostata dall’altro lato della cornetta. Il nome con cui l’interlocutore si era presentato non gli era noto, ma il prete non si sorprese di ciò. Non aveva ancora avuto il tempo di conoscere i nomi di tutte le anime di cui avrebbe dovuto prendersi cura fin dai giorni seguenti. «Non si preoccupi signor Ferguson, sarò da lei nel più breve tempo possibile. Lei stia vicino a sua mamma con le preghiere.» L’indirizzo al quale doveva recarsi per il viatico era dall’altra parte del paese in una zona abbastanza isolata. Sicuramente le ultime centinaia di metri avrebbe dovuto compierle a piedi. Ci sarebbe voluta un’ora almeno. Fuori tuttavia, una primavera che pareva anticipare il suo arrivo invogliava a una passeggiata e il pastore prese a camminare. *** Vide il prete allontanarsi dalla casa affiancata alla chiesa, e attese qualche minuto. Poi si diresse verso la porta del tempio che tuttavia era chiusa a quell’ora. Scivolando lungo il muro esterno si portò a contatto con l’abitazione attigua e vi entrò attraverso la porta che il pastore teneva solo accostata per accogliere anche a notte inoltrata chi aveva bisogno di un momentaneo ricovero. La stanza era spoglia, solo un divano e due sedie. Dall’altro lato da quello d’ingresso una porta chiusa. Dovette forzarla, ma non fu un problema; la serratura non era girata e lo scatto fu docile e pronto. Era dentro all’abitazione del pastore ad attendere l’arrivo della sua vittima. Vide Franciskus arrivare dopo circa venti minuti, posare il suo mezzo a pedali e avvicinarsi al portoncino. Come sempre il postino suonò; era il suo saluto, non attendeva risposta. Una voce in risposta allo squillo del campanello lo invitò a entrare. «Venga Franciskus!»


29 A volte accadeva; una tazza di caffè, due chiacchiere. Brevi e piacevoli soste lungo il suo reiterato percorso quotidiano. Franciskus fece appena in tempo a varcare per intero la soglia dell’abitazione. I suoi occhi furono preda di un fuoco accecante. E Franciskus smise per sempre di consegnare la posta. Trasportò il corpo fuori dalla casa e lo ricoprì dell’erba da poco tagliata tra il capanno degli attrezzi e la siepe che fungeva da confine tra il giardino della casa del prete e il viale di accesso alla chiesa. *** Il pastore era su tutte le furie. “Uno scherzo, è chiaro! Ma di pessimo gusto.” L’indirizzo corrispondeva a una fatiscente e abbandonata casa isolata. Quando vi giunse fu solo un “fuggi fuggi” di grossi ratti. “Con tutto quello che deve fare un pastore in una comunità, c’è gente che ha voglia di scherzare!” Dalla sua partenza al suo rientro erano trascorse quasi due ore.


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CAPITOLO 6

Era quasi l’imbrunire quando il treno rallentò decisamente la sua corsa fino a fermarsi nella stazione. Alan avrebbe dovuto cambiare convoglio. Doveva aspettare un’ora all’incirca prima di poter prendere il posto sul mezzo che lo avrebbe condotto alla meta prossima, quella finale. Aveva deciso che una volta giunto alla stazione successiva, dopo una notte trascorsa in cuccetta, si sarebbe recato a un punto Hertz per il noleggio di una vettura. Sarebbe arrivato in macchina nel paese natale e non con il torpedone come aveva inizialmente pensato. Disporre di una vettura lo avrebbe fatto sentire maggiormente a proprio agio e gli avrebbe evitato la limitatezza degli spostamenti o il dover ricorrere a qualche prestito presso i genitori o persone che non vedeva da anni. Si recò al bar della stazione e ordinò un sandwich con carne e una birra. Con il pranzo in pericoloso equilibrio in una mano, e trascinando il trolley con l’altra, si appropriò con tempismo dell’unico tavolino libero, sia pure ingombro degli avanzi del suo precedente utilizzatore. Utilizzò il braccio per scostare i resti che aveva di fronte; non c’era da aspettarsi un tempestivo intervento dell’unica inserviente che girava tra i tavoli spingendo un carrello destinato a riempirsi celermente con quanto avanzato di pasti consumati in modo sbrigativo e solo a metà. Si mise a osservare la varietà di volti e i loro comportamenti. Accanto a persone chiaramente in viaggio per puro diletto, di norma intere famiglie alle quali un viaggio in aereo sarebbe costato il guadagno di un intero mese, vi era anche chi si muoveva per lavoro. L’uomo accaldato ma vestito in maniera elegante sia pur sobria, poteva essere un rappresentante di commercio. Reduce da una sua giornata di giri tra aziende, tra conferme e rifiuti, decantando le proprietà di quanto aveva nel campionario. E ricordò suo padre; da quanto non lo vedeva! Anche lui viaggiava per lavoro e quasi sempre lo faceva col treno, che gli consentiva una più capillare frequentazione del territorio che gli era stato assegnato.


31 D’altronde un rappresentante di colori per l’industria non trova clienti in ogni via di una singola piazza. Nel tavolo subito a fianco due persone discutevano con fare garbato davanti a due bibite e a fogli riempiti da mille parole. Perché la stazione può essere un luogo di passaggio veloce o il luogo di incontro tra persone di diversa provenienza per la ratifica di affari già conclusi. «Un paio di firme e siamo d’accordo.» E l’altro acconsentendo, firmava. Affari puliti, trattative più dubbie oppure francamente illegali. Ma lui era in vacanza e nulla ebbe da dire al notare il passaggio di mano di alcune bustine, grossolanamente camuffate, nel mentre in direzione contraria cambiavano padrone alcune banconote di dollari. «Lo spaccio di droga è un reato federale» disse parlando a se stesso. “Sì, ma io sono in vacanza” si consolò. Ma in cuor suo pensava alla pena di quei ragazzi, forse sedicenni, che la condanna per il loro reato la stavano scontando con la schiavitù. Terminò il sandwich e finì gli ultimi sorsi di birra, poi riprese il suo trolley e si avviò verso uno spazio aperto. Perché anche lui aveva la sua condanna, sia pure mantenuta legale per gli eccessivi interessi che vi sottendevano. E si accese una sigaretta. Aspirare profondamente quel fumo lo aiutava a isolarsi dal mondo: si concentrava solo su quel gesto che sapeva di pura magia. “Di certo non si fuma per il sapore.” Ma questo lui lo sapeva e amava ripeterselo. “È il gesto, il concentrarsi solo in un punto fisso delle miriadi di punti che compongono l’universo nel quale viviamo. È isolare la mente da rumori, da visioni che intanto continuano a scorrere sia pur non percepite. È fermarsi per un attimo estraniandosi dal mondo lasciando che esso ci scivoli addosso.” “E un drogato cosa cerca?” Qui di norma il discorso a se stesso aveva la sua conclusione. Perché lui si sentiva diverso da quella massa di giovani disposti al reato per cercarsi quell’angolo di quiete che lui trovava legalmente. Ma diverso lo era realmente? Spense tra la sabbia di un posacenere la sua sigaretta prima che la brace iniziasse a bruciare anche il filtro e si avviò verso il binario sedici dove il lungo e splendente serpente in metallo attendeva il nulla osta di un capostazione per iniziare a strisciare guidato verso la sua prossima meta. Si tolse le scarpe prima di prendere posto nella cuccetta. La cravatta era solo allentata, mentre il trolley riposava sopra la sua testa, adagiato sulla cappelliera.


32 Non chiuse subito gli occhi; non voleva dormire, o forse aveva paura di farlo. Per quanto un luogo pubblico fosse controllato, soprattutto dopo i fatti dell’undici Settembre che ormai erano storia, è sempre difficile se non impossibile ottenere quel rilassamento in grado di consentire il completo abbandono del sonno. E poi non era stanco; voleva continuare la sfida con la sua memoria. Competizione ardua se rapportata a ciò che può essere rimasto nella mente di chi era un ragazzino. Eppure ricordava più di qualcosa; non era di certo in possesso di facoltà di lettura veloce quando aveva sette anni, per cui le lunghe pagine di articoli dedicati al duplice delitto che occupavano gran parte della gazzetta locale entrarono con lentezza, quasi in passerella, nella sua mente. Ove trovarono rifugio duraturo. E laddove fosse venuta a mancare la nitidezza del ricordo, la supposizione, che a volte è fantasia, avrebbe colmato le lacune della memoria. *** Un giardiniere - lo faceva per professione - si era offerto, come da anni faceva, di dare rinnovata forma geometrica alla siepe che celava il giardino della casa del pastore dallo sguardo di chi, percorrendo l’attiguo vialetto, si recava a parlare con nostro Signore. L’improvvisa comparsa di quella visione aveva terrorizzato quel poveretto al punto da renderlo afono per parecchi minuti. Gli occhi sbarrati e la bocca spalancata della maschera affiorata da sotto allo strato sottile di erba e di foglie, gli sarebbe stata impressa alla vista in modo indelebile per gli anni a venire. Il prete, personaggio da poco giunto nella comunità, non aveva legami con la gente del luogo; al contempo non si era ancora compreso il suo carattere. Il corpo di Franciskus era là, nel suo giardino, celato alla vista e orribilmente mutilato delle palpebre. La sua bocca, spalancata in maniera innaturale. In molti poterono testimoniare, e lo fecero senza riluttanza, che il postino aveva compiuto come al solito, e a orari precisi, lo stesso percorso. E all’epoca della morte, presunta in base al referto del medico legale che aveva eseguito l’autopsia, si trovava proprio nella zona della chiesa. L’anziana che stava attendendo l’apertura del tempio, quella mattina vide con chiarezza che Franciskus era entrato nella casa-canonica. E quel prete non aveva alcun alibi. «Sono stato chiamato dal signor Ferguson!» «Per il rispetto che porto alla veste che indossa, vorrei crederle padre» disse lo sceriffo dimostrando un rammarico che, sulle prime, appariva sincero


33 «ma nella nostra contea non abbiamo mai conosciuto qualcuno che porti quel nome.» «Eppure mi hanno chiamato e mi sono recato, non senza difficoltà, a quell’indirizzo.» «Che corrisponde a una casa ormai fatiscente e isolata, rimasta in quello stato dalla morte dell’ultimo suo proprietario. E parlo di almeno una decina di anni fa» concluse lo sceriffo. «Non so come spiegarlo se non supponendo si sia trattato di uno stupido scherzo.» «Padre, l’ha vista qualcuno? Ha incontrato e magari parlato con qualche persona che potrebbe confermare quanto sta dichiarando?» «Non ho incontrato anima viva e scambiato parole con alcuno. Se qualcuno mi ha visto, non posso saperlo.» «Padre, lei non ha un alibi per il lasso di tempo nel quale si suppone sia stato commesso il delitto nel suo giardino!» «Ma chi vive in maniera spontanea la propria vita non si preoccupa di annotare ogni suo passo. Non si premura di farsi vedere da testimoni per ogni atto compiuto! Non sospetta minimamente di dovere un giorno fornire una scusa per le sue azioni, se lecite e compiute con buona fede.» Il prete, ma la cosa gli appariva assurda, si stava rendendo conto di trovarsi invischiato in quella che sarebbe divenuta un’accusa infamante. «Caro padre, non dobbiamo vivere pensando solo a noi stessi e alla bontà delle azioni che andiamo compiendo. In questa vita ciò che più conta è cosa facciamo vedere agli altri. Noi siamo ciò che gli altri apprezzano del nostro operato» affermò lo sceriffo nel mentre pregava il sacerdote di seguirlo al posto di polizia per un interrogatorio formale. E da quel giorno il pastore non rivide più la luce del sole se non attraverso le rigide inferriate di una cella di sicurezza. Alla mancanza di alibi si venne ad aggiungere la scoperta che il delitto non era stato commesso sul luogo dell’effettivo ritrovamento del cadavere, ma in casa del prete. Solo in un secondo tempo il corpo era stato trascinato all’esterno. La casa del pastore non mostrava segni di effrazione, se non qualche segno nella porta che dalla dimora vera e propria conduceva alla stanza che veniva lasciata a disposizione di ricoveri brevi per bisognosi. “Semplici scalfitture legate all’uso, probabilmente. Non vi sono gli estremi per parlare di scasso” stabilì una sommaria perizia condotta dal titolare del negozio di ferramenta interpellato dallo sceriffo. Il prelato venne in seguito trasferito in un carcere federale e processato per il delitto del postino e di Jennifer, in considerazione delle analogie emerse tra i due fatti. Entrambe le vittime avevano negli occhi tracce di spray al peperoncino.


34 Venne condannato a novantadue anni di reclusione; la clemenza della corte, che gli evitò la condanna capitale, fu attribuita al ruolo che l’imputato rivestiva nella società. Il fatto e le sue conseguenze innescarono discussioni di popolo che travalicarono i confini della contea. Vi furono subito due schieramenti nettamente distinti: gli innocentisti, in numero assai esiguo, e coloro che additavano il prete come indiscusso colpevole. Tra i colpevolisti vi erano due fazioni tra loro distinte; coloro che approvavano la mancata emissione di una sentenza di morte giustificando il fatto con la clemenza per il ruolo ricoperto e per la loro contrarietà alla forma estrema di punizione; e coloro che ritenevano invece che proprio il ruolo tradito di educatore e curatore di anime rappresentasse un’aggravante che avrebbe senza mezzi termini richiesto l’intervento del boia. Il pastore perse il suo fiato a proclamarsi innocente per i primi periodi, poi prese con rassegnazione quella che doveva essere una decisione divina. Da circa vent’anni il prete era stato trasferito in una struttura che ospitava anche condannati al patibolo. *** E con quei ricordi ad affollare la mente, Alan, quasi senza accorgersene scivolò nel sonno. Dolcemente cullato dalla lenta andatura di quel serpente d’argento che solcava come cometa il buio diradante del Texas, passò dolcemente tra le braccia di Morfeo.


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CAPITOLO 7

Il treno proseguì la sua corsa verso la costa. Alan scese alla stazione della piccola cittadina che distava circa novanta miglia dalla sua meta finale, posta verso l’interno a perpendicolo rispetto alla strada ferrata. All’uscita dei binari, Alan cercò con lo sguardo l’insegna della Hertz. Non era mai stato in quella cittadina posta a nord-est rispetto al suo paese d’origine. Nei suoi rari viaggi di ritorno verso le sue origini, per solito sceglieva l’aereo. E l’aeroporto era a sud-ovest della contea, distante circa centoventi miglia. Nonostante tutto l’aria che si respirava, le persone che si incontravano, il profilo delle case che si affacciavano sulla via e gli ampi spazi che si intravvedevano oltre i limiti della stazione ferroviaria indicavano in modo inequivocabile che era giunto nel Texas. La modernità di alcune costruzioni recenti non oscurava il clima e il sapore che sapeva di antico, vissuto e pioneristico della regione più rappresentativa dell’America di un tempo. O almeno era questo che lui pensava. C’era gente, almeno sette persone, a comporre una fila ordinata di fronte allo sportello del noleggio vetture. Forse non si vedevano agli angoli delle strade persone intente a proporre l’acquisto di capi di bestiame o appezzamenti di terra. Forse la tipologia della merce era mutata, ma rimaneva nella gente texana il desiderio di un contatto diretto con gli altri esseri umani. E c’era solo una signorina addetta ad accogliere le richieste, alla verifica dei documenti e a fornire le indicazioni per il ritiro del veicolo assegnato. «Speriamo ne abbiano a sufficienza» disse Alan rivolgendosi al vicino di fila e riferendosi alla disponibilità delle vetture. Non ebbe risposta; piuttosto uno sguardo completato da un mezzo sorriso che rimaneva a metà tra lo stupore e la commiserazione. “Non è sicuramente texano” concluse in cuor suo Alan. I texani sono gente affabile, dal sorriso sincero; non mostrano scontrosità, almeno iniziale, soprattutto nel caso di un forestiero. Ma forse il forestiero era quello al suo fianco; d’altronde il texano era lui stesso. «Buongiorno signore, che articolo le può interessare?» Era finalmente arrivato il suo turno.


36 «Basta una macchina piccola, non mi serve tanto spazio. Viaggio da solo.» «Per quanto tempo?» «Di preciso non so, ma circa una ventina di giorni.» «Un periodo abbastanza lungo. Ora controllo la disponibilità.» “La ragazza sì che è texana” pensò Alan; parlava mostrando una perfetta linea di denti. E gli sorrideva anche con gli occhi. «Scusi, dove ha intenzione di lasciare la vettura al termine del periodo?» «All’aeroporto.» Aveva infatti intenzione di non ripetere l’esperienza sicuramente rilassante ma lunga del viaggio d’andata. «Abbiamo a disposizione una Ford Fiesta, se le può interessare.» «Una macchina perfetta!» decretò con tono entusiastico Alan. «Perfetto. Allora mi dia la patente di guida, un documento di identità e la carta di credito.» Mentre Alan estraeva i documenti, la gentile signorina batteva sulla tastiera di un terminale il contratto di nolo. «Il prezzo comprende anche le assicurazioni e il pieno di carburante» disse spiegando e sottolineando a matita le voci riportate sul foglio che la stampante aveva emesso, una volta ricevuto l’invio. La ragazza terminò il suo lavoro fotocopiando i documenti che Alan le aveva porto. «La vettura è a sua disposizione nel garage appena fuori dalla stazione. Sulla destra, saranno circa duecento metri.» «La ringrazio» la salutò Alan con un sorriso sincero ricambiando il sorriso professionale di lei. Qualche goccia di pioggia iniziava a macchiare l’asfalto. L’odore della polvere umida arricchiva i profumi dell’aria. «Anche questo è un aspetto che non si apprezza più nelle grandi città» disse Alan parlando a se stesso. Raggiunse con facilità il garage indicatogli. Esibì il contratto appena stipulato all’incaricato. «Attenda qui che arrivo con la vettura.» Nell’officina, in due si affannavano su di una macchina in riparazione. “Maniscalchi del giorno d’oggi a prestare le cure ai moderni destrieri.” Ben presto la piccola città apparve sullo specchietto retrovisore della vettura. Alan aveva varcato l’ideale confine tra il mondo civile che si lasciava alle spalle per andare incontro allo spazio aperto delle terre quasi desertiche, di tanto in tanto interrotto dalla comparsa di “oasi” di civiltà. E Baird era una di quelle oasi, un agglomerato di circa tremila anime al confine nord della contea. Era il punto di origine del suo peregrinare; era la


37 terra dalla quale si era staccato per andare alla ricerca di posti più consoni a soddisfare le proprie aspirazioni. Era la meta del suo viaggiare di quel giorno. Attraversò la pianura polverosa solcando un asfalto ricoperto dalla sabbia arrossata soffiata dal vento. La polvere fine era il desiderio di acqua da parte di una terra bruciata dal sole. Le poche gocce che erano cadute al suo arrivo alla stazione, erano stata solo un’ennesima illusione per le zolle destinate a tramutarsi in polvere fluttuante nel vento. Il cartello in metallo lucente posto all’inizio della cittadina, strideva con il paesaggio che si stava lasciando alle spalle; forse, ma lui non lo ricordava, un tempo vi era stata una targa di legno corroso dagli anni. Ma un tale segnale era l’avviso d’ingresso in un mondo che aveva saputo rimanere al passo dei tempi. La sua Baird aveva saputo adeguarsi ai tempi. Quasi una cittadina modello; di quelle che in molti avrebbero definito “a misura di uomo”. Non alti palazzi, non il caotico traffico delle grandi città, ma schiere di piccole abitazioni e molti veicoli a pedale caratterizzavano quel posto in apparenza isolato dal mondo. «Chi mai potrebbe pensare alla presenza di un assassino tra queste persone? Chi farebbe coincidere queste tranquille casette in fila ordinata a fare da limite alle strade che le attraversano, con il palcoscenico di crimini orrendi?» A quelle domande Alan non avrebbe saputo dare una risposta. La casa della sua infanzia, quasi nel centro del paese, appariva come nuova; suo padre la conservava in maniera quasi maniacale. Le tinte da poco rinnovate, il giardino curato. Le imposte di legno, che lui non ricordava di quel giallo quasi splendente. Ma non vi era segno di vita. E ciò non se lo sarebbe aspettato, giungendo all’ora di cena. «Salve signor Garrison!» disse Alan rivolgendosi all’uomo, sulla settantina, che innaffiava le aiole che si trovavano oltre allo steccato a confine con la proprietà della sua famiglia. «Che il diavolo mi porti! Ma tu sei Alan! O devo chiamarti signor Alan?» «Alan va benissimo, zio Ted.» Non vi era alcun rapporto di parentela tra i due vicini di casa. Ma anni vissuti a stretto contatto conferiscono il grado di “parentela acquisita” pur in assenza di consanguineità. E al signor Ted Garrison, il piccolo Alan Parker si era sempre rivolto chiamandolo “zio”. Anche se per età avrebbe potuto essergli quasi nonno. «Come ti va ragazzo mio?» «Va bene zio Ted, grazie.» «Ma questa è una sorpresa. I tuoi non sapevano certo che saresti arrivato!»


38 «In effetti voleva essere una sorpresa, ma sembra che io debba attenderli.» «E attenderai un bel po’. Sono partititi stamane per fare visita a tuo zio Richard che ha avuto un malore.» «Sono andati a Dallas?» «Proprio così ragazzo mio. Se avessero saputo del tuo arrivo, sicuramente avrebbero ritardato o posticipato la partenza. In fondo pare si sia trattato di un piccolo infarto già superato.» «Già, ma se avessero saputo non vi sarebbe stata sorpresa!» «Vieni qui che ti do le chiavi. Non abbiamo perso l’abitudine reciproca di lasciare le chiavi di casa al vicino in caso di assenza per periodi prolungati.» Alan prese la chiave che il signor Garrison gli porse. Era la chiave del vano garage. Da lì sarebbe entrato in casa attraverso la porta che conduceva in cucina. Era quella l’unica chiave che di norma si lascia al vicino. Il mezzo per potere avere accesso al rubinetto con il quale bagnare il giardino. Una successiva chiave per entrare in casa veniva tenuta in un posto segreto. E Alan sapeva che l’avrebbe trovata nella cassetta degli attrezzi, tra le chiavi inglesi. «Chiavi tra le chiavi!» diceva sempre suo padre, fin da quando lui era bambino. E questo lo ricordava. La cucina profumava di lavanda. Era chiaro che prima di partire, quella stessa mattina, mamma Elisabeth aveva provveduto a ripulirla con dovizia. Era sempre stata attenta alle norme di pulizia e igiene. Entrò nella piccola sala, che con la cucina, uno studio e un bagno costituiva il piano terreno. Al primo piano vi era più spazio perché la casa occupava anche la superficie che sovrastava l’ampio garage. Alan si rese subito conto che avrebbe potuto aprire i balconi; ma non gli era possibile aprire l’uscio che era stato accuratamente chiuso con chiavi di sicurezza. “È un’altra di quelle contraddizioni che si vedono spesso” pensò Alan “si difende la propria facciata lasciando scoperte e indifese le spalle.” Decise che anche i balconi per quella sera avrebbero potuto rimanere accostati. La lampada alogena della piantana tra i due divani, posizionati tra loro in maniera angolare, emanava la sua luce su tutta la stanza. Dal tavolino che aveva dinnanzi Alan prese il telecomando del televisore; voleva ascoltare le notizie locali che lo avrebbero ricollegato alla sua cittadina. «Cazzo!» Già, un’altra mania di sua madre, e quella l’aveva scordata. Il timore di guasti elettrici, corto circuiti e conseguenti incendi. Aveva staccato la spina dell’apparecchio.


39 Non aveva voglia di alzarsi, non se la sentiva di abbandonare quella comoda posizione che aveva assunto nel divano nella casa della sua infanzia. I giornali che, ripiegati, sostavano accanto al telecomando sarebbero valsi a soddisfare la sua curiosità sulla vita di Baird. «Non devono essere partiti di buon ora» disse a se stesso ma parlando ad alta voce, lasciando che le sue parole tornassero a riempire l’aria di quei locali. In effetti vi era anche il notiziario quotidiano del giorno. «O forse il postino è ben mattiniero!» Già, il postino. Ricordava il povero Whitehouse che venne trovato sotto la siepe dell’allora pastore Farmer. Altri ne erano seguiti, ma senza trovare posto nelle cronache e nelle menti. Chissà chi ricopriva attualmente quell’importante compito di collegamento tra il mondo e la piccola realtà immersa in un deserto arrossato. La notizia che nei quotidiani a tiratura nazionale aveva occupato solo un trafiletto tra altre notizie simili della cronaca nera, nei fogli che ora Alan rigirava tra le mani risaltava come apertura e a caratteri cubitali. Eppure erano trascorsi ormai tre giorni dal fatto.


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CAPITOLO 8

Non si sentiva a proprio agio; in fondo salvo sporadiche apparizioni frammentate negli anni, era quasi un decennio che non respirava l’aria di quella casa. Alan era figlio unico, e dalla sua partenza quella villetta era tornata a essere rifugio per la coppia ancora giovane dei suoi genitori. Suo padre avrebbe raggiunto la sessantina proprio in quei giorni, sua madre lo avrebbe fatto dopo due anni. La disposizione della mobilia era cambiata, e anche alcuni dei mobili non erano più quelli che lui ricordava; certamente il pensiero correndo a ritroso gli faceva rivivere alcuni momenti della sua infanzia passata in quei locali. Ma l’atmosfera che percepiva in quel momento gli era aliena. “Non posso nemmeno affermare di essere straniero in casa mia” si disse “perché in fondo questa non è più casa mia.” A ricordare che un tempo lui era presente a completare quel nucleo familiare, alcune immagini fotografiche che apparivano in cornice sopra alle mensole del caminetto. C’era l’immagine del suo arrivo a casa, quando ancora era avvolto in fasce bianche; l’immagine del primo giorno di scuola primaria, l’immagine sua e di quella dei suoi amici di un tempo, ed era la stessa che lui aveva riesumato dalla scatola di cartone nel suo appartamento. Vi era poi l’immagine delle sue imprese sportive e del diploma al termine del college. E quelle più recenti alla fine dei suoi corsi superiori in polizia. *** Nessuno aveva ancora fornito dati che consentissero di identificare la nuova vittima. “Questo di fatto esclude che si tratti di qualcuno del luogo” stabilì Alan senza mezzi termini. Era chiaro che se il cadavere rinvenuto fosse stato quello di una delle tremila anime di quel piccolo agglomerato di case, il mistero sarebbe stato presto svelato.


41 Girò camminando lentamente tra gli spazi di quella sala, alla luce della piantana. Aveva deciso che gli scuri li avrebbe lasciati chiusi per quella sera, per trattenere all’interno quell’atmosfera che un tempo era sua. Per il momento voleva evitare il contatto con i conoscenti di un tempo. Inserì le spine del televisore che accese, iniziando a scorrere con il telecomando le stazioni dei notiziari. Del mondo era abbastanza informato, con l’I-pad non perdeva mai il contatto; ciò che gli mancava era la conoscenza del microcosmo nel quale si trovava. Il notiziario ripeteva le notizie in forma continua; erano le edizioni intermedie. Mancava una mezz’ora alla nuova edizione principale, e Alan aveva fame. Lasciò acceso l’apparecchio televisivo e si recò in cucina. C’era ancora chi teneva in dispensa le tradizionali lattine della famosa zuppa di pomodoro: e sua madre era una di quelle persone. Una vera cultrice. Con poca acqua bollente fece scaldare la zuppa direttamente dentro alla latta. Portava con svogliata lentezza il cucchiaio alla bocca dopo averlo attinto direttamente nella lattina. Avrebbe sporcato solo un cucchiaio e questo gli avrebbe consentito di ridurre al minimo il tempo e il lavoro per il riordino. Le orecchie erano tese all’ascolto delle notizie che gli giungevano dalle casse dell’apparecchio televisivo. La mente era invece impegnata a dare un significato alla sua presenza in quella casa. Scorse brevemente il motivo della sua partenza, soprattutto il desiderio di allontanarsi dal ricordo di Annie, la scelta della destinazione dettata dal desiderio di rivedere i genitori (chiaro tuttavia che si trattava di una meta di ripiego). Ma c’era qualcosa di più, qualcosa che cercava invano di ricacciare indietro. Non lo voleva fare, e ufficialmente se ne sarebbe astenuto; ma era chiaro che si trovava in una località che era stata teatro di uno strano delitto. Un crimine che, a detta delle cronache che aveva potuto leggere, ricalcava nelle modalità quanto avvenuto oltre vent’anni prima. Lo avrebbe fatto solo con lo spirito di chi vuole giocare, senza profondere impegno eccessivo; in fondo lui era in vacanza e il caso non lo avrebbe interessato nemmeno come agente federale. Non rientrava nei suoi interessi ufficiali. Lo stacco pubblicitario era preludio all’edizione serale del notiziario locale. Si alzò lasciando la latta di Campbell, ancora non completamente vuotata, sul tavolo della cucina e riprese il suo posto nel divano alla luce della lampada a piantana. Il giornale era letto dal sorriso accattivante di una giovane biondina della quale si mise a studiare i connotati cercando di associarli a qualche sua vecchia conoscenza.


42 «Ancora nessuna novità sull’identità della vittima ritrovata a Baird tre giorni fa.» «Possibile che non vi sia corrispondenza con persone scomparse? Che non vi sia un parente o un amico in grado di riconoscere il cadavere?» si disse Alan che ormai parlava a se stesso a voce alta. «Si tratta di un giovane adulto, di circa trent’anni di età. Di razza bianca. È la settima vittima di quello che sembra ormai essere un serial killer.» «La settima vittima?» Era stupito Alan, accorgendosi che si era allontanato dal suo paese natale molto di più di quanto avesse creduto di fare. Ma d’altronde quanti sono gli omicidi che vengono compiuti ogni anno in una qualsiasi delle piccole località sparse nella grande federazione? Quanti di questi omicidi assurgono al ruolo di notizia importante per un quotidiano nazionale? Quanti giungono ai piani alti del Federal Bureau of Investigation? Nessuno che non rivestisse un interesse, o un pericolo, per l’intera nazione. «La settima vittima… un serial killer…» Grave sarebbe stato se lo sceriffo avesse sottovalutato la gravità del reiterarsi del delitto. Ma… evidentemente lo aveva fatto. È frequente che in occasioni similari si cerchi di nascondere agli occhi del mondo quello che verrebbe a essere considerato un lato negativo di una località peraltro giudicabile amena e culla di un vivere sereno. In molti casi si tendeva a sotterrare la vittima e con essa il caso. L’intervento dei federali poi… sarebbe stata una catastrofe, con ripercussioni notevoli sulla tranquillità del luogo e sulla riservatezza della quale andava fiero. Ma Alan aveva deciso. Sia pure per gioco, anche se il gioco si era fatto più pesante dopo le ultime notizie, avrebbe iniziato a svolgere indagini proprie che sarebbero partite proprio dall’ufficio dello sceriffo e da una visitina alla camera mortuaria, prima che per la salma fosse disposta una precoce sepoltura. Ritornò in cucina e vuotò nel lavandino ciò che restava della zuppa di pomodoro; dal mobile bar estrasse la bottiglia di bourbon e ne versò una generosa dose in un bicchiere. Quindi attraverso il garage uscì nel giardino dove si accese una sigaretta.


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CAPITOLO 9

Si alzò di buon’ora dopo una notte trascorsa quasi insonne. Un sonno iniziale lo aveva colto mentre era ancora disteso su quel divano che in seguito divenne il suo giaciglio. Aprì i balconi del piano terreno, lasciando che la prima luce del giorno entrasse a illuminare gli oggetti che aveva osservato solo alla luce artificiale. Spense il televisore che gli aveva fatto da sottofondo sonoro, sia pure discreto, durante il sonno agitato. L’ambiente era pulito e ordinato; la partenza dei suoi genitori, sia pur non progettata - perché non si può programmare l’altrui malore - non era riuscita a cogliere in fallo la meticolosa cura che della casa aveva sempre avuto sua madre. Entrò nel bagno del piano terreno per urinare e lavarsi il volto. Sulla stanza si affacciava l’uscio, sempre chiuso, dello studio del padre. Quella porta che era sempre stata tabù negli anni della sua fanciullezza e che era divenuta limite valicabile solo dietro permesso esplicito negli anni seguenti. La porta celava l’ambiente nel quale suo padre continuava a svolgere il suo lavoro, programmando i viaggi di visite ai clienti e tenendo i bilanci, sia dell’attività che familiari. Era in pratica la sala macchine che consentiva alla loro vita di muoversi senza intoppi. Era suo padre il motore che consentiva un andamento dignitoso alla vita di sua madre e sua e nessuno gli aveva negato il diritto a uno spazio completamente a sua disposizione. A fianco della porta prendeva l’avvio la rampa di scale che conduceva al piano superiore. Non vi era salito la sera prima; non che fosse sua intenzione passare la notte accovacciato sul pur comodo divano di casa, ma gli occhi gli si erano chiusi mentre sostava di fronte al televisore. Non aveva avuto né voglia, né forza di cambiare sede nel corso di uno dei suoi numerosi risvegli. Sul pianerottolo si affacciavano le quattro porte cui corrispondevano tre stanze da letto e un bagno. Tutte le porte erano chiuse; anche quella era una mania materna. Controllava che tutto fosse in ordine in ciascun ambiente per poi isolarlo dalla possibilità di contaminazione del mondo all’esterno.


44 Il bagno, la camera da letto dei suoi genitori, la sua stanza di quando era bambino e adolescente. Tutto come lo ricordava; anche se in verità camera sua non era mai stata così pulita e in ordine. La quarta porta, quella che avrebbe dovuto ospitare la stanza degli ospiti o di una sorellina mai arrivata. Quella porta era chiusa a chiave. La cosa lo stupì ma non vi fece caso. Sicuramente un motivo c’era ma non stava a lui, estraneo o quasi in quella casa, venirne a conoscenza. Non aprì alcuna finestra o balcone al piano superiore; era ancora titubante e incerto. Quasi in colpa di avere occupato, a loro insaputa, la casa dei genitori. Non voleva prenderne sfacciatamente pieno possesso Certo, poteva avvisarli della sua presenza inaspettata. In fondo bastava una telefonata al cellulare del padre. Ma questo li avrebbe mandati in agitazione e non sapeva a qual punto fossero già preoccupati per l’improvvisa malattia dello zio. Decise di limitare la sua presenza al solo piano inferiore, così come aveva fatto la notte trascorsa. E vi era sempre la possibilità di trasferirsi in albergo: un atto sicuramente più educato e formale ma forse esagerato per chi in quella casa ci aveva a lungo vissuto. Uscì nel giardino, sempre ripercorrendo la via attraverso la cucina e il garage - non aveva alternative, non disponendo della chiave di sicurezza che gli avrebbe consentito di aprire l’accesso principale - e si accese la prima sigaretta della giornata. La Fiesta era ben parcheggiata all’ombra di due alti alberi sul ciglio stradale; prese a muoversi in direzione del centro del piccolo paese camminando e assaporando l’aria fresca e pulita del primo mattino. Voleva recarsi a conoscere lo sceriffo, dopo una breve sosta - beninteso - in un bar per un succo d’arancia e un bel bicchiere di caffè caldo. *** Camminò lentamente e quasi distrattamente, ripercorrendo una strada di cui le sue gambe parevano tenere memoria. Certo le figure che incrociava con gli occhi di adulto erano differenti da quelle che si affacciavano alla sua memoria. Subito dietro all’angolo avrebbe dovuto esserci l’emporio di Roland Paris, il padre di due figli uguali tra loro. Il marito della prima vittima del folle omicida. Ma non vide alcuna insegna che lo ricollegasse ai tempi trascorsi. Al suo posto un locale con videogiochi, di nome “Las Vegas”.


45 Non poteva il quadro essere mutato così repentinamente nell’ultimo anno e mezzo: era quello il tempo trascorso dalla sua ultima apparizione a Baird. E forse il cambiamento era stato in effetti graduale. Si rese conto di come nelle sue precedenti fugaci visite era giunto a ritrovare volti noti che la sua mente aveva ricollocato in un ambiente ormai mutato. Erano cambiate le insegne degli esercizi, il lungo viale alberato e ombroso era divenuto una via a sei corsie priva di qualsiasi presenza di piante. Alcune ringhiere in metallo indicavano gli accessi, presenti a regolari intervalli, di altrettanti sottopassi per consentire l’attraversamento pedonale, mentre distinte piste ciclabili proteggevano il percorso dei pochi ciclisti che circolavano. Ed era mutata l’aria. Era mutata quell’atmosfera di antico che nella sua mente aleggiava sopra alla sua infanzia. Locali in ristrutturazione gli apparvero laddove la sua mente ricordava le stanze dello sceriffo. Poco oltre un locale, un bar di aspetto moderno di cui non conservava memoria. Vi entrò. Ordinò un succo d’arancia e un sandwich al formaggio. «Mi scusi l’ufficio dello sceriffo si è trasferito?» «È un pezzo che se ne sono andati, ragazzo. Ben prima che io aprissi il locale. Lo trovi due isolati più avanti, nel nuovo palazzo.» Consumò in silenzio la sua colazione, guardando oltre i vetri lo scorrere della vita di una cittadina che non riconosceva. Certo il mutamento era avvenuto in maniera progressiva, ma lui se ne stava accorgendo solo in quel momento e all’improvviso, perché mai prima d’ora gli era stato possibile rimanere da solo con i suoi ricordi e i suoi pensieri. E di quella situazione di solitudine ne avrebbe fatto volentieri a meno anche in quell’occasione. Riprese la via lungo la direzione che lo sconosciuto gestore del bar gli aveva indicato. La sua meta, dapprima indefinita, si stava delineando. Voleva giungere di fronte allo sceriffo per avere maggiori ragguagli sulla situazione. Non si sarebbe qualificato, non era sua intenzione. Oltretutto la cosa sarebbe stata controproducente perché si sapeva quanto fosse restio il tutore locale della legge terrena ad aprire le porte della propria giurisdizione ad autorità federali. Ma lui era lì perché voleva conoscere; era quella ormai la meta decisa delle sue ferie annuali. La piccola casa con modesto giardino della famiglia Fellow, era ancora lì. E, forse per la prima volta, gli apparve un’immagine reale che coincideva con quanto la sua mente era in grado di ricordare. Ma vi era incuria.


46 Le finestre erano tutte chiuse, i balconi sprangati, l’erba del giardino falciata ma non raccolta. Lasciata seccare giusto per impedire la creazione di habitat per animali poco graditi all’uomo. Quasi senza accorgersene rimase qualche minuto davanti a quella casa immaginando con gli occhi le scene di vita vissuta. Il volto di Gimmy. Il volto di quel bambino che non aveva amici sinceri, a parte lui. Perché Gimmy era diverso dagli altri bambini, dagli altri ragazzi. Gimmy era diventato diverso dagli altri uomini. Si diceva in paese che si fosse addirittura fatto operare. E lo aveva perso di vista quando, diciottenni, lui aveva scelto la carriera militare e Gimmy il mondo controverso della moda. La lunga strada della fanciullezza che avevano percorso insieme, era giunta a un bivio che conduceva in due direzioni diametralmente opposte. E si erano divisi. «No. Non è in vendita. Se è questo a cui sta pensando» si sentì dire da un uomo che si affacciava alla cancellata lì vicino «i Fellow se ne sono andati, insieme, sulla statale. Contro un camion. Ma ci sono i due figli. Una decisione sarà presa quando torneranno.» «Si sa dove sono?» «Isabel, è ospite per ancora una decina di anni del penitenziario statale. Questione di droga.» «E il ragazzo, Gimmy?» «Quello ha portato il suo culo a fare affari in giro per il mondo…» Alan bloccò ogni altro commento del suo interlocutore con un’occhiata fulminante. «Mi scusi… è un suo amico?» «No… cioè sì. Ma non nel senso che intende di lei.» «Non c’è nulla di male sa.» «Non mi sembra che lei la pensi così, dalle parole che ha pronunciato poco fa.» «Via, era solo una maniera colorita per definire una situazione di vita. Forse è lei che l’ha interpretata con eccessiva malizia.» Era così? Era forse Alan che serbava nel suo cuore quei pregiudizi che a parole negava di possedere? «Ci conoscevamo un tempo, ai giorni della scuola, poi il destino ha voluto che ognuno prendesse la propria strada.» «Ed è giusto così» sentenziò quella figura che rimase ignota.


47 Un isolato più avanti la bella villa dei Ford serbava intatta la sua imponenza. Forse, anzi sicuramente, non era più la costruzione più grande della cittadina, ma sicuramente in suo fascino era immutato. Ricordava i tempi in cui era un maggiordomo in divisa inappuntabile a condurre a scuola il suo amico Saul. Saul era divenuto un penalista, già affermato malgrado la sua giovane età, e di lui spesso si leggeva nelle cronache giudiziarie e mondane. Vi passò davanti senza fermarsi né rallentare il passo, mentre gli occhi di due grossi mastini osservavano il suo comportamento da dietro all’inferriata di confine. Giunse di fronte a un grosso edificio di recente costruzione. Ampio, non elevato. Quattro piani appena. Vi erano banche, compagnie di assicurazione, la rappresentanza di qualche grossa industria e, ciò che a lui più interessava, gli uffici dello sceriffo.


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CAPITOLO 10

«Lo sceriffo? Certo che è presente ma è impegnato» gli disse la divisa che con un collega divideva lo spazio dietro a un bancone. Attorno vi era un ambiente spazioso, ben illuminato e moderno. Un ambiente ben diverso da quello dei suoi ricordi. Vent’anni prima lo sceriffo era uno e solo. Ora erano almeno in sei, più ovviamente lo sceriffo. «Quando pensa potrà ricevermi?» «Mai.» Tenne per sé la sua contrarietà di fronte a quella risposta secca e sgarbata. «Mi servirebbero alcune informazioni che penso solo lui sia in grado di fornirmi.» «E noi cosa ci stiamo a fare? Dica pure» lo esortò il giovane gonfio nella sua divisa. «Veramente sto cercando alcune notizie che penso facciano parte della storia, ormai, di questa cittadina.» «Guardi, questo non è un ufficio informazioni e non siamo in servizio per soddisfare le sue curiosità. Quanto all’aggettivo “storico” se lo scordi. Qua dentro di storico non vi è più nulla, se non le carte dell’archivio. Lo stesso sceriffo lo è diventato da cinque giorni.» «E le carte di cui parla? Suppongo si tratti di verbali.» «Appunto. Si tratta di verbali di polizia non consultabili. Ciò che poteva nei tempi trapelare è trapelato e lo trova nei giornali. Arrivederci.» Deluso e di certo contrariato, Alan uscì dall’edificio. Eppure a ben pensarci il suo era stato un atteggiamento incauto e pretenzioso. Come poteva lui, tutore della legge, pretendere che un suo collega di periferia aprisse le porte degli archivi al primo arrivato? Se lo avesse fatto avrebbe meritato il rapporto ai superiori. No, chi aveva sbagliato - sia nella sostanza che nella forma - era stato proprio lui. Le notizie doveva trovarle da solo e solo dopo essersi fatto un’idea su quanto - nell’indifferenza della nazione - stava succedendo nel suo paese natale, avrebbe potuto prendere i provvedimenti che si sarebbero resi necessari. La sede del Baird Post era poco fuori dal centro. Continuò a camminare.


49 “Ma per il ritorno userò un mezzo pubblico” pensò rendendosi conto che stava mettendosi alle spalle ormai alcune miglia. L’edificio che ospitava la redazione del foglio locale, occupava il piano soprastante un magazzino di ferramenta; uno spazio bastevole per la cronaca di quanto accadeva nella contea di Callahan, nel Nord del Texas, in periodi normali. Ma in quel periodo era diverso; lo si poteva dedurre dal numero delle automobili che sostavano nel piazzale antistante. “Salvo che non siano tutti clienti del ferramenta” pensò Alan. Non erano in molti quelli che, al di là di una vetrata, si affannavano nel loft dove le pagine venivano colmate con le notizie del giorno. Molto più cospicuo era il numero di coloro in attesa, soprattutto cronisti di altre testate di contee limitrofe o anche a tiratura nazionale che si erano recati in loco per apprendere le novità su quello che si stava delineando come un caso di delitti seriali. A tutti, in forma di improvvisata conferenza stampa, rispondeva una giovane donna cooptata al front-office. «Signori un po’ di pazienza…» la giovane cercava di ottenere l’attenzione di tutti per non vedersi costretta a ripetere a ciascuno singolarmente le stesse frasi «confermiamo che non esistono ancora dei sospettati a livello ufficiale per l’omicidio dello sceriffo…» «Omicidio dello sceriffo?!» si lasciò sfuggire ad alta voce Alan. «Ma da dove viene quello?» fu la frase captata e pronunciata da uno dei molti cronisti presenti. «Sì signore, lo sceriffo è stato trovato assassinato la settimana scorsa. È il penultimo delitto della serie - cinque casi, vi ricordo - che si è recentemente verificata in città.» «E dell’ultimo si sa nulla?» intervenne un altro dei presenti. «È ancora senza un nome. Occupa una delle due celle frigorifere di cui è dotato l’ospedale cittadino.» «Si sa nulla di lui?» «O di lei» rispose la gentile interlocutrice. «Che intende?» «Non mi è possibile essere più precisa. Posso riferire solo sulla base di notizie certe e non su illazioni. La vittima non è stata identificata e manca la certezza del sesso.» «Quel corpo deve essere ridotto veramente male» intervenne Alan. «No signore, per quanto ne sappiamo il corpo è integro anche se ritrovato in posizione assai strana.» «Come negli altri casi?» «Sì, pare proprio che l’assassino si diverta a comporre i corpi delle sue vittime; sembra che voglia mandarci un messaggio.»


50 «Un assassino maniaco, oltre che seriale.» «La polizia cosa intende fare?» «Siamo in attesa dell’arrivo dei federali; domani è la data prevista. Il ricorso a loro si è reso necessario e d’obbligo con l’uccisione dello sceriffo.» Alan ne aveva saputo abbastanza. Dall’indomani avrebbe offerto il suo servizio alla squadra di colleghi chiamati a intervenire nella sua cittadina. Per farlo doveva però documentarsi. Vi erano troppe cose che non sapeva. Dal suo ufficio nel mondo era in realtà rimasto isolato da quanto accadeva a Baird. Ci si trovava dunque di fronte a una serie di omicidi - sicuramente sette compiuti nel corso di svariati anni, venti almeno. Se per i primi due si era ipotizzato un colpevole, poi processato e condannato da più di vent’anni, a chi attribuire i restanti cinque casi? E chi erano le vittime? Jennifer e Franciskus, venticinque anni prima, ciò era assodato. Il sei era il numero attribuito allo sceriffo, la settima era la vittima ancora senza nome e dal sesso incerto. Ma che dire della terza, della quarta e della quinta? Casi avvenuti nel tempo e dei quali solo in quel frangente lui apprendeva notizia? E cosa si intendeva affermando che l’omicida “componeva” le sue vittime. “Forse vuole mandare un messaggio” era stato detto. In che modo questo messaggio veniva trasmesso? E se un messaggio vi fosse veramente stato, qual era il suo contenuto? Domande che destavano il suo interesse, quasi un entusiasmo per una sfida lanciata che aveva intenzione di cogliere. Domande, le cui risposte forse un poco lo preoccupavano. Perché quella gente era gente della sua terra; o perché forse percepiva qualcosa di strano e insolito, potenzialmente pericoloso. O, forse, semplicemente perché quel caso lo coinvolgeva emotivamente. Inducendolo a scavare al di sotto della tranquillità apparente che aveva da sempre attribuito alla sua cittadina natale. Non sarebbe stato solo il figliolo rientrato in casa, e nemmeno l’amico di un tempo tornato a salutare amici di anni trascorsi. I personaggi che calcavano la scena di quella cittadina assumevano ora un aspetto diverso: da scrutare, sviscerare, analizzare per potere infine capire. Alla base della possibilità di comprensione, vi è la conoscenza. E lui non aveva a disposizione quelle informazioni e quei dati sui quali potere basare le sue investigazioni, dedurre le sue supposizioni e giungere a delle conclusioni. Il primo passo da compiere sarebbe stato quindi quello di cercare di carpire il numero maggiore di informazioni relative a tutti i casi passati o più attuali,


51 partendo se necessario dal caso della signora Jennifer Lane e del postino Franciskus Whitehouse. E, se il caso lo avesse reso necessario, avrebbe richiesto un colloquio con il pastore Farmer, detenuto modello nel carcere di Austin. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD

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