Lucifero

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Luca A. Lampariello

LUCIFERO (Smoke gets in your eyes)

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LUCIFERO

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-697-4 Copertina: Immagine di Emanuele Glave

Prima edizione Marzo 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


A Elena, luce di Aprile e pioggia che non ha indugiato davanti alla villa abbandonata



My spectre around me night and day Like a wild beast guards my way My Emanation for within Weeps incessantly for my sin William Blake



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Osservate la villetta a due piani, in fondo alla strada. Una costruzione come le altre nella via: una casa semplice ma elegante, un giardino con due alberi sul davanti, un muretto di recinzione, un cancello d’ingresso. Il vento scuote le fronde degli alberi dal colore ghiaccio, alla luce dei lampioni sulla strada. Fischia, fruscia e torna indietro. È arrivato il freddo, d’improvviso. È arrivato con le nuvole e con la pioggia. Pozze di luce artificiale si riflettono sull’asfalto bagnato. La villetta in fondo alla strada ha solo una finestra accesa. Quella del salotto. Da fuori è possibile vedere una ragazza che attraversa la stanza. È vestita con una tuta da ginnastica. Avrà dodici o tredici anni. Prende in mano qualcosa, poi il suo corpo scompare dietro la parete. Entrando in casa, raggiungendo il salotto, dall’arredamento tanto fine quanto freddo, troviamo la ragazza seduta su una poltrona elegante, una gamba sollevata sopra il bracciolo, una smorfia sul volto. Sta parlando con un’amica, sembra molto annoiata. Si è tolta le scarpe, ai suoi piedi un paio di calzini bianchi di cotone. Vicino alla porta di comunicazione con la cucina c’è un borsone sportivo dal quale fuoriesce una racchetta da tennis. La ragazza, con ogni probabilità, è appena tornata dagli allenamenti. Sono quasi le sette di sera. Il resto della casa è buio. La ragazza rimane a lungo al telefono. Sorride, porta l’apparecchio per i denti. Si arriccia un ciuffo dei capelli biondi. Sbuffa, si arrabbia, torna a ridere. Dice che il padre non la manderà mai al concerto. Dice che uno dei motivi più importanti per cui non dovrebbe perdere quell’opportunità è che al concerto ci va anche Alessandro, e lei deve parlare con lui per sistemare le cose. Poi scaccia una zanzara che le ronza vicino alla faccia. Il suo riflesso sul vetro della finestra è sovrapposto al movimento dei rami degli alberi che dondolano in silenzio. La ragazza sta per attaccare la chiamata, ma nota qualcosa nel riflesso del vetro. Un movimento. Si volta di scatto. Dice all’amica che le è par-


8 so di vedere un’ombra alle sue spalle. Si alza per andare a controllare. Passa nell’ingresso e accende la luce. Sopra il mobile campeggia il dipinto di una donna, ritratta nell’atto di girarsi di spalle. All’attaccapanni sono appese una giacca sportiva, uno scialle di seta azzurra e uno zaino scolastico. La ragazza torna in salotto, poi va in cucina e accende la luce. Intanto l’amica è sempre al telefono. La ragazza ci scherza su, dice che a volte è paranoica, e deve controllare in ogni stanza se c’è qualcosa che non va. I suoi genitori, racconta al telefono, tornano sempre tardi la sera, e lei è costretta a stare in casa tutta sola. Vengono certi pensieri, alle volte. Mentre cammina, continua a scacciare quella zanzara che sembra seguirla ovunque. L’amica le chiede se deve raggiungerla per farle compagnia. La ragazza risponde che no, non importa, si tratta soltanto di un’impressione. Nuovamente in salotto, dà un’occhiata veloce alle scale che portano al primo piano e alle camere da letto. Che faccio, salgo di sopra a vedere? Chiede all’amica. Al telefono si sente una voce camuffata che sussurra: te ne pentirai. La ragazza ride e dice all’amica di smetterla. Accende le luci delle scale e sale di sopra. Accende anche le luci del corridoio. Si dà un forte schiaffo sul braccio. Maledette zanzare, dice all’amica, non è più la loro stagione. Ora, da fuori, la villetta ha più di una finestra illuminata. Entra nella camera dei genitori. Tutto a posto. Nota, sul comodino della madre, un libro che le aveva regalato qualche Natale prima, e che finalmente lei si è decisa a cominciare. I Sessanta Racconti di Dino Buzzati. Lo dice all’amica mentre esce dalla stanza e si dirige verso l’altra camera da letto. Anche qui tutto a posto. Al poster dei Green Day sopra la testiera del letto è venuto giù un angolo, ma per il resto, nota la ragazza al telefono, è la stanza incasinata di sempre. Sul letto un cuscino bianco con una scritta rossa: “Love, Alessia”. La ragazza torna in salotto. Nota con disgusto che adesso un gruppo di zanzare è entrato in casa chissà da dove, e ronza vicino al soffitto. Qualcuna ogni tanto scende in picchiata e si fa un giro della stanza. Che schifo, commenta all’amica, eppure mio padre ha dato l’antizanzare dappertutto, e invece guarda qua, mi innervosiscono. La ragazza sbuffa, scaccia qualche zanzara e torna a sedere sulla poltrona. Chiede all’amica cosa guarderà in tv, quella sera. Mentre l’amica le parla, gli


9 occhi della ragazza (Alessia, se la scritta rossa sul cuscino bianco è riferita a lei) si spalancano all’improvviso, puntati verso la parete di fronte. La luce nella stanza è aumentata, come se qualcuno avesse cambiato la lampadina normale con una molto più potente. Sembra che siano le pareti stesse a emettere quella luminosità. Tutto in lei si raggela: la noia, la preoccupazione per il fatto di essere sola, l’insofferenza per le zanzare. All’altro capo del telefono, l’amica le ripete una domanda, chiedendole se è diventata sorda tutt’a un tratto. La ragazza si alza dalla poltrona, gli occhi vitrei. C’è qualcuno in casa, dice all’amica. Poi attacca. «Vuoi soldi?» chiede Alessia. «Non farmi del male», continua Alessia, la voce tremante, l’unica cosa viva nel suo corpo cristallizzato.

Tape 2 [START] Le sono davanti. La osservo. Mi sento strano, euforico. Lei ha paura, lo vedo nei suoi occhi. Ha paura che le faccia del male. Indietreggia. Le trema il mento. Continua a chiedermi se voglio i soldi. Non posso fare a meno di fissarla, in silenzio. Mi muovo verso di lei. Non sono sicuro di avere un corpo. Forse sono solo uno sguardo che avanza verso di lei. Ne posso sentire la paura, ma posso toccarla? Non riesco a non guardarla. Vorrei abbassare lo sguardo per controllare se ho un corpo, ma non ce la faccio. Per quanto lei indietreggi, le sono sempre più vicino. Il suo respiro, il suo alito. Alessia, un nome accostato a un volto delicato, appena sfiorato dai brufoli tra il labbro inferiore e il mento, le unghie smaltate di rosa. Quello che sento? L’euforia si trasforma in ansia. Ansia per qualcosa che sta per succedere. È come quando ho la sbronza, e qualcosa nel mio corpo si muove e io non so se sale o scende. Ma se lo sento, vuol dire che ho un corpo. Cosa sta osservando, Alessia, con tale orrore? Le mie mani? Abbasso lo sguardo. Le vedo. Perché indosso questa tuta? Perché la pelle sulle mie mani è così diversa? È come se avessi dei tatuaggi. Non dei tatuaggi comuni, ma particolari, come se potessero muoversi. Dei piccoli serpenti scuri dentro ai quali è possibile


10 scorgere qualche forma. Un volto, un bambino, e poi un uomo. Qualcosa vive nella mia pelle. È questo che Alessia osserva con orrore. Sta per succedere qualcosa. Mi sento come se fosse la prima volta, e allo stesso tempo ho la sensazione di aver già vissuto questo momento. L’ansia si trasforma in foga, foga ora ancora più euforica, spensierata, inarrestabile. Alessia urla. La sua voce squillante mi trapana le orecchie. Ecco un altro segno tangibile che ho un corpo. Le orecchie. E quel suono così fastidioso che ci entra dentro, frastornandole. Le mani con i tatuaggi a forma di sottili serpenti volano verso l’esile collo di Alessia, lei che ora è arrivata con la schiena contro la porta d’ingresso. Sono enormi quelle mani. Le mie mani. E stringono con tutta la potenza di cui sono capaci. Il volto di Alessia si tinge di viola, si gonfia. Qualcosa, nel suo collo, si rompe con il rumore di legno che si spezza. Gli occhi le si colorano come se qualcuno le avesse iniettato un liquido rosso. L’orrore scompare dal suo sguardo. In poco più di un attimo viene sostituito dalla fissità. [STOP]


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1 ROMA

Nel momento in cui esce dal negozio di videonoleggio, Claudia Dionisi avverte un’improvvisa sensazione di felicità all’idea di passare una serata con Antonio, guardando un film e forse mangiando cibo indiano da asporto. Tra le mani stringe una copia di Scoop. Lei e Antonio adorano le commedie, e in particolar modo quelle di Woody Allen. Quando riceve lo stipendio e ha qualche soldo in più da spendere, a volte le capita di noleggiarne una. Claudia cammina per le strade della città pregustando l’arrivo a casa. Non è sempre così piacevole. Alcune sere vorrebbe non tornare. Le sere in cui Antonio ciondola per le stanze con lo sguardo assente, l’umore cupo. Ci sono giorni in cui ritarda volutamente il rientro. Si ferma a un pub, chiama qualche amica sul cellulare. Sa che quando rientrerà, magari a notte fonda, lui sarà lì ad aspettarla. Magari tranquillo, forse nervoso. Le chiederà perché è stata fuori così tanto. A lei non andrà di rispondergli, ma lo farà per non turbare l’equilibrio della loro piccola famiglia. Si dirà che le cose non vanno male, e che è suo dovere sopportare gli sbalzi d’umore del fratello. Perché è fatto così. Questo, però, è uno di quei giorni in cui vuole essere a casa il prima possibile. Vuole stare con lui e chiudere il mondo esterno fuori dalla porta. Guardare Woody Allen e ridere, e poi mettersi a letto. Il vento le accarezza la faccia e, vicino al parapetto che dà sul fiume, scuote le fronde degli alberi. Sembra annunciare una tempesta. La gente, che solo un giorno prima girava in canotta e pantaloncini, indossa giacche e sciarpe.


12 Anche Claudia porta una giacca di velluto porpora e uno scialle azzurro intorno al collo. Prima di uscire dal negozio si è guardata allo specchio nello stanzino per i commessi. Vedendo la ricrescita dei capelli neri, ha pensato che le piacerebbe molto andare dal parrucchiere per ritornare rossa. Sta bene rossa, glielo dicono tutti. Quel colore le ravviva il volto. Se non costasse così tanto, lei ci andrebbe anche una volta a settimana. Ha i capelli lisci, che a volte tendono a sciuparsi e ricaderle sulla fronte in ciocche flosce e senza forma. Alla fermata dell’autobus, Claudia si accende una sigaretta. Ne fuma sempre una prima di arrivare a casa, perché lì non può: ad Antonio non piace sapere che fuma. «Non voglio che ti succeda nulla di male», le ripete sempre, «quella roba non ti fa bene». Mentre è seduta sull’autobus, un uomo con un trench chiaro le si avvicina. Sembra non avere un’età precisa: oscilla tra i trentacinque e i cinquant’anni. Ha il volto largo e le mascelle pronunciate. Sorride. La mole chiara del trench le occlude lo sguardo. «Scusami…» le dice. Claudia ha uno scatto improvviso nelle spalle e si alza d’istinto, spostandosi due sedili più indietro. L’uomo la sta guardando, perplesso. Lei volta lo sguardo e si concentra su ciò che vede fuori dal finestrino. Poi prende la borsa e afferra il cellulare. Si accorge che le sue mani stanno tremando. Si costringe a respirare con calma, a contare fino a dieci. Evita di alzare lo sguardo. L’uomo sta parlando con un’altra donna. Sorridono. Forse ridono di lei, ma non le importa. Compone il numero di Antonio. Il cellulare del fratello squilla a vuoto. «Maledizione…» borbotta Claudia, mordendosi il labbro. Interrompe la chiamata e compone un altro numero, mentre con l’altra mano stringe più forte la borsa. Risponde una donna. «Pronto?». «Signora Lanari, mi può fare un piacere? Antonio non risponde al telefono, può andare a vedere se è in casa?». «Ma certo, Claudia. Aspetta un attimo». Claudia prende due lunghi respiri, mentre al cellulare sente le ciabatte della donna che si avviano verso la porta ed escono sul pianerottolo. Silenzio. Poi le ciabatte tornano indietro. «Signorina Claudia?».


13 «Sì?». «Tutto a posto. Sento la tv». «E allora perché non risponde al telefono?». «Starà dormendo». No, pensa Claudia. Non dorme mai a quest’ora. «Grazie, signora Lanari. Tra poco dovrei essere di ritorno». «Non preoccuparti troppo, Claudia. Antonio è grande e grosso, se la cava anche da solo». L’autobus svolta su un lungo viale e prosegue dritto. Claudia osserva i cartelloni pubblicitari che si susseguono fuori dal finestrino. Qualcuno prenota la fermata. Il segnale luminoso vicino alla sua testa manda una luce rossa a intermittenza. L’autobus rallenta e accosta. In quel momento Claudia sposta lo sguardo davanti a sé. L’uomo con il trench chiaro sta scendendo. Si ferma un attimo per lanciarle un’occhiata. Lei, accorgendosene, guarda da un’altra parte. Chiama nuovamente Antonio. Ancora il segnale libero ma lui non risponde. L’autobus riparte. Claudia guarda alla sua destra. Sull’autobus è salita una donna che emana un cattivo odore. Si è seduta proprio accanto a lei. Ha i capelli lunghi, neri e unti. Indossa una gonna verde e una maglia gialla sulla quale si intravedono le forme di due grossi seni cascanti. La donna ha lo sguardo fisso di fronte a sé. Claudia si addossa più che può alla parete dell’autobus, per evitare di sfiorare la donna. Quando arriva la sua fermata si alza bruscamente e si lancia verso l’uscita. Nella piazzola, vicino alla pensilina illuminata da un lampione, c’è una prostituta che sta parlando al cellulare. Claudia le getta un’occhiata, Osserva la minigonna rossa di pelle, il giubbotto nero e la coda scolpita di capelli biondi. Prima che la donna si giri verso di lei, Claudia attraversa la strada e prende a destra. Mentre cammina cerca le chiavi nella borsa. Le sue dita toccano il portafogli, il rossetto, il diario e le penne. Sembra che le chiavi non siano mai state lì dentro. Prima di arrivare al condominio dove vive con il fratello, Claudia deve attraversare un piccolo parco che di notte è sempre buio. Lei ci passa intorno, cercando di restare nella zona di luce prodotta dalle case nelle vicinanze. Ci sono spesso delle ombre, tra gli alberi. Le sue dita toccano finalmente le chiavi. Claudia ascolta con sollievo il tintinnio. Passa davanti alla rosticceria cinese. La commessa le fa un


14 cenno con la mano. Claudia risponde con un mezzo sorriso. Apre il portone di casa. Nell’ingresso ci sono due bambini che giocano con un triciclo. Indossano soltanto una felpa. Quando Claudia entra, si fermano a guardarla. Il bambino sul triciclo, i capelli rasati e una cicatrice vicino all’occhio, le fa la linguaccia. Claudia gliene fa una di rimando, poi dà una controllata veloce alla cassetta postale, l’ultima sulla sinistra, una delle poche che ancora rimangono ben inchiodate alla parete tutta scalcinata. Non c’è nulla di nuovo, solo qualche pubblicità. Scende le scale a lato dell’ingresso e percorre un breve corridoio. Si ferma davanti alla porta in fondo. A terra ci sono ancora i segni dell’alluvione che c’è stata prima dell’estate e che ha allagato il seminterrato del palazzo, incluso il loro appartamento. Il legno della porta, in basso, è tutto rigonfio. Claudia prende un bel respiro. È a casa, ormai. Apre la porta. Il rumore della tv. Le risate del pubblico e le battute del conduttore. L’odore di casa. «Antonio!». Antonio Dionisi appare in fondo al corridoio d’ingresso. Indossa un paio di pantaloncini di acetato e una maglietta blu. In mano, un piatto con un tramezzino al salmone. La penombra del corridoio gli nasconde gli occhi, che con ogni probabilità sono spalancati, allarmati, confusi. Perché Claudia lo chiama così forte? Che ha fatto? Claudia corre lungo il corridoio. Lo abbraccia. Poi si scosta e gli tira uno schiaffo a mano aperta sul petto. Il volto le si contrae per la rabbia. «Non mi rispondevi. Perché?». Gli occhi di lei, gonfi di lacrime, aspettano la sua risposta. Antonio non dice nulla. Lei lo scuote, poi lo supera e va in cucina. Si siede sulla poltrona. Prende la borsa e tira fuori il dvd di Scoop, appoggiandolo sul tavolino basso. Sente Antonio che posa il piatto sul tavolo e va verso di lei, si ferma alle sue spalle e la abbraccia. Antonio è alto, la schiena un po’ curva, i capelli neri che non trovano mai una forma e le guance scavate. Somiglia a Claudia solo nel taglio


15 degli occhi, largo e sottile. Lei ha il volto piccolo e tondo, i capelli castani lisci, gli occhi di un grigio prezioso e inafferrabile, gli zigomi tondi tempestati di efelidi. Hanno la stessa risata, un po’ a singhiozzi. Antonio sta apparecchiando la tavola. Tovagliette a forma di animale, piatti, posate e bicchieri colorati. La coca-cola per lui, la birra per Claudia. «Com’è andata oggi?» domanda Claudia. «Bene». «In negozio, tutto okay?». «Sì. Tu? Tutto bene in redazione?». «A-ah. C’è molto da fare questa settimana. Forse organizziamo un festival». «Che bello». «Sì, ma solo se ci danno i soldi». Mangiano il pollo al curry in silenzio. Ogni tanto alzano lo sguardo, si osservano e sorridono. Se Antonio vuole innervosire Claudia, apre la bocca e le fa vedere cosa sta masticando. Lei si gira, disgustata. Poi gli tira la forchetta. In cucina hanno appeso qualche poster cinematografico, soprattutto film che piacciono a Claudia (American Beauty, L’ultimo metrò, Fanny e Alexander, Dogville) insieme alle locandine degli spettacoli in cui lei ha recitato. L’estate dell’anno prima hanno ridipinto le pareti di verde, un po’ per dare colore alla stanza, un po’ per nascondere le macchie d’umidità agli angoli, che non vanno mai via, che ritornano sempre. La padrona di casa, vedendo quel verde acceso, ha strabuzzato gli occhi, poi, sorridendo, ha detto che era un’idea stravagante ma carina. La padrona è una donna robusta dalla battuta facile. Il mese prima Claudia le aveva chiesto se era possibile aspettare una settimana per l’affitto, poiché era in affanno con altri conti. La padrona si era lamentata un po’, poi aveva accettato, a patto che non succedesse più. Finito di mangiare, Antonio prepara il popcorn mentre Claudia va in camera a cambiarsi. Quando lei torna, lui è seduto sul divano accanto alla poltrona chiara, con il popcorn sulle gambe. Ha già infilato il dvd nel cassettino del lettore. Ha già abbassato le luci. Claudia gli sorride. «Tutto pronto, Mr. Somewhere?».


16 «Certo… perché mi hai chiamato in quel modo?». «Mah,» fa Claudia, andando a sedersi sul divano. «Oggi ripensavo a quando avevi quell’amico immaginario. Ricordi?». Il fratello la guarda, meravigliato. «Sì, mi ricordo». Nel buio della cucina, le luci della tv si riflettono sui volti dei due. Nel cortile dietro il condominio, un gruppo di ragazzi fuma sigarette e chiacchiera. Nell’appartamento sopra a quello di Claudia e Antonio, una donna anziana sta appoggiata al davanzale della finestra e osserva il buio della notte nel parco. Dietro di lei, una lampadina nuda al soffitto e un televisore acceso su un canale rumeno.


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2

«Ti ricordi la prima volta che mi hai parlato di Mr. Somewhere?». Antonio la abbraccia da dietro, sul letto di lei. Stanno sdraiati al buio. Da fuori arrivano le risate e le chiacchiere delle persone che si raccolgono davanti a un chiosco-bar, tra il parco e la statale. Gruppi di ragazzi e prostitute. Tutti illuminati dal neon azzurrognolo montato sopra il furgone. Vicino, le macchine sfrecciano a gran velocità. «No, non di preciso». «Stavamo giocando a nascondino». «Nella rimessa del nonno?». Claudia sorride con un sospiro. «Io il nonno me lo ricordo così severo». «Lo era. Non ci faceva mai giocare. Aveva sempre quel broncio». «E schiumava ai lati della bocca». «E sapeva di vino». Ridono. Claudia si gira e comincia ad accarezzare i capelli di Antonio, lunghi e un po’ secchi. È una serata tranquilla, piacevole come Claudia aveva immaginato (e sperato). I ricordi scivolano uno sull’altro, il passato viene raccontato a voce bassa. La luce esterna dei lampioni penetra dalle fessure delle tapparelle. Disegna parzialmente i loro tratti. Nell’aria c’è ancora l’odore di patchouli diffuso dall’incenso di Claudia. Copre l’odore di fritto che a volte arriva dalla rosticceria cinese. Camera da letto. Due letti singoli ai lati della stanza. Sulla scrivania ci sono libri di teatro, opuscoli di festival, rassegne e spettacoli. Sulla parete dietro la scrivania c’è una piccola locandina del Gabbiano diretto da Nekrosius. Accanto, un tavolino basso con uno stereo e una colonna porta cd. Sul display dello stereo appare il numero 11, l’ultima traccia


18 di un cd appena finito, i Notturni di Chopin. Ai piedi dei due letti, l’armadio grande quasi quanto la parete. «Eppure io i pomeriggi dal nonno me li ricordo divertenti» dice Antonio, sdraiandosi sulla schiena. «Mah, io mi annoiavo. Non vedevo l’ora di tornare in città». «Menti. In realtà eri tu a coinvolgermi in tutti quei giochi». «Appunto. Se non lo facevo, mi annoiavo». «E Paolo? Te lo ricordi Paolo?». «No. Perché?». «Ma sì, quel ragazzino che ogni tanto veniva a giocare con noi. Paolo Bianchi. Aveva una bici bellissima». «Anche tu ne avevi una molto bella. Papà l’aveva pagata molto». «Non è questo il punto. Possibile che tu non ti ricordi di Paolo? Grassoccio, permaloso, che ci raccontava di quando rubava le mutande della zia dal cassetto». «Ma come fai a ricordarti queste cose?». «È stato un bel periodo, quello. Ecco perché me lo ricordo». «Ci divertivamo molto, in campagna». «Ti ricordi quella casa abbandonata dove andavamo a giocare?». «No, quale?». «Una villa. Una bellissima villa, in rovina. Facevamo finta di essere ricchissimi in un castello meraviglioso. Anzi, tu eri la Regina e io il Re». «Ora mi ricordo! Che scemi eravamo ad andare in posti come quello». Antonio sospira. Nel silenzio, Claudia prova a richiamare alcune immagini della sua infanzia. Può vedere il colore dell’erba illuminato dalla luce del sole a metà pomeriggio. Le rughe sulle guance del nonno, profonde come crepe nella terra. Quelle lunghe ore di ozio. Il cinguettio degli uccelli, il frinire delle cicale. Immaginare il campo di papaveri dietro la rimessa del nonno le porta malinconia. Vorrebbe afferrare quell’immagine, ma le scappa via, è inevitabile. E allora Claudia pensa a suo fratello e prova un certo terrore all’idea di perderlo. All’idea di tornare a casa e trovarlo morto. Più cerca di allontanare quel pensiero, più la sua mente ci si sofferma. Claudia, d’istinto, si gira e abbraccia Antonio.


19 Tape 1 [START] L’appartamento in cui vivevamo da piccoli aveva le finestre che davano sul parco. Il parco era grande, pieno di gente, dove si poteva correre e fare picnic. Il sabato pomeriggio era il momento di maggiore armonia, in famiglia. Quando finiva di esercitarsi al pianoforte, Lui mostrava le immagini di un libro e ci chiedeva i nomi dei dinosauri. Non ammetteva errori. Io e Claudia correvamo intorno alla tavola in salotto. Chi sapeva il nome si fermava e lo urlava. Poi tutti insieme ci mettevamo a ridere. Lei intimava a tutti di stare zitti, perché stava seguendo la soap in tv. Ricordo la luce del sole che entrava dalle finestre e come si posava sugli oggetti nella stanza. Ricordo l’odore. Verso le cinque andavamo a giocare nel parco. Nel weekend Lui teneva la barba. E, se era inverno, indossava un cardigan di lana grigio che gli aveva cucito sua madre. Un sabato feci i capricci perché non mi andava di mangiare il secondo. Era un pranzo in cui tutti erano nervosi per qualcosa. Lei si alzò e venne da me, provando a farmi mangiare. Lui aveva gli occhi sottili come fessure, e mangiava troppo velocemente. Vedevo le sue dita che si stringevano intorno alla forchetta, le nocche che sbiancavano. Lui cambiava spesso d’umore. A volte se ne stava seduto in salotto, a fumare o a guardare nel vuoto. In silenzio. Al lavoro andava sempre tutto bene. La notte, Claudia si alzava dal letto e andava vicino alla porta della loro camera. Li ascoltava parlare a bassa voce, tra le coperte. Portali dal nonno, il prossimo weekend, diceva Lei. Portali dal nonno. Il nonno viveva in Toscana, in un vecchio podere. Teneva ancora le galline e i maiali. C’era un uomo che di tanto in tanto gli dava una mano. Il nonno lo trattava malissimo e Claudia si chiedeva sempre perché quello continuasse a venire. Il nonno aveva le gambe arcuate e le mani tozze e grosse come dei panini. Si svegliava alle sei, e aveva sempre un buon motivo per odiare il mondo. Inoltre, non sapeva abbracciare. Quando io e Claudia andavamo a trovarlo, o ci stringeva troppo forte o troppo blando: non trovava mai la misura giusta. Lui, però, ci aveva detto di non dire nulla al nonno, perché ci sarebbe rimasto male.


20 Il nonno cucinava bene. A volte bruciava la carne. Però il resto gli riusciva niente male. La notte, Claudia e io dormivamo in quella che era stata la camera da letto dei nonni. Il nonno si accontentava di una vecchia brandina in uno stanzino in fondo al corridoio. Era tutto ciò che gli serviva. Le lenzuola sapevano sempre di pulito, nonostante dalla finestra salisse l’odore del pollaio che non era proprio piacevole. Il nonno ci svegliava alle sette, sostenendo che non fa bene rimanere troppo a letto, la mattina. Bevevamo il latte inzuppandoci il pane perché non c’era altro, poi andavamo a dare una mano al nonno nell’orto e con gli animali. Infine, il nonno ci dava il permesso di andare a giocare nella rimessa, non più oltre. Lui veniva a riprenderci alle quattro del pomeriggio della domenica. Tornavamo a Roma con la radio accesa e sintonizzata sulle partite di calcio. Lui esigeva il massimo silenzio quando giocava la Roma. Prima di arrivare, ci fermavamo al supermercato per fare la spesa per la sera. Lei non veniva mai dal nonno. Non le piaceva la campagna. Non le piaceva il nonno. Aveva un profumo denso che spruzzava a volontà sotto il mento. Le mani, lunghe e nervose, non stavano ferme un attimo. «Che cosa avete fatto? Dove siete stati?». «Per quale diavolo di motivo avete i pantaloni sporchi?». In tarda primavera, il campo dietro la rimessa del nonno si copriva di papaveri. Era un vero e proprio mare rosso. Se ci si metteva a sedere e si guardava all’altezza dei fiori, si poteva ammirare un enorme e luminoso flusso d’insetti. [STOP]


21

3

Le nuvole del primo mattino sono state allontanate dai raggi del sole. C’è una luce abbagliante sulla scalinata della Chiesa di San Cristoforo. Gruppi di persone si attardano a chiacchierare all’esterno della chiesa. Due signore anziane scendono a fatica, appoggiandosi l’una all’altra. Tra i due alti portoni intarsiati, così piccolo al confronto, appare un uomo. Corruga lo sguardo alla luce del sole, poi prende una sigaretta dal taschino e se la accende. «Don Livio», lo chiama una voce femminile. Lui si gira, si mette una mano davanti alle sopracciglia per parare la luce e individua la ragazza con i capelli rossi e il cappotto chiaro che lo ha chiamato. «Claudia, non ti avevo visto dentro». Claudia sale gli ultimi due gradini e gli va vicino. «Ero seduta in fondo. Bel sermone, comunque». «Grazie. Qualcosa non va?» chiede lui, notando una leggera inquietudine negli occhi della ragazza. «Posso offrirti un caffè? Ho bisogno di parlare». «Bene, dammi cinque minuti… e il caffè te lo offro io». Sulle scale, adesso, c’è solo lei. Dal retro della chiesa provengono gli schiamazzi di alcuni ragazzini che stanno giocando a calcio. Don Livio esce nuovamente indossando una giacchetta blu, sulla divisa nera. Sorride a Claudia e le posa una mano sulla spalla. Vanno al bar di fronte alla chiesa. Claudia ordina due caffè e due paste alla crema. Si siedono fuori. Don Livio si accende un’altra sigaretta. Ha una leggera barbetta rossa sul mento e sulle guance. I suoi occhi verdi e un po’ acquosi studiano la ragazza che ha di fronte. «Allora, Claudia, che succede?».


22 Claudia sistema la borsa accanto ai piedi, posa i gomiti sul tavolo e appoggia il volto tra le mani. Sorride al prete, poi abbassa lo sguardo, come per cercare con gli occhi le parole giuste. Intanto arriva il cameriere con il vassoio. Claudia toglie i gomiti dal tavolo il tempo necessario al ragazzo per distribuire le ordinazioni. Vicino a loro si muove il traffico della via. Dall’altra parte della strada le persone sostano brevemente davanti alle vetrine, si raccolgono intorno alla fermata dell’autobus. Nella striscia di verde tra le due carreggiate, seduta su una panchina, una donna in tuta da ginnastica grigia sta ridendo tra sé e sé. «Succede che è un casino» dice Claudia, sbottando in una risata isterica. «Non ce la facciamo ad arrivare a fine mese. E non è uno scherzo. Io faccio due lavori, Antonio ha trovato il posto in libreria. Ecco, non basta. L’affitto, e le bollette. Abbiamo venduto la macchina. Non è servito». Claudia si appoggia allo schienale della sedia, prendendo un bel respiro. Voleva esordire con più calma, ma l’emozione ha preso il sopravvento. La luce del sole le illumina le efelidi sugli zigomi. Volta lo sguardo d’improvviso, trattenendo le lacrime. Don Livio attraversa il tavolo con una mano. La posa su quella di lei. «Perché non me ne hai parlato prima?». Claudia tira su con il naso e scuote la testa. «Perché credevo di potercela fare» dice, piegando la testa di lato e sorridendo tra le lacrime. «Perché credi di essere invincibile, di poter fare tutto da sola. Nessuno è invincibile, Claudia, e tutti abbiamo bisogno di un aiuto». Don Livio fa una pausa, dando un tiro alla sigaretta. «Non avete l’assicurazione di tuo padre?». «Quella è servita a pagare i suoi debiti. L’abbiamo riscossa tutta insieme». «Risparmi? Soldi messi da parte?». Claudia scuote la testa, sbarrando gli occhi con una certa enfasi. Don Livio non ricorda di averla mai vista così disperata. È sempre stata vivace, combattiva. Claudia è la ragazza che si ferma in chiesa a discutere con lui su Dio e sulla Bibbia. Gli viene in mente una cosa. Poi scuote la testa, pensa che sia meglio evitare di fare una certa domanda, per non


23 urtare la sensibilità di lei. Alla fine, però, le parole escono dalle sue labbra senza che lui possa farci nulla. «Vuoi che chiami tua madre? Posso farlo, per voi». Claudia tira su con il naso, prende nuovamente la borsa e si mette a cercare qualcosa che non trova. «Posso sopportare l’idea di essere povera» dice, con gli occhi bassi. «Non posso sopportare quella di andare a chiedere l’elemosina a lei». «È sempre tua madre…». «È un sacco di cose. Tranne mia madre. Tranne nostra madre. Ha mollato tutto quando più le è convenuto». Don Livio sospira, dà l’ultimo tiro di sigaretta e la spegne nel posacenere. Guarda verso la strada, osserva il passaggio delle macchine. «Credo che alla fine dovrò lasciare il lavoro a teatro. Troverò un altro lavoro, ben retribuito. Farò più turni e in questo modo, almeno, non salteremo più le cene». Don Livio prende il pacchetto di sigarette dal taschino. Ne prende una per sé e un’altra che allunga a Claudia. Lei la raccoglie e la porta alle labbra. «A volte è quello che serve per scacciare i brutti pensieri» dice don Livio. «Non ho brutti pensieri». «Sì. Lasciare il teatro è un brutto pensiero e una stronzata. E Dio mi perdoni per questo». «Non me lo posso permettere». «Il teatro è la tua vita. Hai lavorato tanto per questo. Ti sei impegnata nel creare l’associazione, nel portare avanti la rivista. Tu e la tua amica avete fatto tanti sacrifici. E poi reciti magnificamente». «Non è vero e lo sai». Don Livio sbuffa e si accende la sigaretta, poi allunga l’accendino verso Claudia. «Antonio? Come l’ha presa?». Claudia fa spallucce, sorride e si accende la sigaretta. «Lui nemmeno se ne accorge. È uno dei pregi di chi vive in un mondo tutto suo, no? Comunque, ora che lavora in libreria, sta bene. In questi ultimi giorni mi è sembrato un po’ assente. Tutto qui».


24 «Dovete farvi forza. Lui ha te e te hai lui. Siete pur sempre una famiglia». «Sì. Di disgraziati». «Non dire così, stupida». Finito il caffè, don Livio accompagna Claudia fino alla fermata dell’autobus. «Non vai a lavoro oggi?» le chiede. «Stamattina no, non vado in redazione. Mi riposo un po’. Oggi pomeriggio devo andare dall’altra parte della città, al negozio». Don Livio, accendendosi un’altra sigaretta, le sorride, con quei solchi sulle guance che lo fanno somigliare a Robert De Niro. «Sei una donna forte, Claudia, e un’ottima cristiana». Lei sorride e cerca il biglietto nella borsa. Il prete alza gli occhi al cielo. Le nuvole sottili sono tornate a velare il sole, offuscandone la luce. «Si guasta anche oggi. Pare che l’estate sia finita, vero?». «Meglio» risponde Claudia, guardando l’autobus che arriva. «Questo è il mio. Vieni a cena domani sera, così saluti Antonio?». «Beh, potrebbe venire a messa, qualche volta». «Lo sai com’è fatto. Allora, vieni o no?». «Solo se posso portare il vino». «D’accordo. Ti aspettiamo per le otto». Claudia sale sull’autobus. Si siede in fondo e con la mano saluta don Livio, mentre l’autobus riparte. * Antonio è seduto sul letto, in canottiera e mutande. Intorno a lui le ombre della stanza, appena sfiorate dalla luce tiepida che entra dalla finestra, in alto. Sembra respirare a fatica, come se gli mancasse l’aria. Ogni tanto si alza e va alla finestra, dà un’occhiata alzandosi sulle punte dei piedi, poi torna indietro. Un’ora prima avrebbe dovuto prendere l’autobus per andare a lavoro. Ma non l’ha fatto. Sapeva che non l’avrebbe fatto. Ha mentito a Claudia dicendole che sarebbe andato a lavoro. Alza lo sguardo. Nota una lunga macchia nera sopra l’armadio. Nasce nell’angolo della parete e prosegue a leggere volute verso il centro. Sopra la sua testa vivono i rumori degli altri appartamenti. Tv accese, persone che parlano, persone che gridano, bambini che corrono.


25 Torna alla finestra. Guarda fuori. Vede la strada e, più lontano, i tronchi degli alberi nel parco. Ogni tanto passa qualcuno. Questa mattina si è svegliato senza alcuna voglia di uscire. Dopo essersi tolto il pigiama, si è seduto sul letto e si è lasciato sopraffare dai pensieri. Ha pensato a un sacco di cose, forse ispirate dalla conversazione avuta con Claudia la sera prima. La casa del nonno, la casa dei genitori. Lo sguardo fisso sull’armadio di fronte. Sono passati i minuti, poi è trascorsa un’ora. Andare fuori, prendere l’autobus, entrare in libreria e accogliere i clienti sono diventate azioni impossibili, aliene, distanti galassie dalle reali possibilità del suo corpo. Quella macchia nera a volute si allunga in una spira che scende dietro l’armadio. Non cambia nulla se non va a lavoro un giorno. Domani la libreria, le persone, il mondo saranno sempre al solito posto. Non c’è fretta.


26

4 STRIGE (SIENA)

Giuliano Righi, di professione Commissario di Polizia, vivrebbe volentieri dentro American Graffiti. La sua passione è la musica a stelle e strisce prodotta tra gli anni ’50 e i ’60. A casa, in garage, rigorosamente coperta da un telo protettivo, ha una Plymouth del ’58 comprata direttamente negli Stati Uniti e arrivata via mare. In un cassetto della sua scrivania conserva, protetto da una busta di plastica trasparente, il documento che ne attesta la provenienza (Maine) e il passato (apparteneva a un certo Cunningham). Ogni domenica, quando c’è il sole, la tira fuori, la lava con estrema cura e ci fa un giro. Adora sentire quel particolare suono del motore, osservare la cromatura sulle fiancate che scintilla. È un momento di raccoglimento e adorazione, per lui. Un po’ come ascoltare Ben E. King che canta Stand by me. La sera, prima di andare a letto, beve un goccio di bourbon. La mattina, a colazione, si fa preparare dalla moglie due uova, il bacon e il caffè allungato con l’acqua. Si è comprato una villetta nel comune di Strige, cinquemila abitanti circa nella Val d’Orcia. Di sera, quando torna da lavoro e ha un po’ di tempo, esce subito in giardino a giocare a basket con il figlio (ne ha due, l’altra è femmina). In tv guarda la Cnn e i canali sportivi americani. E tifa New York Knicks. Giuliano Righi, negli Stati Uniti d’America, non ci ha mai messo piede. Se l’avesse fatto, probabilmente ci sarebbe restato e sarebbe diventato un classico ispettore di polizia americano, con un trench chiaro un po’ sciupato, un completo color marrone, la camicia grigia, la cravatta scu-


27 ra. Avrebbe avuto il distintivo superdorato e il caffè americano di Starbucks; la birra Miller al bar e le chiacchiere con gli amici sull’ultima partita dei Knicks. È considerato un fissato, un idealista, un romantico. Un uomo abbastanza forte da tenere ben salde le redini della sua famiglia. La telefonata gli era arrivata in un albergo di cui non ricordava il nome. Era a un’ora da Roma. Lei si era appena alzata per andare al bagno. Le aveva osservato il fondoschiena mentre camminava verso la porta. Nella sua testa suonava l’intro di Duke of Earl, e la voce bassa di Gene Chandler. Era castana, i capelli lisci fin quasi sulle spalle. Pensava che sarebbe stato più difficile, più doloroso, invece tradire sua moglie era accaduto in pochi attimi, attimi in cui si era messo sopra G. e l’aveva scopata. Niente più di una fornicazione. Solo che non riusciva a spiegarsi il perché fosse finito in quel letto anonimo d’albergo con una donna che a malapena conosceva. Anche questo era accaduto in poco, pochissimo tempo. Una collega. Stava indagando su un traffico illecito di armi nella zona di Firenze ed era passata in Questura per dei documenti. Si erano conosciuti e avevano preso un caffè insieme. Si erano ritrovati il lunedì dopo a un convegno a Roma. Le cose, se vogliono precipitare, lo fanno molto velocemente. Infine la decisione, l’albergo, l’odore di lei che gli sbatteva forte in faccia. L’idea di sua moglie e dei figli che vivevano altrove. La telefonata lo aveva distolto dai suoi pensieri. Si era cambiato d’abito, aveva indossato il completo marrone (fatto su misura), era salito in macchina e aveva pigiato a tavoletta fino a Siena, direzione Strige. Era una bellissima notte, dalla temperatura tiepida, con le stelle che brillavano forte nel cielo. Giuliano guidava come sempre con uno stuzzicadenti tra le labbra e le mani ben salde sotto il volante. La villa dei Tozzi si trovava nella parte sud del paese, vicino alle fabbriche. Oltre la schiera di villette nuove, costruite su un lotto di terra rimasto abbandonato per anni, cominciava il bosco, con gli alberi che seguivano il profilo della collina verso l’alto. Giuliano aveva superato il passaggio a livello e aveva svoltato su un viale illuminato dai lampioni. Due ragazzini andavano in bicicletta sul prato. Si fermarono per osser-


28 vare la macchina del Commissario. Giuliano aveva svoltato sul viale di accesso alle villette, una uguale all’altra, e aveva parcheggiato accanto a quella dove c’era più movimento. Luci lampeggianti, uomini in divisa. Vicini curiosi che spiavano dal cancello. Era sceso dall’abitacolo abbottonandosi la giacca del completo. Un agente gli era subito venuto incontro. «Venga, Commissario, è di sopra» aveva detto, e Giuliano aveva notato il modo in cui il ragazzo gli fissava il colletto della camicia. «I genitori?» fece lui, con tono sbrigativo. «Sono stati accompagnati in Questura, sono…». «Lo so come sono» lo aveva interrotto il Commissario. Entrarono in casa. Gli uomini della scientifica stavano esaminando il salotto. Flash fotografici illuminavano d’improvviso le stanze di una luce bianca e ghiaccia. In uno specchio, Giuliano aveva notato la macchia di rossetto sul colletto della camicia. Ecco cosa stava fissando l’agente. «La sua migliore amica era venuta a controllare che stesse bene» aveva spiegato l’agente, un ragazzo con i capelli rossi e un brufolo evidente sulla guancia sinistra. «Alessia Tozzi non rispondeva e l’amica, preoccupata, ha telefonato ai genitori. Loro sono accorsi subito e l’hanno trovata… Non c’erano segni di scasso» aveva aggiunto l’agente dopo aver fatto una pausa balbettante. «La porta era stata chiusa a chiave dall’interno». «Quindi l’omicida era in casa» aveva sottolineato Giuliano. «Forse sì». «Non te lo sto chiedendo, è sicuro che fosse in casa». L’agente aveva balbettato ancora una volta, indicando le scale. «Le tracce di sangue portano in camera sua. Deve aver provato a scappare e a chiudersi lì». Salirono di sopra. Nel corridoio c’era una porta aperta. Un uomo stava scattando fotografie sulla soglia. Giuliano si era affacciato. Una classica stanza da adolescente. Poster di gruppi musicali e divi di Hollywood, biglietti di concerti attaccati alle pareti, montaggi di fotografie. Una scrivania con un diario, un portapenne pieno di matite colorate ed evidenziatori. I libri di scuola. Un cuscino bianco con una scritta rossa sul letto. Il sangue era schizzato su ogni cosa. Sangue e qualcos’altro.


29 C’erano due uomini con le tute bianche protettive. Il medico legale stava analizzando ciò che rimaneva di Alessia Tozzi. Giuliano Righi avvertì una specie di ronzio in testa. Strige è un comune tranquillo, i casi di cronaca si contano sulle dita di una mano. Una quarantina di anni fa un figlio accoltellò i genitori, quando a Strige vivevano in pochi. Poi qualche lite tra i paesani, qualche ferito. Un suicidio, nei primi anni ’90. Un bambino morto in un incidente poco dopo. Poi, più nulla. Adesso, Alessia Tozzi. Giuliano ha appena parlato con l’anatomo-patologo, a seguito dell’autopsia, che è servita a confermare ciò che con molta facilità il medico legale aveva annotato sulla scena del crimine. Un raptus di follia. Una barbarie. L’attempato dottore parlava con un trasporto e un pathos che andavano aldilà della sua professione. C’era da capirlo, aveva pensato Giuliano, probabilmente non gli era mai capitato un caso così in tutta la sua carriera. Cose del genere si vedono solo nei film. Quelli troppo violenti. L’assassino si è scagliato sulla ragazza con la forza e la brutalità di un orso grizzly. L’ha strangolata e poi ne ha straziato il corpo. «Mi creda, Commissario, non vorrei andare avanti ma il compito che ho lo richiede. Alessia Tozzi è stata squartata, sventrata e… mangiata. Almeno in parte. Qualcosa deve aver distratto questo mostro, costringendolo a scappare». Una notte quasi infinita. Come in un film noir. Giuliano sta tornando in macchina verso Strige. I fari illuminano le curve e gli alberi ai lati della strada. I pensieri corrono come motociclette. Passa da casa a farsi la barba, a mandare giù un po’ di caffè. La moglie gli arriva alle spalle, mentre il caffè sta per venire su. Vede le sue mani apparirgli davanti. Il neo sul palmo sinistro. Come stai? Gli chiede. Non ci capisco nulla, ecco come sto. Perché non dormi un po’? Devo tornare in Questura, sospira lui, versando il caffè nella tazzina. Dobbiamo far veloci. Arriverà la stampa, arriverà il mondo. La notte si è posata su Strige, portando un clima mite, a differenza del freddo del giorno precedente. Il vento si è placato. Al pub in centro si


30 parla dell’omicidio di Alessia Tozzi. C’è chi dice di aver sentito l’urlo straziante della madre provenire dalla villetta, dopo il ritrovamento del cadavere. Nella sua camera, Eli, alias Elisa, sta ascoltando la musica con l’iPod. La madre bussa ed entra. Prova a parlare con la figlia, ma non le riesce tanto bene. Eli si butta sul letto e scoppia in lacrime. È una di quelle notti in cui si va a letto tardi. La tensione nell’aria ti spinge a restare a parlare con gli altri, piuttosto che ad andare a metterti sotto le coperte, al buio, e cominciare a pensare. Le finestre nelle case sono illuminate. Si fanno supposizioni. Al circolo, nella parte nuova del paese, Dante Bendinelli e Gino Volpi, giocando a biliardo, danno la colpa alla tv, e a tutta la violenza e il sesso che ci sono dentro. In via Verdi, nell’appartamento al numero quattro, Antonio Avanzati, parlando con la moglie, racconta che Alessia frequentava un giro di ragazzi strani, pieni di anelli e tatuaggi. Uno di loro potrebbe aver messo le mani addosso alla ragazza. Daniela, la moglie, risponde che forse si è trattato di quei riti satanisti. Dall’altra parte di Strige, nel centro storico, al primo piano di una delle palazzine più vecchie, Giampiero Vitaro è seduto al tavolo, sta bevendo una birra, tossisce spesso, e dice al padre che sicuramente è stato qualche albanese o qualche rumeno, e che forse è la volta buona che li rimandano al loro paese. O che gli danno fuoco, ringhia il padre. Strige è un piccolo comune tranquillo. Sul cellulare di Giuliano è appena arrivato un sms inviato da G. Dove sei? Ti rivedrò? Eli, nel suo letto, piange ora in silenzio. Tra le mani stringe una fotografia di lei e Alessia, scattata vicino all’entrata di una discoteca. Alessia porta una minigonna. È la sera che uscirà con Alessandro per la prima volta. Un vento più freddo scende dalla collina e attraversa le vie di Strige. Nel profondo del bosco, oltre le villette nuove, una civetta manda il suo acuto richiamo. Un paio di occhi gialli brillano nell’ombra, poi scompaiono. Fine anteprima. Continua... Anche in ebook da maggio 2014 a 54,99 euro


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