Luoghi d'ombra, Chiara Guidarini

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CHIARA GUIDARINI

LUOGHI D’OMBRA ODI ET AMO IL MISTERO DI RED HOUSE

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ LUOGHI D’OMBRA Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-481-6 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Luglio 2021


Ad Anna, Catia, Laura, Roberta, Stefania (rigorosamente in ordine alfabetico)



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PROLOGO

1925 La casa era là, come sempre, ferma, immobile, immutata. Si stagliava verso il cielo, incurante del transito del tempo, fiera osservatrice delle stagioni che si susseguivano intaccando lentamente il suo atavico splendore. Composta e austera, in quello stile leggermente liberty, con le sei colonne che sostenevano il lungo terrazzo, sembrava una vecchia dama che non voleva rassegnarsi alla decadenza. L’edera era cresciuta ma, invece di essere invadente, aveva avvolto il colonnato conferendo un naturale fascino a un edificio altrimenti trascurato. Osservavo tutto questo mentre rientravo dalla passeggiata mattutina. Vedevo le importanti finestre, con le persiane spalancate e i pesanti tendaggi scostati. Vedevo il vaso di gigli che avevo posto sulla balaustra in cucina, che si accompagnava al colore delle tende. Mi ero domandata quanti altri fiori fossero stati appoggiati su quel davanzale, e quante altre mani avessero composto freschi mazzi da sistemare dentro al vaso. A quel vaso. Sentivo il profumo dei gigli ma sapevo che era solo nella mia mente. Lo sguardo mi si era posato sulle lapidi. L’edera aveva avvolto anche loro e la vegetazione aveva quasi del tutto coperto le iscrizioni. Mancavo da troppo tempo. Mi strinsi nello scialle cercando di evitare il brivido che mi stava correndo lungo la schiena ma, quando un uccello emise un grido gutturale, non riuscii a soffocare un’esclamazione. Accelerai il passo e arrivai alla casa quasi di corsa. Il cancelletto era solo accostato e, incontrando lo sguardo interrogativo di Sam, le sensazioni che provai furono due e opposte: smarrimento e pace. Ero stata una sciocca a farmi prendere dal panico per aver sentito il verso di un uccello.


6 Sam smise di guardarmi. Sembrava intento ad ammucchiare cataste di legno e non volevo nemmeno sapere che cosa volesse farne. Mi teneva pulito il giardino, badava alla casa in mia assenza, e questo bastava. Percorsi i tre scalini che mi separavano dalla porta d’ingresso e mi stupii solo in parte di trovarla aperta: l’unica persona che aveva il doppione della chiave era anche l’unica che stavo attendendo. Il cuore mi salì in gola e ora la mia acclamazione fu di pura gioia. «Ishmael!» la voce si perse nel limbo del corridoio deserto. Le porte, disposte come tanti generali in fila, mi osservavano davanti alle stanze chiuse. Apparentemente nessuno aveva violato la loro placida quiete. «Ishmael!» chiamai ancora, sbirciando nel corridoio, oltre le porte, pensando – sperando – che fosse uno scherzo. Lui mi avrebbe risposto di sicuro, lui non faceva giochi idioti. Lui non conosceva la casa. Salii le scale di corsa. Avevo le mani sudate. Perché non rispondeva? L’avevo chiamato una, due, tre volte. La gioia si stava tramutando in ansia, accompagnata in lontananza dal pianto del neonato. Pensai distrattamente che avesse fame. O che avesse paura. Le impronte delle mie suole rimasero sul tappeto e solo allora notai che erano le uniche: di sicuro nessuno era passato di lì. Dovevo cercare di tranquillizzarmi. Ma per quanto provassi, la casa mandava segnali che io percepivo a un livello superiore, al livello dell’anima. Provai un improvviso bisogno di piangere. “No, non ora”, mi dissi. Tornando sui miei passi, cercai di convincermi del fatto che Ishmael sarebbe arrivato, che avremmo pranzato sul terrazzo o in veranda, che avremmo trascorso la nostra vita insieme in quella casa. Io ero arrivata la sera precedente e lui mi avrebbe raggiunto nella mattinata. Sarebbe arrivato, era presto. Era presto. “È presto”. Mi ripetevo mentre lasciavo il corridoio ed entravo in cucina. Lì, tra le luci di metà mattina che s’incontravano con i candidi tendaggi, sdraiato tra i gigli e i cocci di un vaso rotto che si mischiavano con lo scarlatto colore del sangue, era riverso il mio Ishmael.


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CAPITOLO 1 IMRYEL DAVIS: Ritenuta incapace di intendere e volere, Età 29 anni

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 8:30 L’alba portò con sé una mattinata impregnata dell’odore della pioggia, dell’erba bagnata e dei gigli. Aprii gli occhi, distesa su un tappeto polveroso e mi guardai attorno per identificare la stanza. Ero di nuovo nella casa. Non mi ero accorta di piangere finché non sentii le lacrime scendere lungo il braccio sui cui era appoggiato il mio viso; allora mi feci forza e mi sollevai, riflettendo il volto nello specchio impolverato. I miei boccoli biondi non erano che riccioli disordinati e il viso deliziosamente ovale era pallido, smunto. Sporco. Passai la punta delle dita sulla superficie, scostando la polvere e aprendo scie differenti, rivelando una me stessa stanca, che mi scrutava tra il grigio del pulviscolo e la luce del giorno. Il sogno era tornato. Avevo rivisto, ancora una volta, quello che era accaduto tredici anni fa, dentro quelle stanze, in quella casa, in quel luogo. Gli anni trascorsi che mi avevano condannata a un oblio senza fine avevano sancito la mia crescita cristallizzando la tragedia in un passato senza tempo, come se gli eventi si riproponessero ogni dannata notte in quella casa. Lì avevo rivisto il sorriso di Louise, la determinazione di Michael, il bellissimo, dolce e amato viso di Ishmael. Nel sogno, tornavano a vivere. Nel sogno io ero libera. Con i piedi scalzi mi avviai verso l’esterno, scesi le scale senza curarmi di chiudere la porta e attraversai il vialetto. Se c’era qualcuno che lavorava in giardino, non lo degnai di uno sguardo. Stavo camminando lungo la strada, con la coperta appoggiata su una spalla e la camicia da notte bianca e sporca che ondeggiava avanti e indietro, quando l’automobile che arrivava in senso inverso si arrestò. Era lo stesso, identico, copione che si ripeteva da giorni.


8 Roland Ferguson mi osservava da dietro il parabrezza, e il suo sguardo era un giusto compromesso tra irritazione e divertimento. Ispettore di polizia, era lui ad avermi consegnato alla mia prigione tanto tempo prima. Ed era lui che mi recuperava ogni mattina. Non si diede nemmeno la pena di scendere, sapeva che sarei salita in auto senza fare storie. Mi gettai sul posto del passeggero, come sempre. Non parlò. Invertì la marcia e ritornò verso il paese, abbandonando la casa. La guardai diventare sempre più piccola fino a scomparire del tutto. Mi sentivo vuota. «Come stai, Roland?» gli domandai, per iniziare un discorso. «Come tutte le sante mattine da quando ti recupero qui. Ormai vengo a prenderti prima di andare a lavorare.» Guardando la sua mascella eternamente piegata in avanti e lo sguardo serioso, gli domandai debolmente se non si fosse stancato di “recuperarmi ogni santa mattina”. Roland Ferguson, trent’anni, scapolo, era l’uomo più incomprensibile del mondo. Sulla fede che aveva al dito, si erano fatte congetture su congetture, ma io sapevo che non c’era alcuna donna nella sua vita. «Non ho molta scelta. Se non ti riporto indietro, scatteranno delle denunce di scomparsa, e allora dovrò penare il doppio. Tanto vale…» «Non mi hai risposto. Ti ho chiesto come stai.» «Come sempre.» Dovevo accontentarmi. «Non mi riportare là, Roland» gli dissi con voce atona. Non era nemmeno un’implorazione. «Smetterò di portarti alla struttura quando smetterai di scappare.» Se c’era una cosa che ammiravo in Ferguson, era la capacità di non mostrare alcun sentimento mentre parlava. Il volto era svuotato di ogni espressione e la voce totalmente spenta. Come un automa. O un uomo privo di emozioni. «Non è una struttura, è un posto per matti e io non sono matta, lo sai.» Certo dovevo sembrargli strana, con i capelli strappati, un camicione bianco, scalza e con una coperta su una spalla. Non avevo certo l’aspetto di una sana di mente. «È la diciassettesima volta che ti ritrovo lungo questa strada, Imy. Passi la notte alla villa? Ti vedi con qualcuno? Dimmelo, non ho intenzione di stendere un verbale d’accusa per questo!»


9 Sprofondando nel sedile, mi avvolsi anche nella coperta. Me lo chiedeva tutti i giorni. E poi ero io quella pazza. «Mi vedo con Ishmael» dissi in tono piatto. Come al solito, dal suo viso non trapelò alcuna espressione. Probabilmente era felice di essere arrivato e di potersi liberare di me. Fermò l’auto davanti alla struttura. Invece di invitarmi a scendere, si girò e mi fissò dritto negli occhi. «Imy se hai qualcosa da dirmi, qualcosa di sensato, ti ascolto.» Calcò su quel “sensato” come se per tutti quegli anni non gli avessi detto che sciocchezze. Gli lanciai un sorriso stanco, di circostanza, mentre aprivo la portiera. «Imy, vorrei la tua parola che la smetterai di uscire di notte, e…» «Prometto che non lo farò più» dissi in tono sarcastico, non lasciandogli nemmeno il tempo di parlare. Scesi dall’auto ed entrai nel manicomio.


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CAPITOLO 2 ROLAND FERGUSON: Ispettore, Squadra Omicidi – Spennington, Età 34 anni, Arma in dotazione: pistola d’ordinanza

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 09:30 Non era passata che un’ora dal mio rientro in centrale, quando arrivò uno dei giornalisti. Il solito, a dire il vero. Si trattava di John Smith, direttore del quotidiano Day, un giornaletto locale che si occupava di vecchi casi irrisolti e sciocchezze di vario tipo. Lo vidi scambiare qualche parola con Anita Stone, la segretaria, che gli indicò il mio ufficio. Ma non era necessario, non era la prima volta che Smith veniva da me. Alto, atletico, dannatamente giovane e perfetto nelle sue vesti da giornalista, bussò alla porta aperta chiedendomi il permesso di entrare. Gli feci cenno di accomodarsi, incapace di trattenere i veri sentimenti che albergavano in me in quel momento. Non ero mai felice di vedere Smith. «Agente Ferguson sa perché sono qui?» Fredda cortesia, tipico. Nonostante dimostrasse poco più di vent’anni, i capelli erano già leggermente brizzolati e il sorriso era sempre spento. Gli occhi d’ambra erano gelidi quanto il viso. «No, non mi pare che lei sia atteso» gli risposi con altrettanta fredda cortesia, ma lui non si fece intimorire. «Imryel Davis. Da diciassette notti esce dalla struttura Demil e torna alla Red House, la casa dove tredici anni fa furono uccisi i suoi amici. Vorrei sapere se c’è qualche sentore di riapertura del caso.» «Nessun sentore. Stiamo solo cercando di capire come mai la ragazza si comporta in questo modo. La saluto, Smith.» Nonostante il congedo, John Smith non si mosse. Non abbassò lo sguardo. «Non vuole sapere cosa ho da dirle?» Dovetti per forza fargli un cenno di assenso.


11 «Ha mai fatto fare una ricerca sui farmaci che le somministrano? Da come mi guarda direi di no. Lo Zentral è un farmaco che inibisce la mente.» «Da quando è diventato esperto in medicine, Smith?» lo canzonai. «Basta documentarsi.» Mi irritava il fatto che continuasse a sostenere il mio sguardo. «I farmaci somministrati a Imryel Davis sono stati definiti da medici specialisti, e non è mio compito sindacare su di essi.» «Imryel Davis si trova ospite di una struttura a causa di un vostro caso mal gestito» si accomodò su una sedia, sembrava ben determinato e cosciente di quello che stava dicendo. «È una deduzione sua. Si rilegga i giornali di allora e lasci che le sentenze le dia il giudice.» Come al solito, Smith non si lasciò intimorire. «Mi stupisce, Ferguson. Non può esserle sfuggito il fatto che il caso è stato chiuso troppo rapidamente.» Dorina Kennar, che da ex poliziotta era diventata giornalista, doveva averlo istruito molto bene su come, secondo lei, potevano essere andate le cose. «Mi dica lei, allora, qual è la verità dei fatti.» Lo sfidai con lo sguardo. Era chiaramente una provocazione. «Mi sono documentato sul caso, Ferguson: quei ragazzi entrarono in una proprietà privata, ma non vi siete nemmeno dati pena d’indagare sul motivo. La porta era aperta… perché?» «Dica a Dorina Kennar…» «Dorina non c’entra nulla. Basta parlare con Imryel. Io l’ho fatto, e ho avuto delle risposte.» Mi sentii pervadere da una furia immensa, tanto da stringere i pugni sul tavolo. «Non sarà stato al Demil?» Mi rivolse un’occhiata infantile ma, dietro alle lenti spesse, rideva di me. «E se anche fosse? È proibito visitare i pazienti?» Mi alzai con un movimento brusco, e con tre passi raggiunsi la porta e la spalancai. «Grazie per la sua visita, signor Smith. La prossima volta, la prego di prendere appuntamento presso la signorina Stone. Ora deve scusarmi ma ho cose urgenti da fare e non posso impegnare altro tempo con lei.»


12 Smith si alzò e, continuando a guardarmi, prese il cappello e mi lanciò un’occhiata cupa. «Quella ragazza è rinchiusa ingiustamente, e il caso è stato chiuso troppo in fretta» mi disse mentre usciva e, senza togliere gli occhi dai miei sferrò la bomba: «e lei lo sa.» Chiusi la porta alle sue spalle. Guardai la cartellina verde che spiccava sulla dattilo davanti a me. Il fascicolo relativo a Imryel Davis. Nuovamente mi sedetti e mi decisi ad aprirlo: carte su carte, fotografie, appunti, interrogatori e ancora non ero riuscito a ricostruire il passato di quella sfortunata creatura. Da quando l’avevo vista quella prima volta, tredici anni prima, camminare sotto l’acqua scrosciante e sporca di sangue, avevo capito che non si sarebbe trattato di nulla di semplice. A cominciare dalla sua mente. Smith non sapeva nulla, non si era nemmeno informato se non con la Kennar, e la sua arroganza mi aveva indisposto. La deposizione di Imryel era lì, nero su bianco, in pagine dattiloscritte. La ricordavo, Imy, piccola e spaesata, con i capelli raccolti, gli occhi velati di lacrime. L’avevo rivista, per la prima volta dopo mesi, dietro la sbarra di un tribunale. Aveva una camicetta bianca, il collo che rivelava una cicatrice scarlatta. DEPOSIZIONE DI IMRYEL DAVIS 14 OTTOBRE 1942 Mi chiamo Imryel Davis. Studio alla Madison School. Ero con i miei amici: Louise, Michael, Johanna, Ishmael. Stavamo rientrando da un pic-nic sulle rive del Rewender Lake, quando la tempesta ci colse di sorpresa. Né io, né Ishmael, muovemmo obiezioni quando ci proposero di rifugiarci presso la Red House. A Johanna non piaceva. Forse perché il porticato sembrava abbandonato da lunghissimo tempo, e mostrava tracce del passaggio di un vento forte che aveva spinto le foglie secche negli angoli e contro le colonne ricoperte d’edera. O forse per l’altalena che oscillava poco lontano a ritmo delle folate improvvise, aggrappata al tronco di una quercia che pareva centenaria.


13 Più Johanna continuava a chiedere di andarcene, più Michael, il suo fidanzato, si indisponeva. A un certo punto litigarono; lui alzò la voce, le disse che se non le andava bene ripararsi nella casa, poteva andare via. E Johanna se ne andò, corse via sotto l’acqua e dopo un attimo la vedemmo scomparire lungo il sentiero, nascosta dalla pioggia e dalla nebbia. Ishmael nel frattempo aveva aperto la porta e ci aveva invitati a entrare. «Quella scema si ammalerà» aveva detto Louise, anche se i suoi occhi brillavano. Michael era rimasto solo, la fidanzatina era scappata via e lui nemmeno l’aveva inseguita. Se per Louise c’era una possibilità di aprirsi un varco nel suo cuore, il momento era quello. Quanto a me e Ishmael, ci eravamo seduti su un tappeto davanti al camino spento. Ci mettevamo sempre lì a parlare. Era il nostro posto. Io e Ishmael eravamo innamorati da sempre, ma per qualche arcano gioco del destino non stavamo insieme. Lui era il fidanzato perfetto della ragazza perfetta, e nessun’altra coppia era meglio assortita della loro. Ora, lei era altrove e lui era con noi. Con me. Lui era bellissimo. Eravamo in classe insieme, eravamo insieme da sempre. Lui era tutto: sapeva gestire in maniera inimmaginabile i talenti che la natura gli aveva conferito, così scriveva, cantava, faceva sport e seduceva con le parole. Seduceva chiunque: giovani, vecchi, uomini e donne. Le sue parole risvegliavano coscienze sopite e capacità dimenticate. Rideva quando glielo dicevo, ma alla fine sapeva che era vero: con delicatezza aveva risvegliato la mia capacità di scrivere e narrare, con altrettanta dolcezza ispirato Louise a cercare nel proprio cuore i sentimenti che la legavano a Michael. Ishmael si faceva amare da tutti e non voleva nulla in cambio. «Stai pensando a Lola» mi aveva detto quella volta, mettendo fine al mio garbuglio di pensieri «diventi verde quando pensi a lei.» Feci per schiaffeggiarlo, gli bastò un sorriso per fermarmi. «Dovrei diventare nera» gli avevo risposto proprio così. «Lo sai che è una brava ragazza.» «Sarà brava a letto, forse.» Alla fine, per gli uomini, era quasi sempre una questione di sesso. Ma Ishmael no, lui valutava anche altre cose, o per lo meno, io volevo crederlo. Di nuovo si stava facendo largo quella strana conflittualità tra mente e cuore, dove uno diceva una cosa, l’altro esattamente


14 l’opposto. La ragione continuava a gridarmi di accettare la corte di Simon Marnet, ma il cuore vedeva in Ishmael l’ultimo dei romantici. «Diventi sempre più verde.» «E tu sempre più cretino. Quand’è che la mollerai?» Scosse le spalle. «Non credo che ci lasceremo. Lei mi piace molto. Andremo a vivere insieme, andrò via con lei.» «Ti piace o l’ami?» Mi guardò. Nei suoi occhi di cristallo non vi era nient’altro che la minuscola immagine del mio volto, brillante tra i suoi riccioli dorati. «Non è facile dire amore.» «A me l’hai detto» mi morsicai il labbro inferiore. Avevo promesso di non dirlo più. Infatti, lui mi guardò. Stava per parlare ma la voce squillante di Louise ci fece girare: stava dicendo che lei e Michael andavano a cercare un bagno. Ma rideva troppo, forse avrebbero perlustrato il secondo piano. Rimasti soli, carezzai il viso di Ishmael. «Dimmelo ancora. Lo so che è vero.» Scosse il capo. «Smettila, Imy. Sai che non avrei dovuto dirlo e non dovremmo nemmeno essere qui, io e te insieme. È pericoloso.» «Sì è pericoloso.» Ma era un pericolo che avremmo corso insieme. Imryel non aveva mai aggiunto altro. Per farle dire quelle parole era stato necessario farla seguire da personale specializzato. Al diavolo Smith e il suo “basta parlare con Imryel”. Ricordai la dottoressa Natasha Cook, gli occhi neri quanto i capelli, un bel sorriso che sembrava interessato ad andare oltre la professionalità che ci imponeva la risoluzione del caso. Lo sguardo catturò il suo rapporto di allora e la mente tornò a quella stanza di ospedale, dove la dottoressa teneva congiunte le mani sulla scrivania, la camicetta celeste col colletto sbottonato, la catenina che brillava sul collo. «La paziente ha trincerato la sua mente. Ha rimosso ogni cosa accaduta. È una forma di difesa.» Aveva parlato a lungo, di come il cervello potesse in qualche modo dimenticare cose avvenute, fatti spiacevoli, ma a quel tempo ero più propenso a credere che la ragazza mentisse.


15 Mi chiesi se quella Natasha Cook fosse ancora responsabile dentro la clinica e se, in tal caso, poteva ricevermi. Lasciai un appunto per Anita, in modo che mi fissasse l’appuntamento. Afferrando le carte rimaste, passai all’interrogatorio dattiloscritto di Johanna Wirburn, la ragazza fuggita dopo aver litigato con il gruppo. Ricordo che pioveva quel giorno, e sembrava proprio che il tempo si ribellasse al mondo intero, con le gocce che urtavano prepotentemente i vetri dell’aula del tribunale. Johanna sembrava più grande dei suoi diciotto anni. Osservandola mentre parlava avevo notato l’emozione che le colorava il volto, le labbra tremanti, gli occhi impauriti. Disse che dopo il pic-nic era cominciato a piovere, e aveva lasciato i suoi amici nella casa in fondo al viale. Raccontò che avevano trovato la porta aperta. Lei era spaventata perché su quella casa gravavano leggende, voci, dicerie di paese, e lei non voleva metterci piede. Disse di essere scappata sotto la pioggia battente, inzuppandosi fin dentro le scarpe, arrivando a casa raffreddata. Aveva avvertito i genitori che gli amici erano rimasti nella casa sulla collina. Erano stati loro a chiamare la polizia, affinché li recuperassero e li riportassero a casa. Io ero solo un agente alle prime armi, nella mia divisa da addetto, con i tergicristalli attivati della Triumph perché la pioggia battente nascondeva anche la strada, quando vidi comparire la ragazza, sconvolta, unica superstite di una carneficina insensata. Nel fascicolo di Imryel Davis c’era una grande foto in bianco e nero che la ritraeva a sedici anni, sorridente nella divisa scolastica. Spiccavano gli occhi, ardenti di vita e brillanti di un’intelligenza che un errore tragico e fatale aveva rabbuiato. Non era stata Imryel a uccidere i suoi compagni, di questo ero più che certo. Aveva le mani sporche di sangue ma solo perché aveva cercato di salvarli, e il sangue le era arrivato addosso “da tutte le direzioni”, aveva detto. Louise McLorell era stata ritrovata appesa al lampadario di una delle sale, e Michael O’Gennar galleggiava nella piscina piena di melma e acqua piovana. In entrambi i casi non c’era sangue sparso. Ma quello che era peggio, e che avrebbe costato a Imryel Davis la sanità mentale, era che continuava a parlare di un certo Ishmael, un ragazzo che non esisteva. Il caso era stato archiviato come omicidio-suicidio: Michael aveva ucciso Louise e poi si era tolto la vita a sua volta, tutto mentre Imryel


16 aveva sgozzato qualche gallina. La battuta non era piaciuta al giudice, ma non ero stato in grado di trattenerla quando era stato il mio turno di deporre. Non si capiva di chi fosse il sangue che la ragazza aveva addosso, che lei aveva continuato a dire “arrivava da tutte le parti”, e un po’ per questo e un po’ per un fantomatico fidanzato che doveva essere stato lì con lei quella terribile notte, fu spedita in una struttura idonea al suo stato mentale. Per anni andò tutto bene poi, da qualche tempo a questa parte, Imryel aveva iniziato a fuggire. No, non fuggiva. Usciva dalla struttura come se nulla fosse. Se ne tornava alla casa dove si erano consumati gli omicidi, e al mattino io la ritrovavo sempre lì, sulla strada del ritorno dalla Red House, sempre scossa, sempre sconvolta, come quella prima volta di tanti anni prima. Solo che oggi era accaduto qualcosa di diverso. Oggi mi aveva detto che era con Ishmael. Cosa che, prima di stamattina, non aveva mai fatto.


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CAPITOLO 3 JUSTIN HUGH: Agente, Squadra Omicidi – Spennington, Età 20 anni, Arma in dotazione: pistola d’ordinanza

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 10:30 Nonostante fossi il più giovane della centrale e mi affiancassero sempre all’ispettore Ferguson per imparare il mestiere, io avevo le mie personali teorie. In primo luogo, quella Anita Stone aveva due gran belle tette. Ogni volta che lo facevo presente a Ferguson mi sgridava, ma in una centrale serve anche questo. Una così ben dotata fa anche la sua bella figura, provate a contraddirmi. Arriva il tipo sconvolto perché gli hanno fregato il portafogli, lo accoglie Anita – sorriso e caffè – il problema sparisce. Provare per credere. Comunque, Anita era una venticinquenne in carriera, quindi non potevo sorvolare il fatto che fosse più grande di me, però lo confesso, quando lavoravo con lei tenevo sempre il tesserino in bella mostra e la pistola pronta a sparare. Poteva arrivare qualche malintenzionato e bisognava essere preparati. Quando finalmente il capo mi chiamò, stavo allacciando la pistola d’ordinanza in vita con l’intenzione di andare alla scrivania di Anita e chiederle qualcosa solo per attaccare bottone. Ma Ferguson aveva la priorità esclusiva sul mio agire in centrale, quindi avrei parlato ad Anita in un altro momento. Come al solito, l’espressione che mi mostrava era priva di qualsiasi sentimento, ed era impossibile capire cosa gli passasse per la mente. «Andiamo al Demil.» Ordine. Perentorio. Ubbidire. «Ah bene, al manicomio!» Mi lanciò le chiavi della macchina che presi al volo, e aggiunse: «Non prendere la pistola, scalda il motore che arrivo.»


18 Avvilendomi per il fatto di non poter prendere la pistola, ero comunque felice del contentino, cioè di poter guidare l’auto della polizia. Pensavo di passare dalla piazza, in modo che tutte le signorine a passeggio mi vedessero, ma Ferguson m’intimò nel prendere le vie secondarie, quindi dovetti abbandonare i sogni di gloria. Il Demil era veramente una struttura enorme e senza cuore. Un grande rettangolo bianco con finestre sbarrate e porte che sembravano invalicabili, anche se evidentemente non era proprio così, visto che qualcuno sembrava uscire felicemente tutte le notti. Quel posto comunque non mi piaceva. Sapeva di morte. Imryel era seduta su una panchina nel giardino esterno, indossava un abito semplice e bianco. Aveva bei capelli corti, ricci, che danzavano col vento. Lo sguardo perso nel vuoto si ravvivò improvvisamente quando Ferguson si sedette accanto a lei. «Buongiorno ispettore» disse, sfoderando un sorriso. Nemmeno una parola per me. Pensai che avrei potuto sfruttare il mio dono dell’invisibilità per diventare un supereroe e sconfiggere il crimine. «Stai meglio ora?» le domandò delicatamente il mio capo. Aveva un tono di voce sempre mielato quando parlava con lei, al contrario di quando parlava con me. Pensai a quale dono potessi appellarmi stavolta. La paziente stava annuendo, continuando a sorridere. Per Ferguson ovviamente. «Imy è venuto un giornalista da me stamattina, ha detto che ti ha fatto delle domande.» Lo sguardo della ragazza era perso nel vuoto. Non sapevo di cosa stesse parlando Ferguson ma a qualsiasi giornalista doveva esser sembrato evidente che l’intervistata non era molto lucida. «È venuto John…» sussurrò lei amabilmente. Quel nome nelle sue labbra suonò dolcissimo. «Sì, John» sulle labbra di Ferguson, invece, suonò sprezzante. Lo vidi abbassare gli occhi, poi li rialzò prendendo una decisione improvvisa. Senza darci alcuna spiegazione, lasciò la panchina dov’era seduto e andò a parlare con gli infermieri che osservavano poco lontano. Uno di loro annuì e se ne andò e Ferguson tornò sui suoi passi e riprese il posto che aveva abbandonato.


19 Poi mi guardò spazientito, come se la situazione fosse colpa mia. Un istante dopo le sue attenzioni furono nuovamente per Imryel. «Imy, vorrei chiederti come sta Ishmael.» Lo guardò senza capire. Ora non sorrideva più e gli occhi erano diventati felini, da gatta. «Stamattina mi hai detto di aver visto Ishmael» il capo incalzò dolcemente, senza staccare lo sguardo da lei. Da qualche parte, un uccello iniziò a cantare. Imryel alzò lo sguardo, catturata dal suono, e chiuse gli occhi. Ferguson la spronò gentilmente, chiamandola per nome e lei parve risvegliarsi di colpo. Questi matti erano davvero matti, ma in lei c’era qualcosa di affascinante. Imryel non sembrava disposta a parlarne. Ora guardava in basso, lo sguardo di nuovo spento. No, non era spento, notai un istante dopo, era triste. Aprì le labbra, balbettò qualcosa, ma non uscì alcunché. Poi scosse il capo. «Mi dispiace, io…» guardò le proprie mani, iniziò a giocherellare con le dita, tesa e confusa. «Imy, ti prego, parlami di lui» disse il mio capo, suadente. Ma lei seguitava a guardarsi le mani. Quel particolare mi colpì, perché tentava di prendere fiato, ma era come se le parole non le uscissero, mentre sembrava concentratissima nel giocherellare con le mani. Portò la punta delle dita al collo, laddove spiccava una lunga cicatrice rimarginata. Ricordai di aver letto che nel 1942, quando lei e i suoi amici erano stati aggrediti, le era stata strappata di dosso una collana che non era mai stata trovata. Il fatto che lei sfiorasse quel particolare punto non aveva alcun significato, ma lo annotai e lo chiusi in un cassetto della memoria. «Era con te ieri sera?» Ferguson insisteva dolcemente, ma a quel punto la paziente scattò in piedi facendo indietreggiare anche me. «Basta!» gridò, allertando gli infermieri che si avvicinarono a passo svelto «te l’ho già detto stamattina! Quante volte devo rispondere alle stesse domande?» portò i palmi alle orecchie e le mani le tremarono, ma più di tutto era il volto, arrabbiato, teso, lo sguardo chiuso, che mi fece avvicinare. Aveva cambiato umore in un lasso di tempo troppo breve, e per una domanda dalla risposta ovvia, per giunta. Ferguson era balzato in piedi facendo cenno a me e agli infermieri di non avvicinarci, di non interferire. Ci immobilizzammo tutti.


20 «Imy, durante l’interrogatorio Johanna non ha mai parlato di Ishmael. Ne parli solo tu. Per favore, puoi dirmi se era con te, in modo che io possa rintracciarlo e conoscerlo?» Nonostante il tono fosse docile, fu la determinazione con cui parlò che fece sì che lei lo sfidasse con lo sguardo. Le mani erano strette a pugno, e non mi sarei sorpreso se avesse cominciato a sbattere i piedi a terra. «Lui verrà sempre da me» pontificò «e questo è quanto.» «Naturalmente. È il tuo fidanzato.» Non conosco abbastanza bene Ferguson da valutare se quell’ultima affermazione fosse stata fatta apposta per suscitare l’effetto voluto, ma la reazione fu sconvolgente. Imryel iniziò a battere i palmi sulle orecchie e a urlare frasi sconnesse. In un istante Ferguson le fu davanti, intimando nuovamente gli infermieri di stare indietro. Gridavano entrambi e io mi annotavo mentalmente la conversazione, perché sapevo, senza dubbio alcuno, che l’ispettore mi aveva voluto lì per quello: perché io ricordassi. Così, tra le grida ansiose e isteriche di Imryel e le risposte altrettanto taglienti del capo, capii l’unico nome, l’unico fatto, che poteva avere realmente un valore. «Lui sta con Lola Carpenter! E con chi altre? È la migliore!» Aveva gridato la paziente al colmo della rabbia. Aveva usato quel termine “sta con” che mi sembrava molto adolescenziale. Ishmael non era sposato con questa Lola. Non era neppure fidanzato. Lui ci stava e basta. Quando gridò il nome della donna, ci fu un attimo di silenzio, come se tutto si arrestasse, come se anche l’aria si fermasse. «Lui sta con la mia amica» ripeté poi più calma, con le lacrime che sgorgavano dagli occhi come un fiume. Il volto della paziente era straziato, l’immagine stessa della disperazione. Al contrario, Ferguson esibiva un’espressione perplessa, come se non si aspettasse una simile dichiarazione. «Chi è Lola Carpenter?» le domandò con voce atona. Imryel gli fece segno che non voleva parlare, non voleva parlarne più. Eppure, lui proseguì, ponendosi davanti a lei e prendendole lentamente le braccia. «Ti prego, Imy, ti prego. Ishmael potrebbe essere in pericolo e tu sola puoi salvarlo. Dimmi di lui, qualsiasi cosa ricordi, qualsiasi cosa vuoi dire. Andrà bene tutto, tutto…»


21 Lasciò lentamente la presa, ma la paziente non dava segno di voler collaborare. Sebbene si fosse calmata, guardava ostinatamente in basso. Avevamo un indizio forte ora. Un nome e un cognome. Ed era già molto di più di quanto potessimo sperare. Prima di uscire, Ferguson mi disse di aver chiesto il registro delle visite, per controllare quante volte John Smith era stato al Demil, da Imryel. Lo sfogliò per un tempo che parve infinito, poi finalmente decise che potevamo andarcene. A parte me e lui, Smith era andato a trovarla circa una o due volte la settimana negli ultimi cinque anni.


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CAPITOLO 4 JOHN SMITH: Giornalista presso il quotidiano Day, Età 23 anni

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 11:30 Arrivato alla sede del Day, mi gettai alla scrivania. Nella macchina da scrivere era già infilato il foglio bianco. Era un piacere sentirla cantare, ma non era quello il momento di spingere i preziosi tasti e comporre l’amato suono: come immaginavo, Ferguson non mi era stato di alcun aiuto. O forse no, il malo modo in cui mi aveva cacciato poteva anche essere sintomatico del fatto che avesse qualcosa da nascondere. «Hai saputo qualcosa?» Mic si avvicinò, prese una sedia e si mise cavalcioni su di essa, sfruttando la testiera come appoggio. Quando scossi il capo, lui disse che non si aspettava collaborazione dagli sbirri. E aveva ragione. «Qui c’è scritto» disse Dorina venendo avanti, senza staccare lo sguardo dalla pagina di giornale che aveva in mano «che i genitori di Michael O’Gennar intrapresero una battaglia legale per provare la falsità delle accuse che gravano sul figlio.» «E come terminò?» domandai. Dorina era molto accanita. Era una ex poliziotta che aveva lavorato con Ferguson e i suoi scagnozzi, e aveva dovuto lasciare la centrale perché si sentiva discriminata in quanto donna. In quanto grassa. In quanto arguta. Ma noi, al Day, l’avevamo accolta perché era una brava giornalista, intelligente e perspicace, oltre a una magnifica donna. Gli occhi di Dorina brillarono dietro gli occhiali. «Il padre di Michael è morto l’anno scorso. La madre… non ha retto lo shock della morte del figlio e si è suicidata con un cocktail di medicinali. Tutto si è chiuso con niente.» Dorina sperava di trovare qualche testimone. Dorina covava rabbia. «Quindi quello stronzo non ti ha ascoltato?» chiese Mic in tono piatto, catturando l’attenzione di Dorina.


23 «No» poi, sospirando, presi il taccuino contenente gli appunti, «ma gli ho detto dello Zentral. Se è l’uomo che io credo che sia, farà delle verifiche.» «Lo prende?» la domanda di Dorina mi spiazzò. Stavo per rispondere ma poi, in effetti, mi fermai. Ancora una volta, la sua perspicacia aveva colto nel segno. «Può darsi che lo faccia sparire giù per il cesso» disse senza mezzi termini «e che li freghi tutti, quei dannati piedipiatti.» Il momento di silenzio che Dorina creò con la sua sentenza venne e passò, perché Mic sembrava tutt’altro che convinto. «Potrebbe farlo una volta, ma prima o poi la scoprirebbero» poi si rivolse a me: «cosa proponi, visto che Ferguson non ti dà retta?» Era una buona domanda e la temevo, perché non avevo la risposta. Come sempre fu Dorina a prendere in mano la situazione: «Si potrebbe domandare a Blake.» «E come pensi di fare?» domandò Mic. Per tutta risposta lei gli rivolse un sorriso di circostanza. «Gli telefonerò.»


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CAPITOLO 5 SIR GORDON BLAKE: Ispettore Capo, Squadra Omicidi – Spennington, Capo sezione scomparsi Castleburn, Età 60 anni, Arma in dotazione: pistola d’ordinanza

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 11:30 Quando Roland Ferguson, ispettore della squadra omicidi di Spennington, arrivò da me provai due sentimenti diversi: rabbia e orgoglio. Quel giovanotto riusciva sempre a sorprendermi. Questa volta però, la sua richiesta era quanto mai curiosa: mi mise sulla scrivania il fascicolo di Imryel Davis e mi chiese di poter svolgere alcune indagini sul vecchio caso. «Perché mai una richiesta del genere?» Ero vicino alla pensione e non avevo voglia di seccature. «Abbiamo nuovi elementi» mi disse Ferguson, mentre l’agente Hugh che era con lui manteneva un atteggiamento freddo e silente. Soffocai un sorriso. Non volevo nemmeno riguardare la pratica. «Il caso Davis è stato archiviato con un omicidio-suicidio, se non ricordo male. La ragazza è incapace di intendere e di volere e ha messo in scena una sua personale visione dei fatti. Quali altri elementi dovrebbero essere improvvisamente venuti alla luce?» Ammetto che provavo curiosità. I miei agenti a volte erano veramente impossibili, trovavano prove anche quando non ce n’erano e, se non avevano nulla da fare, cercavano di riaprire casi chiusi. «Imryel Davis ha fatto un nome, mai uscito durante gli interrogatori. Inoltre, da anni il giornalista Smith intrattiene colloqui con lei ed è giunto qui asserendo verità credibili e non indagate.» «Quindi, se non ho capito male: una ragazza squilibrata, un giornalista in cerca del modo di fare notizie e un nome che, a quanto ne sappiamo, potrebbe essere di fantasia?» Mi veniva quasi da ridere, ma la risposta di Ferguson mi piacque: «È quello che vogliamo scoprire.»


25 I nostri sguardi si sostennero. Ero come lui alla sua età: mosso dallo stesso identico fervore. «Un nome, eh?» Ero curioso. Sebbene quel caso fosse stato tecnicamente semplice da chiudere, mi chiedevo quali altri elementi potessero essere improvvisamente usciti, a… quanti? Controllai la data sul fascicolo. Tredici anni di distanza. «Sì.» Ferguson non sembrava incline a parlare. Bravo ragazzo. Voleva che io glielo domandassi, voleva barattare. Il nome in cambio della riapertura del caso. Mi misi dritto sulla schiena, afferrai il fascicolo ma non lo aprii. «Altri elementi?» «La ragazza esce continuamente dalla struttura per recarsi alla Red House.» Questo mi colpì. La ragazza usciva? Interessante. Davvero interessante. «Abbiamo un sistema di sorveglianza orribile» dedussi, segnandomi di chiamare il dirigente della struttura «da quanto tempo se ne va in giro per Spennington?» «Non gira per Spennington, torna alla Red House di notte. Poi rientra al mattino.» Sul serio la direzione della struttura permetteva una cosa simile? Sul volto di Ferguson non compariva traccia di menzogna. «Da quanto tempo?» «Diciassette notti.» «Consecutive?» «Sì.» Ero affascinato. Quel caso, che io stesso avevo gestito tredici anni prima e quel giovane che avevo davanti non era che il clone di quello che ora gli stava un passo indietro, stava svelando risvolti insoliti. Ferguson non si mosse. «La ragazza asserisce nuovamente d’incontrare il suo fidanzato di allora.» Questo mi fece sorridere. Erano anni che Imryel Davis professava l’esistenza del fidanzato inesistente. «Abbiamo fatto le dovute verifiche su questo… non ricordo il nome preciso. Ismayl? Ismael?» «Ishmael.»


26 «Ah sì… quindi lei sostiene di incontrarlo? L’unico modo per saperlo con certezza è di andare con lei e verificare se è vero. Se effettivamente c’è un uomo, bisogna capire se è realmente chi dice di essere.» Ferguson stava per replicare, ma alzai la mano perché non avevo ancora finito di parlare: «È stato un buon allievo, Ferguson. Ma credo che non ci siano le condizioni per ulteriori indagini. Mi porti altri elementi e lo valuterò seriamente. Una ragazza che fugge da una struttura, probabilmente per incontrarsi con qualche amoruncolo e blaterii sconnessi di un giornalista in carriera non mi sembrano elementi sufficienti per riaprire le indagini e togliere tempo e forza lavoro a cose più serie.» Gli porsi la cartellina e lo guardai un istante prima di terminare l’arringa: «Lavori agli altri suoi casi, non tolga la precedenza alle cose importanti per darne a questa storia. Ma se dovesse uscire altro materiale, mi tenga informato. Valuterò la sua richiesta.» Afferrando il fascicolo, Ferguson mi rivolse un cenno del capo prima di uscire.


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CAPITOLO 6 ROLAND FERGUSON: Ispettore, Squadra Omicidi – Spennington, Età 34 anni, Arma in dotazione: pistola d’ordinanza

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 12:00 «Quindi, indagare ma non troppo?» chiese Hugh mentre uscivamo. Ero sgomento. Avrei voluto il via subito, ma sapevo che Blake sarebbe stato un osso duro. Tuttavia, le parole di Smith ronzavano salde nella mia testa: “Il caso è stato chiuso troppo in fretta, e lei lo sa. Lei lo sa”. «Non possiamo indagare. Quello che Blake voleva dire è stato che se nel tempo dovessero uscire altre informazioni, senza andarle a cercare, allora valuterà.» Hugh fece una risatina e, alla mia espressione interrogativa, alzò gli occhi. “Dopo”. Dopo, eravamo nell’auto. Guidava lui. «Quindi, se capisco bene, non possiamo indagare col distintivo. Ma se… ecco… chiedessimo informazioni su questa Lola? In borghese, intendo.» Lo guardai impietrito. Stavo per parlare quando mi resi conto che non era una cattiva idea. Non era nemmeno contro il regolamento. Hugh vide l’espressione del mio volto e si affrettò a illustrare l’ingegnoso piano: «Andiamo all’ufficio anagrafe e chiediamo di questa signorina Lola.» Ecco. Semplice. Lorence Godroow era un amico di Anita Stone e da anni le faceva la corte. Era seduto dietro a un lungo tavolo di noce, e non alzò gli occhi nemmeno quando percepì la nostra presenza. «In cosa posso esservi utile?» domandò in tono disinteressato. «Agenti Ferguson e Hugh.»


28 Sentendo le credenziali, Godroow alzò la testa, ma solo affinché noi dicessimo ad Anita che era stato serio e professionale. «Prego, dite pure» esordì mettendosi dritto sulla schiena. Aveva lenti tonde ed era completamente calvo. «Servirebbe il certificato di nascita di Lola Carpenter, nata attorno al 1925» lo dissi nel modo più sicuro possibile, anche se non ero sicuro di nulla. Godroow si mostrò mortificato. «Avete un mandato? Un permesso dei familiari? Agente, capirà…» Capivo. Senza mandato non poteva darmi alcun documento. Ascoltai quello che aveva da dirmi senza ribattere. Stavo perdendo ogni speranza, quando Hugh improvvisamente sorrise. «Non si preoccupi Lorence» il tono amichevole con cui gli parlò mi spaventò quasi «a proposito, le porto i saluti di Anita Stone. Mi ha pregato di dirle che ha stima di lei e del suo lavoro. Gliela saluto, eh!» Il modo in cui lo disse mi spiazzò. Con poche, incisive parole, gli aveva anche detto che avrebbe fatto sapere ad Anita che lui era un incapace. L’uomo si guardò attorno, a disagio. C’erano le segretarie che lavoravano alla reception, e il rumore delle macchine da scrivere per un istante trionfò su tutto. «In tutta onestà sono quarant’anni che lavoro in anagrafe e il nome “Lola” non l’ho mai sentito. Mi viene da pensare sia un diminutivo…» disse, quasi sussurrando «e Carpenter è un cognome diffusissimo. Potrei controllare atti di nascita per ore e non trovare nulla. Ma, se non avete fretta…» Prima che Hugh potesse parlare, io dissi: «Non abbiamo troppa fretta» calcai su quel “troppa” quel tanto che bastava per lasciare intendere che era meglio darsi una mossa. Poi mi girai per andarmene, ma vidi Hugh che si chinava per dire qualcosa. Quando fummo soli, mi disse di averlo ringraziato e avergli detto che Anita sarebbe stata fiera della sua celerità nell’operato. «Ma Anita cosa dirà di tutto questo?» chiesi a Hugh mentre salivamo in macchina. «Non glielo diremo.» Mise in moto poi scoppiò a ridere. «La prima cosa che abbiamo fatto oggi è stata disubbidire a Blake. Mi piace.»


29 A me non piaceva per niente ma avrei avuto qualche attenuante, nel caso la cosa trapelasse. «Svolgiamo ancora qualche controllo, capo» stava dicendo Hugh «sappiamo qual è la scuola che frequentava Imryel, no? Abbiamo ragione di credere che Lola fosse in classe con lei? O comunque in quella scuola? Tutti i tre ragazzi presenti alla Red House provenivano dalla stessa scuola, giusto?» Parlava con veemenza, quasi allegro, e le parole si colorivano man mano che uscivano dalle sue labbra. Presi la cartellina e spulciai tra le carte mentre il mio collega guidava. «Imryel Davis, sedici anni, iscritta al quarto anno della Madison School. Louise McLorell, sedici anni, quarto anno Madison School. Michael O’Gennar. Madison School. Johanna Wirburn è un po’ più grande ma…» mi gettai sullo schienale, guardai Justin, sconfitto «ti meriteresti una promozione.» Allargando il sorriso, Justin voltò l’auto per imboccare una strada secondaria. «Dovremmo fare un giro di pattuglia e rientrare in centrale» gli ricordai stancamente. «Diremo che abbiamo sbagliato strada.» Adoravo le sue idee. «Capo? Però questo devo saperlo. Perché ci tieni a riaprire quel caso? E perché adesso?» Era una domanda più che lecita. Chiusi la cartellina e lo guardai. «Ho temuto di dover rimettere mano a questo caso dal terzo giorno in cui ho recuperato Imryel Davis lungo la strada. In primo luogo, Imryel sostiene di raggiungere Ishmael. Esiste? Non esiste? È un testimone di quel delitto atroce? Inoltre… ah Hugh!» Buttai la testa sullo schienale, guardai in alto. «Quindi stiamo chiedendo la riapertura di un caso in base ai deliri di una pazza. Mi piace.» Che arrogante. «No. C’è dell’altro. C’è anche Smith.» Girò l’auto, notai che sollevava la mano per salutare due ragazze che passeggiavano dalla parte opposta della strada ma evitai ogni commento. «Smith?»


30 «Sì. Quando è venuto da me ha detto cose sensate. Ho riletto il rapporto, tutto quanto. Sai che fine hanno fatto i corpi di Louise McLorell e Michael O’Gennar?» Quando fece cenno di no col capo, glielo dissi: «Cremati.» Hugh era abbastanza intelligente da sapere che non si poteva fare alcuna analisi su un corpo ridotto in cenere. «Ci sono delle lacune nelle indagini: l’ingresso dei ragazzi nella casa, il custode, la confusione!» «Aspetta, capo, non ti seguo. Il custode?» «Sì. Sam, il custode, sentì i rumori sospetti, salì al piano di sopra e fu aggredito anche lui.» «E non si è pensato di interrogarlo? È morto?» «No. È rimasto in coma tanto tempo. Quando si svegliò non poteva parlare. Gli erano state recise la lingua e diverse dita. Il caso era già stato archiviato. Ricordo che Blake provò a fargli domande, senza successo.» Hugh fermò l’auto appena fuori Spennington, davanti a una struttura enorme e decadente. Non avevamo considerato che la sede primitiva della Madison School, a giudicare da com’era messa, doveva essere chiusa da almeno un decennio. «Fantastico» Hugh parcheggiò la macchina davanti al cancello d’ingresso e scese in fretta. L’edificio, circondato da una precaria recinzione di fil di ferro e lamiera, era un quadrilatero austero e solenne, in uno stato di declino che ricordava quello di antichi palazzi. Senza attendere gli ordini, aprì con decisione il cancello e si diresse a passo svelto verso l’ingresso principale, facendosi largo tra la sterpaglia. Lo seguii. Avrei dovuto dirgli che non potevamo farlo, ma alla fine, se c’era un piccolo privilegio che potevano avere quelli come noi, era fare cose inconsuete senza destare sospetti. Ovviamente l’uscio principale era chiuso. Per la precisione era murato. Come lo erano anche tutte le finestre del primo piano. I muri erano impregnati da scritte di disprezzo verso i docenti. Bastò un cenno per intenderci. Justin andò a destra, io a sinistra: dovevamo aggirare l’edificio e vedere se esisteva un altro accesso. Anche ammesso di riuscire a entrare, cosa potevamo trovare, però? La


31 Madison, qualora avesse cambiato sede, avrebbe anche trasferito tutto il materiale. O no. Avevo aggirato il lato e ora mi trovavo nel retro: una lunghissima parete dritta nella quale si affacciavano altre finestre, murate anch’esse. Vedevo Justin che arrivava dalla parte opposta alla mia. Lo vidi fermarsi, guardare in alto. Anch’io feci lo stesso. Finestre su finestre che si susseguivano. Poi, però, un elemento sconosciuto attirò l’attenzione del mio collega e lo vidi studiare qualcosa che gli stava davanti. Mi fece segno di raggiungerlo. Accelerai il passo. Osservava una porta che sembrava essere ancora utilizzata. L’erba era pestata, e la sterpaglia che, in altro momento l’avrebbe invasa, era stata accuratamente rimossa. «Potremmo provare ad aprirla.» «Immagino che tu ci abbia già provato.» «Intendevo dire: potremmo sfondarla.» «Hugh…» Ovviamente non si poteva, e lui lo sapeva. Quando però si mise ad armeggiare con la serratura, sentimmo qualcuno chiamarci. Ci girammo in simultanea, trovandoci riflessi nello sguardo di un anziano che ci osservava dall’altra parte della recinzione, che dava su un’altra proprietà. «Salve!» lo salutai imbarazzato, tastando dentro la tasca della giacca in cerca del tesserino «noi…» «Lo so chi siete voi!» disse questi con piglio severo «siete i soliti del giornale. Valgono le condizioni!» Io stavo per ribattere ma Hugh mi precedette: «Quanto?» «Cinquanta.» «Cinquanta? Un ladrocinio. Gli altri hanno detto venti.» L’uomo portò gli occhi al cielo. «Venticinque, e dieci di cauzione. Sennò niente.» «Dagli trentacinque» ordinò Justin in tono fermo. Ero senza parole. Come un automa afferrai il portafoglio e pagai il vecchio, mentre Hugh gli strappava la chiave dalle mani. «Se arrivano i piedipiatti io non vi ho visti» puntualizzò il vecchio «qualsiasi cosa facciate lì dentro, non mi riguarda. Avete un’ora. Tra un’ora sarò qui e ci restituiremo i nostri averi.»


32 Hugh annuì cupamente, come se avesse appena stretto un patto col diavolo. Mi spinse avanti. «Ma che diamine…» Hugh si limitò a sorridere mentre armeggiava con la serratura. «È mercato nero, capo. Sei troppo ligio alla legge per conoscerlo. Ero certo che qualcuno cercasse di lucrare su questo edificio.» «Ma come… la legge…» balbettai. Poi mi accorsi che era inutile. La chiave in cambio della cauzione. Tra un’ora. Non avevo bisogno di fare altre domande. La chiave girò nella toppa e la porta si aprì. Entrammo in un locale freddo e sporco, dove oltre alle caldaie c’erano travi, vecchi banchi e lavagne rotte. Seguendo il fascio di luce lasciato dalla porta aperta, salimmo lungo le scale. Contai diciassette scalini. Ancora diciassette. Diciassette le notti di fuga. Diciassette scalini.


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CAPITOLO 7 JOHANNA WIRBURN: Dattilografa presso la Stanford Agency, 30 anni, Nubile

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 12:30 «Pronto?» Nessuno. Era uno scherzo ridicolo. Buttai giù il ricevitore, contrariata. Il telefono suonò nuovamente. Presi la cornetta e diedi una risposta secca. Dall’altra parte del filo, questa volta, c’era una voce femminile. Qualcosa in me registrò una voce conosciuta, e una particella nel subconscio si mosse. «Johanna?» Guardai il ricevitore incredula, mentre la voce nuovamente pronunciava il mio nome. «Sì.» «Jo ti prego passa da me, ho bisogno di parlarti.» «Chi parla?» Non poteva essere lei, io non volevo parlare con lei, non volevo sapere più niente di lei e del suo terribile mondo. «Sono io, Jo…» mormorò, poi ancora: «Imryel…» Mi sentii rabbrividire. Fissai il muro davanti a me, senza vederlo. In un attimo tornai nell’aula di tribunale davanti a una corte in ascolto, e lei che mi guardava a distanza. Fu l’ultima volta che la vidi. Ricordo me stessa alla sbarra, con le mani giunte in grembo, sopra le gambe tremanti. Lei mi guardava con quell’oceano grigio verde che aveva negli occhi. Ne invidiai la calma e l’austerità. Ricordo il suo viso, pallido, etereo, i capelli legati, la camicetta bianca. La perfetta immagine della falsa innocenza. «Cosa vuoi?» Sebbene fossi tesa, cercai di non farlo trasparire. «Parlarti. Ti prego, vieni in struttura.» Portai la mano sulla fronte, scostai i capelli.


34 «Non ho niente da dirti.» Era vero. Io e lei non avevamo contatti da anni, non avevamo più amici in comune. Per quel che ne sapevo io, lei era presente quando il mio Michael era morto. Poteva averlo ucciso lei, quella pazza furiosa. Non avevo mai creduto alla risoluzione del caso. Che Michael avesse ucciso Louise poi si fosse suicidato, era impensabile. Caso mai poteva essere stata Louise a spingerlo dalla finestra del secondo piano, dentro quella piscina sporca dove poi era anche morto. Morto! E Imryel sapeva la verità ma non aveva mai parlato. Quella pazza aveva avuto sicuramente un ruolo fondamentale nella storia. Ma la cosa principale era che Michael mi amava, amava me, non Louise. Non era stato un delitto passionale, ne ero certa. «Ma io sì. Ti prego dobbiamo parlare.» «Scordatelo, assassina! Michael amava me, capito? Me!» gridai, poi riagganciai senza darle la possibilità di replicare. Non volevo che mi richiamasse, così staccai il ricevitore. Poi guardai il telefono allibita. Il passato era tornato a bussare alla porta.


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CAPITOLO 8 JUSTIN HUGH: Agente, Squadra Omicidi – Spennington, Età 20 anni, Arma in dotazione: pistola d’ordinanza

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 13:00 Doveva essere una scuola, dovevano essere aule, invece l’ambiente era più che spettrale. La luce filtrava dagli spifferi che correvano tra una muratura e l’altra, decisamente mal fatta. Le scale terminavano su un’ampia hall, e le piastrelle sporche mostravano il gioco sottile di una scacchiera che si rincorreva, perdendosi all’infinito. La porta a vetri che divideva la reception dalle aule era verde, rotta. Talvolta, avremmo scoperto con un fremito, danzava su se stessa provocando un rumore sordo e gutturale. Il capo si guardò attorno ma, con l’occhio critico dettato dai suoi anni di praticantato, si diresse a passo svelto verso quella che doveva essere la segreteria. C’erano ancora i mobili, impolverati, rotti, sgangherati. Alcuni cassettoni erano aperti. C’erano fascicoli sfasciati a terra, sporchi e strappati. Le scrivanie erano anch’esse piene di polvere e ragnatele, ed erano rovesciate e malmesse. C’erano sedie rotte contro le pareti, e un inquietante manichino che metteva in risalto le interiora sparse nel disordine. L’ispettore parve non farci caso. Guardava con aria critica i fascicoli, passandoli in rassegna con sguardo inespressivo. Il rumore di vetri scricchiolanti sotto ai miei piedi mi costrinse ad abbassare lo sguardo, e vidi la cosa più bella che potessi mai vedere in mezzo a tutto quel caos: sotto ciò che restava della cornice, c’era la foto in bianco e nero di una splendida ragazza. Chinandomi, l’afferrai quasi con timore, scostando i vetri e le schegge di legno. I suoi occhi magnetici suscitarono in me un’attrazione maniacale, così assurda che non riconobbi come parte del mio essere, perché seppi di amarla, da sempre, in modo viscerale e totalmente irrazionale. D’istinto, misi la fotografia nella tasca interna della giacca, come se mi appartenesse di diritto.


36 Fu la sensazione di un istante, perché infine prevalse il mio spirito di agente dedito alla giustizia: mi sentivo un ladro, ma si trattava di una fotografia, abbandonata per giunta. L’avrei riportata. Volevo solo guardarla alla luce del sole. Volevo solo perdermi follemente dentro quegli occhi. Appena presa quella decisione, mi sentii meglio, tanto da poter rivolgere l’attenzione su Ferguson che, senza guardarmi, indicava filze di schedari. «Sono schedari degli anni ’30 e ’40. Probabilmente era inutile portarli nella sede nuova, essendo passato un ventennio.» Mentre lo diceva però, vidi che soppesava le parole, come se volesse assaporarle, sentirne il suono per percepirne la logicità. «Quanti anni ha Imryel Davis?» gli domandai. «Sulla trentina, direi. Accidenti, ho lasciato la cartellina in macchina.» «Quindi è nata all’incirca nel 1925… e sarà entrata in questa scuola…» «Cinque anni dopo.» Sempre ammesso che Imryel avesse frequentato dai cinque anni. «Non dobbiamo cercare Imryel» mi spiegò, dopo aver seguito il mio sguardo perplesso «Imryel l’abbiamo.» «Lola Carpenter!» Sorridendo della mia stupidità, guardai gli schedari che sembravano tutto fuorché invitanti. «Secondo l’amico di Anita, si tratta di un soprannome.» «Dovremmo cercare anche Ishmael… ma non sappiamo il cognome» ricordò Ferguson. Ecco semplice. Facilissimo, proprio. La ricerca si rivelò difficoltosa. Intanto gli schedari erano decisamente malmessi. Alcuni erano riversi sul pavimento, i fogli sparsi in un ventaglio di carte. Sotto la lettera C, non c’era nulla, tanto per cominciare. «Faccio un giro negli altri ambienti» m’informò il capo. Questo era il bello dell’essere capo, facevi quello che ti pareva mentre gli altri lavoravano. E non ci si poteva nemmeno ribellare. Mi misi all’opera. C’erano ben tredici Carpenter: Felicia, classe 1942. Zelona, classe 1942. Amanda, classe 1942.


37 Amelia, classe 1942. Meredith, classe 1942. Manola, classe 1942. Melly, classe 1942. Faith, classe 1944. Felona, classe 1944. Naisse, classe 1944. Pal, classe 1945. Terry, classe 1945. Zolina, classe 1946. Per Ishmael tutto si complicava ulteriormente, perché i fogli dagli schedari erano molto malmessi e in parte mancanti. C’era un Abraham Ishmael, che però risultava essere un 1946, troppo tardi. Un Bellinger Ishmael, del 1940, troppo presto. Iniziai, sgomento, a controllare le schede in ordine casuale. Trovare Lola e Ishmael in quel caos era impossibile, fermo restando che non eravamo nemmeno sicuri che fossero mai transitati in quella scuola. Stavo per arrendermi quando la voce dell’ispettore rimbombò perentoria tra le fredde mura ed echeggiò fino a me in un tripudio d’incredulità. Mi misi a correre per raggiungerlo, varcando aule deserte e polverose e finalmente lo vidi, chino su un banco di scuola. «Non ti è stato insegnato che non si scrive sui banchi?» «Certo» in un primo istante provai un senso di colpa immediatamente seguito dalla comprensione dell’impossibilità che il mio nome fosse su quel banco. Mi avvicinai. «Guarda qui» fece senza indicare perché seguendo la direzione del suo sguardo avevo già visto. Sul banco c’era scritto, in mezzo a un migliaio d’altre scritte, ISHMAEL seguito da un cuore e, dentro al cuore, a caratteri cubitali: LOLA.


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CAPITOLO 9 SIR GORDON BLAKE: Ispettore Capo, Squadra Omicidi – Spennington, Capo sezione scomparsi Castleburn, Età 60 anni, Arma in dotazione: pistola d’ordinanza

Mercoledì 13 aprile 1955, Ore 15:30 La prima cosa che pensai osservando il ripiano che era sulla mia scrivania fu: impossibile. “Impossibile che la parte superiore di un banco di scuola, vecchio e impolverato, sia ora nel mio ufficio”. Spostai il mio sguardo allibito dal tavolo sporco e tarlato ai miei due uomini che mi stavano davanti esibendo un’espressione soddisfatta. «Bisogna riaprire il caso. Il ragazzo chiamato Ishmael esiste e anche Lola Carpenter. Sono entrambi coetanei di Imryel.» Se quelle parole non fossero venute da un uomo come Ferguson, avrei dubitato davvero della sanità mentale del mio ispettore. Ma Ferguson era un osso duro, uno che non si lasciava impressionare dalle apparenze e, soprattutto, non faceva grandi congetture. Coprendomi il naso con il fazzoletto, seguii il percorso dei due nomi che spiccavano sul legno tarlato. Il secondo nome, quello che Ferguson non mi aveva voluto rivelare, era quello di Lola Carpenter. «Mi porti il fascicolo» dissi all’ispettore, ma fu il giovane agente a scattare. «Mi parli di questa Lola, Ferguson. Anzi no, mi dica da dove viene questo tavolo» dissi, sollevando la mano e pregandolo di togliere quell’ammasso di trucioli dalla mia scrivania. L’ispettore lo fece mentre mi raccontava una storia assurda di come si fossero trovati casualmente, perché avevano sbagliato strada, davanti al prestigioso ex collegio Madison, e di come sempre casualmente, avessero intravisto una porta aperta e, ovviamente per puro dovere, erano andati a controllare che tutto fosse in ordine, e non vi fosse alcuno all’interno,


39 tipo un ladro, per esempio. E, sempre per una pura e sana coincidenza, avevano trovato il banco. «È la peggiore menzogna che io abbia mai sentito» decretai, anche se ero affascinato dalla ricerca che Ferguson stava compiendo. Ricalcava i miei passi con arguzia e precisione, ricostruendo lo scenario che io avevo abbandonato dopo aver archiviato il caso. «Continui, Ferguson. Mi spieghi cosa c’è dietro al suo desiderio di riaprire un caso archiviato.» La voce del mio agente non tentennò, nemmeno un istante. «Ci sono elementi poco chiari nella relazione di tredici anni fa, signore. Evidenti incongruenze. La mancata conferma dell’esistenza del ragazzo chiamato Ishmael e, dettaglio non trascurabile, la possibilità che Imryel Davis non sia affatto insana di mente. Inoltre vorrei avere informazioni sullo Zentral, un farmaco che le stanno somministrando, e mettere agli atti una deposizione del custode, Sam.» Che sfacciato. Quel caso era stato mio e lui era stato semplicemente il mio secondo. Mi aveva seguito come Hugh adesso seguiva lui, e mi diceva che avevamo chiuso il tutto troppo in fretta, perché di fatto, era di questo che si trattava. «Ferguson. Quanto al ragazzo, Ishmael, le suggerisco di rileggere il rapporto e scoprirà che Imryel Davis non ha mai saputo fornire il cognome di questo Ishmael, tanto per cominciare. Ci siamo fatti dare l’elenco di tutti i ragazzi di nome Ishmael che frequentavano la scuola e nessuno, nessuno, conosceva Imryel Davis! Inoltre, abbiamo fatto una ricerca anagrafica e non risulta alcun Ishmael in relazione con la Davis. Che altro suggerisce?» Nonostante il mio sarcasmo finale, l’espressione di Ferguson non mutò, e suppongo fosse questa la cosa che, più di tutte, m’incuriosì. Mi guardava con quell’aria di superiorità, senza abbassare lo sguardo, senza sentirsi in colpa, senza pensare di essere in errore. Lo trovavo intrigante. Stava sfidando la mia intelligenza, ed erano anni che nessuno lo faceva. «Mi pare che un graffito su un banco non indichi l’esistenza di una persona» incalzai «quella Lola potrebbe aver semplicemente scritto il nome per assecondare l’amichetta. La verità è che non lo sapremo mai e non ci interessa nemmeno, perché giustizia è già stata fatta.» «Onestamente, signore, non ricordo che siano state fatte ricerche su Ishmael o chi per esso.»


40 Sfacciato e insolente. «Si riguardi il rapporto» gli dissi. Glielo avevo già spiegato, non avevo intenzione di ripeterlo. «E il farmaco?» «Ferguson» mi stavo spazientendo «ci sono dei dottori, professionisti, che somministrano medicinali senza bisogno che io, o lei, dubitiamo della loro efficacia!» Stava per parlare ma l’arrivo affannato dell’agente Hugh gli fece morire le parole in gola. «Il fascicolo è scomparso!» ansimò. Poi, spostando lo sguardo irrequieto da Ferguson a me, per tornare a Ferguson: «L’avevamo lasciato in macchina, sul sedile posteriore! Non c’è più!» «Vuoi dire che…» per la prima volta sentii la voce di Ferguson spegnersi. Qualcosa dentro di me si mosse. Era come assaporare una piccola, splendida, vittoria. Allora esisteva qualcosa che riusciva a scalfire la perfetta etica di quell’uomo, che riusciva realmente sconvolgerlo. Certo, accadeva quando qualcosa sfuggiva al suo controllo. «Avete portato il fascicolo Davis con voi e l’avete perso?» mi scappava quasi da ridere. «Ci è stato sottratto, signore!» gli occhi di Ferguson erano spietati, glaciali. «Ferguson, glielo chiedo di nuovo: è certo di non averlo lasciato da qualche parte? Una panchina, un college abbandonato… che le sia caduto mentre usciva dall’auto?» «Negativo, signore. Il plico era sul sedile posteriore dietro al conducente.» Avrei voluto uccidere entrambi. Non si poteva essere così stupidi. Era appena stato sottratto, o più facilmente avevano perduto, materiale di proprietà dello Stato. Mi sollevai in piedi. «Thompson!» gridai con quanta voce avevo in gola al mio sottoposto che immediatamente arrivò in ufficio «allerta tutte le unità. Metti posti di blocco ovunque. Voglio che fermiate tutti, pedoni, ciclisti, autisti. È stato sottratto materiale di proprietà dello Stato e dev’essere ritrovato! Avanti muoviti!»


41 L’agente fece il saluto militare, scattò, e io strinsi i pugni. L’adrenalina mi scorreva nelle vene. «Voi siete due idioti!» tuonai ai miei agenti «vi meritereste l’espulsione!» ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


INDICE

PROLOGO.................................................................................... 5 CAPITOLO 1 ................................................................................ 7 CAPITOLO 2 .............................................................................. 10 CAPITOLO 3 .............................................................................. 17 CAPITOLO 4 .............................................................................. 22 CAPITOLO 5 .............................................................................. 24 CAPITOLO 6 .............................................................................. 27 CAPITOLO 7 .............................................................................. 33 CAPITOLO 8 .............................................................................. 35 CAPITOLO 9 .............................................................................. 38 CAPITOLO 10 ............................................................................ 42 CAPITOLO 11 ............................................................................ 45 CAPITOLO 12 ............................................................................ 48 CAPITOLO 13 ............................................................................ 52 CAPITOLO 14 ............................................................................ 54 CAPITOLO 15 ............................................................................ 57 CAPITOLO 16 ............................................................................ 62 CAPITOLO 17 ............................................................................ 65 CAPITOLO 18 ............................................................................ 68 CAPITOLO 19 ............................................................................ 73 CAPITOLO 20 ............................................................................ 76 CAPITOLO 21 ............................................................................ 79 CAPITOLO 22 ............................................................................ 85 CAPITOLO 23 ............................................................................ 88 CAPITOLO 24 ............................................................................ 93 CAPITOLO 25 ............................................................................ 95 CAPITOLO 26 .......................................................................... 100 CAPITOLO 27 .......................................................................... 101


CAPITOLO 28 .......................................................................... 105 CAPITOLO 29 .......................................................................... 108 CAPITOLO 30 .......................................................................... 112 CAPITOLO 31 .......................................................................... 115 CAPITOLO 32 .......................................................................... 120 CAPITOLO 33 .......................................................................... 123 CAPITOLO 34 .......................................................................... 127 CAPITOLO 35 .......................................................................... 128 CAPITOLO 36 .......................................................................... 131 CAPITOLO 37 .......................................................................... 134 CAPITOLO 38 .......................................................................... 138 CAPITOLO 39 .......................................................................... 142 CAPITOLO 40 .......................................................................... 144 CAPITOLO 41 .......................................................................... 147 CAPITOLO 42 .......................................................................... 149 CAPITOLO 43 .......................................................................... 151 CAPITOLO 44 .......................................................................... 155 CAPITOLO 45 .......................................................................... 159 CAPITOLO 46 .......................................................................... 162 CAPITOLO 47 .......................................................................... 164 CAPITOLO 48 .......................................................................... 166 CAPITOLO 49 .......................................................................... 170 CAPITOLO 50 .......................................................................... 175 CAPITOLO 51 .......................................................................... 177 CAPITOLO 52 .......................................................................... 180 CAPITOLO 53 .......................................................................... 183 CAPITOLO 54 .......................................................................... 188 CAPITOLO 55 .......................................................................... 189 CAPITOLO 56 .......................................................................... 191 CAPITOLO 57 .......................................................................... 194 CAPITOLO 58 .......................................................................... 196 RINGRAZIAMENTI ................................................................ 199


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Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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