Marieke

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In uscita il 29/1/2016 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2016 ( ,99 euro)

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SIMONE FARÉ

MARIEKE

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MARIEKE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-948-7 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Gennaio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


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Prologo

La stanza era illuminata soltanto da una candela, mentre fuori la notte era così profonda che era difficile persino capire dove ci si trovasse. Lui era in piedi. Lei gli aveva offerto da sedersi, ma lui aveva deciso di rimanere in piedi, con le difese alzate. Non temeva per la sua vita, era più che altro un meccanismo istintivo: se si concentrava sulla sua sicurezza, non pensava a quello che stava succedendo. Lei tornò con la bambina in braccio, fissandola negli occhi con l’affetto di una madre, nonostante tutto. «So-ko-lò-va» ripeté alla piccola, come se potesse già impararlo. La neonata gemette in risposta, tutto quello di cui era capace. Non aveva ancora due settimane di vita. «Sono brave persone» sentì il dovere di dire lui. Finalmente la donna gli rivolse attenzione, ma quando i loro occhi si incontrarono, nel suo sguardo non c’era affetto, ma rabbia, come un tempo. «Mathias Zoner traffica solo con brave persone». Se lui non l’avesse conosciuta, probabilmente sarebbe stato tutto più facile, avrebbe potuto trattare quella vicenda con maggior distacco. Ma la conosceva. La conosceva fin troppo bene. «Le vorranno bene». Lei scosse leggermente la testa, una ciocca dei suoi lunghi capelli rossi le finì davanti a un occhio, ma con la bambina in braccio non poteva spostarla. Si limitò a sorridere. «La tratteranno bene, non le faranno mancare niente, le daranno un futuro. Ma ne faranno un soldato e non puoi promettermi che le vorranno bene, non renderti ridicolo». Era giusto così. Era giusto che fosse la sua bambina. Era giusto che fosse la figlia che lei non voleva. Avrebbe potuto trovare una qualsiasi madre sola e chiederle di rinunciare al suo bambino, ma farlo non avrebbe avuto il significato che invece aveva quel momento. Era l’unica cosa che potesse donare alla neonata, far sì che la sua adozione avesse un significato. «Se loro si faranno indietro ci sarò io» ammise. Lei annuì. «Questo sì che puoi prometterlo, Mathias». Finalmente gli porse la bambina. Lui la prese e quasi la vide scomparire tra le sue braccia massicce. Il visino roseo della piccola lo fissava, probabilmente in modo non molto diverso da come aveva fissato la madre.


4 Così piccola, con così pochi giorni di vita, doveva cercare affetto ovunque, senza distinzioni, incondizionatamente. Lui rimase a guardarla, sorridendole. «Si chiama Marieke» affermò lei, mentre finalmente riusciva a sistemarsi i capelli. «Marieke? Non è un nome russo». «Non lo sono neanch’io, te ne sei scordato?». Rimasero in silenzio. Lui provò a coccolare la bambina facendosela oscillare tra le braccia, ma si accorse presto che i suoi movimenti erano troppo bruschi, la stava semplicemente facendo sobbalzare. Non era un problema, Roksana Sokolòva avrebbe saputo come fare, l’aveva già fatto con Gaia. «Ho con me un terminale» le disse, «vuoi controllare il pagamento?». «Non essere ridicolo, Mathias... ». «Cosa farai con i soldi?». Lei indugiò un momento a guardare la bambina tra le braccia dell’uomo, poi si girò, fino a specchiarsi nella finestra, che rifletteva l’interno per il troppo buio fuori. «Andrò via da San Pietroburgo. Lontano da qui». «Lontano?». «Nonostante tutto, a questo mondo c’è ancora un mucchio di gente e di certo c’è un mucchio di spazio. Me la caverò». «Sai che non è necessario, vero? I Sokolòv non avrebbero nessun problema se tu... ». Lei scattò, gli puntò una mano come se avesse una pistola. «Ah no, non mi faranno questo». «Scusa?». «Non mi terranno come madre di riserva per tutte le cose che non avranno voglia di fare loro. Non gliela renderò così facile. Io scomparirò dalla vita della bambina e lei non saprà niente di me. Visto che l’hanno adottata faranno bene a sostituirmi come si deve. Da soli». La bambina fece un verso. Un cenno d’assenso, un tentativo di obiezione? A Zoner sembrarono entrambi. «Meglio che vada» sussurrò. Non era difficile uscire dalla porta, doveva solo convincere se stesso che non era un ladro. Lei guardò la piccola un’ultima volta e poi lo fissò. «Fai di lei quello che loro ti hanno chiesto. Rendila un soldato. Rendila capace di sopravvivere in qualsiasi situazione, anche in questo mondo dannato. Fai come si deve il tuo lavoro, Zoner». Lui annuì, capendo che quella era una promessa che non avrebbe mai potuto rompere.


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1.

Marieke non aveva voglia di pensare a nulla. Abbassò gli occhi sulla zip della sua giacca a vento e ne seguì pigramente la linea con lo sguardo. Arrivata in fondo, sollevò le gambe, che teneva a penzoloni nel vuoto, e continuò a osservarsi, fino a raggiungere le scarpe con chiusura a strap e suola di gomma che le serravano i piedi. Rimase a fissarne le punte per alcuni secondi e poi alzò impercettibilmente la testa, mettendosi a fissare il buio che aveva davanti. Il buio la spaventava. Era una cosa che aveva dovuto ammettere con se stessa molto tempo prima. Non qualsiasi tipo di buio, non la semplice assenza di luce. Il buio della distesa sterminata dei quartieri poveri di San Pietroburgo, l’okraina, dove non ci si poteva permettere elettricità 24 ore su 24. Si era chiesta spesso per quale ragione, nonostante tutto, in quelle strade le tenebre fossero così fitte. Anche quando c’era la luna, anche quando le serate erano limpide, l’okraina era sempre una macchia scura dai contorni frastagliati, informe. La luce elettrica, che in un passato lontano arrivava anche lì, aveva lasciato un vuoto che la natura non era riuscita a colmare e contro cui gli abitanti del luogo non avevano voluto lottare. Aveva sentito dire che ormai da quelle parti erano tutti abituati a vivere con il ritmo del sole e consideravano il calare del buio la fine della giornata. Nessuno sfidava la notte e chi lo faceva, probabilmente, si era abituato a vedere nel buio. Marieke si arrampicava di nascosto sugli edifici sul confine con l’okraina e rimaneva seduta sul bordo di qualche tetto, a fissare il buio, tutte le volte che voleva rimanere sola. Lo faceva proprio perché quel buio la spaventava. La paura, in qualche modo, le faceva compagnia. «Eccoti» disse una voce alle sue spalle. Non si girò, non ne aveva bisogno, era una voce che conosceva bene ed era l’unica voce di cui si fidava. «Ciao». «Ehi... signorina!» la voce sembrava leggermente nervosa. Finalmente Marieke si voltò a guardare. Pochi passi dietro di lei stava un uomo di quasi due metri, spalle larghe, corpo massiccio. Era vestito completamente di nero, come lei, e il Balaclava gli copriva il volto, lasciandogli fuori solo gli occhi. Le lanciò qualcosa che lei afferrò al volo. «Se anche la milizia ti prende, sono sicuro che posso venire a sapere che sei


7 nei guai prima che ti facciano troppo male, ma sarebbe molto antipatico se qualche sentinella vedesse il tuo bel faccino». Marieke sollevò il tessuto floscio contro una luce, fino a capire che si trattava di un altro Balaclava. «Mi tira tutti i capelli!» si lamentò. «E allora legali!» l’uomo le lanciò un elastico verde, ma sbagliò mira, tirandoglielo troppo a sinistra. Lei si piegò di lato e allungò il braccio, afferrandolo, rimanendo in equilibrio sull’orlo del palazzo praticamente solo con una natica. Era un palazzo di almeno quindici piani. L’uomo non fece una piega. «Questo comunque non significa che non sia incazzato di trovarti qui». Marieke si sistemò nuovamente comoda e iniziò meticolosamente a raccogliere le ciocche dei suoi lunghi capelli biondi, chiamandoli all’ordine sotto la stretta dell’elastico. Riuscì a imbastire una sorta di stretto chignon, schiacciato contro la testa. Fatto questo, si calò finalmente il Balaclava sul volto. «La milizia non mi ha mai beccato. Non mi beccava neanche quando avevo dodici anni e venivamo qui per l’addestramento». L’uomo si mise seduto a gambe incrociate sul tetto, continuando a stare alle spalle di lei, sospirando. «Quando avevi dodici anni mi ascoltavi». «Ti ascolto ancora, a parte quando sono per i fatti miei». «A dodici anni non sentivi tutto questo bisogno di stare per i fatti tuoi». «Ma adesso ne ho sedici, Zoner!». Rimasero entrambi in silenzio. Nel silenzio e nel buio. Se anche una sentinella della milizia fosse passata di lì probabilmente non li avrebbe visti. Le sentinelle della milizia, dopotutto, erano pigre e annoiate da quelle parti. Non c’era granché da sorvegliare sul confine con l’okraina. «E potresti convincere mia madre a lasciarmi tagliare i capelli» riprese a lamentarsi Marieke a un certo punto. «Come?». «Corti, come quella tenente della milizia dell’altro giorno». «Mari, per favore, quella l’avevano tosata!». «Ma almeno non aveva casino a lavarli, pettinarli e... mettere il Balaclava!». «Senti, quante ragazze della tua età conosci che si pettinano così?». «E quante ragazze... » Marieke si morse la lingua. Quando si finiva a parlare di confronti con le altre ragazze, finivano sempre con il litigare e in quel momento lei non aveva assolutamente voglia di litigare. Non aveva voglia di niente. Zoner si alzò in piedi, lentamente. Il tetto era quasi piatto, le tegole lo coprivano fitte, ma lui camminava tranquillamente come se si fosse trovato in strada. Si rimise seduto sull’orlo accanto a Marieke, con le gambe nel vuoto. «E comunque ti ho sentita uscire, stavolta».


8 «Ma piantala! Non hai ancora capito come faccio a uscire senza che nessuno mi veda». «Fino al bagno di servizio facile. Poi interferisci con il sistema di sorveglianza. Cucina. Porta dietro. La cinta non la considero neppure». Marieke si prese le mani. «Beh, è uno dei modi... ». «Ti ho vista uscire e sapevo che saresti venuta qui. Ma ti ho lasciata andare. Tanto valeva che ne parlassimo dove piaceva a te». «Parlassimo di cosa?». «Ah, non lo so, dimmelo tu». La ragazza abbassò gli occhi. C’era possibilità che tra il buio, il Balaclava e tutto il resto Zoner non notasse il gesto, ma era poco probabile. Quel piccolo atto di debolezza la irritò. Avrebbe voluto urlare. In verità sentiva il bisogno di urlare da un bel po’. Mugugnò alcune parole smozzicate, incomprensibili. Zoner sospirò, paziente. «Sono un paio di settimane che sei... così. Sempre bisognosa di startene per i fatti tuoi, intrattabile, insopportabile direi». «I miei punteggi in addestramento non si sono abbassati» si difese lei. «Il che è peggio. Se avessi cominciato ad andare male probabilmente mi sarei arrabbiato prima. Oh no, non riguarda l’addestramento quello che ti sta capitando, riguarda te». «Me?». «Gaia parte per Praga tra una settimana». Marieke strinse i pugni. Avrebbe avuto meno effetto pungerla con uno spillo. «E io non posso proteggerla! Nessuno la proteggerà! Così lontana! A cosa servo se la lasciano andare fin là?». «Il tuo dovere è proteggere la famiglia, Marieke. E la famiglia rimane qua, no?». «Ma lei... ». «Oh, andiamo! Quanto ti ci vuole per dire che ti mancherà?». Marieke strinse ancora di più i pugni. Li strinse così forte da far scricchiolare lo spandex dei suoi guanti. «È mia sorella, cazzo». «E finalmente. Ma mica la mandano in guerra. Va solo all’università». «A duemila chilometri da qui». «Beh, sotto molti punti di vista quasi tutto è a duemila chilometri da qui. Non c’è nulla nei successivi duemila chilometri a cominciare da qua». Zoner indicò sotto di sé l’okraina affondata nelle tenebre. Non sbagliava più di tanto. Da quando le cose avevano cominciato ad andare male non era rimasto granché in tutta quell’area d’Europa. San Pietroburgo, con il suo porto e il suo complicato sistema di industrie disseminate nei paraggi, era rimasto l’unico polo effettivamente vivo e potente a cui riconoscere un po’ di civiltà. Mosca, ormai responsabile di un’area popolata da quaranta


9 milioni di persone, era un labirinto sociale praticamente inestricabile, mentre le comunità scandinave sopravvissute avevano tutte dimensioni molto più piccole. San Pietroburgo aveva mantenuto un certo equilibrio, aveva ancora la dignità per chiamarsi città, soprattutto all’interno nel suo nocciolo luminoso dove risiedevano le famiglie benestanti. L’okraina era un altro discorso... ma era comunque gestibile. Marieke fece spallucce. L’abbigliamento militare che indossava, la giacca e i pantaloni neri, il Balaclava... avrebbero dovuto conferirle un aspetto minaccioso, soprattutto nelle tenebre. Non potevano però fare i miracoli e il suo corpo era quello di una ragazzina di sedici anni, non molto alta, con i muscoli asciugati e tesi dall’allenamento, ma quasi senza massa in eccesso. Era un animaletto, un topolino nero appollaiato su un cornicione. Zoner le strinse la spalla con una mano per confortarla. «Ce la ridaranno indietro. Senza contare che vi sentirete un giorno si e uno no». «Ma secondo te lei come... voglio dire... continua a saltare da una stanza all’altra, urla sempre, gesticola come una scema... ». «Oh, lei è terrorizzata, puoi giurarci. Più si avvicina il momento di partire più si pente di aver deciso di iscriversi all’università di Praga e più è convintissima che quest’esperienza sarà un disastro. Ma andrà. E tu la lascerai andare. In questo caso il tuo dovere è questo». «Mi rimarranno mamma e papà da proteggere». «Esattamente, la famiglia Sokolòv deve essere protetta qua, a San Pietroburgo». Zoner aveva ancora la mano sulla spalla della ragazza. La sentì prendere un paio di profondi respiri e rabbrividire. Poi gli parve che si facesse forza per gonfiare il petto. «Andiamo a casa» gli disse. Poi si alzò, dopo essersi scrollata di dosso la sua mano. Lui si tirò in piedi a sua volta e le andò dietro. Si disse che un momento del genere era qualcosa di normale, che non l’avrebbe danneggiata. Anzi, a suo modo sarebbe stata la sua forza. Per svolgere il suo compito, per difendere la famiglia Sokolòv.


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2.

La chiacchierata con Zoner non era stata di grande aiuto, così Marieke si rifugiò nell’unica cosa che riuscisse realmente a svuotarle la testa: l’allenamento. Aveva un programma quotidiano che la occupava per due ore, anche se era solita continuare con gli esercizi anche oltre, fin quando non era troppo stanca per continuare o finché qualcuno non veniva a dirle di smettere. Casa sua possedeva una palestra, un ambiente molto ampio, in cui avrebbero potuto allenarsi assieme anche una mezza dozzina di persone, ma che si trovava nel seminterrato. Questo significava che la luce era quella color ghiaccio dei neon sul soffitto o i pochi raggi di sole che penetravano dai lucernari. Marieke spesso lasciava i neon spenti e quindi, quando giungeva il tramonto, si trovava a muoversi nella penombra quasi senza accorgersene. Per come stava, scelse attività stupide, niente che le necessitasse troppa concentrazione. Se avesse tenuto accesa troppo la mente temeva che avrebbe finito per tornare a riflettere su Gaia e la cosa non le andava. Quindi si tartassò di flessioni, piegamenti, addominali, esercizi ai macchinari. Stava contando il suo duecentesimo sollevamento alla sbarra quando sentì la porta della palestra aprirsi. Si lasciò cadere sul materassino e si girò verso il rumore. «Ciao papà». Valeriy Sokolòv era un uomo non molto alto, quasi completamente privo di collo, con un fisico massiccio che l’età stava rendendo flaccido. Si tingeva i capelli da sempre. In gioventù li aveva tinti dei colori più assurdi, per sembrare più ribelle di quello che era, con l’avvicinarsi della vecchiaia, invece, si limitava a scegliere dei colori più sobri, tanto per coprire l’ingrigirsi della sua chioma castana. Peccato che anche quei colori, su di lui, apparissero comunque finti. Aveva occhi larghi, di un azzurro chiarissimo, da pesce cieco, e mani grandi e grosse, da discendente di contadini. Aveva il controllo del 19% dell’economia di San Pietroburgo, anche se non esisteva un vero e proprio campo dove il suo impero potesse dirsi specializzato. Certo le coltivazioni in serra e la vodka erano ai primi posti tra le sue entrate, ma ruotava intorno a lui una tale costellazione di aziende, società e attività che era ormai impossibile stabilire cosa fosse suo e cosa no in quella città.


11 Si avvicinò alla figlia con un sorriso, le mise le mani sulle spalle lasciate nude dal body aderente e la baciò su entrambe le guance. Lei lo lasciò fare, poi si divincolò con le lamentele di rito. «Papà, dai, sono tutta sudata... ». L’uomo allargò le braccia. «Credi sia un problema, Mari?» «No, papà, però dai... ». Valeriy si tolse la giacca leggera che indossava, abbandonandola sulla panca del bilanciere, e andò a recuperare da un angolo della palestra due colpitori in gommapiuma. «Posso dare una mano alla mia ninja preferita?». Marieke non era molto in vena, ma sarebbe stato più complicato allontanare suo padre che assecondarlo, quindi si mise ubbidiente in posizione da combattimento. «Calci, però». Valeriy Sokolòv era stato un appassionato di arti marziali in gioventù e probabilmente era l’unica altra persona, oltre a Marieke, a usare la palestra con regolarità. Si piantò saldamente sulle gambe e indossò i colpitori sulle mani, dopodiché li dispose a formare una sorta di barriera sul suo fianco destro. Marieke cominciò a colpirli, alternando colpi all’altezza della vita con colpi all’altezza della testa. Le sue gambe sottili frustavano l’aria come lame. «Hai fatto arrabbiare Mathias». L’uomo si mise i colpitori lungo il lato sinistro, senza avvertire. Marieke fermò un calcio a mezz’aria, cambiò piede, e ricominciò a colpire. «Sai com’è... » si limitò intanto a rispondere. Suo padre era l’unica persona che chiamava Zoner “Mathias”. «Credo sia stato lui a suggerirmi di venire qui». Marieke si fermò un momento. «Ah» disse solo. Poi ricominciò a calciare. Valeriy decise di renderle le cose difficili. Cominciò a cambiare la posizione dei colpitori dopo ogni calcio, mettendogliene a favore uno solo, così da imporle anche se tirarlo alto o basso. Marieke continuò a colpire, sempre correttamente, senza perdere il ritmo. «Qualsiasi sorella troverebbe problemi di fronte a una cosa come quella di Gaia» continuò a spiegare l’uomo. «Va solo... all’università» provò a liquidare la faccenda Marieke. Stava cominciando a rimanere a corto di fiato e la cosa la indispettiva. «Io penso che il tuo particolare... ruolo... abbia incasinato ancora di più le cose». «Proteggere... la famiglia... Sokolòv». «Gennadiy Tomachek è stato ucciso, il mese scorso». Suo padre aveva offerto il colpitore a destra basso, Marieke sbatté gli occhi e andò a colpire sinistra alto. Lui si mise l’altro colpitore davanti la faccia


12 appena in tempo per evitare di prendere il calcio. La ragazza si morse il labbro e si fermò, abbassando anche le braccia che, fino a quel momento, aveva tenuto in guardia. «Avevo sentito dire infarto. Anzi, no, mi avevi detto tu infarto». Valeriy si tolse i colpitori dalle braccia. «È stato assassinato, ma la notizia ufficiale è infarto, almeno finché non capiamo chi approfitterà della sua morte. Sai che Gennadiy era mio amico... ed era esattamente in una posizione come la mia. Non devo spiegarti cosa vuol dire, vero?». «Poteva... succedere a te?». Il capofamiglia Sokolòv andò alla panca dove aveva appoggiato la giacca e vi si sedette. Nonostante fosse rimasto immobile a prenderle era evidentemente stanco. «Chi comanda in questa città, Marieke?» Imbarazzata di guardare suo padre dall’alto in basso, Marieke si sedette per terra e cominciò a fare stretching per le cosce. «C’è il sindaco e il consiglio cittadino» rispose, nonostante sapesse cosa intendeva suo padre. «Quelli sono strumenti, formalità. Sono le famiglie come la nostra a controllare la città. Perché siamo noi a portare le risorse qui. Siamo noi a tracciare un confine per tenere fuori l’okraina e nessuno avrebbe convenienza a impedirci di comandare. Sai cosa significa anche, questo?». «Che possiamo fare quello che vogliamo?». «Che nessuno controlla noi. Se una famiglia vuole qualcosa prova a prenderla... e al massimo sono le altre famiglie che devono fermarla». «È quello che è successo con Tomachek?». «Non voglio parlare dei Tomachek. Voglio parlare di noi». «Io sono stata addestrata per proteggere la famiglia Sokolòv». Valeriy strisciò lungo la panca. «Siediti un po’ qua, va». Marieke saltò in piedi e andò a mettersi accanto a suo padre. Con un atto riflesso sciolse i capelli che teneva chiusi in una coda e li legò nuovamente con l’elastico. Era lo stesso elastico che Zoner le aveva tirato sul tetto. «Questa città è un pericolo per tutti noi» decretò Valeriy, «perché in questa città ci sono tutte le persone che vogliono ucciderci. È anche per questo motivo che Gaia va a studiare a 2000 chilometri da qui. Cosa vuoi gliene freghi alla gente di Praga dei Sokolòv? Certo, abbiamo i soldi, qualcuno potrebbe provare a derubarla. Ma se vuoi il nostro potere... devi essere qualcuno di San Pietroburgo». «Mi stai dicendo che Gaia sarà al sicuro?». Valeriy prese ad accarezzare il braccio sinistro di Marieke. La sua mano enorme faceva quasi impressione intorno al braccio sottile della ragazza.


13 «Sarà più al sicuro che qui, sicuramente». «Ma rimane un’imbranata, no?». «E speriamo che a buttarla fuori di casa a calci nel sedere si svegli un po’!». Risero entrambi. Ormai era buio e visto che nessuno aveva acceso i neon si vedevano appena, solo grazie alla luce che filtrava attraverso i lucernari dalle lampade del giardino. Quando ebbero smesso di ridere Valeriy batté le mani così forte da far quasi sobbalzare la figlia. «Ah! Poi c’è la decisione di tua madre!». «Quale decisione?» chiese lei. «Una grande festa. Sabato prossimo. Per l’arrivederci di tua sorella. E visto che con questo anno se ne andranno anche un altro paio di ragazzi come lei festeggeremo anche loro. Abbiamo deciso di fare tutto a casa nostra». «Una festa... a casa nostra? Di quelle della mamma?». «Ho paura di sì, signorina. Preparati a essere conciata da principessa ereditaria». Marieke si rimise in piedi con una smorfia. Se sua madre continuava a sabotare il suo proposito di farsi i capelli corti era esattamente per quella ragione. Quando saltavano fuori serate come quella si ritrovava sempre risistemata da capo a piedi, dipinta come un pagliaccio e con addosso qualcosa di scomodo. E in quanto a imporsi sua madre sapeva essere peggio di Zoner. «Dopo questa bella notizia» disse con ironia, «credo che andò a cambiarmi». «Ma dai, Mari. Non ci dormi, qui?». Lei non pensò la battuta meritevole di risposta e lasciò la palestra. Tramite una stretta scala di marmo arrivò direttamente al piano terra, sul retro, e le fu facile raggiungere il primo piano mediante la grande scala dell’atrio. Stava dirigendosi direttamente verso la sua stanza quando una voce alle sue spalle la fermò. «Scimmietta, ma giù la doccia ci sarebbe, eh. Potresti anche usarla». Si girò a fronteggiare Gaia, in piedi davanti alla porta della sua stanza, in vestaglia, con le mani sui fianchi. Era più alta di lei di quasi una spanna, perennemente abbronzata, capelli castani e occhi azzurri. Era bella, Gaia. Lo dicevano tutti e alla fine anche Marieke aveva finito con l’ammetterlo, a malincuore. Invidiava molto a suo sorella, ma niente come la sua terza misura piena di tette. «No, e perché mi piace sgocciolarti davanti» le rispose polemica. «Vai a lavarti, dai, schifosa». Marieke si gettò avanti e abbracciò Gaia d’improvviso. «No, dai, che mi vuoi beneeee...». Gaia prese a ridere, ma intanto provò a levarsela di dosso. Abbrancò un cuscino da una sedia e cominciò a darglielo sulla schiena.


14 «Che schifo!». Marieke si staccò all’ennesima cuscinata, ridendo. «E comunque giù oltre alla doccia ci sarebbero anche un sacco di cose utili per quel tuo culo lì». Gaia le tirò il cuscino mirando alla faccia, ma Marieke schivò ridendo. Poi corse via, continuando a fare versi, infantile. «Consiglierò a mamma di metterti un vestito particolarmente stretto per la festa! E i tacchi alti!» provò a minacciarla un’ultima volta Gaia, mentre si infilava in camera sua.


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3.

«Sokolòva!». Marieke si tirò in piedi, la sua sedia stridette trascinata indietro. «Sì?». La professoressa indicò la lavagna elettronica: «L’abbiamo già vista questa cosa, no?». Marieke abbassò gli occhi sul proprio palmare e cominciò a farci scivolare sopra le dita, cercando un indizio tra gli appunti che aveva preso. Finalmente, di sfuggita, le parve di riconoscere un nome. «Teorema di Cauchy?» provò a dire. La professoressa non disse niente, ma la sua espressione si rilassò un po’, quindi lei si sentì incoraggiata ad andare avanti. «Teorema degli incrementi finiti di Cauchy, siano f e g due funzioni reali di variabile reale continue nell’intervallo... ». La professoressa fece un gesto annoiato, premette sul suo palmare e la dimostrazione del teorema apparve in una finestra sulla lavagna. «Esatto, Sokolòva, esatto, siediti pure. La sai recitare meglio adesso di quando ti ho interrogata». Marieke tornò a sedersi, Raissa, seduta al banco a fianco, ridacchiò, ma lei la fulminò con lo sguardo, cercando di farla tacere. La professoressa di matematica la rendeva nervosa. Non era solo per il fatto che la matematica non le piaceva e lei oscillava intorno alla sufficienza, era proprio il modo in cui l’insegnante continuava a punzecchiarla, come se si aspettasse che lei, per reazione, diventasse un genio di algebra lineare o qualcosa del genere. Cosa che non era certo un suo obiettivo. Raissa, intanto, era tornata seria, ma picchiettava selvaggiamente sul suo palmare. Dopo un secondo Marieke vide la notifica di un messaggio lampeggiare nell’angolo del suo. Si sincerò che la professoressa non fosse più intenzionata a coinvolgerla e ci cliccò: “Allora questa festa di sabato?” Guardò l’amica aggrottando le sopracciglia, poi le scrisse: “È per mia sorella ed è una cosa piena di gente importante. Ci sarà da impiccarsi”. “La volta buona per trovarti un maschio, no?” Marieke fece scomparire dallo schermo il messaggio senza rispondere. La metteva sempre a disagio il modo in cui Raissa usava “maschio” al posto di “ragazzo”. In verità, in generale, era l’approccio di Raissa verso il sesso che la metteva a disagio, la faceva sentire come una specie di animale da


16 riproduzione. “Cosa mi metto? A rimorchiare davanti a mamma e papà?” decise alla fine di scriverle, quasi con rabbia. Raissa per un po’ tacque, poi cominciò a inviarle una raffica di immagini, erano una mezza dozzina di foto di ragazzi, tutte corredate da nome, cognome ed età. Il meglio a disposizione della gioventù di San Pietroburgo. Alla fine della carrellata scrisse anche il messaggio. “Questi ci saranno, no?” Marieke scorse le foto e dovette ammettere che Raissa aveva ragione. Considerando gli inviti che sua madre aveva fatto, era molto probabile che tutti quei ragazzi ci sarebbero stati. “Non mi sembra comunque l’occasione per trovarmi un fidanzato!” le scrisse. “È esattamente il motivo per cui tua madre fa la festa!” Il messaggio di Raissa era seguita da un esercito incontrollato di faccine maliziose. Marieke alzò gli occhi dal palmare e si accorse che aveva perso completamente quello che la professoressa aveva fatto negli ultimi venti minuti. Che fosse collegato al teorema di Cauchy o che non fosse collegato, ormai la sua lezione era arrivata ad anni luce di distanza da quando era intervenuta e non c’era granché modo di ricostruire quale fosse il percorso fatto. Proprio in quel momento l’insegnante si girò verso di lei e incrociò il suo sguardo perplesso. Aprì la bocca, come per chiederle di nuovo qualcosa, quando la campanella suonò. Evidentemente questo la indusse a cambiare frase. «Comunque questo metodo non va bene per voi. Ve lo ho solo accennato. Domani vedremo quello con cui lavoreremo veramente». Marieke tirò un sospiro di sollievo, ma il momento dopo dovette subire l’assalto di Raissa che le si aggrappò al braccio e cominciò a toccacciare il suo palmare. «Questo, per esempio!» disse, tornando sulle foto che lei stessa aveva spedito e richiamandone una in grande. «Ma secondo te cosa dovrei farci?» si lamentò lei, provando a riprendere il controllo sulle sue cose. «Invitarlo fuori. Uscirci. Poi chiami anche me. Dopo che ci hai fatto incontrare, puoi andartene anche a quel paese». Finalmente Marieke riuscì a rimpossessarsi del suo palmare e spegnerlo, a scanso d’equivoci. «Troia!» le sussurrò. «Principessa vergine!» ribatté Raissa, poi si alzò e uscì dalla classe. Era l’intervallo, già la metà della classe era uscita in corridoio, alcuni altri studenti facevano capannello agli angoli dell’aula. Marieke decise di uscirsene e andò ad appoggiarsi a un muro, a guardare la gente passare. Raissa era indubbiamente la sua migliore amica, ma aveva l’abitudine di volatilizzarsi nell’intervallo per tenere sotto controllo i suoi territori di


17 caccia di sedicenne sessualmente attiva, lasciandola sola. Questo non era un grosso problema, starsene per conto suo era una cosa che le era sempre piaciuta e poi poteva praticare il suo gioco preferito. Di tutti i ragazzi nel corridoio chi era un assassino come lei? L’istituto Derzhavin era uno dei licei più importanti della città, persino alcune delle facce che Raissa le aveva mostrato sul palmare erano lì, era il luogo dove andava a studiare la maggior parte dei rampolli delle famiglie potenti. Zoner le aveva spiegato come funzionava: la maggior parte delle famiglie avevano allevato qualcuno come era stata allevata lei. Li chiamavano “assassini di famiglia”, “guardie di sangue”, “cavalieri”... ognuno aveva un nome pittoresco e spesso ridicolo per quello che erano. La tradizione, dopotutto, aveva radici lontane. Ai tempi del nonno di suo padre, quando il mondo era collassato e la situazione era veramente brutta, le famiglie che potevano permetterselo facevano sì che tutti i propri figli ricevessero un addestramento al combattimento e all’omicidio, perché in quei tempi bui ritrovarsi in una lotta all’ultimo sangue era molto probabile. Con lo stabilizzarsi della situazione e, in generale, il ritorno alla normalità, le famiglie si erano limitate ad allevare qualcuno che le proteggesse e in cui potessero avere completa fiducia. Uno per ogni generazione che potesse vegliare su tutti gli altri. Molti credevano che tutta quella storia fosse una leggenda metropolitana o qualcosa del genere, ma lei sapeva che non era così e questo le permetteva di guardare anche il corridoio di un liceo con occhio diverso. Le famiglie si impegnavano sempre ad avere molti figli. Il fatto che lei avesse solo una sorella era un caso eccezionale. La media, tra le personalità più potenti di San Pietroburgo, era quattro figli per famiglia. Il suo gioco crudele era capire quale dei quattro avrebbe potuto uccidere un uomo con l’uso di due dita, o scalare le mura della scuola aggrappandosi a una grondaia. Per questo se ne stava appoggiata a un muro, individuava qualcuno appartenente a una famiglia del suo livello e poi cercava di capire dai gesti e dal suo modo di comportarsi se era un assassino. A un certo punto si sentì istintivamente attratta da una ragazza leggermente più bassa di lei, dai capelli neri tagliati a caschetto, gli occhi grandi e una figura estremamente sottile. Quando capì chi era provò un brivido di angoscia: si trattava di Davidina Tomachek, la minore dei tre figli di Tomachek. Pensò di distogliere lo sguardo, ma era troppo tardi, gli occhi di Davidina avevano ormai incrociato i suoi e la guardavano con aria interrogativa. La salutò con un cenno, lei si avvicinò. Notò subito che aveva un trucco molto pesante, soprattutto per quello che riguardava il fondotinta. Questo conferiva alla sua pelle un pallore e una lucentezza innaturale, simile a quella del marmo. «Ciao Marieke» disse.


18 Visto che i loro padri erano molto amici, loro si erano incrociate alcune volte anche fuori da scuola. «Ciao Davidina». «Volevo ringraziarti per l’invito alla festa di sabato, i miei fratelli grandi verranno sicuro... la mamma, beh, non so e io... vedo con la mamma». “E se fosse lei?”. Ormai la mente di Marieke stava galoppando per conto suo. “Se fosse lei l’assassina della famiglia? La persona addestrata a proteggere i Tomachek? Eppure suo padre era morto...” «Come...? Uhm... ah sì, sì, figurati... anche a me... irrita tutta questa... roba formale». Marieke si addestrava da sempre, da quanto riusciva a tornare indietro con la memoria. Eppure non aveva mai dovuto difendere veramente nessuno della sua famiglia. Zoner continuava a ribadirle che il giorno in cui si fosse trovata in una situazione di pericolo la sua vita sarebbe cambiata per sempre. Era terrorizzata dall’idea che veramente prima o poi sarebbe giunto un momento del genere, ma l’ansia che provava era niente rispetto a quello che doveva provare Davidina, sempre che fosse lei l’assassina di famiglia. “Cosa si può provare a fallire in quel modo?”. Anni di addestramento, anni di disciplina e sacrifici, e poi, in un solo momento, tuo padre è morto ed è tutta colpa tua. «No beh, sarebbe stato carino, ma... capisci che non è periodo... ». Marieke si accorse in quel momento che il trucco di Davidina era così pesante per nascondere qualcosa, probabilmente occhiaie da pianto o magari un pallore ancor più spettrale di quello conferito dal fondotinta. Rivide suo padre che le diceva che sarebbe potuto essere al posto di Tomachek. E a quel punto lei sarebbe stata al posto di Davidina. «Sì, sì, figurati... ». Avrebbe voluto dirle che sapeva cos’era successo veramente. Almeno non avrebbe dovuto portare avanti la pantomima della storia dell’infarto. Avrebbe voluto anche confessarle di essere l’assassina dei Sokolòv e che quindi capiva perfettamente quello che stava passando o quantomeno poteva provarci, ma in realtà l’unica cosa che desiderava era una via d’uscita da quella situazione maledetta, una qualsiasi scusa per chiudere quella discussione e smettere di pensarci. Fortunatamente qualcuno chiamò Davidina dalle sue spalle, lei le sorrise un’ultima volta e andò via. Rimasta sola, Marieke si sentì mancare l’aria e rientrò in classe. Si sedette al suo banco, tirò fuori il palmare e cominciò a predisporlo per la lezione di storia che ci sarebbe stata l’ora successiva. Pochi secondi dopo Raissa le si sedeva al fianco. «Se mi metto con uno degli invitati e vengo anch’io alla festa? Così hai compagnia». Marieke richiamò l’addestramento. Era sempre a disagio a farlo, ma in quel


19 momento sentiva di averne bisogno. Contrasse qualcosa, dentro di sé, che irrigidì i sentimenti e le diede modo di manipolare il suo comportamento. Con solo un secondo di esitazione sorrise alla sua amica. «Non ti voglio alla festa. Non voglio che mi vedi con il vestito che metterò». «Oh, carina, ma io ti vedrò. Appena sarai pronta voglio che mi chiami e ti metti davanti alla cam e sfili. E registrerò tutto. Non l’ho mai visto un abito da principessa vergine». Raissa non apparteneva a una delle famiglie potenti di San Pietroburgo. Suo padre era un importante funzionario del porto, cosa che le dava un tenore di vita elevato, ma era ben lontano dalle persone che effettivamente prendevano le decisioni per il destino della città. Raissa era una ragazza di buona famiglia, ma senza lo stigma di “nobiltà” che aveva addosso Marieke. Per questo per lei era stato facile farci amicizia, era lontana da tutti quegli ambienti che condizionavano la sua vita e il suo destino. Le mise un braccio intorno alle spalle. «Vorrà dire che te lo regalerò quando la festa sarà finita». «Davvero??». «No, sei molto più grassa di me, non ti starebbe». Raissa le diede una sberla e se la scrollò di dosso. La ricreazione era ormai finita, tutti gli studenti stavano tornando ai loro banchi, dietro l’ultimo entrò il professore di storia che salutò tutti e guadagnò rapidamente il silenzio per cominciare la lezione. Marieke abbassò lo sguardo sul suo palmare e si vide un momento riflessa nello schermo scuro. Dedicò un ultimo pensiero a Davidina, seduta in una classe non molto distante dalla sua, pronta a cominciare anche lei una lezione. Una ragazza adolescente in una situazione assolutamente normale. Eppure le sembrava quasi di sentire, attraverso le pareti delle aule, rimbombare il pensiero che aveva in testa: “mio padre è morto ed è tutta colpa mia”.


20

4.

Marieke rifletteva sulla possibilità di passare tutta la sera sotto la doccia, così da evitare la festa. Pensava che nessuno sarebbe venuto a portarla via da lì, per cui se, semplicemente, non ne fosse più uscita, sarebbe riuscita facilmente a sopravvivere. Abbandonò il piano dopo dieci minuti, nella doccia faceva troppo caldo, l’acqua le era venuta a noia e cominciava a provare una sensazione come se la sua pelle fosse bollita. Girò stizzita la manopola e uscì dal box, artigliando l’accappatoio e indossandolo. A quel punto si tirò il cappuccio fino al naso e cominciò a frizionare i capelli con rabbia. “Sei pronta a vedere la strega? Pronta?”. Si tirò via il cappuccio dalla testa davanti allo specchio. I suoi capelli le saettavano intorno al viso come rami spezzati di un albero secco. Per qualche motivo misterioso, poi, questo evidenziava sia i suoi occhi troppo grandi sia il suo naso con la punta verso il basso. Raissa continuava a dirle che se si fosse curata un po’ avrebbe potuto essere la più figa della classe, ma Raissa non capiva che il modo in cui si presentava a scuola era già un miracolo, considerando il materiale di partenza. Pensò all’addestramento. Non c’era niente, dopotutto, in cui l’addestramento non potesse risultare utile. Gettò a terra l’accappatoio che le dava fastidio, si mise dritta in piedi davanti allo specchio come negli esercizi di concentrazione di Zoner, prese in mano la spazzola e cominciò a passarsela tra i capelli, contando. “E finché non hai contato mille non smetti”. Verso ottocento i suoi capelli erano già più presentabili, ma arrivò comunque a mille. Intanto aveva acceso la ventola e l’atmosfera del bagno l’aveva già completamente asciugata. Una frettolosa passata di un asciugamano su tutto il corpo fu sufficiente a completare l’opera. I capelli dovevano rimanere umidi ancora un po’, faceva parte della pratica per addomesticarli. Uscì dal bagno. Era il suo bagno personale, tutte le camere da letto del primo piano avevano un bagno proprio, era uno dei più palesi benefici di essere ricchi. Così si ritrovò direttamente davanti al letto e sul letto, drappeggiato come la bandiera piantata da un conquistadores, il vestito della serata, il frutto di una lunga lotta diplomatica con sua madre: un vestito lungo, color panna, che le lasciava le braccia nude, aderente sui fianchi, con


21 in fondo alla gonna un bordo in tulle leggermente più chiaro. L’unico tocco giovanile era una fascia rosso vivo che andava dalla spalla destra fin sotto le costole a sinistra. Lo osservò ancora un po’ con circospezione mentre si metteva l’intimo, e poi se lo infilò, cercando di non distruggerlo. Dovette spendere cinque minuti buoni a pizzicarsi a destra e a sinistra per sistemarselo, ma alla fine sentì che lo aveva addosso correttamente e andò a guardarsi allo specchio dell’armadio. Fece scorrere lo sguardo dalla testa ai piedi un paio di volte e le venne da ridere. Ma non rideva perché si sentiva ridicola, rideva perché si trovava carina. Non se lo sarebbe mai aspettato, ma il vestito esaltava la sua figura, la slanciava, si accordava con i suoi capelli biondi e faceva risaltare le sue gambe, che erano indubbiamente la parte migliore del suo corpo. Non l’avrebbe mai ammesso con sua madre, nemmeno sotto tortura, ma si piaceva vestita così, poteva quasi fingersi una persona diversa, una persona che si eccita ad andare a feste mondane e passa tutta la sera a cercare gli occhi dei ragazzi carini per fargli credere di essere interessata. Stava ancora guardandosi negli occhi facendo smorfie, quando si ricordò di se stessa e cominciò un’analisi completamente diversa. Il vestito le impacciava i movimenti? Le braccia erano libere, ma con quella gonna non avrebbe potuto correre, figurarsi tirare calci. Cosa poteva nasconderci? Se avesse avuto le maniche lunghe avrebbe potuto mettersi qualcosa al polso, ma vista la situazione doveva optare per qualcosa di diverso. Fortunatamente la chiusura a bottoni sulla schiena era leggermente spostata sul lato sinistro. La riaprì quasi completamente, prese una delle sue lame più sottili e provò a infilarcela dentro. Si ritenne soddisfatta del risultato, avrebbe dovuto fissarla con un paio di punti di ago e filo e l’avrebbe sentita contro la scapola, ma niente di drammatico. Dare i punti non sarebbe stato un problema, l’addestramento di Zoner le aveva anche insegnato a cucire. Poi, ovviamente, c’era la pochette. Quasi anonima, stesso colore del vestito, con le cuciture come la fascia rossa. Lì dentro ci sarebbe stato tranquillamente uno dei suoi coltelli standard e la piccola squarebox, la pistola pieghevole calibro 22 che aveva sempre con sé proprio perché poteva infilarla dappertutto. Non un equipaggiamento adatto a fermare un carrarmato, ma dopotutto era una festa in casa. Sistemò dunque quelle ultime cose, diede un rapido colpo di phon ai capelli e uscì in corridoio. «Per tutti i santi. Finalmente sono una donna felice!» disse subito qualcuno alle sue spalle. Si girò e si trovò davanti sua madre. Più alta sia di lei sia di sua sorella, capelli castani vaporosi scolpiti in un’elaborata acconciatura, occhi azzurri di un azzurro acceso, vivo, non come quello di suo padre. Indossava un ampio vestito da matrona color indaco, mentre al collo aveva una splendente collana d’oro bianco. Eccitata, le si avvicinò a passi veloci,


22 quasi correndo, e le appoggiò le mani sulle spalle. «Non era poi così difficile sembrare una bella ragazza, no?». Marieke avrebbe voluto evitare di dargliela vinta, ma era consapevole di essere raggiante. «Mh... ok... no». Sua madre la abbracciò con la delicatezza di uno scienziato con una farfalla tra le pinzette, per non rovinare il quadro, poi si tirò indietro. «In verità però abbiamo ancora almeno un’ora prima di entrare in scena. Il che è un bene, considerando che tua sorella penso sia ancora in mutande». Marieke cominciò a intuire i lati negativi della situazione. Non c’era nulla, delle cose che usualmente faceva per passare il tempo, che poteva fare con addosso quel vestito. Ed era già terrorizzata all’idea di rovinarlo. Sarebbe stata un’ora molto lunga. «Beh, in questo caso... tornerò in camera, dai». Zoner comparve in quel momento in corridoio, nel completo nero delle guardie della sicurezza. Fissò Marieke facendo finta di non riconoscerla, poi le si avvicinò e le girò intorno. Rimase alle sue spalle battendo mollemente le mani. «Avvertimi però, la prossima volta che fai una cosa del genere. Ho bisogno di prepararmi». Marieke sentì le sue guance accendersi e la pelle formicolare. Lo sguardo di Zoner le stava facendo un effetto strano. Non la stava guardando come l’aveva guardata praticamente ogni giorno della sua vita, c’era nei suoi occhi una luce diversa. Pensò che se l’avesse guardata un po’ più intensamente l’avrebbe bucata da parte a parte. Zoner la fissava ormai da diversi secondi, come se fosse una bomba da disinnescare. A un certo punto si chinò su di lei. Lei cominciò a farsi film assurdi in testa, ma lui si limitò a fermarsi all’altezza del suo orecchio. «C’è una lama, accanto alla chiusura?». Deglutì e si rilassò. «Sì, una piccola». «Potevi cucircela dentro meglio, mi sa... bah... basta che non cada». «Ehm... no, non dovrebbe cadere». «In ogni caso ho caricato i piani di difesa della serata e i nomi in codice. Visto che hai un’ora... ». «Assolutamente sì. Andrò a studiarmi quelli» Marieke trovò molto confortante che stessero parlando esattamente di quello di cui avevano sempre parlato. Non era sicura di volere uno Zoner diverso da quello che aveva sempre avuto né che il suo atteggiamento verso di lei cambiasse. Tornò a rivolgersi sorridente a sua madre. «Bene, allora io me ne torno in camera. Quando credi sia il momento vienimi a prendere!». Sua madre annuì e lei intese quel segnale per fuggire via. Si lasciò quindi


23 dietro sia lei sia Zoner e tornò nella sua stanza. Quando richiuse la porta dietro di sé, era ancora un po’ scossa. Non solo la preoccupava l’effetto che lo sguardo di Zoner aveva avuto su di lei, la preoccupava la possibilità che tutti gli sguardi dei maschi la facessero sentire così. Se già credeva faticoso gestire la festa, le sarebbe stato impossibile, con quella sensazione di disagio perennemente addosso. Provò a non pensarci e si sedette al suo terminale, per leggere le informazioni che Zoner aveva redatto per lei. La rete globale era sopravvissuta al collasso, ma era diventata inaffidabile. In realtà nessuno ne aveva più il controllo, semplicemente grosse porzioni di server, sparsi per il mondo, avevano continuato a funzionare e ovunque erano rimaste disponibili connessioni per raggiungerli. La maggior parte delle macchine, però, era stata presa d’assalto da malintenzionati o persone desiderose di piegare la rete ai propri scopi e così era diventato praticamente impossibile recuperare informazioni senza incappare in qualche software ostile. Per questo era nato il sistema delle enclavi, porzioni di rete limitate, simili a intranet, che concedevano accesso agli utenti solo dopo innumerevoli controlli. Cittadelle completamente disgiunte dalla rete globale, dove le informazioni venivano filtrate, trattate e riordinate prima di essere messe a disposizione. Si poteva appartenere a tutte le enclavi che si voleva e ogni enclave metteva a disposizione dell’utente una piccola area privata. Era come avere più appartamenti in diverse città. L’enclave, oltre all’area privata, consentiva anche l’accesso a tutte le risorse che erano presso di lei, risorse non dissimili da quelle che una volta erano reperibili sulla rete globale. Esistevano diversi sistemi di autenticazione presso le enclavi. La maggior parte si basava sul B.U.R.K., biometric universal recognition key, un chip che ci si poteva installare sottopelle e che permetteva di affermare la propria identità presso le macchine. Enclavi più paranoiche, come quella di Zurigo presso cui erano gestiti i soldi dei Sokolòv, oltre a questo pretendevano che l’origine della connessione fosse certificata come affidabile. Una qualifica a volte molto difficile da ottenere. Marieke passò il palmo della mano sul sensore di riconoscimento e attese che il suo B.U.R.K. ottenesse per lei l’accesso all’enclave di San Pietroburgo. Appena fu connessa alla sua area privata, la prima cosa che notò fu un messaggio in attesa in un angolo dello schermo. Era Raissa con un laconico “Il vestito della principessa vergine?”. La sua amica non era più online, quindi non avrebbe potuto interagire con lei direttamente, ma pensò che si meritasse comunque qualcosa. Si mise quindi in piedi in mezzo alla stanza, quasi in posa, e fece scattare una foto all’occhio elettronico installato


24 sopra lo schermo del terminale. Inviò la foto a Raissa senza commenti, sperando che le bastasse. A quel punto aprì il documento con le informazioni di sicurezza che le aveva inviato Zoner. Era il consueto dossier sulle misure prese per tutelare la sua famiglia. Era già stata coinvolta direttamente in altre operazioni del genere, occasioni mondane a cui aveva presenziato assieme ai suoi genitori o addirittura incontri di lavoro a cui suo padre l’aveva portata con una scusa. Ormai stava cominciando a prendere dimestichezza con quel tipo di informazioni. Studiare la cartina del luogo le sarebbe stato inutile, visto che conosceva abbastanza casa sua da non aver bisogno di un ripasso. Più interessante la composizione della squadra di sicurezza e, soprattutto, i nomi in codice. Alla serata, nella sala insieme a loro, ci sarebbero state otto guardie. Sarebbero state in bella vista, nei loro completi scuri, con le armi a malapena nascoste. Zoner sarebbe stato con loro. Via radio, si sarebbero chiamati l’un l’altro usando nomi in codice. Come al solito, Zoner aveva scelto parole assolutamente a caso: c’era “violinista”, “sigfrido”, “metallo” e altre cose così. Zoner, per sé, aveva riservato “boyscout”, che poi era il nome che usava abitualmente. Oltre alle guardie in sala ci sarebbero stati altri dieci uomini dispiegati intorno alla casa, a coprire i punti d’accesso. Dopo aver letto tutti o nomi, Marieke si fermò un momento per impararli a memoria assieme alle loro posizioni. Non le fu difficile, grazie all’addestramento imparava cose del genere senza difficoltà. Infine, c’erano i nomi per la sua famiglia. Suo padre sarebbe stato “Bering”, sua madre “Ametista”, sua sorella Gaia “Strogoff” e lei “Libellula”. Marieke interiorizzò anche questi con semplicità, poi arrivò in fondo al documento. Nell’ultima riga era segnato un ultimo nome: “Andromeda”. Anche quel nome sarebbe stato suo, come “Libellula”, ma al contrario degli altri, che erano noti a tutta la squadra di sicurezza, quello sarebbe stato condiviso solo da lei e Zoner. L’aveva sempre affascinata il fatto che, in quelle situazioni, lei avesse due nomi, come se le fosse data la possibilità di vivere due vite parallele. Per tutti sarebbe stata “Libellula”, la secondogenita di Sokolòv, uno degli obiettivi da difendere. Per Zoner invece sarebbe stata “Andromeda”, la sua arma in più, l’agente che nessun altro sapeva essere presente alla festa. Zoner si sarebbe rivolto a lei via radio solo in situazioni di emergenza, perché non era interessato nemmeno a rendere nota la sua esistenza agli altri uomini della sicurezza. Sarebbe andato tutto bene, ne era convinta. Le prime due volte che aveva dovuto studiare brief di quel genere aveva finito con il farsi saltare in testa le idee più assurde su cosa poteva andare storto e su come qualcuno avrebbe potuto provare a fare del male alla sua famiglia. con il passare del tempo, però, si era abituata a quel tipo di situazioni e le trattava esattamente come


25 trattava l’addestramento: con disciplina e rigore, ma senza alcun sentimento. Secondo Zoner quello era l’unico modo in cui poteva fare al meglio il suo dovere. Prese dalla scrivania l’auricolare per le comunicazioni e lo indossò. Incastrato bene in fondo al suo orecchio nessuno lo avrebbe notato. I giri di controllo erano già cominciati, le varie guardie si rimpallavano messaggi di avviso e conferma quasi con noia, tessendo intorno alla festa una discreta rete di sussurri. Si alzò in piedi, controllò un’ultima volta la lama cucita nel vestito, recuperò la pochette con dentro il coltello e la pistola e uscì dalla sua stanza. Nuovamente, come se la stesse sorvegliando, sua madre le venne incontro. «Ah, eccoti cara, direi che possiamo andare». «Gaia?» chiese, notando la porta della camera di sua sorella ancora chiusa. «Lasciamo a Gaia l’ultima entrata da sola, da festeggiata. Io intanto mi divertirò a esibire te». Marieke notò l’uomo in abito scuro in fondo al corridoio, nome in codice “Madrigale”. «Oh, chissà che spasso». «Cosa ne sai dei passatempi delle signore come me?». Sua madre le offrì pomposamente il braccio, lei accettò, forse stringendosi un po’ troppo contro di lei. Le piaceva quell’andare a braccetto, era come se si proteggessero a vicenda, ognuna secondo il suo ruolo. «Pronta, Mari?». «Sì, mamma, andiamo». Si incamminarono verso la scalinata.


26

5.

In una comunità chiusa come quella di San Pietroburgo, soprattutto nel cerchio ristretto delle famiglie più potenti, una qualsiasi festa si trasformava rapidamente in evento. Ed era un vero e proprio evento quello che si stava svolgendo a casa dei Sokolòv, nel grande salone, quello che veniva aperto soltanto per le occasioni importanti. Situato nel retro della casa, il grande salone aveva una bizzarra forma ovale che ricordava un’arena o uno stadio. Vi si accedeva attraverso due grandi porte laccate di bianco ma, dissimulate tra le colonne, c’erano anche un paio di porticine che arrivavano facilmente alle cucine. Proprio di fronte a queste porte erano state sistemate le lunghe tavolate con i buffet, coperte con tovaglie bianche. Per il resto della sala, invece, erano sparsi tavolini più piccoli e sedie, che le persone continuavano a spostare nel formare o disfare gruppetti da chiacchiere. Era una sala enorme, ma non una sala da ballo. Il ballo era passato di moda da così tanti anni, che proporre una festa danzante era più che altro rischioso. Questo, però, faceva sì che l’ambiente apparisse troppo grande, con ampi spazi vuoti che le persone, quasi in soggezione, attraversavano di rado. Visto che la festa era dedicata a Gaia e a un paio di altri ragazzi che lasciavano la città per andare a studiare lontano, nonostante l’aspetto piuttosto pomposo del ricevimento, c’era molta gioventù. Ovviamente Gaia aveva avuto mano libera nell’invitare chiunque le interessasse vedere e quindi c’era un nutrito gruppo di ragazzi della sua età. Un po’ meno erano quelli dell’età di Marieke. In realtà Marieke stessa non avrebbe avuto problemi a invitare persino Raissa, ma era consapevole che dopo l’impatto iniziale persino la sua amica avrebbe trovato tutto mortalmente noioso. Non era l’unica a pensarla così ed era evidente che tutti i suoi coetanei che erano lì lo erano per fare presenza o perché le famiglie gliel’avevano imposto. Marieke si stava ancora guardando intorno per prendere le misure all’ambiente quando l’auricolare attirò la sua attenzione. Il tono della litania dei check continui si era lievemente alzato. Le ci volle un po’ per capire che il motivo dell’eccitazione era proprio l’ingresso di lei e sua madre. «Ametista e Libellula in campo. Sotto controllo, nessun problema». «Libellula in forma notevole direi». «Check sulla forma di Libellula».


27 «Check, assolutamente». «Qui boyscout, possiamo attenerci alle comunicazioni di servizio? Grazie». «Kharasho, boyscout». «Kharasho». «Kharasho». Marieke sorrise tra sé e sé. Era come sbirciare nello spogliatoio dei maschi alla lezione di educazione fisica. Persino sua madre si accorse che si mordeva il labbro. «Ho esagerato con le suppellettili?» le chiese. «Assolutamente no. Ha tutto una gradevole aria da... Tolstoj». Sua madre non poté rispondere alla frecciatina perché le si fece incontro una matrona all’incirca della sua età, con i capelli nerissimi e gli occhi color ghiaccio. Altissima, era chiusa in un abito verde scuro attillato che dava al suo corpo un aspetto quasi artificiale. – «Ma... Roksana! Chi è lo splendore che ti accompagna?» esclamò. «Lieta che tu non abbia riconosciuto Marieke, Milena». «La mandavi in giro con quella roba anonima per farmi una sorpresa stasera?». Le due donne ridacchiarono. Marieke rispose un rapido «Grazie, signora Zatyeva», e improvvisamente si ricordò per quale motivo odiava quelle situazioni. Stava già sudando troppo per i suoi gusti ed era certa che, se si fosse distratta un attimo, sarebbe inciampata nel vestito. Su tutto questo incombeva la prospettiva di dover incassare ancora dozzine di battute del genere, soprattutto se rimaneva nell’orbita di sua madre. Lasciò andare quindi il braccio di Roksana e, approfittando del fatto che era appassionata a chissà quale aneddoto della Zatyeva, iniziò ad allontanarsi da lei, con nonchalance, come se stesse andando alla deriva. Intanto, cominciò a catalogare le persone presenti, alla disperata ricerca di qualcuno che non trovasse eccessivamente insopportabile. Le prime persone su cui cascò il suo sguardo furono i due fratelli Tomachek. Erano entrambi maggiori di Davidina e una rapida occhiata alle loro facce la convinse che aveva ragione a credere che l’assassina di famiglia fosse la ragazza. Al di là del fatto che non sembravano troppo svegli, mancavano anche di un fisico adatto. Uno era troppo grasso e l’altro sembrava incapace di reggersi in piedi senza appoggiarsi da qualche parte. Poi individuò la chioma ossigenata, quasi bianca, di Anastasia Nababkina, l’amica del cuore di sua sorella, assieme a un altro paio della sua compagnia, che si guardavano a vicenda i cellulari per qualche oscura ragione. Secondo una legge non scritta antica come il mondo non andava per niente d’accordo con le amiche di sua sorella, quindi ne girò al largo. Purtroppo, nel suo vagare, incappò in pieno in un paio di vecchi amici di suo padre, che, ovviamente, la fermarono per farle i complimenti sul vestito


28 e sul suo aspetto. Sorrise ligia all’etichetta e sospirò di sollievo quando le chiesero dove erano i suoi genitori. Fortunatamente non aveva mai perso di vista sua madre, quindi gliela indicò prontamente. Aveva fame. Visti i cicli degli allenamenti era abbastanza rigorosa nei pasti, che però comprendevano anche uno spuntino pomeridiano che, a causa dei preparativi della festa, aveva saltato. Fortunatamente quello non rappresentava un problema, puntò direttamente il buffet. La pochette le teneva occupata una mano e questo ovviamente le avrebbe reso difficile servirsi. Avrebbe potuto chiedere aiuto a uno dei tre camerieri in zona, ovviamente, ma la cosa, in qualche modo, la infastidiva. Appoggiò quindi la borsetta su una sedia, prese un piatto e cominciò a riempirlo, puntando principalmente alle tartine. Non che avesse qualcosa contro i primi o i secondi, ma quelle erano più facili da mangiare e non aveva idea se avrebbe avuto modo di sedersi e, soprattutto, con chi. «Immagino che per i complimenti al vestito siano ormai un po’ in ritardo». Accanto a lei, intento a sua volta a mettere qualcosa nel piatto, stava Georg Gurdjieff. Suo coetaneo, non frequentava l’istituto Derzhavin, ma il Malevic, l’unica altra scuola che potesse contendersi le rette dei figli delle famiglie bene di San Pietroburgo. Marieke l’aveva incrociato alcune volte e ovviamente ne era rimasta colpita. Georg era di colore, come sua madre, ma aveva il fisico squadrato e gli occhi azzurri di un russo. Ovviamente persino una città di frontiera come San Pietroburgo, ai confini del mondo, aveva ormai raggiunto una certa commistione delle razze, ma commistioni come quella di Georg erano abbastanza rare da essere degne di nota. Anche la storia del ragazzo aveva un che di affascinante: Vasilij Gurdjieff si era spostato tre volte, la madre di Georg era la seconda moglie, una donna arrivata fino a San Pietroburgo dall’Inghilterra in una maniera che non era mai stata chiara a nessuno. Era scomparsa tre anni dopo la nascita del figlio, altrettanto misteriosamente, lasciando il bambino a suo padre e ai suoi due fratellastri maggiori. Suo padre a quel punto era rimasto solo a lungo e si era risposato per la terza volta solo molto dopo, ma era riuscito poi, in brevissimo tempo, ad avere un figlio anche da quella relazione. Georg era quindi schiacciato tra la famiglia consolidata del primo matrimonio, con due fratelli che si sentivano principi ereditari di chissà cosa e la famiglia presente che, ovviamente, aveva tutte le attenzioni del caso. Nonostante questo era un ragazzo solare, molto simpatico e divertente. Uno di quelli che finisce sempre con il farsi notare alle feste. “Beh” pensò Marieke “feste diverse da questa”. «Sinceramente penso ne riceverò tutta sera» ribatté, sentendo solo a posteriori la vanità nella sua voce. «Almeno avrai qualcosa da fare». «Perché? Non c’è niente di interessante per te?».


29 «Ah guarda, c’è giusto mio padre che sta chiacchierando con il tuo, probabilmente di quotazioni dei metalli. Potrei andare lì ad annuire». «Il risultato, insomma, è che mi corteggi per noia». Georg si inceppò, distolse lo sguardo da Marieke e si concentrò terribilmente nella complessa attività di mettersi una polpetta nel piatto senza versare sugo. «Veramente... ». Marieke rise. «Sto scherzando, dai. Neanch’io trovo ci sia niente di interessante da fare... ». «E il risultato è che fai la civetta per noia?». I loro sguardi si incrociarono. Marieke si fece improvvisamente seria. «Ho una pistola nella borsetta» disse. Era, oltretutto, vero. «Allora io so schivare i proiettili». Questa volta risero entrambi, di gusto. Marieke smise solo quando realizzò che muovendosi troppo avrebbe finito con smontare il vestito. «Senza contare che la parola “civetta” non si usa più da almeno un secolo». «Tutte le altre che mi sono venute in mente sono volgari e preferisco usarle fuori di qui». «Le mie nobili orecchie apprezzano». A nominare le orecchie, Marieke si ricordò dell’auricolare. Fino a quel momento era riuscita a ignorare quasi del tutto la litania di comunicazioni di servizio, ma sentì che nuovamente stava salendo l’eccitazione per cui decise di dedicargli del tempo. Le ci volle un po’ per capire che sua sorella era appena entrata in sala. Questa volta nessuno si fece scappare commenti sul suo aspetto. «Non posso invitarti a ballare perché a questa festa non si balla» stava intanto continuando a giocare Georg, «ma spero non ti spiacerà se ti chiamo la prossima volta che c’è qualche evento... uhm... divertente». Marieke tornò a concentrarsi su di lui. «Per vedere se mi corteggi anche quando non ti annoi?». «Per essere un esperimento valido, però, dovrai presentarti di nuovo vestita così». In quel momento qualcuno chiamò Georg dietro di lui, un altro ragazzo della sua età che però Marieke non conosceva. Il terzo incomodo era intento a tenere l’attenzione di un paio di ragazze più grandi di lui ed era in evidente difficoltà. Georg alzò gli occhi al cielo, si scusò con un cenno e andò in suo soccorso. Marieke rimase impalata accanto al buffet, cominciando a sbocconcellare le tartine che si era messa nel piatto, guardando Georg allontanarsi. Era abbastanza soddisfatta di come era riuscita a districarsi in quella situazione. Innanzitutto gli occhi di Georg su di lei le avevano fatto molto meno effetto


30 di quando l’aveva guardata Zoner e poi aveva trovato piacevole quel parlare a vuoto, facendo finta di essere qualcun altro, come in un gioco di ruolo. Considerando anche la bella figura di Georg, il suo aspetto compatto e allo stesso tempo slanciato, i suoi occhi splendenti nel buio del suo volto, era convinta che anche Raissa sarebbe stata orgogliosa di lei. «Wow!» disse sua sorella, abbracciandola alle spalle. L’aveva sentita arrivare, ma aveva preferito lasciarla fare. Gaia la baciò su una guancia. «Vestita da figa. Intenta a flirtare! Se sapevo che serviva a svegliarti, sarei andata via di casa molto prima, Mari!». Marieke se la staccò di dosso. «Sempre a prenderti il merito di tutto te, eh!». Sua sorella era bellissima. Il suo vestito aveva un taglio un po’ antico, molto più vicino a quello di sua madre che al suo, ma splendeva di un azzurro intenso che trasmetteva un forte senso di vitalità. Il contrasto con la sua pelle abbronzata, poi, la faceva quasi brillare. Marieke, però, sentiva anche la tensione che attraversava Gaia, tensione che non riguardava solo la serata dedicata a lei, ma anche il grande salto che stava facendo andando a Praga. La tensione, insomma, che in qualche modo condivideva con lei. «Comunque porto notizie da mamma. È orgogliosa di te e parlerà di questa serata negli anni a venire. Dovrei essere gelosa, visto che è la mia festa, ma anch’io sono soddisfatta di vederti ripulita, per una volta. Papà? Hai invece visto papà?». «Prima era con Gurdjieff, ma adesso ammetto di averlo perso di vista». «Dai, vorrei salutarlo prima di cominciare a fare la scema. Potresti controllare che non mi ubriachi?». «Gaia, scusa, perché dovresti ubriacarti?». «Perché tutti mi offriranno da bere, è ovvio! E io berrò. Temo che stasera avrò poca lucidità, sai, sono poco lucida anche in questo momento». Marieke sapeva di essere la guardia del corpo di sua sorella, ma non pensava di doverlo essere in quel senso. Le prese le mani, erano ghiacciate. «Mmmh, ok, periodicamente ti verserò quello che hai nel bicchiere sul vestito, ok?». Gaia finse di rifletterci. «Mh, ok, sta bene!». Marieke individuò suo padre, verso un angolo della stanza. Era sul punto di indicarlo a Gaia quando vide due guardie correre verso di lui e l’auricolare prese a gracchiare in maniera assordante con la voce di Zoner. «Perimetro violato! Perimetro violato! Siamo sotto attacco! Mettete in sicurezza gli obiettivi!». In quel momento si sentirono due esplosioni e alcuni candelotti fumogeni cominciarono a rotolare dentro la sala, dalle porte principali.


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6.

Marieke vedeva il fumo avanzare verso di lei come una specie di colata lattea, densa, pronta a soffocarla. Come per suo padre, alcune guardie avevano lasciato le loro posizioni per venire da lei e sua sorella, ma erano crollate al suolo a metà strada mentre un rumore ticchettante rimbombava nella sala, un rumore che lei aveva imparato a riconoscere durante l’addestramento: mitragliatrice UZI, modello latest song, il più diffuso in Russia. Cercò di escludere dalla sua mente le urla di sua sorella e la prese per un braccio. Il loro primo problema tattico era che si trovavano troppo vicino alla porta principale, il che, ovviamente, riduceva le possibilità di reazione al minimo. Per ora a farne le spese erano state le guardie, ma se lei e Gaia erano gli obiettivi dell’attacco presto sarebbero venuti a prenderle. Cominciò quindi a portare sua sorella verso il fondo della sala, che intanto era diventata una specie di bolgia, con urla, persone in preda al panico e fumo. «La sala è compromessa! Portate gli obiettivi fuori!» urlava intanto Zoner nell’auricolare. La pochette era su una sedia da qualche parte, irraggiungibile. Imprecando, Marieke si infilò una mano nel collo del vestito e strappò via dalle cuciture la lama che vi aveva nascosto. Era un taglierino, ma sempre meglio di niente. Visto che praticamente non aveva punti di riferimento e continuava a sentire gli UZI ticchettare, decise che non poteva aspettare il supporto di altre guardie e doveva eseguire gli ordini di Zoner. Continuando a trascinare sua sorella si portò dietro una colonna, dove sapeva di trovare una delle porte per le cucine. La aprì con un calcio e la attraversò. La porta dava su un corridoio stretto e spoglio, che percorreva completamente il perimetro della sala. Non sapeva com’era la situazione nel resto della casa, ma muoversi le avrebbe dato più possibilità di sopravvivere rispetto a stare ferma. «Cosa sta succedendo? Cosa cazzo sta succedendo?» piagnucolava Gaia accanto a lei. Marieke fu quasi tentata di unirsi alla sua isteria, ma ricacciò indietro il pensiero. Era stata addestrata per reagire a situazioni come quella, non poteva perdere la testa. Zoner l’aveva messa alla prova infinite volte,


32 alzando ogni volta il livello del rischio, per farle capire cosa significava trovarsi in pericolo e lei non lo aveva mai deluso. Non lo avrebbe deluso nemmeno quella volta. «Non ti preoccupare, Gaia, dai retta a me, ti porto fuori di qui». «Ma tu sei... tu sei... ». «Sono qui per proteggere la famiglia Sokolòv». Marieke continuò a tirare Gaia dietro a sé, fortunatamente la ragazza era abbastanza docile. Secondo le schematiche che aveva in mente, in fondo a quel corridoio ci sarebbe stato un bivio che, verso destra, l’avrebbe condotta al giardino della villa. Non poteva credere che gli assalitori fossero in numero tale da avere il controllo di un’area del genere, quindi sentiva che lì si sarebbe trovata al sicuro. Poco prima della svolta, però, sbucò proprio da quella via un uomo in equipaggiamento completo da combattimento, senza insegne, con una pistola in mano. «E voi dove credete di andare?» disse. Addestramento. Marieke si mise tra Gaia e l’uomo, osservandolo. Era più grosso di lei, naturalmente, il volto coperto dal Balaclava, giubbotto imbottito. Oltre alla pistola aveva alla cintura un lungo coltello da caccia. Ma stava abbassando la guardia. Marieke si ricordò uno dei più importanti insegnamenti che gli aveva dato Zoner: vedranno davanti a loro una ragazzina bionda di sedici anni. Tenne giù il braccio perché non si notasse il coltello che aveva in mano. «Chi sei tu?» chiese. «Sono qui per portarvi in gita». L’uomo portò avanti la mano sinistra, ma per farlo dovette abbassare la pistola. A Marieke fu sufficiente Si avventò contro di lui, gli prese il polso sinistro e glielo girò, mettendoglielo in leva. Mentre le ossa gli si svitavano, l’uomo allargò anche l’altro braccio, scoprendo il torso. Marieke lo colpì con tre rapidi calci alle costole fluttuanti e uno al volto, ma quello non crollò come si aspettava, evidentemente grazie ad abiti imbottiti. Aveva ancora pochi secondi prima che l’effetto sorpresa svanisse per cui concluse la sequenza di colpi così come le era stata insegnata, così come l’aveva scritta nei suoi muscoli con ore e ore di allenamento. Trascinò il braccio del nemico verso di sé, lo costrinse a piegare il torso in avanti e con un movimento rapido gli piantò il coltello nella gola. Il coltello entrò facile, come era entrato in infiniti manichini di gommapiuma, in sagome di legno e in cuscini. Entrò persino più facilmente di quanto entrava dentro i quarti di bue, che Marieke aveva usato spesso, per scoprire com’era una lama nella carne. Entrò facile perché lei sapeva esattamente come farlo entrare, era stata addestrata, aveva eseguito la mossa come una figura di danza classica o un esercizio di ginnastica.


33 Quando tirò fuori la lama, lo spruzzo di sangue le lordò le mani e il vestito. L’uomo non urlò, visto che non aveva più modo di catturare ossigeno, barcollò semplicemente indietro cercando di mettersi le mani sulla ferita, spaventato. Marieke lo gettò via con un ultimo gesto di stizza, mandandolo a crollare al suolo. Era come se una botola le si fosse aperta sotto i piedi, tutte le sensazioni di panico e terrore che negli anni aveva imparato a combattere la assalirono, tutte insieme, come una serie di artigli piantati direttamente nel cranio. Aveva ucciso un uomo. Le urla di Gaia, dietro di lei, si fecero più acute. Addestramento. Non poteva cedere, non in quel momento, non erano ancora in sicurezza. Non poteva andare nella direzione da cui era venuto il suo assalitore, doveva giudicarla compromessa. Con la mappa della casa stampata in testa si costrinse a formulare un altro piano, riprese il braccio di Gaia e ricominciò a correre. Sulla sinistra un altro corridoio, nessuno in vista. Avrebbe dovuto raccogliere la pistola dell’uomo che aveva ucciso, ma ormai era tardi per pensarci per cui l’importante era togliersi dalla circolazione. Intanto sentiva nelle orecchie un raschiare metallico e confuso a cui però non riusciva a dare retta, probabilmente gli ordini di Zoner. Sapeva che avrebbe dovuto ascoltarli, ma temeva che se si fosse soffermata a capirli la sua testa sarebbe scoppiata. Doveva decidere da sola. Arrivò davanti alla porta della cucina e la aprì. Si trovò davanti il cuoco e due dei suoi aiutanti. Il cuoco la conosceva praticamente da quand’era nata. La stava guardando terrorizzato, come se fosse un mostro. Cosa stava vedendo? Era sempre lei, dopotutto, con delle macchie rosse sul vestito, un coltello in mano, sua sorella a rimorchio che non smetteva di piagnucolare. Non poteva soffermarsi neanche su quello. «La cantina!» disse. Il cuoco provò a muoversi, ma fece cadere due piatti da una mensola e il rumore lo pietrificò. Uno degli inservienti invece capì cosa intendeva lei, andò alla porta di metallo che stava proprio accanto alla cappa e la aprì, premendo nel contempo l’interruttore della luce. La porta dava su una scala che scendeva verso il basso. «Perché? Perché?» provò a chiedere Gaia, ormai priva di qualsiasi residuo di lucidità. Marieke non le diede ascolto, la portò dietro fino alle scale, la aiutò a scendere mentre l’inserviente chiudeva la porta dietro di loro. Le cantine di villa Sokolòv erano ampie perché una buona riserva di vino era qualcosa che faceva parte del retaggi di una famiglia come la loro. Non si trattava però di una cantina con mura in mattoni e scaffali di legno, ma di una serie di tre grandi stanzoni dalle mura in cemento grigio, scarsamente illuminate, con le bottiglie allineate su fredde rastrelliere di metallo.


34 Marieke superò senza esitare la prima stanza, una volta nella seconda ne chiuse la porta e, con tutta la forza che aveva, vi trascinò davanti una cassa, ostruendola. Solo a quel punto ebbe il coraggio di fermarsi. Appena abbassò leggermente la guardia, Gaia le sfuggì, si divincolò dalla sua mano e andò a sedersi in un angolo, dietro un armadio, con la testa in mezzo alle ginocchia, piangendo piano. Lei invece rimase imbambolata in mezzo alla stanza, mentre tutte le emozioni le si riversavano addosso. L’adrenalina le sfuggì via in un respiro e fu assalita dall’angoscia, dalla paura e dall’orrore. Cos’era tutto quel rosso che aveva addosso? Era il vestito, certo. Ricordava distintamente che il vestito aveva una fascia rossa che andava dalla spalla al fianco, così bella, calda. Ma ora il rosso era anche sul suo ventre, sulla sua gonna, sulle sue mani e aveva un odore orribile, di metallo, carne e violenza. Sentì una fitta lancinante all’intestino, crollò in ginocchio e vomitò, quattrozampe come un animale, sforzandosi di svuotare uno stomaco che era già vuoto, rigurgitando solo bile e paura. Quello sforzo così intenso e doloroso, quantomeno, le restituì un minimo di lucidità. Si asciugò la bocca con le mani, poi le mani nel vestito ormai sudicio e infine cercò di sedersi anche lei per terra, addossandosi a un muro. Era tentata di andare da Gaia a chiederle come stava, ma aveva paura di come avrebbe reagito, aveva paura di cosa pensasse di lei. In un lampo si rivide mentre affondava il coltello nella gola dell’uomo. Dopo che fu riuscita a mettere uno dietro l’altro cinque profondi respiri, anche il gracchiare dell’auricolare riprese ad avere senso e quando sentì quello che stava dicendo ebbe come una scossa elettrica. «Datemi informazioni su Libellula e Strogoff! Ripeto! Non abbiamo informazioni su Libellula e Strogoff! Libellula e Strogoff sono la priorità uno! Andromeda! Rapporto! Andromeda!». Andromeda era lei. Il nome che Zoner non avrebbe mai dovuto usare se non in casi estremi, il nome che la identificava come una delle guardie della famiglia Sokolòv. Si portò una mano dietro l’orecchio e premette il punto che attivava il microfono. «Sorella…» riuscì solo a dire. Né il suo cervello né la sua lingua sembravano capaci di fare di più. «Andromeda! Andromeda! Sei tu? Rapporto, Andromeda! Rapporto!». Addestramento. Ne aveva bisogno ancora solo per un attimo soltanto, prima di poter lasciare tutto in mano agli altri. Si piantò le unghie nelle mani e tornò a premere il dito dietro l’orecchio. «Qui... Andromeda. Gaia è viva... cioè... Strogoff al sicuro». La voce di Zoner rimase meccanica e feroce. «Rapporto completo, Andromeda!». Deglutì qualcosa di amaro. «Qui... Andromeda. Strogoff al sicuro.


35 Libellula... al sicuro. Ci troviamo nelle cantine della villa. Barricate dentro in attesa del via libera. Un nemico... abbattuto». Finalmente la voce di Zoner parve calmarsi. «Abbiamo respinto l’attacco. Tutti e quattro gli obiettivi stanno bene. Rimanete chiusi fino a che non avremo la certezza che non ci siano più minacce». “Tutti e quattro gli obiettivi stanno bene” sentì Marieke. Significava che anche mamma e papà se l’erano cavata. Significava che ce l’aveva fatta. Significava che aveva protetto la sua famiglia. D’improvviso, scoppiò a piangere. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD


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