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FRANCESCO FROSINI
NEL FREDDO DELL’ESTATE
ZeroUnoUndici Edizioni
ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ NEL FREDDO DELL’ESTATE Copyright © 2021 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-482-3 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Luglio 2021
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PROLOGO
C’era un acre odore di muffa e urina. La stanza, immersa nel buio e molto piccola, aveva l’unica finestra sbarrata con assi di legno, ormai marcite da tempo; le pareti, una volta bianche, erano ora ricoperte di graffiti sbiaditi e macchie di umidità nero-verdastre. In un angolo, lo scheletro di un mobile, un vecchio armadio con grosse maniglie di ottone, giaceva abbandonato come spazzatura, pasto giornaliero di tarli e termiti, simbolo del tempo che era passato come un uragano in quel luogo dimenticato da tutti. L’uomo, accovacciato su un logoro materasso, spalancò gli occhi all’improvviso. Sbatté le palpebre più volte per abituarsi all’assenza di luce. Aveva sperato, per pochi istanti, di aver vissuto solo un sogno, un terribile sogno, e di essersi risvegliato nel suo letto. Il pensiero svanì in un battito d’ali. Era nello stesso luogo della sera precedente, quando era stato costretto a seguire alcuni uomini, poco prima di salire al suo lussuoso appartamento vista mare. Era nei guai e lo aveva capito subito. Indossava un pesante giaccone, fuori stagione, un maglione scuro, una camicia blu e un paio di pantaloni stinti. Nessuno si era accorto di quella rapida azione furtiva, nascosta dal buio impenetrabile di una notte senza luna, accompagnata da una battente e gelida pioggia. L’anno senza estate, come lo avevano definito i giornali. Tutto si era spento in pochi attimi, per riaccendersi all’improvviso, come quando si esce da un incubo. Lui, però, c’era appena entrato. Dovevano averlo drogato in qualche modo, constatò, perché non riusciva a rammentare come fosse arrivato lì. Facendo leva con la mano, si mise seduto con la schiena appoggiata al muro impregnato d’umidità. Strinse le ginocchia al petto, quasi a soffocare. Il tanfo era insopportabile e i miasmi che si propagavano gli fecero arricciare il naso, provocandogli un conato che represse a fatica.
4 Non riuscì a capire se fosse notte o giorno. Sicuramente la pioggia non aveva cessato di venir giù. Sentiva leggeri ticchettii ritmati provenire dall’esterno. Gli occhi, che guizzavano da una parte all’altra dell’ambiente, stavano cercando di abituarsi all’assenza di luce, e attendeva l’ingresso di qualcuno da ciò che restava della porta scardinata. Da terra prese un frammento di vetro, forse appartenente a quello che una volta doveva essere stato uno specchio, e gli apparve la figura di un uomo stanco, occhi verdi, un naso a patata e con una calvizie incipiente che da qualche mese lo stava tormentando, nonostante la giovane età. Poteva avere quarant’anni come sessanta. In quel momento non lo avrebbe capito neppure lui stesso. Poggiò per terra quel piccolo oggetto affilato e chiuse gli occhi, stanchi e provati. Aveva freddo, aveva paura e voleva andarsene immediatamente. Sapeva perché si trovava in quella situazione, e sapeva, soprattutto, il motivo per il quale era ancora vivo. Immaginava che quel giorno sarebbe arrivato, lo aveva tenuto in conto. Aveva voluto giocarsi le sue carte e rimediare a tutti gli errori commessi. Non era un santo, certo, ma doveva tentare. Nel farlo si era completamente logorato, perdendo ciò che di più caro aveva al mondo. «Non mi faranno niente. Non mi faranno niente. Non mi faranno niente» si ripeté, fingendo di convincersi che tutto sarebbe andato per il meglio, in una situazione che, tuttavia, non lasciava presagire niente di positivo. Doveva restare vigile, tenere la mente impegnata. Si schiaffeggiò le guance, per scacciare il torpore provocato dal sonno indotto, e si stropicciò gli occhi arrossati. Cominciò a tremare e si alzò incespicando a causa degli arti indolenziti; non osava avvicinarsi a quella che era la sua unica via di fuga, neppure per sbirciare, e mosse soltanto pochi passi avanti e indietro per permettere al sangue di tornare a circolare. Doveva rimettersi in moto e far girare gli ingranaggi del cervello per escogitare un piano, cosa dire e cosa fare quando qualcuno, presto o tardi, sarebbe venuto a fargli visita. Ed era sicuro non mancasse molto. Si guardò intorno. Cercava qualcosa in cui espletare i propri bisogni fisici. Sentiva la vescica scoppiare e la bassa temperatura non aiutava.
5 «Probabilmente se la facessi nell’angolo migliorerei solo questa merda di posto.» Mentre si stringeva ancor di più nel cappotto, tentò di trovare un piccolo pertugio tra le assi che oscuravano la finestra. Provò, con scarsi risultati, a far leva con la mano. Voleva capire dove si trovava, se c’erano vie di fuga, ma non si sentiva ancora lucido per pensare e ragionare. Da lì non filtrava luce e si lasciò cullare da un assordante silenzio, interrotto solo dal ticchettio delle poche gocce che stavano cadendo dal cielo e dal tremore del suo cuore. Portò una mano sul legno umido, quasi ad accarezzarlo. Poi, lentamente, vi poggiò la fronte, disperato e privo di speranze. «Forza Nicola, sveglia e cerca di ragionare» si disse, dandosi dei rapidi colpetti sulla fronte con il palmo di una mano. Non ne ebbe il tempo. Qualcuno stava salendo le scale. S’irrigidì, lì, nel punto in cui si trovava. Il battito cardiaco accelerò e, sentendosi mancare, cercò un immaginario appiglio dietro di sé. Erano sempre più vicini. Cosa gli avrebbero fatto? Avrebbe parlato? Chi sarebbe apparso da quella porta? Molte altre domande si facevano spazio nella sua testa e quasi tutte erano senza risposta. Le ginocchia si fecero sempre più molli, l’aria irrespirabile. Due scure figure fecero capolino. «Eccoli…» Tese tutti i muscoli. Serrò i pugni, più per paura che per volontà di battersi. L’uomo li squadrò, per quello che l’oscurità, densa e quasi palpabile, permetteva. Di media statura ma massicci, capelli tagliati corti, in stile militare ma non avrebbe saputo dire se fossero neri, rossi o di qualsiasi altro colore. I loro volti erano impassibili, apatici, e perforavano l’aria come lunghi coltelli affilati. Minacciosi. Indossavano dei lunghi cappotti scuri con il bavero alzato a coprire il collo. Fece uno sforzo di memoria, socchiuse gli occhi, fino a farli diventare due piccole fessure, e capì. Aveva già incrociato i loro sguardi, la loro silhouette. Ebbe la conferma di chi lo aveva condotto in quel posto. Per ordine di chi. Un mefistofelico uomo, privo di ogni remora, colmo di odio e sete di potere. E lui si era messo sulla sua strada.
6 Quando lo intervistava, nel suo bell’ufficio traboccante di carte e scartoffie legali, loro erano sempre nei paraggi, non lo lasciavano mai solo. Ricordava bene quei momenti, quell’ambiente in cui aveva scavato per realizzare semplici articoli ben pagati. Quell’uomo, così elegante e profumato, infinitamente dotto, si era preso gioco di lui e di tutto il popolo toscano. I suoi artigli si sarebbero presto allungati sul trono, per non lasciarlo più andare. Spinto dalla persona giusta, aveva scavato su tutto, tanto da farsi notare dalle persone sbagliate. Doveva essere molto profonda la crepa che si era aperta nel muro del potere. Più di quello che credeva. Più di quello che aveva scoperto. Adesso ne stava per pagare le conseguenze. Un brivido gli attraversò tutta la schiena, fino ai piedi. Quello sulla sinistra, leggermente più alto, reggeva una torcia, l’altro, qualcosa che a Nicola non piaceva per niente. Un fascio di luce improvviso lo accecò. Portò automaticamente la mano al volto per ripararsi. Poi, lentamente, si abituò. I suoi occhi erano di nuovo fissi sulla pistola. «Sa perché siamo qui, vero?» disse il secondo uomo. «Ci dia quello che cerchiamo e finiamola qui. La riportiamo subito a casa» assunse un tono reverenziale, di rispetto quasi. L’uomo si accorse che l’attenzione del prigioniero era più attirata dalla propria arma che dalle sue parole. «Non abbia paura» proseguì agitando la mano armata. «È solo di scena» concluse ridacchiando e succhiandosi i denti giallastri, per tentare di rendere normale una situazione che normale non lo era per niente. Un senso di ribrezzo lo pervase. «Senta, non so cosa crede che debba darle ma di sicuro io…» cominciò a rispondere allargando le braccia. «Non ci faccia perdere tempo, è nel suo interesse darci tutto quella che ha. Sa bene chi ci manda» disse facendo un intimidatorio passo avanti. Il prigioniero, consapevole di essere un pessimo bugiardo, strinse ancor di più i pugni e serrò la mascella. Tanto valeva essere chiari. «Le sembro idiota? A casa... certo. Non vi darò proprio un bel niente. Mi ucciderete come avete già fatto con l’altro, immagino. Io so tutto e ho preso le mie precauzioni. È fregato, diteglielo pure» ringhiò, puntando un dito minaccioso verso i due uomini.
7 Mentre dalla sua bocca tremante uscivano queste parole, tutte d’un fiato, cercava di rimanere calmo e lucido. Adesso aveva caldo, molto caldo. Avrebbe voluto strapparsi i vestiti dal corpo e scappare. Si tolse il giaccone. Quasi un gesto intimidatorio. Da dove gli veniva tutto questo coraggio? Lui che aveva studiato giornalismo e aveva fatto di tutto per scampare al grande conflitto mondiale. Anche abbandonare tutto e tutti, rifugiarsi come un topo in Svizzera. La sua intera vita era una fuga. Un pavido. Ecco chi e cos’era lui. Aveva coinvolto altri colleghi e un caro amico, oltre alla persona più importante della sua vita. Stava pensando a lei. L’amava più di ogni altra cosa, ma aveva scelto di abbandonarla. Di sfruttarla e poi andarsene. Si diceva che lo aveva fatto per lei, per non metterla in pericolo. La verità era che lui aveva sempre avuto paura. «Ci dica dov’è» insistette, avvicinando la faccia butterata, al volto dell’uomo, adesso illuminata dal cono di luce prodotto dalla torcia del compagno. Lo fissò negli occhi, resistendo ai conati di vomito, e capì che a ucciderlo non ci avrebbe messo più di un secondo. Ma non lo avrebbe fatto adesso. No, prima dovevano scoprire che fine avevano fatto le prove che tanto desideravano. E questo doveva essere il suo vantaggio. «Al massimo posso dirti quanto sei stupido. La risposta è tanto, nel caso te lo chiedessi» disse con coraggio, socchiudendo gli occhi. Scattò come un fulmine, veloce e senza dar la possibilità di evitarlo. Lo afferrò per il bavero e lo sbatté violentemente contro il muro. Fu investito dal fetido alito del gorilla numero due. Tentò di liberarsi da quella salda presa d’acciaio, facendo forza sul braccio possente, invano. Arrancava, faceva fatica a respirare. Sentiva tutta la pressione che veniva esercitata sul suo corpo. «Possiamo farle molto male» disse con la schiuma alla bocca. Non vedeva l’ora. Inspirò profondamente. «Fottiti.» Poi si sentì affogare. Un violentissimo pugno lo piegò sulle ginocchia. Arrancò sul pavimento, tossendo e sputando sangue mentre con una
8 mano si teneva il ventre. Iniziò a gattonare, tentando di raggiungere la porta, ma una salda presa lo bloccò per i capelli. «Ci è stato chiesto di non ucciderti, se possibile. Ma siamo autorizzati a estorcere informazioni con qualsiasi mezzo» gli sussurrò vicino all’orecchio. «E noi siamo dei professori in questo» terminò l’altro.
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CAPITOLO 1
Alberto quella mattina si era alzato nel cuore della notte. Alzato, sì. Perché sveglio lo era sempre stato quel giorno. Non era riuscito a prender sonno e, così, aveva deciso di coricarsi sopra il piumino di quel letto troppo piccolo per la sua mole ed eccessivamente duro per dormir bene. Si era lasciato avvolgere lentamente dal buio che era scivolato silenzioso tra le fredde mura di casa. Ancora in pigiama, di quelli lunghi senza distinzione tra maglia e pantaloni che tanto amava, si era seduto alla sua scrivania su una scricchiolante sedia di legno, ereditata dalla madre. Di fronte, dalla finestra, poteva vedere la meravigliosa chiesa di San Michele, illuminata parzialmente dalla flebile luce lunare che filtrava, a tratti, dalle scure nubi che da giorni opprimevano la città. Fino a poche ore prima, avevano riversato su Lucca tutta la loro rabbia. Sembrava novembre. Ma il calendario diceva a chiare lettere “14 settembre”. Pioggia e freddo, ecco cosa aveva regalato quell’estate. Solo pioggia e un freddo cane. Guardò l’orologio da taschino che aveva lasciato sul tavolo. Lo aprì con mano tremante. Le lancette indicavano le tre meno un quarto. Pensava che se fosse andato avanti così, sarebbe morto letteralmente di sonno. Ma era un uomo tormentato. Adesso più che mai. Prese la lettera e la rigirò più volte tra le dita. Sopra c’erano evidenti segni d’unto e piccole macchie di cioccolata. L’aveva letta davvero troppe volte. Quella era stata l’ultima. Non erano le regole stabilite. Nicola doveva farsi sentire regolarmente ogni due giorni. Due appuntamenti saltati. Era ovvio che non fosse un buon segno. «Dovevo andare prima. Stupido, stupido, stupido.» Un’inchiesta del genere avrebbe sollevato un polverone, lo sapeva. E adesso? E adesso erano nella merda, un Oceano di merda.
10 Inforcò gli occhiali da lettura, molto semplici e senza montatura. Rilesse quel pezzo di carta. Arrivato per l’ennesima volta al punto finale, rimase lì, immobile, a fissare il vuoto. Cominciò a sudare e sentì il battito cardiaco aumentare. In quel momento prese la sua decisione. «Devo andare da quel poliziotto». Lui odiava le forze dell’ordine, non era a proprio agio. A dire il vero non era a proprio agio con nessuno. Nicola parlava spesso di questo tipo. Non riuscì a ricordare a memoria il nome, ma lo aveva sicuramente segnato da qualche parte. Rovistò rapidamente in tutti i cassetti. Nell’ultimo trovò un piccolo quadernetto rosso. Quello che usava per il lavoro, l’ultimo regalo della moglie prima che se ne andasse. Era di pelle, lavorata, ed era chiuso da una sottile cordicella che girava intorno a un bottone di plastica arancione. Ci passò la mano sopra, era leggermente ruvida ma gli piaceva quel contatto. Lo avvicinò poi al naso, chiudendo gli occhi. Tornò indietro negli anni, avvolto da quel piacevole odore. Ma il lavoro chiamava e lo poggiò di scatto sul tavolo, slegandolo con lentezza. Lo sfogliò direttamente alla fine. Afferrò la pagina che lo interessava e la strappò. Diego. Sottolineato due volte. Ecco il nome che cercava. Sotto il nome, aveva scritto anche dove lo avrebbe trovato. Viareggio. Erano le tre e venti. Aveva il tempo di darsi una rinfrescata, vestirsi e partire. La doccia lo aveva rinvigorito e riscaldato. Si mise a fissare l’armadio, in simil legno e rifinito di un colore verde rame. Una delle cerniere dell’anta sinistra aveva ceduto qualche mese fa e non aveva mai trovato la voglia di ripararlo. Le taglie XXL lo stavano aspettando. Aveva poca scelta. Pantaloni in velluto marrone scuro e una camicia a quadri, slavata, che risaliva agli anni universitari. Sopra avrebbe messo un maglione di lana blu a trecce, leggermente sfilacciato. Pensò che si era ridotto davvero male. Anni e anni dietro una scrivania e a mangiare schifezze. Ere geologiche fa pesava 60 chili. Ora era più che raddoppiato. Si alzò a fatica e si vestì. Per ultima, prese la busta con dentro la lettera. Si chiese per l’ennesima volta se stava facendo la cosa giusta.
11 Non c’erano alternative, concluse. I blocchi di basolato della strada erano scivolosi e per poco Alberto non lasciò l’impronta del largo viso per terra. Si voltò guardingo ora a sinistra, ora a destra, come se temesse di essere seguito e ucciso da un momento all’altro. Si strinse nel cappotto e osservò a lungo la facciata di San Michele, nella vana speranza di ottenere un piccolo aiuto, d’incappare in un miracolo. Era meravigliosa con quei quattro ordini di logge e la statua dell’arcangelo. «Ti prego… non abbandonarmi, aiutami» sussurrò. Le sue parole si persero nell’aria gelida di quella mattina. Non avrebbe ricevuto nessun aiuto. Non quella volta. Completamente solo nella notte, si avviò verso l’auto parcheggiata pochi metri avanti a lui. Una Lancia Aurelia color nocciola del ‘51. Ci aveva speso lo stipendio di un anno, ma ne era valsa la pena. In ufficio lo avevano invidiato tutti, una delle poche soddisfazioni che si era tolto. Odorava ancora di nuovo. L’aveva sempre tenuta meglio di quanto non avesse fatto con sua moglie Elvira. E infatti lei se n’era andata già da cinque lunghi anni. Nel ricordare si toccò la fede che portava al collo, legata a un’elegante collanina d’oro. Partì al terzo tentativo. Accese subito la radio e cercò una canzone che allietasse il suo viaggio. Si ritrovò a metà di una canzone rock. “Ho già sentito questa da qualche parte.” L’artista si esibiva in inglese, una lingua che non aveva mai avuto tempo di imparare. Un potente rock ‘n roll, dove le dita del musicista sembravano volare sui tasti del pianoforte. Non ricordava il nome della canzone né di chi cantava, ma lo esaltava. Muoveva le labbra, fingendo di riprodurre quelle parole di cui non capiva niente. Greit bols of faiar! Era l’unica cosa che capiva. Strinse forte le mani sul volante in pelle, fino a farle sbiancare, ed emise strani suoni gutturali che si ostinava a chiamare “cantare”. Quante volte Elvira lo aveva ingiuriato. Fai pena! Stai zitto!! E altre numerose offese, che una volta aveva pure provato a tenere a conto. Non solo per la sua voce. Lo aveva sempre considerato un piccolo e grasso fallito, che aveva sposato nella speranza, vana, di avvicinarsi al patrimonio del padre. “Alla faccia tua, stupida carogna. Fra poco qui sbanco tutto. Pure le statue mi faranno” congetturò tra sé e sé.
12 E pure… e pure sentiva di amarla ancora. Il successo. Ecco a cosa aspirava. Certo, sempre se Nicola fosse riuscito a scrivere qualcosa. Un grosso, titanico se, dal quale dipendeva la sua carriera. L’unica cosa di cui gli importasse veramente qualcosa. Il suo egoismo lo aveva sempre contraddistinto. Al pensiero del successo personale sentiva già il sesso premere contro i pantaloni. Lo gasava, lo eccitava il solo pensiero di essere al centro dell’attenzione. Ma tutto questo solo quando era da solo, nella sua piccola stanzetta. In pubblico era un’altra storia. Una volta rischiò di pisciarsi addosso per l’agitazione. Si sentiva osservato e giudicato. Guarda il ciccione! Diceva uno. E giù risate. Ora scoppia una bomba, attenti! Esclamava l’altro. E giù sghignazzi. Ridere, ridere, ridere. Ancora rimbombavano nella sua testa quegli sghignazzi acerbi, provenienti dalle bocche troppo larghe di grandissime teste di cazzo ventenni. Li avrebbe uccisi tutti volentieri. Alla fine, si trovò davvero con i pantaloni bagnati. La canzone era finita e la strada era ancora lunga. Affondò il piede sull’acceleratore e gridò con tutta l’aria che aveva nei polmoni. Il dottore lo aveva definito nevrastenico. Persona nervosa, facile a repentini cambi d’umore. Così recitava il suo dizionario. Non si era mai visto in questi termini. Forse non si era mai visto. Punto. Ora avrebbe dovuto mantenere nervi saldi. Ciondolava la testa, come una molla. Come uno di quei gadget da museo che hanno il corpo immobile e tutto il resto che si muove in modo ossessivo e senza sosta. Si concentrò sul percorso. Gli piaceva guidare di notte, essere ingoiato da quella imperscrutabile oscurità, affievolita dalla luce di rari lampioni a bordo della strada. Strada che si perdeva in un infinito sconosciuto, quasi romantico, dove inciampava nei suoi più segreti pensieri. Sentiva l’asfalto di via Sarzanese bruciare mentre scavallava il monte Quiesa, freddo e cupo, nascosto da una leggera nebbia mista a pioggia. L’auto ruggì nell’attraversare Massarosa e le sue piccole e insignificanti frazioni di origini medievali, nello squarciare l’aria che lo divideva dalla meta.
13 E alle cinque del mattino, circa, Viareggio era in vista. Sentiva gli occhi appannati e le palpebre pesanti. Il suo stomaco cominciò a borbottare. “Ok. Punto primo, fare colazione.” Anche qui il tempo era poco clemente. La pioggia batteva forte sulla carrozzeria dell’auto. Un tambureggiare ritmato, sempre più veloce, sempre più forte. Ovviamente aveva dimenticato l’oggetto più utile in questi casi: l’ombrello. Imprecò silenziosamente stringendo le mani ad artiglio e guardando il tettuccio dell’auto. Avrebbe usato quel vecchio giornale che vagava in auto da varie settimane. Era comunque rassegnato a bagnarsi. Parcheggiò e aguzzò la vista verso il bar che sapeva trovarsi lì di fronte. Era ancora chiuso, dato l’orario. Era sulla Passeggiata a mare. Lo conosceva già, ovviamente. Lo storico Caffè Galliano. Non faceva di certo il miglior caffè. Ma di quello, a lui, non fregava niente. Anzi. Odiava il caffè. Già era nevrastenico, se poi aggiungeva quella roba lì, era la fine. Ma le paste. Oh Gesù. Amava quelle paste fragranti e traboccanti di marmellata all’albicocca, ai frutti di bosco o miele Era qualche mese che non andava lì. Gli venne l’acquolina in bocca e una voglia pazzesca di ingurgitare almeno due cornetti. Ma avrebbe dovuto aspettare per quelle prelibatezze mattutine. Era ancora tragicamente troppo presto per l’apertura. Si lasciò andare sul sedile della Lancia, chiuse gli occhi, facendosi cullare dall’acqua che si riversava copiosa sulla città. “Che meraviglia” pensò, prima di addormentarsi. Non ricordò se e cosa aveva sognato, ma si era risvegliato felice. E il bar aveva alzato le serrande, pronto a soddisfare la sua gola. Si afflosciò su quella sedia del bar troppo piccola per il suo girovita, sotto la quale si era formata una pozza d’acqua. Per arrivare dall’auto a lì, si era completamente bagnato. Il giornale era risultato inutile, come da previsione. Guardò i piattini di fronte a sé. Pochi minuti prima ospitavano tre cornetti caldi e una spremuta all’arancia. Si sentì soddisfatto.
14 Si spolverò il cappotto dalle briciole che si erano depositate e appiccicate come neve, ed estrasse da una tasca interna la carta stradale della città, leggermente bagnata. Neppure quella si era salvata. La dispiegò con attenzione, con una cura quasi maniacale, per evitare di strapparla. Indossò gli occhialetti e si esibì in un’espressione monastica. «Vediamo…» Con l’aiuto di una penna segnò il punto in cui si trovava adesso, Galliano. Con movimenti rapidi si mise alla ricerca del comando di polizia. Ne individuò due. Quello più a sud era la sua destinazione. Disegnò un cerchio perfetto sulla forma geometrica che rappresentava l’edificio e schioccò la lingua, con un moto di soddisfazione. Infine, tracciò il percorso. “Mi perderò sicuro…” Uno spiffero improvviso di aria fredda lo fece sussultare sul posto, a ricordargli che doveva assolutamente muoversi.
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CAPITOLO 2
Era rapito da quel letto d’acqua che si estendeva di fronte ai suoi occhi. Era un angolo pacifico della Toscana, il lago di Massaciuccoli. Diego Guerrini osservava, strizzando leggermente i piccoli occhi, le gocce d’acqua impattare violentemente contro quello specchio verdastro, una dopo l’altra. Un muro inconsistente di pioggia e oscurità gli impediva di godersi il panorama. Nell’avversità era comunque stato fortunato. Gli piaceva. Si era già da tempo chiesto come poteva essere venuta in mente a qualcuno l’idea tanto stupida di porre il comando proprio lì. Certo, era una soluzione temporanea in attesa della ristrutturazione dell’edificio che avrebbe dovuto accoglierlo, ma pur sempre una puttanata restava. La stazione di polizia del Compartimento Sud di Viareggio era sita nella splendida Villa Orlando, che ancora si faceva vanto dei segni della guerra. Completamente immersa nel verde per quattro ettari, si distingueva per una slanciata torre panoramica merlata, per la gran parte ricoperta di edera, e una terrazza coperta che affacciava sul lago, dove molti colleghi si riunivano per fumare o per fare brevi pause. Molto pittoresco e suggestivo, su questo non c’erano dubbi. Durante la guerra, fu occupata dai fanti di marina dei Savoia come comando dell’idroscalo marittimo, per essere poi abbandonata, fino alla ristrutturazione e alla bonifica, per restituirla ai suoi fasti e adibirla a quartiere operativo provvisorio. Non gli pareva sicuramente il luogo adatto a ospitare un comando di polizia locale. Una villa. Immersa nel verde e vicino a un lago. Cos’era uno scherzo? Un modo per impedire ai cittadini di raggiungerli? Lui stesso aveva sbagliato strada due volte. E pure, da viareggino, conosceva bene la sua città. Era tornato. Ma le sue emozioni erano in contrasto, erano due pugili che se le suonavano. Da una parte era felice di essere tornato. Non sentiva di essere mai appartenuto alla stupenda Firenze, una città troppo
16 potente per lui, che lo aveva masticato con forza e cattiveria, per risputarlo come un avanzo di cibo troppo duro per essere buttato giù. Dall’altra, quel trasferimento, quella promozione sembravano più una punizione per le sue indagini passate che un vero merito conquistato. Si portò una mano alla gola, fece scorrere due dita nel colletto della camicia e deglutì, raschiandosi la trachea, come per schiarirsi la voce. Il riflesso del vetro mostrava un volto tirato che nascondeva a fatica le ore di straordinario accumulato. Si sentiva gonfio, con due profonde occhiaie, regali di un sonno perso. Si allentò leggermente la cravatta e sbottonò la camicia. Quella mattina si era alzato molto presto, ma non sapeva dire se a causa del temporale o del materasso sformato della stanza in cui alloggiava. Si era fatto una doccia fredda per scacciare di dosso i veli della notte appena passata, ma non era bastata a rinfrescare il suo aspetto fisico. Dopo aver rinunciato a radersi, si era infilato i suoi amati capi ed era uscito. Erano appena le sei. Ma non aveva rinunciato ai suoi riti mattutini, al Caffè Puccini che apriva prima solo per lui, il regio commissario. Un caffè lungo, rigorosamente amaro, il quotidiano Monitore Toscano e uno dei suoi sottili sigari, che assaporava solo per alcuni minuti. Poi, se era lunedì, una rapida occhiata alla gazzetta sportiva per vedere i risultati del campionato di calcio, l’unica cosa unita nel paese. Poi era arrivato il momento di lavorare. Scostò il viso dalle finestre, appannate dal suo respiro, e spaziò lo sguardo all’interno della stanza. Doveva ancora adattarsi e rendere quello spazio abitabile per la sua persona. Nel distretto sud mancava un commissario da più di due anni e quell’ambiente era stato adibito a sgabuzzino che nessuno si era preso la briga di curare. Poi era arrivato lui. Apprezzava molto la scrivania di rovere, posta al centro della stanza, che sorreggeva la sua macchina da scrivere, la famosa Olivetti studio 44 color verde acqua, accompagnata da vari fogli bianchi e cartelle sparse dei casi ancora aperti. L’accarezzò con gli occhi, affascinato da quello strumento così all’avanguardia. Era stato lui a volerla, ne aveva preteso l’acquisto. Il suo ufficio era anche l’unico posto del commissariato in cui mancava un telefono che, nemmeno a dirlo,
17 considerava fondamentale. Ne aveva richiesto uno da un po’, ma i tecnici e i soldi latitavano più dei criminali a cui dava la caccia. Le sedie che corredavano il tavolo erano di finta pelle, logore, risalenti di sicuro a prima della guerra, con qualche taglio che ne lasciava intravedere la parte sottostante; due librerie in noce, vicino alla porta, contenevano pratiche archiviate degli ultimi anni e documenti del precedente comando militare, come suggeriva lo stemma dei Savoia che campeggiava sulla costa dei faldoni blu. Ci passò sopra un dito e strofinò i polpastrelli tra di loro. Si rese conto, ora più che mai, che lì dentro nessuno puliva da chissà quanto tempo. Si chiese come fosse possibile non essersene accorto prima. Di certo non gli faceva bene alla salute. “Che schifo! Come ho fatto finora a lavorare in un posto lurido e disordinato come questo…”. Si materializzò sul suo viso un’espressione di disgusto. Infine, nell’angolo tra la finestra e la scrivania, la sempre presente bandiera del Granducato di Toscana, un tricolore rosso e bianco a fasce trasversali, analogo a quello dell'Austria, dove campeggiava lo stemma degli Asburgo-Lorena. Puzzava di stantio ed era leggermente sfilacciata sia lungo l’inferitura sia lungo il battente. L’accarezzò lievemente e si guardò i polpastrelli diventati, nuovamente, grigi di polvere. Sulla parete, racchiuso in una targa di vetro, il motto “Sotto una Fede et Legge un Signor solo”, motto del Granducato. Quella bandiera ricordava bene come la Toscana fosse, ancora, un protettorato austriaco. Mentre riordinava le idee in quella piccola stanza, Diego, prese a osservare un volantino celebrativo, abbandonato sul tavolo di lavoro, che aveva preso dalla cassetta delle lettere quella mattina. Una versione in miniatura di quelle orribili gigantografie che vedeva per strada ormai da più di un mese. Vi campeggiava tronfiamente il Granduca Leopoldo IV, su uno sfondo color cremisi, perfettamente agghindato e un sorriso sornione dipinto sul volto scarno. Di fianco campeggiava la frase “Per una grande nazione, un grande popolo. Ricordiamo chi ci salvò. Viva il Granducato!” realizzata con caratteri arabeggianti. Lo afferrò, lo accartocciò, e si esibì in un perfetto tiro da tre nel cestino. “Quante puttanate”. Quell’anno, il 1960, sarebbe ricorso il centenario delle importanti battaglie che impedirono, di fatto, una volta per tutte, l’ambita Unità
18 d’Italia e che glorificarono Francesco II di Napoli come salvatore degli Stati Nazionali. Garibaldi fu, così, solo uno dei tanti sconfitti della storia. Doveva essere l’eroe, colui che avrebbe unito l’Italia intera. Non ci sarebbero state piazze, strade o scuole dedicate a lui o a Vittorio Emanuele ma a quei generali che li sconfissero, come Lamoricière o Ludwig von Benedek. Non sempre gli eventi vanno come si pensa. E lui lo sapeva benissimo. Era il 14 di settembre e ormai mancavano quattro giorni alle celebrazioni del 18, giorno della battaglia di Castelfidardo che segnò la fine delle speranze unioniste. Firenze sarebbe stato il fulcro dei festeggiamenti nel territorio toscano. I giornali pubblicavano notizie storiche, curiosità e novità relative a tutti gli eventi che si sarebbero svolti. E quella mattina non si erano esentati. Ogni giorno si faceva lasciare in ufficio i principali quotidiani nazionali e qualche fascicolo locale. Leggeva perlopiù la cronaca, ma quello che trovava era sempre qualcuno che buttava merda sull’operato della polizia. Da Palazzo Pitti il sovrano avrebbe dato il via a un giorno memorabile. Indimenticabile. Quattro giorni ancora, frenetici da irretire la mente fino al collasso. Ma percepiva una certa preoccupazione, sentiva e sapeva che qualcosa non quadrava. Il suo vecchio amico Nicola gli aveva messo la pulce nell’orecchio già da qualche tempo, ma lui non poteva fare nulla, non aveva autorità. Ciò che era scontato, è che sarebbe stato un giorno da ricordare nei libri di storia. La storia l’aveva sempre amata e aveva divorato sin da fanciullo, insaziabile, libri e volumi che narravano un frenetico passato, descrivevano battaglie, raccontavano di personaggi spietati e di azioni gloriose. Dai grandi faraoni egiziani, passando dai conquistatori romani fino ad arrivare alla megalomania di Napoleone. Si fermava ore e ore a gironzolare tra gli scaffali, traboccanti di sapere e cultura, della libreria del signor Cappellini, un piccolo ometto canuto quasi centenario, con il quale aveva stretto un rapporto profondo. Se chiudeva gli occhi poteva ancora sentire l’odore di antico e leggermente muffoso che impregnava quel posto. Ricordava ogni centimetro, ogni angolo. E proprio in quella mistica libreria si era innamorato successivamente di romanzi gialli e di una
19 scrittrice, in particolare. Una giovane donna britannica, capace di catturarlo per ore e ore, con i suoi personaggi così sublimi. Agatha Christie, dalla cui mente brillante e piena di estro aveva preso vita l’incredibile investigatore belga Hercule Poirot. Ma quello era solo una parte del suo passato. Il presente era un mondo nuovo, diverso. Guerrini, infatti, era stato trasferito nel compartimento sud di Viareggio da poche settimane, dopo la promozione a regio commissario capo. Una volta la città era amministrativamente sotto Lucca, adesso era indipendente. Faceva parte del Granducato di Toscana da poco più di cento anni, ma per importanza rivaleggiava a viso aperto con i compartimenti più importanti. Qui, adesso, poteva ripartire. Era bravo, intuitivo e, soprattutto, un gran rompicoglioni, come era sempre stato definito da amici e colleghi. Uno che non lasciava niente al caso e che, a costo della carriera, metteva la giustizia di fronte a tutto. Si era formato sotto le armi, in guerra, come sergente del Reggimento di fanteria Real Ferdinando, ottenendo, giovanissimo, la prestigiosa medaglia al merito, che teneva lì, sulla scrivania in bella vista, sempre lucidata. Da qui era arrivata l’idea. Infatti, dopo l’esercito, senza proseguire gli studi, era entrato nelle forze dell’ordine e, nel giro di quindici anni, aveva scalato i gradi del comando della Polizia Giudiziaria. La famosa Wahlfart, d’ispirazione viennese e parigina, l’élite della polizia asburgica. Un lampo illuminò la stanza. Poi, immediato, un tuono lo fece sussultare. Il temporale era proprio sopra la città. Per accendere la radio, posta tra i faldoni di una delle librerie, era ancora presto. Le notizie della mattina non sarebbero passate prima di mezz’ora. A casa almeno aveva il suo giradischi, al quale poteva affidare uno dei suoi preziosi vinili di musica blues. Sospirò profondamente. Doveva rimettersi su quelle maledette scartoffie che lo perseguitavano da qualche giorno. Una rapina in villa, spacciatori alla stazione, puttane… Sfogliava uno dopo l’altro quei rapporti. Quasi senza leggerli.
20 “Guarda caso tutti provenienti dalle Due Sicilie”. Scosse la testa, scocciato e incazzato. Non amava molto la gente del Regno. Aveva sempre avuto problemi con loro e finiva per ridurli a semplici stereotipi. Stupidi luoghi comuni. Avrebbe detto suo babbo. Sono appassionati e caldi come il sole estivo. Devi conoscerli e imparare ad amarli. “Mah” La sua attenzione era già calata. Si era stancato di quelle scartoffie da scribacchini. Quella mattina faticava particolarmente a concentrarsi e con il pensiero si perse nella sua solitudine. A trentasei anni avrebbe desiderato altro. Ma cosa? Famiglia, per esempio. “Ma cosa dico, una famiglia. Io? Non saprei badare a un topolino in gabbia” pensò, mettendosi a giocherellare con la matita. Tanto una compagna con cui condividere qualcosa non ce l’aveva più, anzi non l’aveva mai avuta. Era stanco. Nella Policey, in poco tempo, ne aveva viste tante, troppe e non n’era mai riuscito a cambiare il mondo marcio che vi si nascondeva. Si lasciò andare sulla sedia, che emise un suono sinistro. Guardò di fronte a sé. Verbali, verbali e ancora verbali. Doveva ordinarli, fare qualche firma e sarebbe stato libero. Prima di lui, era il disastro. Stava per prendere tutto e gettarlo nel cestino. O dalla finestra. Si passò entrambe le mani sul volto per scacciare la sonnolenza che lo stava cogliendo e si trovò a pensare all’aroma del caffè nero del bar di fronte. Lo bramava segretamente. Per la seconda volta. Era di nuovo sovrappensiero quando vide entrare l’ispettore capo Piero Nicolussi. Indossava un elegante gilet scuro sopra una bella camicia di sartoria e una cravatta adeguatamente abbinata. Era ben pettinato, con un’acconciatura anni ’20, e profumato. Come sempre. Non sapeva perché, ma gli ricordava un dandy inglese di epoca vittoriana. Il pensiero gli strappò un sorriso fanciullesco. «Ma dico io, a Merano non ti hanno insegnato a bussare?» «Ho bussato minimo quindici volte, Doktor» disse affossando le spalle e inarcando le sopracciglia, come un cagnolino appena sgridato. Aveva già sorpreso il commissario perso in altri luoghi, lontano da lì. Non ci faceva più neppure caso. Fece finta di nulla.
21 Diego non si era ancora abituato a quello strano accento chiuso del nord. Avrebbe voluto mandarlo a scuola di dizione. In più una cosa lo rendeva irascibile. Essere chiamato dottore. Non credeva di meritare un simile appellativo, non essendo né medico né laureato. Non lo sopportava proprio, ma i suoi rimproveri non avevano mai fatto effetto. «Basta con questo Doktor, altrimenti m’infervoro e sto male tutto il santo giorno.» Piero rimase fermo sull’uscio della porta, con le labbra semi aperte, come fossero sull’orlo di dire qualcosa, ma bloccate da una forza superiore. Diego scosse la testa, inarcando le sopracciglia e sventolò la mano in aria, indicando di lasciar perdere. «Non restare lì impalato. Entra e sputa il rospo. Ho un sacco di lavoro da sbrigare.» Quel ragazzo timido di ventiquattro anni, biondo e dai tratti del viso delicati, quasi femminei, gli ricordava lui da giovane quando meno di tre lustri fa aveva iniziato, forte e pieno di speranza, quando credeva che la polizia fosse garante di giustizia e sempre presente al fianco dei più deboli. Un idealista. “E gli idealisti la prendono sempre in quel posto.”
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CAPITOLO 3
«… accio entrare?» Guerrini lo guardò, grattandosi i corti capelli castani. Il giovane collega era ancora lì sull’uscio della porta. Con il busto sporgente. Il volto reggeva un’espressione enigmatica. «Che hai detto, Piero?» Nicolussi sospirò e alzò gli occhi al cielo. Un riflesso ormai involontario. Non era la prima volta che il buon commissario non afferrava il discorso o non ascoltava proprio. “Una bella visita dall’otorino, ecco cosa gli ci vorrebbe” pensò. «Dicevo…qui fuori c’è un tipo grassoccio» e fece un ampio movimento con il braccio destro, a mimare la fisionomia allargata del tipo «che la vuole vedere. Dice di chiamarsi Alberto Locelso. Lavora alla Nuova Antologia di Lucca» fece una pausa passandosi la mano sulle guance fresche di rasatura «e sembra molto urgente. Ha chiesto espressamente di lei» disse picchiettando le dita sulla porta. Diego lo fulminò, poi socchiuse gli occhi e tirò un lungo sospiro. “Tutte a me ‘ste rotture di coglioni”. La Nuova Antologia. Non sopportava quella rivista, la trovava troppo antirivoluzionaria, caratterizzata da una filosofia eclettica, fuori dal comune, senza contare le numerose critiche all’Austria e alla polizia. Il fondatore non era neppure toscano, ma franco-svizzero, un certo Giovan Pietro qualcosa, e da quell’altro con un nome d’animale, forse Tacchini oppure era Capponi. Non lo ricordava e neppure gli interessava. Era talmente invisa che fu soppressa. Non tardò a tornare alla ribalta giornalistica con ideologie meno compromettenti, dando maggior risalto a questioni letterarie. Ormai era punto di riferimento di ogni toscano, e non, acculturato. Sostanzialmente andava di moda. E questo, a quegli stupidi borghesotti arricchiti, bastava. Non prometteva nulla di buono. Già lo immaginava. Sentiva prurito lungo le cosce e sapeva benissimo che era un brutto segno.
23 «Locelso. Un dannato giornalista mi ci mancava. Maledetto bucaiolo» ci rifletté sopra, guardando distrattamente oltre Piero. «Non ricordo di conoscerlo, ma il nome mi pare di averlo già letto da qualche parte. Se è ancora per quella storia giuro che…» le ultime parole le borbottò soltanto, e si dispersero nella stanza, come urla nel vento. «Fallo entrare» concluse in un buffo tedesco mesciato al toscano. Era diventata, infatti, una delle lingue ufficiali del Granducato. Si alzò con estrema fatica, facendo leva sui braccioli della sedia. Sistemò la camicia nei pantaloni con una mano, chiuse l’ultimo bottone del gilet, si strinse la cravatta e attese. Piero accennò un sorriso e lasciò entrare l’uomo. «Prego, entri pure. Gradisce un caffè? Piero, vai a prenderne due, giù al bar.» La figura che si trovò di fronte era un ometto sulla cinquantina, con due folti favoriti, i capelli rossastri, tendenti al color ruggine, scompigliati, un po’ unti e radi, e abbastanza grassoccio. Per essere gentili. Era pallido e sembrava sul procinto di vomitare. Il suo corpo era tutto un fremito. Era bagnato. Doveva aver corso sotto la pioggia per arrivar fin lì. “Non è che si è mangiato Vito nell’entrare?” Era tentato da chiederlo davvero. L’aplomb di sicuro non era il suo forte, constatò. Guardandolo pensò subito a un personaggio dell’Impero AustroUngarico di Francesco Giuseppe e la sua presenza fisica suscitava una certa ilarità. Nonostante il freddo della stanza, si asciugò la fronte sudaticcia e bagnata con un fazzoletto color rosso e bianco, evidentemente già usato. «Grazie, ma per me niente caffè. È stata una dannata impresa trovare questo posto. Nel buco di culo del mondo» ridacchiò, cercando di rompere il ghiaccio. «Lei mi capirà di sicuro.» Non un esordio da premio oscar. «No, non la capisco e la pregherei di moderare il linguaggio, non si trova a una festa per scappati di casa» replicò infervorato, facendo uso della mano per richiamarlo alla calma. «Modero il…? Sa quanto ho girato per arrivare qui?» disse sputacchiando saliva «Come si fa a mettere la stazione della polizia qui» ringhiò indicando con entrambi gli indici il pavimento.
24 Era su di giri. Continuava a guardarsi in giro, facendo scattare la testa da tutte le parti come un burattino di legno. Nicolussi lo osservava senza dire una parola, accigliato. Indeciso se intervenire o meno. Più divertito che offeso dalle parole del grassone. La risposa al suo quesito non tardò a presentarsi. Il suo superiore sapeva benissimo come comportarsi. Decise che avrebbe lasciato perdere il caffè per il commissario. «Mi ascolti. Ha ragione, ma non abbiamo deciso certo noi. Neppure io lo trovai il primo giorno, mi ero perso» disse sghignazzando, per tentare di creare empatia tra i due, mettendolo a suo agio. «Quindi si dia una calmata. Non mi faccia girare i coglioni di prima mattina, sono al lavoro, io. Ricominciare con il piede giusto mi sembrerebbe saggio.» Il grassone non sembrava ancora del tutto convinto dal discorso del poliziotto. Lo guardava con circospezione. Non sapeva se fidarsi, sedersi e parlare o, meglio ancora, alzare i tacchi e tornare tra le sue mura. Cominciò a tamburellare le dita su un piano invisibile lungo le gambe. Sospirò. Si rese conto di essere ridicolo. Come sempre, inadeguato a qualsiasi situazione. Non aveva molte alternative. «Si può avere dell’acqua?» bisbigliò, quasi temendo una brutta reazione. Diego sorrise, sornione. «Certamente!» «Piero! Porta dell’acqua al nostro ospite» poi si arrestò un istante. Ci ripensò. «Fai due, che ne ha bisogno a quanto vedo. Lascia stare il caffè.» L’uomo sembrava essersi ricomposto, per quanto possibile. Rimase ancora fermo, immobile nell’esatto punto in cui era entrato. «Lei è il poliziotto con cui devo parlare, Guerrini, giusto?» L’ometto allungò una mano sudaticcia. Diego la guardò, increspando l’angolo della bocca e alzò la sua in segno di saluto. “Figurati se ti tocco quella cosa” pensò. Piero entrò dopo pochi istanti e depositò due bicchieri pieni sulla scrivania. Uscendo richiuse delicatamente la porta dietro di sé. «No. Sono un macellaio in pensione. Vede il grembiule sporco di sangue?» sfoggiò un sorriso paterno e con una mano indicò una delle sedie davanti a lui. Locelso lo guardò perplesso, pieno di apprensione.
25 Sembrò non aver colto il sarcasmo. O forse gli sembrava solo un’uscita fuori luogo. «Prego si sieda, è stato in piedi anche troppo» aggiunse. «Sa, mi piace fare il bischero, come si dice qua. Per smorzare la tensione che carica questo luogo. Cosa è successo? Perché è venuto qui?» Alberto si passò una mano tra i capelli e si sedette. Poi prese il bicchiere e ne ingurgitò il contenuto. Anche Guerrini si accomodò finalmente sulla sua. Gli avrebbe fatto perdere un sacco di tempo. Ma il tempo per cosa, esattamente? Locelso tirò su con il naso, si umettò le labbra carnose e cominciò, rigurgitando una raffica di parole una dietro l’altra, agitando le mani. «Sono qui perché mi ha parlato spesso delle sue doti, la elogiava sempre, diceva che lei è un grande, uno con i coglioni e quindi…» «Aspetti, aspetti. Di chi diavolo sta parlando? E comunque lei non si è presentato. Ci farebbe la cortesia di rivelarci il suo nome?» aggiunse sbilanciandosi leggermente in avanti, facendo leva con i gomiti sulla scrivania e incrociando le braccia. «Ah, sì. Certo, dimenticavo» disse con finta mortificazione il tizio grasso, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Mi riferisco a Nicola Bernardi. Eravate a scuola insieme da quello che raccontava, non so se ricorda. Io sono Alberto Locelso, capo redattore della Nuova Antologia della sezione di Lucca» esternò con fierezza, gonfiando il pingue petto. “E che ci fa qui a Viareggio?” lo squadrò torvo, preoccupato. Nicola Bernardi. Avevano frequentato insieme il liceo classico ed erano sempre insieme. All’Università, Diego si era iscritto agli studi di giurisprudenza, poi era scoppiata la guerra e si era ritrovato con un mitragliatore MP-40 in mano a uccidere altri ragazzi come lui, a soli vent’anni. Nicola invece scelse la scuola di giornalismo a Ginevra, e la scampò. Lo aveva visto poco tempo prima. Un incontro che lo aveva allarmato e gli aveva dato da pensare, per quelle parole così sibilline ma cariche di significato che gli aveva esposto. Adesso, la presenza di Locelso nella sua stanza non era rassicurante, voleva dire brutte notizie. «Legge la nostra rivista?» «Sì certo, certo. Per addormentarmi» irrise Diego. «Molto simpatico. È un comico per caso?» brontolò l’altro.
26 «Comunque… Nicola. Certo! E come sta il ragazzo?» disse cercando di dissimulare la sua preoccupazione, ma sapendo, in cuor suo, che stavano per sorgere solo problemi. «Questo è il punto. È scomparso da qualche giorno» i suoi occhi erano fissi su Diego. «O meglio, non ho più sue notizie e quindi sa, ho pensato che potesse… beh si… insomma» Locelso farfugliava, non riusciva a terminare la frase. Batteva ripetutamente le palpebre in modo nervoso e prese a mangiucchiarsi l’unghia del dito indice della mano sinistra. “Dannazione” pensò Guerrini. Forse doveva esserci un fondo di verità in quello che gli aveva anticipato. «Vede, doveva consegnare un articolo. Un articolo con la “a” maiuscola, non so se capisce. Sosteneva di essere dietro a qualcosa di grosso, che avrebbe avuto risonanza anche oltre confine, qualcosa che avrebbe potuto anche far scoppiare la terza guerra europea. Ovvio che fosse un’esagerazione, non occorre che me lo faccia notare pure lei. E poi, lo conosciamo entrambi, ha sempre voluto strafare. Ma, comunque, diceva che gli mancava davvero poco. Poi silenzio. Non ho più avuto contatti» e dopo aver detto l’ultima parola, anticipando alcune delle domande del commissario, tirò un lungo sospiro a riprendere fiato, come a togliersi un pesante macigno che gli gravava sul petto. Si lisciò i favoriti e si umettò le labbra ormai secche. «Temeva per la sua vita» continuò «ho provato a rintracciarlo, sono anche andato a casa sua, a Lucca, ma niente. Sparito. E anche al recapito viareggino non dà segni di vita. Sa, aveva comprato un bellissimo attico.» Rallentò e inspirò profondamente, cercando di rallentare il battito cardiaco. «Certo, a me tutto questo mistero pareva esagerato. La terza guerra europea! Ma ci pensa alle cazzate che sparava?» tirò una lunga risata isterica. Evidentemente falsata dalla situazione. Poi all’improvviso, tacque. Diego si abbandonò sulla poltrona e aprì il cassetto della scrivania. “Una casa a Lucca e una a Viareggio? Come faceva un giornalista di un posto così a permettersi due abitazioni, saranno costati centinaia di leopoldini” pensò. Era evidente che gli aveva taciuto più di un particolare.
27 Un breve silenzio, che a Locelso parve infinito. Lo sguardo perso nel vuoto dei suoi pensieri. «Le dispiace se fumo?» disse sventolando un piccolo sigaro, un toscanello aromatizzato. Un nuovo oggettino locale entrato in commercio da poco. Non ne poteva fare a meno. Si lisciò le folte basette e i baffi. «Ci mancherebbe. Casa sua, regole sue.» Odiava il fumo e si pentì subito di non averlo fatto presente. Si avvicinò a una finestra, l’aprì venendo investito da un vento ghiacciato, misto a pioggia e si accese il sigaro. Aspirò più volte. Subito la stanza imprigionò un fumo denso e grigiastro, accompagnando un’aria gelida fuori stagione. Socchiuse gli occhi. «Senta...» disse indicando l’uomo. «Locelso» «Sì, ecco, Locelso. Non andiamo a fasciarci la testa prima di romperla. Procediamo per gradi» disse grattandosi la nuca. «Mi dica, per incominciare, quando avete avuto l’ultimo contatto?» «Direi cinque giorni. Sicuramente cinque. Dall’ultima lettera» disse dopo un rapido calcolo mentale. «Nessuno lo ha più visto né sentito? Moglie, figli, colleghi o una qualsiasi conoscenza che ne abbia potuto denunciare la scomparsa?» e parlando si affacciò alla porta. «Vito. Controlla un po’ le denunce, direi, mmm... degli ultimi dieci giorni. Cerca un certo Nicola Bernardi. Sì Bernardi, con la B di Bologna. Tutta la provincia di Lucca. Ecco bravo» chiuse la porta e spense il sigaro sul davanzale e lo ripose con una certa cura nel cassetto. «Intanto iniziamo così, magari qualcuno prima di lei si è preso la briga di preoccuparsi. Poi, mi...» Un fischio prolungato. Si toccò l’orecchio. Un regalo del settembre ’44, sulla Linea Gotica, al passo del Giogo. Il suo reggimento, di supporto alla Wermacht e ai reparti del Regno Lombardo-Veneto, spazzò via gli inglesi e l’esercito del Regno di Sardegna, loro alleato. Durante la battaglia, però, l’esplosione di una granata gli perforò un timpano e gli lacerò la milza. Da allora l’udito non era più stato il suo forte. E neppure la corsa.
28 «È sempre più solo, isolato» disse, approfittando della pausa di Diego «Da quando Clara lo ha lasciato si è chiuso completamente. Gli ha portato via anche Maria Teresa e Pietro. Non aveva…» si fermò «Non ha più niente» si corresse. L’uso del passato, quasi senza accorgersene, lo fece sussultare. Non voleva ancora pensare a lui come qualcosa che non esisteva più. Il suo turbamento era evidente. Chiaro era come tenesse alla vita del collega, anche in ambito privato. La loro relazione professionale era cresciuta negli anni la stima tra i due era immutata e le cene in famiglia erano routine. Fu proprio Locelso a volerlo fortemente con lui. Perfino Elvira e Clara erano diventate buone amiche. Era rimasto colpito da quel ragazzo così professionale e colto. E ora si sentiva colpevole, carnefice involontario di una persona innocente. «Stavano insieme dal liceo» disse Guerrini aggrottando un sopracciglio «deve essere stato un duro colpo. Non me ne aveva parlato. Lei l’ha sentita?» chiese visibilmente dispiaciuto. I ricordi lo colpirono come uno schiaffo in pieno volto. «No. Io, vede, non ho pensato che lei... insomma, che ne sapesse qualcosa» disse portandosi la mano sinistra ai lunghi baffi, farfugliando. «A quanto pare pensare non è il suo forte, eh Alberto?» disse dando una pacca sulla spalla del poveretto. Ritirò la mano, bagnata dal sudore mista ad acqua di Locelso. «Senta, mi dispiace di…» tentò di scusarsi in qualche patetico modo. Guerrini lo arrestò sul nascere. «Non fa niente. Ha già fatto abbastanza danni così.» Si appoggiò alla scrivania e incrociò le gambe, allungandole. «Vorrei vedere quell’ultima lettera di cui parla. L’ha portata con sé, spero?» Fece una breve pausa. Annusò l’aria ancora pregna di un forte odore di tabacco. «Inoltre dare un’occhiata al vostro ufficio sarebbe utile, magari ha lasciato qualche cosa di interessante.» Alberto sembrò preso alla sprovvista e lasciò intercorrere mezzo minuto prima di rispondere. «Ovviamente, non c’è problema» disse estraendo dalla tasca interna del cappotto prima una carta stradale, mangiucchiata alle estremità dalla
29 pioggia, poi una busta spiegazzata, anch’essa vittima incolpevole di un tempo implacabile. «Eccola. Immaginavo me l’avrebbe chiesta» gongolò per l’intuizione avuta. «Ma le basterà andare in centro a Viareggio. Lavorava qui. Abbiamo un piccolo appartamento adibito a ufficio, in via Menini 52. Ecco. Legga.» Porse la lettera a Diego che, dopo averla afferrata con un fazzoletto, la osservò in ogni suo aspetto. Portava il timbro postale del 7 settembre, inviata dalla stessa Viareggio. L’intestazione era scritta a macchina. L’attenzione cadde sulla lettera b, parzialmente tronca. Con tutta probabilità, un difetto dell’Olivetti, non era la prima che incontrava. Anche la sua aveva il medesimo problema. «Una settimana» constatò. La dispiegò dopo averla estratta con attenzione dall’involucro. Attenzioni che ormai dovevano aver poco significato dopo tutto quel tempo, si disse. Guardò il testo prima rapidamente. Era breve, scritto in modo elegante ma insicuro, con qualche sbavatura e cancellazione. Forse scritto di fretta. Non c’era data. Poteva averla scritta in qualsiasi momento prima di averla imbustata. Caro Alberto Ti invio questa mia missiva perché non puoi neppure immaginare chi sta dietro a tutto questo caos, avevo visto giusto su quel bastardo. Dario ha qualcosa per me. Ti confesso che ho paura, questa cosa sta diventando pericolosa, non mi piace. Se scoprono il mio gioco... A breve ti porto l’articolo con tutte le prove che ho raccolto. E andremo insieme dal Granduca. A presto, Nicola. Strinse con forza il foglio, tanto da crearvi delle piccole pieghe sopra. Non riconsegnò la lettera a Locelso. La poggiò sul tavolo, conscio del fatto che l’avrebbe comunque fatta analizzare dai suoi tecnici di laboratorio. Diego era sicuro che quella fosse stata scritta dal suo vecchio amico, si scrivevano spesso.
30 Nicola aveva paura. Era evidente. La lettera era breve e concisa. Ma una domanda ronzava dentro alla testa di Diego. Che volto aveva questa paura che tanto spaventava il suo vecchio amico? E, soprattutto, dov’era adesso? In sette giorni una persona può andare ovunque. Un testo per lui pieno di enigmi. Ed era già una gran rottura di palle. «Che vuol dire tutto questo? chi è questo Dario di cui parla? Lo cita come sei lei lo conoscesse» disse accentuando l’inflessione toscana. «Non lo so» disse alzandosi. «Una sua fonte credo, ma non ci metterei la mano sul fuoco. Sinceramente non so neppure se quello sia il suo vero nome. Mi ha tenuto all’oscuro di tutto, lo riteneva troppo pericoloso.» Forse era passati quindici o venti minuti da quando quell’incontro era iniziato. Ma sembrava un’eternità che quei due erano lì dentro. L’aria che respirava era pesante. Per Diego, Locelso sapeva più di quanto non volesse mostrare. Era frettoloso nel voler liquidare la questione. E il suo corpo diceva più di ogni altra parola. Non credeva fosse implicato, questo no. Ma era impossibile non sapesse. «Secondo lei, la sua scomparsa è legata all’indagine che stava portando avanti?» «Mi pare chiaro che sia così. Non vedo nessun altro motivo, onestamente. Ma il poliziotto è lei, sono venuto qui per un motivo» disse stringendosi nelle spalle. Già, era lui quello con la pistola e le manette. Si mordicchiò il labbro inferiore, pensieroso. Bussarono alla porta e si affacciò l’agente scelto Vito «Scusi dottò ma ho verificato. Nessuna denuncia per una persona con quel nome. Ho sentito anche gli ospedali e gli altri commissariati. Niente. Mi terranno comunque informato.» «Anche tu con questo dottore? Ma che avete tutti quanti, ho per caso un camice e non me ne sono reso conto?» l’agente lo squadrò senza capire, come fosse un marziano e fece spallucce. «Senti, va bene così, grazie Vito, levati di torno» lo congedò con un cenno della testa. Diego Guerrini si staccò dalla scrivania e dall’attaccapanni prese rapidamente il suo cappotto, un Chesterfield monopetto in lana grigia a spina di pesce. Un regalo per i suoi trent’anni.
31 Locelso lo squadrò con occhi languidi, quasi sentisse di essere stato abbandonato da quel poliziotto. Voleva più chiarezza, più risposte. Ma si alzò, gravando sulle ginocchia fragili. Si ricompose, per avere una parvenza di credibilità. Diego aprì di nuovo il cassetto della scrivania e recuperò il mozzicone di sigaro e l'accendino. Adesso doveva agire in fretta. Aveva le idee chiare. Non era un tipo convenzionale, aveva spesso agito sopra le righe e questo, sentiva, era uno di quei momenti che era necessario andare oltre. Era già passato troppo tempo da quell’ultima lettera e non poteva, non voleva, neppure immaginare lo scenario peggiore. «Lei vada pure. A casa, in ufficio, dove vuole lei. Adesso ci penso io. Quando esce lasci il suo numero e indirizzo all’agente Vito qui fuori. Mi farò vivo. Dovrei avvisare la Polizia Amministrativa o Anti giudiziaria. Noi interveniamo solo quando il reato è già avvenuto, sa, e qui ancora non ci sono prove di niente, insomma non c’è reato. Ma quelli sono solo dei lacchè del Presidente del Buon Governo» sentì la necessità di dire quelle parole a quello sconosciuto. Non sapeva neppure lui il perché. L’Amministrativa e l’Anti giudiziaria avevano infatti il compito di prevenire i delitti, mentre la Giudiziaria e la Punitiva dovevano, rispettivamente, ricercare e punire i colpevoli. Un retaggio delle riforme leopoldine. Una porcata totale. E la catena di comando era presto fatta. Regi commissari e Regi Podestà dovevano riferire ai Regi Vicari, che a loro volta dovevano notificare gli atti ai Regi Procuratori e così via, fino ad arrivare al Ministero Pubblico. Qualcuno doveva sempre riferire a qualcun altro, in un circolo vizioso e infinito, che portava ad accumulare solo ritardi e invalidazioni. Era tutto un non tocca a noi, sta a loro oppure non è nei miei compiti… sempre la stessa storia, sempre la solita lagna. Mai nessuno che sentisse il dovere di fare il proprio lavoro. Un sistema che faceva acqua da tutte le parti. E prima di avere mandati passavano giorni. Ma a lui era già venuta in mente una strada da seguire. «L’indirizzo di casa al mare invece?» aggiunse prima di uscire.
32 «Ah, il bellissimo attico sulla passeggiata. Aspetti un secondo, ho con me la mia agenda. Mi lasci dare un’occhiata, devo averlo sicuramente scritto da qualche parte.» Si frugò in un’altra tasca interna del cappotto e ne estrasse l’amata agenda. La sfogliò, quasi a colpo sicuro. Dopo alcuni mugugni e dinieghi evidenti della testa, trovò ciò che cercava. «Ecco qua! Che le dicevo, segno tutto, io! Viale Carducci 58, se lo segni» disse fiero e soddisfatto, mimando l’atto di scrivere con una penna. Il commissario se l’appuntò, al volo, su un fogliettino strappato dal rapporto che stava stilando. Lo doveva rifare comunque. Alberto Locelso si alzò e prese la via d’uscita insieme al commissario «Mi faccia sapere, la prego.» Questa volta non allungò la mano. Diego lesse la paura negli occhi di quell’uomo che aveva disprezzato di primo acchito. «Un’ultima cosa. Si faccia dare un ombrello dai colleghi, non vorrà bagnarsi ancora?» Alberto lo fissò, poi si lasciò sfuggire un grazie che poco aveva di gratificante. Diego guardò l’orologio automatico Seiko che portava al polso. Le 08:47. Sarebbe andato subito e avrebbe portato Nicolussi. Non aveva molto tempo e non voleva sprecarlo. Il suo uomo migliore, nonostante la giovane età. Lo aveva già capito che poteva fidarsi. Erano passate ben due ore da quando Alberto Locelso aveva fatto capolino nel suo ufficio. Il tempo scorreva come un fiume in piena. «Piero, ti va di andare al mare?» disse uscendo dall’ufficio. «A settembre, con questo tempo e a quest’ora?» pareva titubante. Piero era uno diffidente e valutava bene ogni possibile scelta. «È bellissimo il mare in questo periodo. Guarda che a settembre è ancora pieno di gente, dove diavolo hai vissuto finora» disse scuotendo leggermente la testa, quasi fosse rimasto deluso dal giovane collega. «Cos’è successo?» disse perplesso, senza badare all’ironia di Diego. «Ancora non lo so. Ma non ho buoni presentimenti. Un’ultima cosa. Sistemati il panciotto» leggere Agatha Christie lo aveva molto pignolo. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD
INDICE
Prologo .......................................................................................... 3 Capitolo 1 ...................................................................................... 9 Capitolo 2 .................................................................................... 15 Capitolo 3 .................................................................................... 22 Capitolo 4 .................................................................................... 33 Capitolo 5 .................................................................................... 40 Capitolo 6 .................................................................................... 44 Capitolo 7 .................................................................................... 52 Capitolo 8 .................................................................................... 55 Capitolo 9 .................................................................................... 65 Capitolo 10 .................................................................................. 68 Capitolo 11 .................................................................................. 71 Capitolo 12 .................................................................................. 78 Capitolo 13 .................................................................................. 85 Capitolo 14 .................................................................................. 91 Capitolo 15 .................................................................................. 97 Capitolo 16 ................................................................................ 103
Capitolo 17 ................................................................................ 116 Capitolo 18 ................................................................................ 125 Capitolo 19 ................................................................................ 128 Capitolo 20 ................................................................................ 133 Capitolo 21 ................................................................................ 139 Capitolo 22 ................................................................................ 144 Capitolo 23 ................................................................................ 150 Capitolo 24 ................................................................................ 154 Epilogo ...................................................................................... 161
Ringraziamenti .......................................................................... 163
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quarta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2021) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.
AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com
Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.