Nido di bambole, Mario Fazio

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MARIO FAZIO

NIDO DI BAMBOLE

ZeroUnoUndici Edizioni


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NIDO DI BAMBOLE Copyright © 2022 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-545-5 Copertina: immagine proposta dall’Autore Prima edizione Aprile 2022


Dal nulla nasce il mondo nostro, A te, che ti prendi cura delle mie gioie, Va tutto l'onore dell'infinito. In questa piccola vita, Dedico il soffio di una storia. E ne respiro, ogni giorno, l'amore.



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1. GORAN

Goran Scacchi si destò di soprassalto sul sedile del vecchio taxi che lo stava trasportando. Si era mosso di scatto, slittando sui vecchi sedili in similpelle color avana e producendo un suono acuto, come una sguisciata di gomma bagnata. Nello stato di dormiveglia, gli sembrò l’urlo lamentoso di una donna. Forse aveva sognato, una macchina di fronte, due fari a illuminare la notte. Un colpo improvviso. Aprì gli occhi arrossati dal sonno di un lungo viaggio e, guardando fuori dal finestrino, osservò una campagna desolata, scompigliata, odorosa di terra appena rivoltata, vestita di una pesante coperta di nebbia crepuscolare. Il paesaggio non animò in lui nessun senso di risveglio anzi, quella coltre bianca e indefinita gli sembrò il letto ideale dove riaddormentarsi. “Dio, che sogno orribile”, pensò. «Mancano ancora un paio d’ore. Si riposi.» La voce maschile arrivò dal posto di guida. Un uomo stava guidando, un uomo dalle spalle larghe, di cui non scorgeva il viso se non per un paio di baffi alla turca, assolutamente esagerati. Mugugnò un “sì” come risposta e reclinò nuovamente la testa. Non si ricordava il volto del tassista, né si ricordava di aver preso un taxi. Imputò la stranezza alla notte precedente in cui aveva alzato il gomito e al sonno pesante che ne era seguito. Uno stato di torpore che ora lo avvolgeva come fosse un’amante appiccicosa e troppo apprensiva. Chiuse gli occhi nuovamente. Gli sembrarono passati pochi secondi quando avvertì il mezzo frenare. Si disse: “ora il tassista mi sveglia e mi toccherà scendere, con questo freddo”. Aspettò i secondi, i minuti. Infine, dopo un tempo indefinibile, riaprì gli occhi e si accorse di essere solo. Si guardò intorno, il taxi era deserto. Mulinò la maniglia fissata alla portiera del rottame che lo aveva condotto fino a lì per far scendere il finestrino. L’aria entrò come una lama ghiacciata e pungente. Con l’indice e il pollice si stropicciò gli occhi cisposi e osservò verso fuori, riuscendo appena a distinguere la sagoma di un bar, deserto. Le luci all’interno sembravano spente. «Hey!» Urlò verso le vetrine del bar.


6 Il suono della sua voce si perse a pochi metri, inghiottito anch’esso dalla fitta nebbia. Scese a malincuore dal taxi, maledicendo il conducente che l’aveva mollato lì. Si aggiustò il paltò tirandolo bene sul collo e stringendo la sciarpa. Trovò la sua valigia abbandonata sul selciato, poco davanti alla portiera. “Ma guarda questo stronzo, ora mi sente”, pensò apostrofando il pessimo agire del conducente. Sbatté malamente la portiera alle spalle, giusto per prendersela con qualcosa, con la speranza che il tassista lo vedesse trattar male il suo mezzo. Poi sollevò la valigia e si avviò verso il bar. Guardandosi intorno si rese conto di non riconoscere il luogo. Non c’erano indicazioni di sorta. Una piazzetta in qualche paesino sperduto del nord Italia. Le case, che affacciavano sulla piazza, avevano tutte le imposte chiuse, alcune addirittura serrate con del legname. Notò un portone poco lontano, di un verde sbiadito. Non fu lo stato di degrado a incuriosirlo, ma il fatto che sulla parte destra in basso erano evidenti dei profondi graffi sul legno, grattato al punto che era possibile intravedere il buio celato all’interno. “Un cane molto arrabbiato”, pensò. L’atmosfera generale gli restituì un forte senso di abbandono. Si bloccò davanti a un monumento al centro della rotonda, che fungeva da fulcro per la rotatoria. Una scultura commemorativa orribile: un Cristo in ferro battuto, impalato su una croce di ossa. Una rappresentazione a dir poco inquietante. «Ma dove diavolo sono finito…» chiese tra sé e sé. Goran arrivò con passo veloce al bar, l’umidità gli era già penetrata nelle ossa. Non era tipo da lamentarsi, aveva fatto una vita che l’aveva messo alla prova più e più volte. Era di origini italiane da parte di padre, ma aveva vissuto gran parte della sua vita in Croazia, tanto da sentirsi più croato che italiano. Riteneva la sua casa natia, intesa come luogo di appartenenza, come richiamo alle radici, una casupola sperduta nella campagna zagabrese. Lì, era cresciuto insieme alla madre fino alla maggiore età, quando si trovò a prestare il servizio di leva. Al contrario del suo rapporto intimo con quel luogo fisico, quello con la genitrice era ben differente. Era, infatti, una madre assente, alla perpetua ricerca di qualcuno che la rendesse una donna stabile, incapace di bastare a sé stessa. Dopo aver prestato servizio militare, durante gli anni di scissione della Repubblica Socialista, aveva fatto ritorno in Italia, per via della presenza di alcuni parenti del padre. Lì ebbe fortuna come attore televisivo, complice il suo bell’aspetto e l’aria dannata che


7 contraddistingueva il suo sguardo profondo, gli occhi azzurri e i capelli nero corvino. Gli anni al servizio del suo paese di origine, però, l’avevano provato profondamente e fisicamente. Per tale ragione odiava il freddo, l’aveva subìto troppo e troppo a fondo, oltre le ossa, fin dentro il cuore. Si buttò velocemente sulla maniglia del locale, benché da fuori non sembrasse aperto. L’interno, sorprendentemente, era caldo e accogliente. Un locale unico, non troppo grande, poco illuminato, ricoperto di dozzinale legno economico dappertutto. Boiserie alle pareti, di povera essenza, un paio di tavoloni di abete grezzo, circondati da panche. Sull’angolo, in fondo, un imponente camino in pietra accoglieva un focolare caldo e scoppiettante. Sulla destra il bancone che faceva da altare a una lunga serie di bottiglie di liquori di ogni tipo. Una colonnina di un legno indefinibile, tanto il fumo l’aveva scurito, custodiva in maniera razionale e ordinata un’interminabile serie di mazzi di carte da gioco. Tutti ben disposti e ordinati, ma decisamente usurati, come se rappresentassero il vero valore di tutto l’ambiente. «Buongiorno, si può?» chiese dopo essere entrato, chiudendosi la porta alle spalle. Non ottenne alcuna riposta, ma non stette neanche ad aspettarla. Il caldo della stanza lo spinse a togliersi il cappotto e la sciarpa e a poggiarli sulla prima sedia disponibile. Nel mentre era intento a spogliarsi, una donna era entrata da una piccola porta laterale al bancone, scompigliando una tendina a buon mercato fatta di perline in plastica rossa. Goran si girò nuovamente verso il bancone. «Buongiorno! È possibile avere un caffè?» La donna, le cui spalle non si erano mai voltate a favore dell’avventore, grugnì un “sì” e cominciò ad armeggiare con una vecchia macchina “La Cimbali”, che sbuffava stancamente vapore. Goran osservò la locandiera: era piuttosto corpulenta, capelli bianchi e lunghi le cadevano scomposti e in disordine sulle spalle. “La Cimbali” e la barista avevano qualcosa in comune: sembravano rovinate e derelitte, stanche di quel mestiere. Mentre preparava la bevanda, l’uomo ne approfittò per chiedere delucidazioni. «Il tassista mi ha abbandonato sulla strada, è entrato qui per caso?» domandò con piglio investigativo. «No.» «Dove siamo?» «Borgo della Magione.»


8 «Devo ancora pagargli la corsa», proseguì, «mi ha mollato dentro il taxi con la valigia a terra, ma si può?» «Sta andando via.» «Chi?» «Il tassista. Sta andando via.» Goran udì distintamente il motore della vecchia auto avviarsi. Scattò verso l’esterno solo per fare in tempo ad arrivare sulla strada, mentre l’auto si allontanava sulla via, perdendosi in lontananza tra le coltri spesse di nebbia. «Hey! La devo pagare!» urlò Goran. Nulla. Il taxi era scomparso. «Peggio per te, vecchio cafone!» Si strinse le spalle con le braccia per il freddo pungente che l’aveva accolto e tornò di corsa dentro il bar. La barista era scomparsa e al suo posto, sul banco, c’era un caffè fumante. Lo prese, scelse una bustina di zucchero di canna, e si accomodò sul tavolo più vicino al camino. Mentre era lì che gustava la bevanda ripensò a come era arrivato in quel paesello sperduto. Prese il cappotto e tirò fuori dalla tasca interna un invito stampato su un prestigioso cartoncino di carta goffrata. Ne rilesse il contenuto. “La signoria vostra è invitata alla Magione del Mezzo, dove sarà accolto con cortesia per passare una piacevole serata, all’insegna della convivialità e della cultura. È gradito l’abito formale”. Seguiva l’indirizzo e altre indicazioni di carattere formale. Non era arrivato direttamente nelle sue mani. Goran Scacchi era un attore piuttosto quotato e, come tutti i Vip di un certo calibro, aveva un’agenzia alle spalle che si occupava di gestire il suo personaggio pubblico. Il suo segretario, Elia, l’aveva bollato come il solito evento inutile e senza eco mediatica, per cui non valeva la pena parteciparvi. Il successivo arrivo di un cospicuo assegno per le “spese” aveva convinto immediatamente Elia, e quindi di conseguenza Goran, a disdire gli appuntamenti per quel fine settimana, in modo da garantire la presenza dell’attore. Per lui era solo l’ennesima serata noiosa a cui si piegava, conscio che, in quel mondo di visibilità spicciola, questi eventi erano la culla per tessere rapporti proficui per ottenere quella parte in quel film o aggraziarsi il regista del momento. Per quanto queste serate gli fossero ostiche e ostili, le reputava un nonnulla, della polvere sulla giacca da spazzolare via con un soffio.


9 “Le sofferenze vere risiedono in memorie lontane”, pensava. Infatti, ben altro era ciò che aveva patito nel suo paese durante la guerra civile. E, ancor peggio, le drammatiche vicende che, successivamente, lo avevano coinvolto e dalle quali non si era ancora ripreso del tutto, al punto da considerarle eventi da chiudere in un cassetto e dimenticare per sempre. Insomma, la prostituzione per quella serata era un obolo da pagare per vivere una vita agiata e preziosa. «Signora? Può venire al banco, cortesemente?» Goran si era alzato e aveva riportato la tazzina al bancone. Lo faceva sempre, si riteneva un uomo preciso ed educato e mai avrebbe lasciato, persino al bar, qualcosa di disordinato dietro di sé. Chiamò la donna che aveva visto poco prima per farsi dare indicazioni su dove andare. La voce della signora arrivò da dietro la tendina di perline. «Lasci pure i soldi sul bancone. Sono ottanta centesimi. E chiuda la porta quando esce.» L’uomo ebbe un gesto di stizza verso l’accoglienza di quel paese sperduto, tutt’altro che calorosa. Tirò fuori dalla tasca una moneta da due euro, l’unica che aveva. «Ho solo due euro!» Urlò verso il locale posteriore. Seguì una breve pausa, poi la donna aggiunse: «Fa nulla, offre la casa.» “Questo è troppo”, pensò Goran sbuffando e replicò con una voce piuttosto seccata: «Ci terrei a pagare il caffè, se può venire cortesemente! Dovrei anche chiederle delle indicazioni, devo recarmi in un posto, la “Magione del Mezzo”.» La donna apparve improvvisamente dietro le perline, le aprì con un gesto secco e rude, tanto che qualche ninnolo cadde a terra rotolando, per finire dimenticato in un angolo sconosciuto, a far compagnia a polvere e sporcizia inzeppata. Si mosse stancamente verso il fronte pubblico e cominciò a gesticolare, come se stesse disegnando il percorso sul vecchio bancone di legno scuro. «“La Magione del Mezzo”, certo. Dovevo immaginarlo. Tutti lì vanno. Appena uscito dal bar, deve prendere la via centrale del paese, la riconosce perché la pavimentazione non è asfaltata, è fatta di sampietrini. Prosegua dritto fino a uscire dal paese, troverà delle scale che salgono. Sono trecentosei scalini, una bella scarpinata. Subito un bosco e altri scalini. In cima troverà un viale di abeti, “viale delle Rimembranze”, lo percorra tutto, finirà su un vecchio ponte. Lo attraversi e troverà l’ingresso dei giardini della villa. Ci vorrà un’oretta di cammino da qui. Non ci sono altre strade.»


10 La voce era roca, scura, parlava con la testa chinata. I capelli canuti e scomposti a nascondere il viso, truccato eccessivamente, come una vecchia tenda teatrale su una maschera dipinta. «Uhm, grazie», risposte Goran un po’ inquieto e aggiunse, «le pago il caffè», spingendo per qualche centimetro sul bancone la monetina da due euro. La donna voltò le spalle e, tornandosene nel retrobottega, borbottò un conclusivo: «Il caffè gliel’ho offerto, come ho già detto. E gli omaggi non si tirano indietro. Per la Magione del Mezzo segua la strada, sempre dritto. Arriverà a un ponte. Non ci si può sbagliare. È una lunga strada acciottolata…senza uscita. Addio, buon viaggio.» Scomparve. Goran non se la sentì di aggiungere altro. Riprese i suoi abiti, li indossò e, con la valigia in mano, si gettò tra le fredde braccia dell’inverno. La nebbia lo accolse come una madre affettuosa. Da qualche parte il sole sonnecchiava. Ma non lì, non lungo la via della “Magione del Mezzo”.


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2. MARIE

Marie si era alzata prestissimo. Non che fosse una novità per lei, non le era mai piaciuto dormire. La trovava un’attività necessaria e imprescindibile dalla, vita ma, fondamentalmente, una perdita di tempo. Tale atteggiamento le era stato inculcato fin da bambina. “Bisogna darsi da fare, non poltrire, essere attive e operose”. “Operosa”, era la parola che più risuonava in quel periodo, scandita da una madre incidente ma assente, perennemente cupa e seriosa nei confronti di due grandi occhi neri che la guardavano con venerazione e timore. Una bimba senza troppe pretese, Marie, silenziosa e ubbidiente. Una di quelle che non fanno capricci, anche quando le proponi di fare danza classica che a lei, più di tanto, non andava a genio. Perché si sarebbe dovuta scontrare, oltre che con sua madre, con suo padre, nome conosciuto e temuto nel mondo della lirica. Vai a sapere che la danza sarebbe divenuta la colonna portante della sua vita. Dopo un paio d’anni di mal sopportazione reciproca si erano accettate vicendevolmente, lei e la danza, come un matrimonio iniziato male in cui, con il tempo, si accettano vizi e virtù del partner. E ci si ritrovava bene, a dirla tutta. Le piaceva il rigore, il silenzio religioso, scandito da sicuri “un-deux-trois plié”, da cui, più di tanto, non ci si poteva discostare. E, l’aveva capito più in là con l’età, avrebbe accettato una disciplina anche più rigorosa, pur di fuggire da quella madre oppressiva e “operosa”. “Operosa”, una parola che sarebbe diventata una condanna. Perché quell’ideale di rigore, di razionalità, di cui fidarsi e a cui affidarsi, la portò anche nella direzione sbagliata per quanto riguardava la scelta di un partner che decidesse tutto per lei. I suoi gusti, il suo modo di fare. La sua vita. «Goran! Goran Scacchi! Non ci posso credere!» L’urlo arrivò alle spalle dell’uomo che, fiato corto, era finalmente giunto in cima ai trecentosei scalini. Quasi morto per la fatica, già era pronto a sorbirsi l’ennesima fan accalorata e inferocita che, anche lì in quel paesino senza nome e sperduto nel nulla, era riuscito a scovarlo come fosse un ago in un pagliaio. Si girò appena in tempo per sentirsi abbracciare calorosamente. Stava per sciogliere quell’abbraccio con


12 cortese determinazione quando, osservando la donna che lo braccava, si rese conto di conoscerla molto bene. «Marie! Oddio quanto tempo! Marie De Blanche!» esclamò aprendosi in un accattivante sorriso. Marie conosceva Goran da tempo immemore. Una di quelle amicizie che affondava le radici nel passato reciproco e che, in quella vita vissuta tra viaggi, tournée e migliaia di facce che sfilavano a ritmo serrato, era finita per sfilacciarsi e prendere posto nell’armadio dei ricordi di entrambi. Non c’era mai stata acredine o litigi, semplicemente nel tempo si erano allontanati. Tutto era nato più di vent’anni prima, quando entrambi muovevano i primi passi nel mondo dello spettacolo. Lui reduce da un paese in guerra, lei, ballerina, figlia d’arte, faticava a ritagliarsi un posto nel panorama della danza classica, dovendosi scontrare con il monumento che suo padre, regista d’opera, rappresentava in quel mondo dorato. C’era dell’altro. Marie era stata segretamente innamorata di quel giovanotto dallo sguardo dannato e dai modi gentili. In un momento in cui entrambi erano fragili, si era instaurato un rapporto cementato dalle insicurezze reciproche. Di amicizia da parte dell’uomo, di un sentimento più profondo, ma mai dichiarato, da parte della donna. «Goran! Incredibile incontrarsi dopo tanto tempo», disse l’étoile carezzando il viso dell’uomo. «Sei rimasto uguale. Maledettamente bello! Ti ho seguito tanto, sai? Ho visto praticamente tutto. Tutti i film, le fiction, e adoro Danny! Sono la tua fan numero uno!» Goran osservò i lineamenti della donna. Erano passati vent’anni, e si potevano contare tutti, sul bel viso dell’étoile. Capelli neri, striati di bianco, corti, lineamenti squadrati, occhi grandi e ambrati, da cerbiatta. Un fisico gracile, quasi emaciato, che si trasformava in un cigno danzante appena indossava le sue scarpette da punta. Marie era proprio come le sue scarpe da ballo: splendide, eleganti e soavi viste da fuori. Ma dentro nascondevano ossa rotte, ferite, tagli e pelle screpolata. La trovò incredibilmente in là con l’età. Invecchiata male, vissuta peggio. «Marie, mi fai vergognare e sentire in colpa», replicò lui, spostandole le mani dal viso ma trattenendole strettamente. «Io sono venuto a vederti una volta sola e perché mi hai praticamente costretto.» «Va bene, ma tu sei giustificato. Non si può guardare la danza se non si è appassionati. Sarebbe una tortura. Quindi sono felice che non sei venuto.» «Sei troppo buona.»


13 La ballerina staccò le mani dall’uomo. Si allontanò di qualche passo e si affacciò sorridente al parapetto che dava sulla vallata in cima all’alta scalinata che avevano percorso. A Goran, anche quel semplice gesto sembrò il risultato di una splendida coreografia. Il paesaggio restituiva un muro bianco, che si stagliava candido e impenetrabile a pochi metri dai due amici. «Non si vede nulla! Quanta nebbia. Chissà che splendido panorama ci stiamo perdendo.» «Chissà… Magari se aspettiamo un po’ esce il sole al tramonto. Sarebbe romantico, no?» Proprio sul finire della frase si udirono dei tuoni in lontananza. Come se un temporale imminente minacciasse di esplodere cogliendo i due impreparati. Un rombo scuro e lontano che sembrò far tremare il terreno intorno. Marie scoppiò a ridere: «Lo senti il tuo sole? Tra un po’ ci prenderemo una bella doccia gelata, se non ci muoviamo.» «Mi sa che hai ragione», convenne l’uomo. «Da che parte si va? Una signora in paese mi ha detto di attraversare il ponte alla fine della scalinata. Dovrebbe essere poco più avanti.» «Andiamo allora! Ora che ci sei tu, sono più tranquilla. Mi ero fermata qui in attesa che arrivasse qualcuno. Non potevo sperare in un cavaliere migliore!» La coppia scoppiò in una risata e si mossero. A Goran faceva oltremodo piacere di avere incontrato Marie. Aveva un complice, un’amica a fargli da spalla in una serata che era sicuro non gli sarebbe piaciuta. Invece, anche se era iniziata male, stava decisamente migliorando. I due si incamminarono lungo il ponte che era stato indicato loro. La ballerina prese sottobraccio l’amico in un gesto semplice ma dal gran significato. «Insomma questo tramonto romantico?», chiese la donna con fare malizioso, a cui non era sfuggita la galanteria stucchevole dell’amico. «Non hai nessuna signora Scacchi con cui vederlo?» «No», rispose l’uomo con una velata amarezza. «Nessuna signora Scacchi. E se ci fosse lo saprebbe mezzo mondo, no?» «Tu sei sfuggente! Questo ti rende ancora più affascinante.» Rise, aggrappandosi stretta al braccio dell’uomo. Lei non toccava mai troppo le persone e non voleva essere toccata. Ma Goran, no. Lui era stato una persona speciale e si fidava. Lo considerava un amico che mai e poi mai avrebbe tentato qualcosa di inopportuno nei suoi confronti. Perché era un


14 gentiluomo, certo, ma anche perché i due si erano accettati come amici e non altro, quell’amicizia tra uomo e donna spesso inconciliabile con il buon costume dei loro rispettivi ambienti, che avrebbero malignato per molto, molto meno. «Come mai hai accettato questo invito?» chiese Goran dopo pochi passi. «Da quel che mi ricordo, non sei esattamente una ragazza che ama la vita mondana.» Marie arrossì. Ricordò benissimo l’occasione. Aveva ricevuto il suo invito mentre era a casa, sola, in pantofole, pigiama di pile e coperta pesante addosso, buttata sul divano a guardare una serie tv anonima, fatta di personaggi stereotipati coinvolti in qualche storia insipida, priva di significati, con forzature nella trama al limite dell’inverosimile, confezionata ad arte per far spegnere il cervello e non pensare. L’invito le era stato recapitato sotto la porta, scivolando tra la porta e il parquet, con un rumore secco e ruvido, come se non fosse stato solo un involucro di carta, ma un oggetto pesante e denso. E, in effetti, l’involto non era nemmeno fatto di carta. Con la flemma che poteva caratterizzare una tartaruga che si riposiziona dopo essersi girata sul guscio, Marie si era alzata dal divano, aveva aperto la porta cercando il misterioso postino, ma, sul pianerottolo dell’appartamento, di lui nessuna traccia. Allora era corsa alla finestra, al quarto piano, che dava sulla strada antistante il palazzo. Era riuscita solo a scorgere un uomo corpulento, basso, con un berretto in testa, di quelli un po’ squadrati. Era entrato in un’auto gialla, vecchia e malandata, ed era scomparso tra i fumi del traffico caotico del Marais, nel IV arrondissement della sua Parigi. Allora aveva sbuffato, un po’ indispettita, era tornata alla porta e aveva sollevato il misterioso plico. Ne era rimasta affascinata. Non era un invito di quelli anonimi e prestampati. Ma una vera opera artistica: carta artigianale, in canapa pressata, inchiostro nero fuliggine, denso, probabilmente fatto in casa, visti i residui grumosi lasciati nei caratteri: una bellissima grafia, piena di fronzoli e volteggi, una danza calligrafica, che avrebbe mandato in estasi qualsiasi cultore del bello. E lei lo era. Aprire l’invito era stato come svelare un prezioso segreto destinato unicamente a lei. Aveva passato le dita sulla grafia, ne aveva assaporato il tatto, la granulosità dell’impasto della carta e la setosità dell’inchiostro. Aveva accostato il nasino e si era inebriata nell’odore del cartoncino, un profumo che ricordava la vaniglia. Avrebbe accettato senza neanche leggere il messaggio. Un messaggio dolce e ingannevole:


15 “La gentil signoria vostra, nella Magion del Mezzo, è invitata a una serata del bello e del galante. Del sublim passo impreziosito della sua presenza, all’insegna del gentil canto e del soave vezzo”. Seguivano i dettagli con un numero da chiamare. Il forte braccio dell’attore la fece tornare al presente. Conosceva bene il motivo per cui aveva accettato l’invito e la domanda dell’amico andava a toccare un tasto dolente da cui non si sarebbe certo potuta nascondere davanti a lui. Allora si prese una pausa, prima di rispondere, poi, con un piglio amaro e mal celato, sussurrò semplicemente: «Per soldi.» Goran scoppiò a ridere e lei ebbe l’impressione che fosse una risata per spezzare l’imbarazzo di quella risposta insicura. Il che la mise ancora più a disagio. Essere una étoile sulla via dei trent’anni rappresentava il passo a due più difficile da affrontare: quello con il declino fisico e il tracollo professionale. Il mondo che apparteneva a Marie era quello del teatro e della danza. Non si sarebbe mai potuta reinventare nel mondo dell’imprenditoria e tantomeno in quello aziendale. Ma l’alternativa, in quell’ambiente, era avara di seconde scelte. Poteva insegnare, certo. Ma, oltre a scontrarsi con un marasma estremamente variegato di pseudo maestre, avrebbe dovuto affrontare lo scoglio più grande: lei non sapeva insegnare. E quella è una dote che ti dà madre natura, non te la puoi creare. Troppi insegnanti mediocri aveva incontrato sulla sua strada e pochi, invece, che le avevano cambiato la vita, la prospettiva. Ecco, lei avrebbe voluto essere quel tipo di insegnante. Un faro, forte e imperituro. Invece, non si sentiva altro che una delle tante candele, poco luminose, pronte a spegnersi al primo soffio di vento. Oppure, avrebbe dovuto tentare, si sarebbe dovuta semplicemente buttare. Magari si sarebbe sorpresa di capacità che non sapeva di avere. Chissà, se avesse avuto un uomo vicino a consigliarla, a fiancheggiarla in scelte che spettavano a lei, ma che potevano essere indicate, mostrate come una via luminosa in mezzo a tante. Invece, era sola, terribilmente sola. Guardò il bell’attore, sorridendo con timidezza. Marie conosceva abbastanza la vita di Goran. Aveva continuato a seguirlo anche quando le loro strade si erano divise. Come una fan segue il suo beniamino. Era stato il primo innamoramento, di quelli da fuochi d’artificio e, come tale, lo custodiva gelosamente, più come un qualcosa di suo, privato, e inaccessibile agli altri. Mai si sarebbe sognata di


16 ammetterlo pubblicamente, soprattutto al diretto interessato. La sua esistenza aveva preso una strada talmente lontana dalla concezione comune di amore, che ormai riteneva quel capitolo chiuso. Così, stare fianco a fianco all’uomo che, oggi come allora, le faceva battere il cuore, le donava l’impulso segreto alla voglia di vivere, il fremito nello stomaco, arrotolato per passione, stretto per il desiderio. Camminarono a passo lento raccontandosi gli ultimi vent’anni di vita, entrambi glissando sugli aspetti dolorosi che, inevitabilmente, presentano il conto a tutti. La vecchia linfa che li legava tornò fresca come sempre, come se il tempo non fosse mai trascorso. Perché si erano separati? Come avevano fatto a perdersi di vista? E sì che erano così affiatati, così simili. Senza dirselo, entrambi si facevano queste domande, rincorrendo passi l’uno a fianco all’altra, una coppia mai unita nell’amore, eppure mai divisa dal tempo. «Dai, incamminiamoci», propose l’uomo, guardando verso l’alto le minacciose nubi ispessirsi. Lasciato viale delle Rimembranze, un lugubre filare di cipressi alti e vetusti, e il vecchio ponte pedonale, si inoltrarono oltre un cancello verde e aperto, che fungeva da apripista a un altro viale, stavolta circondato da possenti platani scheletrici, la cui linea parallela di schieramento era disegnata da un piacevole accompagnamento di piante di bosso, odoroso e sempreverde. Niente che lasciasse preludere a un weekend salvifico, a veder bene. Le nuvole minacciose, che si assembravano poco lontane, presto si sarebbero fatte un unico fronte, pronte a scaricar loro addosso grandine e pioggia, ghiacciato rumore ritmico, paura e morte.


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3. LA MAGIONE DEL MEZZO

«Ah!» Marie gridò come se le avessero versato dell’acqua gelata sulla schiena. La grandine, scesa improvvisa, era stata annunciata da un’aria spessa e pesante, elettrica. E lei si era vestita in modo non adatto, come suo solito. Un tubino nero che lasciava scoperte le gracili ma eleganti spalle, tutte muscoli, forgiate da qualche migliaio di seconde e quinte sulle braccia. Su di esse un impalpabile, quanto inutile, scialle in raso rosso. Per fortuna nella capiente borsa, di un colorato patchwork, aveva tutto il necessario per coprirsi in maniera più che adeguata. L’espressione di rammarico per la grandine era una farsa tutta femminile. Come quando si esprime dolore, ma non ci si è fatti nulla. Così Marie urlò per la grandine, quando il ghiaccio misto ad acqua sulla pelle le diede un che di piacevole. La voce stridula della donna anticipò quella meravigliata di stupore. Erano quasi arrivati alla magione, mancavano un centinaio di metri. La vista apparve improvvisa. Il grande colonnato di ingresso si intravedeva sul fondo di un lungo filare di rose canine, spente e invernali, che preludeva, come un lungo cordone ombelicale, al grembo del piazzale antistante una villa enorme e decadente. «Gesù mio!» esclamò Marie quando furono davanti al palazzo. La Magione del Mezzo era un fabbricato imponente. Maestoso, ma incredibilmente etereo. Possedeva diversi stili, due dei quali, il liberty e il rinascimentale, facilmente riconoscibili. L’edificio era composto essenzialmente da due corpi principali, fusi l’uno nell’altro, come fosse una mastodontica croce in piedi. Il primo, l’alta torre seicentesca, in pietra rossa e bianca, decorata in mosaici e fregi, svettava dietro la facciata ed era vestita da una copertura ricca e piena di fronzoli, capitelli, merletti e ceramiche incastonate. La facciata, arricchita da un colonnato d’ingresso, ospitava un grandioso corpo scala a ventaglio che si sviluppava su due piani: il piano terra, con il porticato e il portone patronale, e il primo piano che mostrava, nella parte centrale, le vetrate del ballatoio.


18 Il secondo corpo era rappresentato dalle ali laterali su cui erano visibili delle importanti aperture a tre arcate, lunghe tutta la facciata, in vetro piombato. I due grandi bracci laterali, a destra e a sinistra della torre, lasciavano intravedere una sala da pranzo da una parte, e, al suo opposto, una sala fumatori attraverso grandi vetrate piombate in migliaia di colori, che sfavillavano alla luce di enormi lampadari di Baccarat. Un piano rialzato, ricco di finestre perfettamente simmetriche, doveva ospitare gli appartamenti e la zona notte. A Goran, più spicciolo nel giudizio, la magione sembrò una matrona derelitta, una battona invecchiata male ed eccessivamente truccata, a celare le magagne di una vita troppo lunga e spesa male. «Dio, che cattivo gusto», esclamò. «Ma che dici, Goran!» rispose Marie con il naso all’insù. «È bellissima! Ha un fascino senza tempo.» «Scherzi?» rise l’amico. «Ma l’hai vista la torre? È…un guazzabuglio di stili! Mentre il resto della villa è liberty. È un’accozzaglia!» In effetti la torre in pietra rossa ricordava un po’ lo stile teutonico, rigido e razionale, e un po’ quello rococò, pieno di fronzoli e fogliame. Sulla cima un grande orologio astronomico dava sfoggio di dorature e mosaici. Mentre, ai lati dell’orologio, due draghi informi erano arroccati alla cima, avvinghiati tra loro, come se lambissero le lancette del tempo. «I dragoni, in effetti, sono un tocco piuttosto kitsch», ammise Marie. «Non mi sembrano neanche dei draghi», ammise Goran. «Sembrano piuttosto dei mostri di fantasia.» Avrebbero voluto dilungarsi maggiormente sull’esame della Magione, ma la pioggia ghiacciata li fece fuggire al riparo del colonnato dove un enorme portone, scuro e composto da diverse logge, aspettava solo di essere solleticato. «Chi bussa?» chiese la ballerina scuotendo lo scialle fradicio. «Intanto suoniamo, almeno il campanello c’è, usiamo questo concentrato di tecnologia!» disse Goran ridendo e allungando il dito su un campanello in ceramica, finemente incasellato in una cornice in ottone tutta foglie e fiori. Lo strumento non emise alcun suono. «Appunto», commentò asciutto. Due piccole feritoie vetrate, simmetriche rispetto ai lati della porta, lasciavano intravedere l’interno. Goran vi si affacciò curiosamente, muovendo la testa in modo da poter interpretare le forme ondulanti che si delineavano oltre il vetro. Ma, a parte quello che poteva sembrare un fuoco, null’altro.


19 «Forse possiamo bussare, che facciamo prima!» propose Marie allungando il pugno piccolo e delicato contro l’enorme portone. L’azione non produsse alcun rumore. «Marie, hai bussato con tanta finezza che il portone s’è messo a ridere», ghignò l’amico, prendendola in giro. Anche Marie rise della sua goffaggine: «Smettila, sciocco! Sei tu l’uomo, dai un bel pugno!» Goran non se lo fece ripetere due volte. Diede un colpo ben assestato e il portone si mosse verso l’interno, dimostrandosi aperto all’ingresso dei due ospiti. «Ops, era aperto», esclamò. I due si guardarono, dubbiosi sull’entrare o meno. Non era chiaramente un ostello o un locale pubblico. Si trattava di una casa privata, un enorme castello che incuteva senz’altro una certa dose di soggezione. Nell’incertezza del momento, Goran spinse ancora di più il portone, aprendolo e mostrando l’interno. Una ventata gelida attraversò i due, come se si fossero affacciati da una finestra spalancata sui ghiacciai siberiani. Marie si strinse le braccia al corpo alla ricerca di un vano calore. «Questa casa è chiusa. Non c’è nessuno», osservò Goran. «Chiusa non direi», replicò Marie, «a meno che non sia usanza del luogo lasciare le porte aperte. Guarda!» Goran non fece in tempo a seguire lo sguardo dell’amica che questa si era catapultata all’interno dell’edificio, impavida del buio e dell’atmosfera funesta che vi aleggiava, saltellando leggerissima verso l’unica luce presente, un gigantesco camino perfettamente in stile con l’ingresso, dove scoppiettava un imponente focolare. Avrebbe voluto dirle “Marie, aspetta”, ma la giovane étoile era già arrivata davanti al focolare, riscaldando ogni centimetro di pelle che possedeva. L’uomo stava per seguirla quando la sua attenzione si spostò su una lampada a olio poggiata dietro una delle colonne del porticato. A fianco della lampada una scatola, inumidita, di fiammiferi lunghi. “Utilissimi”, pensò Goran, prendendo lampada e scatolina e dirigendosi verso l’interno. Il giorno volgeva al finire, ma c’era ancora abbastanza luce a diluire di color pastello le superfici dei mobili, delle vetrate e degli oggetti sparsi intorno. In quell’atmosfera lugubre, ma straordinariamente magica, a Goran gli interni parvero, se possibile, ancora più arditi in termini di gusto architettonico e di arredamento. Il salone di ingresso, possente, era sovrastato da un enorme lampadario di Baccarat, dalle tonalità verde


20 smeraldo, che dominava pesante e immobile nell’ampio soffitto alto più di dieci metri. In quest’ambiente, su cui si affacciava un ballatoio che smistava parte della zona notte, scendevano morbide e sinuose due eleganti rampe di scale, a incorniciare il possente camino, come fossero un tutt’uno: il disvelarsi di un caldo abbraccio. Ed era proprio il camino l’elemento protagonista, forse ancora più del lampadario e del soffitto in vetro piombato. Largo più di tre metri, era cinto da alari maestosi e incredibilmente elaborati nello stile, inamovibili data la loro evidente pesantezza. Ai lati del camino, due grandi draghi di fattura orientale, neri come la notte, intagliati in modo certosino nel pesante legno massello. La grande mensola, che divideva i due draghi, era un semplice piano in legno. Ma era l’architrave, posizionata sotto, a rendere ancora più incredibile l’oggetto. Disegnate in madreperla e fili d’oro e d’argento, scene di caccia ritraevano uomini e donne intenti a infliggere la morte a un enorme orso al centro, trafitto da lance e pugnali. Il fuoco, alimentato da possenti e pesanti ciocchi, emanava un bagliore diffuso che rendeva il luogo sfumato. Se il fronte del camino regalava calore e ritemprava dal freddo, bastava spostarsi di poco per ripiombare nel gelo. La cappa, un mastodontico parallelepipedo in pietra, svettava verso l’alto andandosi a conficcare come una lama nel vetro piombato del soffitto a cui era appeso il lampadario. Sulla destra e sinistra del monumentale focolare si aprivano, a ridosso delle rispettive ali laterali, incuneate sotto le rampe delle scale, ulteriori due uscite, due archi, i cui spazi erano celati da pesanti tende in velluto rosso, serrate come se fossero muri invalicabili. Ai lati delle tende erano posizionate delle sedie d’arredo, nere, con lo schienale ricamato in foglia d’oro. L’arredamento era composto da quadri, tavolini, suppellettili pregiati di ogni tipo. Tutto era rigorosamente coperto da teli dimenticati dal tempo, intessuti con una trama tanto leggera che li faceva apparire bianchi e trasparenti. Goran non badò a nulla di tutto questo, arrivò davanti al camino e, con fare pratico, posò la lampada sulla base. Alzandone il vetro, incendiò lo stoppino sacrificando uno dei fiammiferi umidi sui carboni ardenti. «Non riesco proprio a scaldarmi!» disse Marie, girandosi e rigirandosi come una salsiccia allo spiedo. «Speriamo che il camino non sia l’unica fonte di calore, sennò la vedo proprio male!» «In queste case antiche si usavano dei sistemi di riciclo dell’acqua. I camini servivano appunto per scaldare delle serpentine che corrono nelle


21 basi e lungo i bracieri. Sicuramente è chiusa da molto, ma con questi muri spessi si scalderà in un momento, vedrai», spiegò Marie con una certa capacità di linguaggio. Goran rimase stupito e non lo nascose: «Da quando sei un’esperta di idraulica?» Marie scoppiò in una sonora risata, allungando una mano leggera vicino al collo taurino dell’attore e accarezzandolo dolcemente: «Ma no, che dici! Sono solo informata! Quando vivi da sola devi saperti destreggiare in tutti i settori, da quello finanziario ai piccoli lavoretti di casa.» «Io non so cambiare una lampadina», ammise Goran mestamente. «Non esagerare! Sei un uomo molto pratico, lo so benissimo.» «Beh, sì, dai», rise. Marie si soffermò ad ammirare i denti bianchi e perfetti di un sorriso pagato come merce di scambio. Goran le piaceva e tanto. Amava quel suo sguardo un po’ malinconico, anche quando scoppiava in una sonora risata. Ma sapeva ben dosare i suoi sentimenti e dominare i suoi istinti. Certo gli occhi di un profondo blu cobalto e il viso squadrato, gli zigomi alti e la fronte ampia, le restituivano le fattezze di un uomo bello, maschio e fascinoso. E il corpo era statuario, non troppo alto, sì, ma dai muscoli sempre tesi e ben definiti. Così come tante fan adolescenti gli morivano ai piedi, anche lei non era immune alla bellezza divina dell’attore croato. «Allora che dici?» chiese Goran, sviando lo sguardo indagatorio dell’amica. «Andiamo a impicciarci della casa? Proviamo a vedere se troviamo qualcun altro oltre noi?» Marie annuì felicemente all’idea di quel gioco innocente. Erano stati invitati, del resto, che c’era di male ad andare a curiosare nelle altre stanze? «Andiamo!» rispose con un sorriso complice. La coppia abbandonò il caldo tepore del camino e, lampada accesa alla mano, si inoltrò nella prima stanza a sinistra del focolare. Si trattava dell’ala orientale, quella che, già dall’esterno, avevano potuto ammirare con i grandi lampadari appesi al soffitto. E, spalancando la grande porta vetrata che fungeva da divisorio, la vista confermò la maestosità di una sala fumatori che tutto possedeva fuorché la sobrietà. «Caspita!» esclamò meravigliata Marie. Gli occhi si spostavano in ogni dove, rapiti da questo o da quell’altro dettaglio. Nonostante la penombra pittasse l’immagine nel suo insieme, nonostante lunghi drappi bianchi coprissero tutti i mobili e gli orpelli, si


22 riusciva a immaginare l’opulenza dell’arredo. Un secondo camino stava anche in camera, nella parete in fondo, più lineare rispetto a quello dell’ingresso: in pietra arenaria, incisa con decorazioni astronomiche. Sei segni zodiacali erano rappresentati, due per ogni laterale e due per il frontone. Un tavolo da biliardo al centro, sulla parete di sinistra due antiche armature si dividevano lo spazio con una grande consolle in foglia oro dal design ricercato: due cigni laterali sostenevano il piano in marmo su cui campeggiava un grande orologio in alabastro. Sotto la consolle, tra i due cigni, trovava posto un divanetto a due posti, nello stesso velluto delle tende piccole. Dirimpetto, le arcate delle vetrate a piombo che davano verso l’esterno. Tra le arcate, maestoso, un pulpito svettava verso l’alto soffitto. Era lui il vero protagonista della stanza. Un ciclo di colonnine, accoppiate a due, formava la base, ma anche un’idea di prigione: all’interno dello spazio ottagonale, un angelo con le ali spezzate cercava di uscire dalle colonne. Sopra di esse, altrettanti riquadri, a formare la balaustra del pulpito, rappresentavano, in bassorilievo, scene tratte dal purgatorio dantesco. A ridosso della vetrata di sinistra, una piccola scaletta a chiocciola scendeva dal pulpito fino al pavimento. Alle pareti dirimpetto, sopra le armature, quadri di svariati individui, vestiti nelle misure delle epoche di appartenenza, svettavano in un’unica riga per tutta la lunghezza della sala. I drappi di cotone impolverati, lasciavano intuire l’arredo, ma niente si vedeva chiaramente, tutto sembrava sospeso nel tempo. «Beh, abbiamo ora la certezza che la casa è chiusa da un secolo. Ho come l’impressione che questo invito si stia delineando come uno scherzo di pessimo gusto», disse Goran guardandosi intorno. «Io non ne sono così sicura», disse Marie avvicinandosi al camino dietro il biliardo. «È vero, è tutto coperto, c’è polvere, si vede che è una casa chiusa. Ma i focolari sono accesi. Perché farlo?» «Forse per non farci morire di freddo», rispose Goran. «Curioso!» aggiunse poi osservando un grande ritratto sopra il camino. «Che c’è di curioso? È un quadro antico, bello», disse Marie esaminando il ritratto indicato dall’uomo. Si trattava di una bella pittura a olio. Un’elegante signora, in un lungo drappeggio bianco e impalpabile che non lasciava dubbi sul suo stato di gravidanza, sedeva su una sedia. Era circondata da sei bambini, di diverse età, intenti in giochi di vario tipo: chi si arrampicava su una spalla, chi voleva stare in grembo. Una coppia giocava a rincorrersi tra i piedi. Qualcuno stava seduto felice. Poteva intuirsi il disagio dell’artista a mettere in posa quei diavoletti. Dietro di lei si apriva un paesaggio all’imbrunire, un sole che calava su un


23 panorama dal sapore agreste. Il quadro, a dispetto del luogo in cui era esposto, esprimeva gioia e amore. «Povero pittore ad aver a che fare con tutti quei bambini, non ce n’è uno fermo. Se li sarà inventati per forza», pensò Marie a voce alta. «Non è quello», disse Goran non distogliendo lo sguardo dal quadro. «Si tratta della donna ritratta. Io sono sicuro di conoscerla!» «Che vuoi dire?» chiese Marie incuriosita, dando le spalle al quadro per scaldarsi le gambe. «Sono arrivato in taxi, non so neanche come. Ho dormito tutto il viaggio. Il taxista, un gran maleducato, mi ha piantato davanti a un bar, nella piazzetta del paese, non si è preso neanche i soldi della corsa! Allora sono entrato nel locale per chiedere indicazioni per arrivare fino a qui. E pure per bere un caffè. La signora che mi ha servito…era identica. Non somigliante, identica!» Marie si fece una bella risata: «Identica non poteva proprio essere! Avrebbe avuto qualche centinaio di anni, poverina. Sembra abbastanza in là con l’età, questa neo mamma, ma non così tanto!» «Beh, sì. Evidentemente», ammise l’amico. «Sai cosa?» concluse Marie. «I vecchi paesini di montagna sono così. Gli abitanti sono tutti imparentati tra di loro. E non mi stupirebbe che la tua barista fosse nella stessa linea di sangue di questa bella signora ritratta, tanto da assomigliarle fortemente. Non sarebbe neanche una coincidenza così rara.» «Probabilmente hai ragione», concluse Goran, con un tono non del tutto convinto. «Vieni!» propose l’imperturbabile Marie, prendendo l’amico per mano. «Andiamo a vedere l’altra ala del palazzo.» Ripercorsero la sala, i cui drappi bianchi a coprire i mobili ondeggiavano tingendosi del rosso ardente del camino. Con quei colori assopiti, spenti e in ombra, a Marie la stanza ricordava un mare in movimento. Non forte e possente, ma assonnato e pigro, le cui pallide onde si increspavano in ricordi dimenticati e messi alla polvere. Tornarono nell’ingresso e, a grandi passi, raggiunsero l’altra porta vetrata sulla destra del camino con i draghi. L’aprirono con lo stesso entusiasmo che animava quella piccola caccia al tesoro, la scoperta di un luogo misterioso e pieno di fascino. La seconda ala, quella occidentale, era identica alla prima, architettonicamente parlando. Ciò che la differenziava era senz’altro l’arredo, anche se possedeva degli elementi in comune: il camino, prima di tutto, gemello dell’altro, ma con incisi i restanti segni zodiacali e i due


24 lampadari di Baccarat, grandi e possenti. Al centro, al posto del biliardo, un grande tavolo da pranzo con tre sedute per lato e due capitavola sui lati più corti. A sinistra le arcate con le vetrate in vetro piombato e, a destra, la stessa consolle con i cigni, il divanetto e le armature. Al posto del pulpito, tra le due vetrate, una lunga e pesante servante in legno di mogano sormontata da un alto specchio dorato. Anche qui era tutto intuibile dalle forme. Lenzuola bianche stese ovunque calavano un senso di chiuso e dimenticato. «Ed eccoci all’altro camino», disse infine Marie arrivata davanti al terzo focolare, acceso e scoppiettante, e poi concluse strillando verso il soffitto: «Hallo? Il y a quelqu'un?» «Non è che se gridi in francese, sbuca fuori il protagonista di Dumas a terrorizzarci con la sua maschera di ferro!» Così dicendo, Goran terminò la frase alzando le braccia e andando minaccioso verso l’ex ballerina. «Smettila! Stupido, mi farai prendere paura sul serio!» «Questa ha tutta l’aria di essere la sala da pranzo. Puoi ammirare sul tavolo “non apparecchiato” le prelibatezze che il nostro misterioso ospite ha preparato per noi stasera!» «Una cena leggera! Vieni, Goran, torniamocene nella sala biliardo. Almeno, davanti al camino, mi è sembrato di riconoscere due comodissime poltrone “bergère”. Nessuno ne avrà a male se aspetteremo gli sviluppi seduti…e al caldo!» Marie, che in assenza di qualcun altro aveva in tutto e per tutto già ricoperto il ruolo della padrona di casa, prese il suo Goran per mano e lo trascinò di nuovo verso l’ingresso, ma, arrivati di fronte al grande camino centrale i due si bloccarono per l’ennesimo tuono di quella notte tempestosa. Marie gridò nuovamente, per scusarsi subito dopo: «Mi spiace, mi viene automatico!» Goran stava per proferire l’ennesima carineria verso la ragazza quando le luci della casa brillarono, rubando all’atmosfera quell’aria tetra e indefinibile che aveva avuto fino a quel momento. L’illuminazione artificiale inondò le stanze come fosse un gesto brutale, senza gentilezza. Stavano entrambi per esprimere stupore all’arrivo dell’illuminazione tanto attesa che la porta di ingresso si spalancò improvvisamente. «Mi sono detta “ci arrivo, ci arrivo” … Non ci sono arrivata.» Marie si girò di scatto verso l’uscio. Non mise subito a fuoco la nuova arrivata, intenta com’era, chinata verso il basso, a pulirsi delle orribili scarpe rosse sul tappeto di ingresso. Ma tanto era alta, quella nuova ospite, in quella posizione innaturale, che le sembrò un giocatore di


25 basket vestito da donna e gobbo. Bastarono pochi secondi per riconoscerla subito. Era impossibile non sapere chi fosse. La grande popstar, vincitrice di più Oscar era lì. Lola Red era appena entrata nella Magione del Mezzo.


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4. LOLA

«C’è nessuno in questo buco di cu…» Il nuovo ospite gridò verso l’interno della casa, rialzandosi con scarsa eleganza e bloccandosi di colpo, trovandosi Goran di fronte. «Oh. Tu…» disse, smorzando la frase a metà, con un improvviso cupo cipiglio in volto, come se avesse appena visto il fantasma di un lontano passato. Marie non si voltò a osservare l’espressione di risposta dell’uomo, ma rimase fissa sulla porta di ingresso, come se la stangona avesse distrutto inesorabilmente, e senza delicatezza alcuna, un magico momento. Analizzò con attenzione la nuova arrivata, era vestita in modo eccessivo e terribilmente plateale, al limite del volgare. Un abito rosso, lungo, copriva, per modo di dire, il corpo di una donna dalla pelle nera e dalle forme giunoniche. Seni prosperosi e fianchi larghi incappucciati da un cespuglio ingovernabile di capelli rossi, senza una vera piega. Il viso era bello, tratti raffinati ma truccati eccessivamente a sottolineare più l’aggressività che i lineamenti naturalmente graziosi. Una pelliccia rosa, che di pregio aveva solo il fatto di essere evidentemente sintetica, voleva conferire leggerezza a una mise che risultava tragicamente stantia. Complici i guanti lunghi in raso, in tono con la pelliccia. Stava per dirle qualcosa, un accenno di benvenuto, quando la donna alta entrò allegramente sgambettando nella sala, accompagnata dall’irritante ticchettio invadente delle scarpe d’alta moda indossate per l’occasione. Andò dritta verso Goran. Il resto fu un inarrestabile fiume di parole. «Finalmente sono arrivata e non sono la prima, dio ti ringrazio. Anche voi ospiti di una triste villa, mal tenuta, in questa lugubre serata d’autunno? Zero… o meno di zero le possibilità che la situazione vada migliorando. Io credo, almeno. Oh! Il primo che mi si presenta è un bel maschio latino. Quantomeno il diversivo a una tediosa cena è assicurato. Spero. Oh, che faccia corrugata, come se non fossi abituato alle avance. Sei gay? No, non rispondere, preferisco la sorpresa. Sono Lola Red, come certamente avrai già intuito. Anche tu hai una faccia conosciuta. Ci sono! Goran Scacchi, l’attore delle fiction a sfondo finto borghese. Cos’era l’ultima che hai girato? “Il commissario Rocchi”, o qualcosa di simile. “I delitti della Brianza” … della Brianza, ti rendi conto? Come se


27 in Brianza avessero la lucidità necessaria per ammazzare qualcuno e indagare pure. Dimmi che non sei italiano ti prego, e che Scacchi l’hai messo solo per assonanza. Gli italiani sono terribilmente sopravvalutati», concluse la frase buttando l’occhio sotto la cinta dell’attore che, accorgendosene, indietreggiò come imbarazzato. «Non sono italiano», disse a mezza voce, spegnendo la lanterna che ancora teneva accesa in mano. Non venne praticamente ascoltato. Il donnone giunonico riprese il suo soliloquio rivolgendosi solo a lui, come se Marie non fosse praticamente presente nella stanza. O, se mai vi fosse stata, facesse parte dell’arredo, come un oggetto qualunque affondato nella penombra e oscurato dalla polvere. «La “Magione del Mezzo”, che posto orribile», sentenziò togliendosi i guanti di raso e sbattendoli su una mano, camminando lentamente per la stanza e osservando tutto con piglio assai critico. «L’hanno aperto per noi? O peggio, ancora non l’hanno aperto, visto che ci sono le lenzuola sui mobili e un discreto strato di polvere ovunque. Farò causa all’organizzazione. Almeno i miei avvocati avranno qualcos’altro di cui occuparsi che non siano le solite minacce di morte e molestie. Già che per arrivare mi sono dovuta fare due chilometri a piedi su per quel ponticello malandato. Le mie Gucci stanno gridando pietà.» Marie, che era una donna che dalla vita ne aveva prese e tante, non si sarebbe fatta trattare come un posacenere per ulteriori dieci secondi. Si schiarì la voce ed esordì con un invero poco incisivo: «Io comunque sono…» «Ragazzina non ti ho salutata perché mi deprime il solo guardarti», tagliò corto Lola, senza degnare l’étoile di uno sguardo. «Per favore dimmi che quella non è la tua mise per la serata e che possiedi un Armani nella borsa della nonna. Quando l’avrai indossato, ti saluterò.» «Oddio Goran, ma come farò?» rispose Marie per le rime. «Non mi sono portata un Armani nella borsa. Ma pensa te. Dovrò proprio rinunciare a parlare con la grande cantante Lola Red, stasera!» Lola proseguì verso sinistra, come se non avesse neanche avvertito la punzecchiatura della giovane ragazza, allungandosi verso l’ingresso della sala da biliardo. Alzò il mento a punta e, come se fosse una bacchetta, indicò con un breve gesto il quadro sul grande camino astrologico, in fondo alla prima stanza, segretamente visitata dai primi due ospiti: «Quella tizia ritratta là in fondo, chi è? La padrona di casa? Con un


28 ritratto talmente mastodontico da vedersi perfettamente da qui, non può essere nessun altro.» «Ce lo siamo chiesti anche noi. Ma è un quadro antico, dubito che possa essere la padrona di casa», rispose Goran ridendo. «Ah! Non hai idea dei miracoli che fa la chirurgia estetica.» «In realtà io ne ho idea perfettamente», disse Marie inserendosi a forza in una conversazione che l’aveva nuovamente esclusa. «Su certe persone, poi…i risultati sono tremendamente evidenti.» Mentre Goran pensava che andando avanti in quel modo prima o poi le due donne si sarebbero azzuffate sul tappeto di ingresso, Lola, colta da un guizzo improvviso, cominciò a rovistare nella borsetta rossa laccata, dando l’idea di cercare qualcosa di impossibile in uno spazio così ristretto. «Ho appena scoperto di aver perduto il cellulare, che noia. Dio, che seccatura. Mi dev’essere caduto qui fuori, mentre correvo nella bufera cercando disperatamente di non bagnare nulla. Quindi ora è in balia delle onde.» Alla fine, tirò fuori un pacchetto di sigarette, ne estrasse una lunghissima che accese con un accendino rintanato nel pacchetto. Sbuffando concluse: «Pazienza era l’ultimo modello di Iphone, non che ne capisca nulla. Ma fa un certo effetto quando lo dico.» «Non si fuma in questa casa!» La voce arrivò tuonante, perfettamente in linea con il temporale che imperversava all’esterno. Lola lanciò un urletto di spavento, piuttosto contenuto, quando la vecchia signora apparve dietro la tenda di velluto rosso celata sotto la rampa di sinistra. Sia Goran che Marie, in contemporanea, fecero un passo in avanti, come fosse un gesto automatico, verso colei che, probabilmente, doveva essere la padrona di casa. Marie non poté fare a meno di notare la stravaganza con cui l’anziana donna era vestita. Una camicia di raso bianco, elegante, faceva da sfondo a un enorme fiocco rosso, un nastro molto largo, appuntato al collo rugoso e cadente. Sotto, un paio di pantaloni neri che tentavano, vanamente, di sfinare la vita. Il viso era da uomo, androgino nei lineamenti. Se avesse avuto i capelli corti, la si sarebbe potuta tranquillamente scambiare per un agreste contadinotto. Invece c’era della ricerca, del buon gusto. La capigliatura, bianco latte, consisteva in un alto toupet sorretto da un’elegante retina invisibile, che allungava il viso quadrato verso l’alto, sfinandolo. Sguardo penetrante, occhi grigi e grandi, sorretti da sopracciglia tutt’altro che femminili, folte ma curate. Il naso, importante, dalle narici larghe, cadeva su due labbra lunghe e sottili. Una tempesta di rughe era ben in mostra, senza il minimo accenno


29 di trucco a nasconderle. Il corpo era grosso, piuttosto informe e disarmonico. I seni, due enormi pesi che sfidavano la forza di gravità, risultavano comunque ben simmetrici, sostenuti da fasce in pizzo, la cui trama risaltava dalla camicia di raso. Marie pensò che non fosse assolutamente una bella signora, ma che, consapevole, si fosse adoperata al meglio per risultare elegante e raffinata. All’opposto il suo atteggiamento. Ben lungi dall’essere una padrona di casa accogliente nei toni e nei modi, la donna si presentò con fare spicciolo e svalutante: «Ah, siete arrivati», constatò con un suono della voce eccessivamente stridulo. «Era ora!» «Entrata a effetto, non c’è che dire», commentò Lola, gettando la sigaretta nel camino. «Era pure l’ultima. Lei è la padrona di casa, immagino.» «Immagina male. Io sono la governante.» «È strano, il quadro sopra quel camino laggiù sembra suggerire esattamente il contrario», insistette Lola. «Quel quadro non suggerisce un bel niente. Non sono la padrona di casa. Il padrone è maschio.» «Oh, bene!» esclamò la cantante. «Almeno abbiamo fatto un passo avanti sul genere. È già qualcosa.» Goran spezzò la tensione che Lola era capace di generare con qualunque persona del suo stesso sesso con cui avesse un dialogo, facendosi avanti con il suo consueto savoir-faire, da grande intrattenitore. Sorriso largo e petto in fuori, tese la mano verso l’anziana donna che, istintivamente, alzò la sua. L’uomo si prodigò in un elegante baciamano, non potendo fare a meno di notare le dita della donna, grosse e tozze, ma morbide e setose, ben lontane da quelle di una lavoratrice. Unghie lunghe e a punta, curate e smaltate con deliziose figure floreali. «Mi permetta di presentarmi», esordì l’attore con un tono estremamente suadente. «Io sono Goran Scacchi, lieto di fare la sua conoscenza. Ci siamo permessi di fare un piccolo tour per le due ali della casa, magnifica tra l’altro, io e la mia carissima amica Marie De Blanche.» Marie, rimasta ferma, fece un inchino sul posto con una tale armonia che per un breve istante sembrò di essere catapultati in prima fila alla Scala. Guardò Goran orgogliosa, come se fosse l’adolescente di fronte alla superstar di turno. Se fosse stato il presidente degli Stati Uniti in persona a fare quella presentazione, si sarebbe sentita meno lusingata. Il dolce sorriso, appena accennato, della ragazza sembrò spazzar via qualunque parvenza di ostilità, legata ai modi grezzi della governante.


30 «A proposito», proseguì Goran, «grazie per averci lasciato la lanterna fuori, nell’atrio di ingresso. Non è stato facile arrivare, per fortuna mi ha dato delle indicazioni la signora del bar giù in paese. Quello che si affaccia nella piazza con quello strano crocifisso. Ora che ci penso, siete imparentate? Le somigliava moltissimo!» «È un piccolo paese, Borgo della Magione. Siamo tutti imparentati. Alla fine, ci si somiglia un po’ tutti.» Marie tossì lievemente verso l’attore, intendendo un evidente “te l’avevo detto”. Goran sorrise con complicità, un dettaglio che non sfuggì a Lola, poi sollevò la lanterna verso la governante proseguendo la conversazione: «Pensavamo che la casa fosse deserta e buia. Invece era solo andata via la luce. Gliela restituisco.» L’anziana signora prese l’oggetto con fare guardingo, come se non si fidasse di nessuno. Ma i modi gentili del grande attore sembrarono sortire gli effetti sperati e addolcirle i modi: «Bene… Piacere mio. Lei dev’essere invece Lorelai Reddington, in arte Lola Red, esatto?» Lola accennò un assenso sgarbato, come per dire “Chi non mi conosce?” «Io mi chiamo Lamia.» «Nome singolare», commentò Lola con tono tale da lasciar supporre che “Lamia” fosse l’appellativo di un cane. Tono che non sfuggì alla governante, il cui viso avvampò di rosso. «“È una giovane quagiù, che è più bella che una lammia”», canticchiò tra le sottili labbra la vecchia signora. «È una poesia?» chiese Marie incuriosita dalla citazione della donna. «Boccaccio», rispose Goran. «Il Decamerone.» «Sbruffone», commentò Lola con un sorriso. «Colto», rispose Goran, mellifluo. «Concedimelo. Noi attori siamo fondamentalmente bifolchi, con una bella voce. Ma qualcosa di letteratura, alla fin fine, ci rimane.» «E sei anche modesto!» disse Marie, civettando, avvicinandosi nuovamente all’amico. «Marie, smettila», ammonì Goran galante. «Siete disgustosi, comunque», commentò la cantante, poi rivolgendosi a Goran. «Hai un cellulare per caso?» «Sì, ma è del tutto inutile. Non c’è uno straccio di segnale da quando sono arrivato al paesino. Speravo in un Wi-Fi ma ho abbandonato l’idea appena varcata la soglia di casa.» «Marie De Blanche!» esclamò con un’idea improvvisa Lola, schioccando le dita e scattando in avanti ignorando le giustificazioni di Goran. «Quella Marie de Blanche? L’étoile?»


31 Marie accennò a un “sì” non troppo convinto. Lola restò a fissarla a bocca aperta per un tempo indefinito poi, sbaragliando tutti, osservò caustica: «È proprio vero che il palco rende tutti più belli!» «Ah, e non si può dire che la musica renda tutti cantanti», rispose subitanea Marie alla provocazione, senza scomporsi un minimo. Lola non si offese, ma incassò la battuta. Lei possedeva la straordinaria capacità, tutta femminile, di riconoscere quando si aveva a che fare con una pari grado, in termini di resilienza all’asprezza della vita. E le bastò quel piccolo commento tagliente per inquadrare Marie in una cornice più bella e signorile. Da guardare e rispettare. «Touché», rispose infine la cantante. «La gattina tira fuori le unghie… Chi l’avrebbe detto?» Le due donne si sorrisero, come se avessero compreso la propria scala gerarchica, la misura che in qualche modo, sebbene in due mondi diversi, le accomunava. «Va bene, facciamola finita», tagliò corto Lamia, buttando l’occhio su una vecchia pendola ferma da un tempo immemore, dimostrando un’improvvisa insofferenza. «Mancano ancora tutti! Tra poco arriveranno gli altri ospiti e io sono molto in ritardo. E gli ospiti anche sono in ritardo! Ci mancava la pioggia, c’è sempre la pioggia in queste occasioni, è una costante. Ci dev’essere. Però rende tutto più complicato. C’è ancora da preparare la cena, la sala da pranzo è spoglia e non ci sono domestici. Dovrò fare tutto io, come sempre. Restate qui. Ci manca solo che mi inzuppiate i tappeti antichi. Anzi, tanto che ci siete, datevi da fare. Scoprite i mobili e spolverate…e non uscite! Ci sono bestie che girano di notte…può essere pericoloso. E non toccate le bambole!» Così dicendo girò le spalle e scomparì nuovamente dietro i pesanti tendaggi rossi di velluto, che ne inquadrarono l’uscita come fossero il sipario di uno spettacolo teatrale appena concluso. Goran rimase con lo sguardo fisso verso l’uscita della donna. Le tornò in mente un’immagine, ma non riusciva a metterla a fuoco. Marie e Lola invece erano scoppiate in una risata liberatoria, quasi a dissacrare l’atteggiamento austero della stramba governante. «Ah, se il buongiorno di vede dal mattino!» esclamò Lola avviandosi verso un antico mobile bar. «Di quali bambole parlava, poi? Non ne ho vista una. Saranno nascoste sotto strati e strati di polvere.» «Cos’hai Goran?» chiese Marie all’attore, vedendolo improvvisamente assorto. «Ti è rimasto lo sguardo fisso verso la Signora Lamia.»


32 «Non lo so», rispose l’attore sincero. «Ho avuto una specie di déjà-vu, sai? Come quando avverti di aver visto qualcosa che hai già vissuto in precedenza, ma non riesci a metterlo a fuoco, a posizionarlo nel tempo.» «Ancora con questa storia delle somiglianze? Sarà l’atmosfera lugubre di questa casa, dai», osservò Marie. «Secondo voi questa roba è ancora buona?» domandò Lola da dietro un bancone, tenendo in mano un paio di bottiglie impolverate. «Non tenterei azioni azzardate Lola», rispose Goran osservando il liquido sbiadito che volteggiava all’interno. «È alcool… Se c’è, dev’essere rimasto tale, altrimenti sarebbe evaporato, no?» disse Lola dopo una veloce disanima, versandosi il liquido verdastro nel bicchiere. «Il rischio è tuo!» «Dovresti partecipare, caro ispettore Rocchi! Non si abbandona una povera fanciulla ai piaceri dell’alcool.» «Sempre che di alcool si tratti!» Marie osservò Goran e Lola colloquiare. Le sembrò di avvertire chiaramente qualcosa nell’aria. Un non detto, qualcosa di privato che aleggiava tra i due. Oppure era la sua solita fantasia che galoppava, magari aizzata dal frustino della gelosia che da sempre sibilava a pelle nei confronti del bell’attore croato. Vero è che lei ne aveva seguito i passi, si era interessata alle sue vicissitudini, anche quando la vita li aveva separati. Ma un conto era la vita pubblica, un conto quella privata. E lei aveva avuto sempre e solo accesso alla vita pubblica, alle notizie riportate sulle riviste di gossip, che saltuariamente e distrattamente le capitava di leggere. Quanto davvero conosceva del suo Goran, quali segreti serbava la sfera privata e inaccessibile dell’uomo? Lola, nel frattempo, sorseggiava il suo bicchiere. Ne aveva tastato il sapore con le labbra e faceva girare il liquido in bocca, come se fosse indecisa sul deglutire o meno. Alla fine, mandò giù, non senza tradire un certo coraggio. «Oserei definirlo un amaro, un distillato domestico probabilmente. Un sapore fortemente impregnato di limone, con note decise di salvia e un retrogusto di lauro. Semi di Ginepro. Sento del tè rosso… Oppure è solo una roba andata a male», sentenziò infine la donna osservando il bicchiere davanti a sé. Ne prese un altro che aveva nel frattempo riempito e lo porse a Goran, che lo prese con un gesto automatico, pur avendone rifiutata l’offerta pochi minuti prima. L’attore ne prese un sorso e lo posò quasi immediatamente confermando, con un’espressione inequivocabile, la seconda ipotesi di Lola. Si girò


33 verso Marie che lo osservava ostinatamente, offrendogli il calice: «Vuoi morire? Questo intruglio è senz’altro una strada diritta per farlo!» «Esagerato», commentò Lola. «È un po’ forte, tutto qui. Sicuramente la tua fragile étoile, qui, non tocca bicchiere che non sia ricolmo d’acqua.» “Ecco ci risiamo”, pensò Marie soppesando le parole della sfacciata cantante. “Per un attimo ho creduto che potesse essermi amica. Giusto un attimo”. Senza farselo ripetere due volte, fece qualche passo verso Goran, prese il calice posato su un mobile lì vicino e lo tracannò in un momento. Non ne avvertì neanche il sapore. Sentì semplicemente il liquido freddo precipitare nell’esile corpo ed esplodere come dinamite nello stomaco. Niente che trasparisse all’esterno, se non un lieve arrossamento sulle smunte gote della ballerina. Dissimulare il dolore. Un’attività in cui era incredibilmente abile. «Ah, però!» commentò Lola. «Chi l’avrebbe detto, sei una sorpresa continua.» «E tu mi sembri una che si sorprende fin troppo facilmente», replicò Marie sarcastica. Le due donne si studiarono nuovamente. Non potevano essere amiche. C’era un uomo di mezzo. Un uomo a cui entrambe tendevano, era evidente. Ma se da una parte Marie era sicura dei suoi trascorsi con Goran, benché del tutto platonici, dall’altra, della grande Lola Reddington non sapeva nulla. Possibile che avessero avuto una relazione e che non fosse trapelata alla stampa? «Da quando hai cominciato a bere?» chiese Goran stupito e completamente ignaro della guerra fredda che si era da subito instaurata tra le due. «Da quel che mi ricordo, il massimo della trasgressione era la tisana di ribes… Eri completamente astemia. Incredibile come ti cambia la vita.» «Eh, sì», commentò Marie con un tono amaro, «la vita ti cambia.» «Ah! Eccone qua una», esclamò Lola. Si era spostata verso una delle due poltrone antistanti il camino. Aveva alzato il telo che la ricopriva con fare altezzoso, come di chi si approccia a scansare lo sterco di una vacca dal ciglio della sua strada. Sotto di esso era spuntata lei, una piccola bambola vestita di bianco. La prese con piglio rigido, come chi non sa trattare oggetti delicati. «Ho sempre odiato le bambole, mi ricordano i bambini.» «Oh, che meraviglia!» esclamò Marie, scattando verso Lola e tirandole via il giocattolo dalle mani. Lo prese a sé con una delicatezza unica, non


34 solo come se fosse un oggetto raro e prezioso, ma anche come se fosse un delicato ninnolo a cui rivolgersi con accortezza. Se la mise davanti agli occhi e la analizzò muovendo e insinuando le affusolate dita tra le pieghe delle vesti, come fosse un grande concertista tra le corde sul suo strumento preferito. «Sono dei bambini! La fattura è eccellente. Capelli veri, vetro per gli occhi, porcellana di Biscuit per il viso, le mani e le gambine. E il corpo è in crine di cavallo. Gli abiti poi. Non ci posso credere. Sono di raso, intessuti con la tecnica del tombolo. Non avete idea del valore che hanno. Dev’essere antica non le fanno più così.» Goran guardò Marie con rispetto e un pizzico d’invidia. Aveva una tale devozione e veemenza per certe cose che quasi sembrava dimenticarsi della sua innata eleganza, per lasciarsi andare a gesti istintivi e fanciulleschi. Lola, invece, osservò l’étoile con un fare completamente differente. Come se riconoscesse in quei gesti inconsulti e affannosi un dolore sopito, un grido sommesso. Una ferita precisa, che solo un’altra donna poteva riconoscere. «Guarda», disse Goran indicando una gambina del pupazzo, «c’è un cartellino sulla caviglia!» «Non mi stupirei che fosse il prezzo», disse Lola versandosi nuovamente l’intruglio verdastro. Marie girò la bambolina con delicatezza e, districandolo dalle sottovesti, tirò fuori un piccolo lembo di carta, legato a una gambina. Quando lo lesse le si aprì un sorriso: «Uh! Che strano! È incredibile, non ci crederete, è il suo nome! Si chiama Marie, come me! È bizzarro, no?» «È inquietante», rispose Lola tracannando un altro sorso. Goran pensò che avesse tutta l’intenzione di ubriacarsi. O di farla finita. Marie alzò il collo verso l’alto, come se le fosse balenata un’idea nella mente. Saettò lo sguardo dappertutto alla ricerca di altre bambole quando all’improvviso la porta di ingresso si spalancò. Un altro ospite stava per affacciarsi alla Magione del Mezzo. E più ne sarebbero arrivati, più gli invitati avrebbero capito che quella non sarebbe stata la solita serata mondana.


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5. MIES

La porta si aprì con la stessa solerzia di un teatrino di cabaret di provincia e ne uscì il protagonista macchiettista. «È permesso? Io posso entrare? Chieto scusa ma porta essere chiusa e io bussato. Jemand spricht deutsch? Niemanden?» Lo spiccato accento tedesco tradiva senza sforzi l’origine teutonica del nuovo arrivato. Lola inarcò le spesse e curate sopracciglia, trattenendo una risata di cuore alla vista di Mies Van der Recht. Grandi baffoni bianchi come il latte, sostavano placidi su un viso grande e paffuto, gote rosse, naso largo e piatto. Gli occhi erano piccoli e vispi, spostati verso il centro, illuminati dal fuoco tipico della curiosità innata. I pochi capelli, concentrati sui lati della testa, erano rossi e bianchi, a denunciare un’età in là con gli anni. Ma era il vestiario a divertire di più. Somigliava più a un clown che a una persona di un certo ceto sociale, come invece voleva pretendere di essere. Una giacca di tweed verde, una camicia nera in cui facevano mostra grandi rombi bianchi e un paio di pantaloni in velluto beige, tenuti su da due ampie bretelle rosse. Un gilet vermiglio faceva fatica a nascondere un evidente sovrappeso, ma sapeva esaltare con gusto un bel papillon giallo a riquadri neri. Sulle spalle un cappotto avana, fradicio, subito tolto e tenuto sul braccio in attesa di essere appeso ad asciugare. Sull’altra mano, una valigia quadrata che dall’aspetto sembrava leggerissima. Già dall’ingresso e dal modo di porsi si intuiva con facilità un personaggio estroverso e divertente. A Lola piacque subito: «Es gibt immer jemanden, der deutsch in guter Gesellschaft spricht!» rispose la cantante, sorridendo verso il nuovo entrato. Mies si fece subito avanti verso Lola, mostrando uno smagliante sorriso sotto i grandi baffi. Sembrava sollevato nel riconoscere nella donna qualcuno con cui potesse incontrare la compagnia di una piacevole serata. E soprattutto che parlasse tedesco. «Mies Van Der Recht, Ich freu mich sehr», disse presentandosi e prostrandosi in un elegante baciamano. Marie non si fece scappare l’occasione per sferrare un colpo a discapito del povero nuovo arrivo. «Hai visto Goran che carini? Parlano tedesco.


36 Lola, non mi aspettavo proprio che tu fossi una poliglotta tanto accalorata. Peccato che noi non ne capiamo una parola.» Goran stava per dire la sua, ma la guerra diplomatica tra le due donne era vicinissima a sfociare in un conflitto combattuto a colpi bassi. Lola infatti prese la parola, senza degnarsi neanche di guardare l’inaspettata rivale: «In effetti parlo correttamente otto lingue più un paio claudicanti. Ma si tratta per lo più di dialetti minori di tribù indipendentiste dell’Amazzonia. Sono portata per le lingue. Una volta mi hanno persino offerto un lavoro come interprete all’ONU. Come interprete, vi rendete conto? Io, una dipendente! Ah, non c’è fine al peggio.» «È una dote rara», commentò Goran non ascoltato da nessuno. «Per cui, caro Mies», proseguì Lola, «per non offendere nessuno, parleremo italiano, dal momento che mi è parso chiaramente che un po’ lo masticassi.» «Ma certo, certo!» annuì l’uomo chinando maestosamente la testolina tonda. «A volte faccio confusione con parole. Io parlo poco-poco bene italiano.» «Poco-poco sarà più che sufficiente», disse Lola improvvisamente disinteressata al nuovo ospite. «Io, comunque essere Mies, grante piacere di conoscervi. Io venire da Zurich…Zurigo in Svizzera. Molto felice di essere qui, ja!» Goran, che era naturalmente un intrattenitore, venne incontro con la mano tesa in avanti a stringere quella paffutella dell’eccentrico ospite. «È un onore tutto mio vedere finalmente una faccia nuova. Io sono Goran, molto lieto e mi permetta anche di presentarle Marie De Blanche, bella, oltre che di gradevolissima compagnia.» Marie avvampò come un batuffolo di cotone dato alle fiamme. «Oh, Goran, che adulatore che sei.» «Se ti scaldi tanto per una presentazione, figuriamoci per quel che succede dopo», commentò Lola serafica. «Il piacere è tutto mio Her Mies», proseguì Marie ignorandola. «Io vengo da Parigi, ma sono nata in un piccolo paese sulla Loira, Deauville.» «Una francese a tutto tonto!» esclamò Mies buontempone. Marie scoppiò a ridere: «A tutto tonto sì… Goran, prendi il cappotto di Mies, lo mettiamo ad asciugare.» «Ma certo!» disse Goran pratico. «Dia a me, che lo stendiamo su una sedia davanti al camino. Sarà asciutto in un attimo. Dubito che venga la governante a fare il suo…»


37 «Che lavoro fa, Mies?» chiese Marie prendendo confidenzialmente l’anziano uomo sottobraccio e portandolo a scaldarsi. «Io essere architetto, Fräulein.» Goran commentò gioviale: «Con quel nome non poteva essere altrimenti. Nomem, Omen.» «Non capisco», ammise Marie che non colse la locuzione latina. Mies, togliendola subito di impaccio, prese a parlare gesticolando vivacemente: «Miei genitori chiamare me Mies in onore ti grante architetto Ludwig Mies van der Rohe. Un grante artista che ha contribuito al concetto di architettura moderna. Avevo il nome, più era fatto e sono diventato architetto anche io, ja», finì ridendo come di consueto, come se fosse una firma alle sue frasi. L’atmosfera amichevole fu spezzata da un prepotente sbadiglio di Lola che, poco lontana, sventolò una mano ingioiellata di fronte alla bocca. I tre si ammutolirono. Solo Goran ebbe il coraggio di riprenderla: «Lola… Se proprio non ti aggradano le nostre chiacchiere, almeno non farcelo notare così marcatamente.» «Che vi devo dire», ammise la donna senza rossori, «è che mi annoio facilmente. L’unico fremito che ho avuto finora è stato quando ho scoperto, poco prima di entrare qui dentro, di aver perduto il mio Iphone nel selciato là fuori. Non che me ne importi poi così tanto, sia chiaro. Ma sto seriamente considerando l’idea di andare a cercarlo. Così, per avere un brivido. Non avrei dovuto accettare l’invito a questa serata. Se non fosse stato per quel piccolo bonifico a sei zeri, praticamente l’equivalente del costo di una tournée. Perdonatemi se vi appaio avida. Anzi, non perdonatemi, non me ne importa nulla. Ma, visto che se parliamo di sesso qualcuno va in bollore, tanto vale trattare il secondo argomento più importante dell’esistenza umana. Tu, Mies, quanto sei stato pagato per essere qui stasera?» «Io no pagato!» disse l’architetto come se l’idea fosse quasi offensiva. «Neanche io, in effetti», ammise Marie che poi si rivolse a Goran: «Tu?» L’uomo alzò le spalle, poi confidò come se dovesse dare una spiegazione: «In effetti hanno dato anche a me un cospicuo bonus. Avevo visto l’invito, ma l’avevo rifiutato inizialmente. Hanno molto insistito ed Elia, il mio manager, ha fatto, diciamo, leva su alcuni miei doveri contrattuali precedenti che non avevo onorato e che mi erano costati delle sonore penali. Per cui, gioco forza, eccomi qua.»


38 «Bravo il nostro attore squattrinato», disse Lola compiaciuta. Poi rivolgendosi agli altri astanti: «Invece voi due siete qui di vostra iniziativa. Singolare, c’è ancora gente che fa qualcosa non per soldi.» «Lei chi è?!» La voce era arrivata squillante alle spalle di Lola che nuovamente, per lo spavento, sobbalzò con il bicchiere in mano. Il liquido si versò sul pavimento. «Dio! Lamia! Di nuovo. Questa fissazione di sbucare alle spalle ve l’hanno insegnata in qualche scuola boliviana, o che so io?» «Io sono arrivata dalle cucine, come sempre. Visto che c’è una cena da preparare. È lei ad avere i nervi a fior di pelle.» «Ringrazi il cielo che non mi sono macchiata il Valentino che indosso», replicò Lola seccata. «Non le sarebbe bastata tutta la baracca per ripagarlo sa?» Lamia, degnandola appena di uno sguardo, rispose guardando Mies, il nuovo arrivato: «Se li tenga i suoi soldi. Basta una sola moneta per pagare Caronte. Lei dev’essere Mies, l’architetto.» «Ja, piacere io…» «Si è bagnato?» Marie si intromise nella conversazione: «Il paletot era zuppo. L’abbiamo messo ad asciugare vicino al fuoco…visto che lei…si era assentata da tempo immemore.» Il piglio polemico di Marie sorprese un po’ tutti, era come sentire un passerotto urlare a squarciagola. Lamia proseguì a parlare al germanico, ignorando Marie: «Si è bagnato, dunque. Bene, molto bene. Io sono Lamia.» «Lamia, ja», ripetè Mies rispondendo al saluto e soppesando il nome come se lo stesse analizzando. Poi proseguì, alzando lo sguardo ad ammirare i soffitti e gli arredi: «Complimenti per vostra abitazione!» «Non è mia. Ci lavoro.» «Ci lavora, ja», proseguì Mies interessato. «Eppure vostra crazia rende questa Magione ancora più bella e interessante.» Il complimento poteva sembrare fuori luogo, tanto che a Goran, che di lusinghe era un maestro, scappò uno sbuffo di risa che riuscì a stento a trattenere. Lamia, pensava l’attore, poteva avere un certo fascino conferito dall’età, ma non poteva certo definirsi una bella donna. Invece il complimento venne colto con inconsueta gioia dalla destinataria che sembrò prenderselo e goderne.


39 «Oh, bella, suvvia», disse accennando un sorriso e tingendo le gote di rosso, «non mi faccia arrossire. Parliamo d’altro su, su! Quindi le piace la casa?» Goran, Lola e Marie rimasero sorpresi di quel breve dialogo. C’era evidentemente una simpatia tra i due. «Vi conoscete, per caso?» chiese Lola, i cui pensieri erano un libro aperto. «Eh?» chiese Lamia trasecolando, improvvisamente scura in viso. «No, no. Prima volta che incontro Frau Lamia», spiegò Mies senza perdere la sua giovialità. Poi proseguì, come a voler distogliere l’attenzione: «“Magione del Mezzo”… Un bellissimo edificio, nicht wahr? Architettura eclettica, sembra avere diversi stili, come se possedesse diverse anime. Domina completamente collina, ta lontano somiglia a un rapace, ben arroccato su suo nido, osserva tutto e tutti, pronto a sferrare suo attacco su preda inconsapevole. Un castello antico, ma ben ristrutturato. Ci sono molte storie che girano intorno al luogo. È stata persino dominata da tedeschi in secondo grande guerra. Un periodo buio e non è stato unico. Queste stanze hanno visto la peste, hanno ospitato tanta vita e tanta morte. Oggi è ben tenuta. Ristrutturata da poco. In Italia è tipo di operazioni che vanno per la maggiore. Ed è cosa giusta, se vuole mio parere. Tradizioni di architettura locale va preservata.» «Oddio, comincia la lezione sull’architettura. Uccidetemi ora», commentò Lola. Mies agitò le mani paffute davanti al petto: «No, nicht. No voleva annoiare! È che mi faccio prendere da entusiasmo. Con facilità!» «Questo le fa onore», commentò Marie simpatizzando. «Anche io vorrei tornare un po’ bambina. Dovremmo farlo tutti.» «Allora», proseguì l’architetto, «io essere appassionato da sempre di folklore locale. E preso molte informazioni interessanti su questo luogo prima di venire!» «Sentiamo…» disse Lola senza troppo trasporto. «In tutti libri che ho consultato, torna sempre un fatto, una storia di popolo. Una leccenda», raccontò Mies, creando una certa suspence intorno a sé. «Si dice che nei boschi che circondano la Magione viva una belva.» «Oddio, una belva?» chiese Marie strabuzzando gli occhi. «Oh, ja! La Bestia, la chiamano. Das schreckgespenst. Un animale a metà tra un orso, un lupo e un essere umano.»


40 «Un incubo, nientemeno», tradusse Lola sorridendo. «Sono stata a letto con parecchi uomini con le medesime caratteristiche.» «Incorporea. Un’ombra», proseguì Mies, alimentando l’atmosfera cupa con voce lenta e roca. «Si narra che Bestia vaghi per i boschi in cerca di uomini, donne e non risparmi neanche bambini, ma che uccida solo coloro che sarebbero comunque morti. Come fosse un esecutore. Un boia. Das Richtbeil. Si racconta che omicidi, infatti, riguardino soprattutto persone già malate, deboli, in procinto di morte…o che abbiano tolto a loro volta la vita a qualcuno. Assassini, stupratori. Molte furono campagne di caccia per debellare Bestia. Molti furono i cacciatori ritrovati morti nei boschi intorno a Magione. Si riteneva che zona fosse maledetta. Gli sventurati furono ritrovati squartati, smembrati, fatti a pezzi. Macabri cadaveri deturpati. Le indagini autoptiche rivelano di organi…» «Suvvia! Her Mies!» urlò Goran improvvisamente, per fermare la caduta dell’atmosfera verso l’oblio di un film horror di serie B. «Va bene, l’entrata a effetto l’ha fatta. Ma parliamo di argomenti più piacevoli.» «Goran, che noioso», sbuffò Lola, rimproverandolo. «Finalmente qualcosa di interessante e tu ti metti in mezzo. Proprio ora che c’era la parte splatter!» Lamia commentò con tono più pragmatico: «Infatti, ancora con questa storiella della Bestia. Che assurdità. Il paese a valle sta morendo. Non c’è più mercato, non c’è turismo. A parte quei quattro invasati che vanno a caccia di fantasmi e simili. Dove finiremo. Goran e Marie, venite con me, seguitemi. E portatevi i bagagli che non sono un facchino. Vi mostro le vostre camere per la notte.» Così dicendo si avviò verso le scale che salivano ai piani superiori. I nominati, presi un po’ alla sprovvista, si affrettarono a prendere i propri bagagli e si avviarono dietro la governante. «Non posso dire che mi dispiaccia cambiare aria, Goran», ammise Marie mentre salivano. «Tutte queste storie macabre mi hanno agitato. Ci sarà niente di vero?» «Ma no, Marie», rispose l’attore ridendo. «Come fai a credere a queste baggianate. Mies voleva attirare solo l’attenzione.» Poi proseguì accostandosi all’orecchio dell’amica e sussurrandole confidenzialmente: «Secondo me, voleva far colpo sulla vecchia.» Lola, che non si era mossa dalla sua seduta, urlò verso Lamia: «È possibile avere un drink che non sia questa brodaglia ineguagliabile?» Lamia le rispose affacciandosi dalla pesante balaustra in marmo, con tono polemico, scartando la domanda: «Avevo chiesto di togliere i


41 tendaggi, nessuno si è mosso. Neanche la finestra avete aperto. C’è puzza di cadavere. Peggio per voi. Muovetevi voi due. Forza, da questa parte.» «Non si può avere», si rispose Lola tra sé e sé. «Noi non abbiamo una stanza?» Lamia, che era già scomparsa dalla vista, mandò una voce da lontano: «Se volete una stanza seguitemi pure voi.» «E chi mi porta la valigia?» chiese Lola a voce alta, verso il soffitto. «Può portarsela da sola!» la frase arrivò da ancora più lontano. «Io? Giammai. L’ho trascinata fino alla porta di ingresso e sono già andata molto oltre le mie incombenze.» Mies andò verso la porta e prese la valigia di Lola e la sua. Una per mano. «La aiuto io volentieri», disse l’uomo. «Tanto mia valigia è piccola e leggera leggera. No problema a portare quella di bella Signora vestita di rosso.» «Signorina…» lo corresse Lola, torva in viso. «Ja, ja. Tut mir leid! Conviene avviarci, non vorrei perdermi dentro questa casa.» «Ti seguo, sicuramente. Non resterei da sola in questa “magione” neanche se mi pagassero molto di più di quello che non mi hanno già dato!» sentenziò Lola sbuffando e alzandosi. Guardò il cappotto di Mies davanti al camino. Per un momento le venne lo scrupolo di restituire il favore, portandoglielo ai piani superiori. Poi considerò che non erano né amici, né conoscenti. E non era tenuta a restituire favori a nessuno. Mentre salivano i gradini Mies tornò a rivolgerle la parola, in tono più formale, ma sempre gioviale e rubicondo: «Chieto scusa…io la conosco? Mi sembra di averla già vista…» Lola alzò le spalle poi aggiunse: «Sono una popstar. Ho vinto due Oscar. I miei concerti fanno milioni di persone. Ho milioni di followers in tutto il mondo. Forse mi hai visto da qualche parte.» «Sono desolato, allora. Non seguo nessuna delle attività che ha menzionato.» «Allora mi scambi per qualcun’altra», concluse Lola avviandosi per l’ultimo gruppo di scalini. «Un attore, una ballerina, una cantante e un architetto… Non so perché, ma mi ricorda qualcosa.» «Barzelletta, forse.» Lola scoppiò a ridere. Una risata contagiosa e riconoscibile, quanto rara nella sua manifestazione. Una serie di “Ah-Ah-Ah” ben distinti e sonori.


42 «Ma che simpatico che sei», osservò ricomponendosi dallo sforzo di ridere. «Tu come hai ricevuto questo invito? Conosci la governante? Mi è sembrato che ci fosse una certa tensione…sessuale tra di voi.» Alle parole di Lola, Mies mancò l’ultimo gradino e rischiò di cadere con tutte le valigie appresso. Si rimise in piedi goffamente: «Tensione sessuale. Oh, mein gott. Nein, nein… Ho ricevuto mio invito per raccomandata. Poi mi ha anche chiamato una signora per assicurarsi che l’avessi letto. No conoscere nessuno in questa serata.» «Beh, allora dovrebbe esserci. La tensione sessuale, intendo. Datti da fare. Non mi sbaglio mai su queste cose.» «Ah, bene…ja» disse Mies, confuso. Erano arrivati al pianerottolo che si affacciava sull’androne di ingresso, quello con il primo grande camino. Il fuoco ardeva pochi metri sotto di loro, emanando fin lassù il suo calore e l’odore tipico della legna bruciata. Sul pianerottolo si aprivano due corridoi, che si biforcavano a forma di V verso la zona notte. Una lunga guida rossa, antica e intessuta in figure romboidali, conduceva alle varie camere per gli ospiti. Sui lati del corridoio una bella boiserie in legno massello su cui erano appese tre appliques in bronzo e cristallo, a separare altrettante stanze. Da un lato e dall’altro della V potevano contarsi in tutto sei stanze. Sull’incontro dei due corridoi, quindi nello spazio che affacciava sull’androne, una settima porta conduceva alla stanza di Goran. La parte frontale dell’androne, oltre a ospitare il pesante lampadario in cristallo, era sede anche di un ballatoio che prendeva luce dal piazzale antistante la casa attraverso tre grandi vetrate piombate e decorate. Lola fece appena in tempo a vedere l’attore entrare nella sua camera. L’uomo si bloccò che stava per chiudersi dentro. La fissò per qualche secondo, senza alcuna espressione. Poi, scorgendo Mies, chiuse definitivamente la porta. Nel mentre, Marie e Lamia si intravedevano sul fondo del corridoio di sinistra. Alla cantante sembrò che Marie si stesse lamentando con la governante per la posizione della sua stanza, l’ultima in fondo al corridoio. Lola riprese il suo discorso con Mies, come niente fosse. «Anche io ho ricevuto una raccomandata, ma non l’ho letta. Il mio agente, Lukas, l’ha intercettata, lo pago per questo del resto, ed è stato letteralmente subissato di telefonate per avere conferma della mia partecipazione. Ho rifiutato, ovviamente, ricevo decine di questi inviti quotidianamente. Alcuni molto insistenti. Poi è arrivato un assegno. Molto sostanzioso. C’è stato un click, capisci? Da invito mondano è diventato lavoro nella mia testa. Non potevo certo rifiutare, vista anche la somma proposta… Lukas si è infuriato, ha detto che secondo lui era


43 rischioso. Il che mi è risultato strano, visto l’attaccamento al denaro che ha. È ebreo di origini, sarà per quello. Si è persino offerto di accompagnarmi, ma dio me ne scampi, sa essere pesante come un elefante. Quando poi gli ho detto che sarei andata senza i bodyguards, non ti dico. Una furia. Ha urlato con la sua vocetta francese: “Se vai, non pensare di trovarmi al tuo ritorno”. Sono qui. E sarà lì anche lui, con quello che lo pago.» «Lei ha vita molto complicata», osservò l’architetto. «La mia invece ha trovato una pace interiore, per così dire. A me piace vivere più serenamente. Gli affanni del quotidiano sono un vago ricordo.» «Immagino. Direi che è ampiamente visibile. A proposito di vita complicata. Non è che ha un cellulare? Io ho perso il mio.» Mies scattò sull’attenti cercando nelle tasche e mormorando confusi “certo, certo”. Infine, da un taschino interno tirò fuori un vecchio telefono. «Che cos’è?» chiese Lola guardando l’apparecchio di traverso, senza avvicinarsi troppo. «Cellulare. Smartphone, come dite voi giovani.» Fu il “come dite voi giovani” a farle spuntare il sorriso e ad addolcirla. Ma non cambiò l’approccio verso il dispositivo teso da Mies verso la donna. «Sì, grazie. Ma per definire “smartphone” quel coso ce ne vuole. Che roba è? Un Nokia di vent’anni fa? Attento a non farlo cadere che si rompe il pavimento…» «A me basta che telefoni», commentò semplicemente Mies. «Chissà perché l’avevo intuito. Si accende?» Mies annuì vigorosamente, pigiando il tasto di accensione del vecchio telefonino. Quello non emise alcuna luce, né alcun suono. «L’hai mai caricato negli ultimi, diciamo, dieci anni?» «Accidenti!» esclamò l’architetto. «Dimentico sempre di metterlo in caricamento. E non ho portato neanche ehm…come dire… Ladegeräten? Possiamo chiedere a uno degli ospiti!» «Se hanno l’alimentatore di un Nokia preistorico? Dubito seriamente. Tu provaci, poi comunicami il risultato.» «Voi due!» strillò da lontano Lamia, venendo verso la coppia. «Avete finito di blaterare? Lola, tu sei già arrivata. La tua stanza è questa.» Lamia si era fermata all’inizio del corridoio di sinistra, aveva aperto la prima porta, che praticamente affacciava sul pianerottolo similmente a quella di Goran.


44 «Ah, meno male!» disse Lola avvicinandosi all’ingresso della stanza. «Almeno sono vicina alle scale. Sono terribilmente pigra, mi avrebbe dato noia dovermi fare ogni volta quel lungo corridoio.» «Mies, con me!» comandò Lamia all’architetto che scattò sull’attenti. La governante lo superò e si avviò per il corridoio di destra. Mies allora si avvicinò a Lola sull’ingresso della sua stanza e posò la valigia della donna a terra. Poi fece per andarsene, con l’intento di non perdersi né Lamia né la sua camera. «Hey, architetto!» Mies si fermò e si voltò nuovamente verso Lola che lo guardava con aria maliziosa. «Non dimenticare. Tensione sessuale.» L’uomo borbottò qualcosa e scappò via confuso. Gli “Ah-Ah-Ah” della cantante rimbombarono alle sue spalle, saettando tra i pendenti in cristallo dei vuoti corridoi.


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6. TRUCCATE PER GLI OSPITI

Goran indugiò a lungo davanti allo specchio della sua camera. Non perché fosse un vanesio, il solito cliché del bell’uomo, teatrante, fotogenico, egoriferito. Come tutti gli attori cresciuti e vissuti su un palco, aveva un rapporto speciale con il suo corpo. Con il suo viso, ancora più profondo, più intimo. Si guardava e scopriva quella ruga in più o quel tratto di barba improvvisamente imbiancato. Da un certo punto di vista, pensava a quei cambiamenti come semplici e ineluttabili manifestazioni del tempo che passa, ma, dentro di sé, sapeva che non era davvero così. No, lui vedeva in quei segni d’invecchiamento il dolore di quell’evento, la morte inaspettata in quel segno sopra il labbro, la mancanza di un amico poco più sopra, intorno agli occhi, quel momento difficile, sulla fronte. Non capiva perché somatizzasse tanto la vita, al punto da incidersela non solo in faccia, ma anche nel corpo. Agli occhi del pubblico, del suo pubblico, lui sarebbe stato per sempre il commissario Pietro Rocchi. E poi c’era il fascinoso Danny Rivera, il primo ruolo a lanciarlo nel mondo dello show business. Un personaggio che gli si era impresso a fuoco, come una di quelle rughe. Scomodo, ingombrante. Ma, a distanza di anni, la prestanza di Danny non gli vestiva più addosso come un completo da sartoria: i muscoli non erano più tesi come una volta, le gambe non più toniche, le spalle più ossute. Eppure la maschera, Danny Rivera, il malavitoso dal cuore tenero, era sempre lì, davanti gli occhi di tutti, immortalata nella pellicola. E il pubblico pure era sempre lì, a cercarlo nella sua persona, nessuno capiva che invece Goran, l’uomo, invecchiava. Come tutti. Il cinema elargiva il dono dell’immortalità alla propria effige, ma era come la scure di un boia, per l’amor proprio. Se era diventato difficile competere con gli altri attori più giovani, con le nuove leve, lo era ancora di più competere con sé stessi, con il proprio decadimento. Estetico, ma anche e soprattutto mentale. Da ragazzo, quando era ancora in perenne formazione attoriale, si era concesso il lusso di sconfinare nel teatro sperimentale, aspro e difficile, così introspettivo, così fisicamente e mentalmente provante. Oggi non


46 avrebbe più potuto, non avrebbe retto quello stato di tensione e quella stanchezza incessante. La sua carriera era a una svolta? O era del tutto sul viale del declino? «Perché sei sempre tanto insicuro, Goran!» rimproverava a sé stesso. Avrebbe voluto avere una famiglia, certo. Gli avrebbe dato forza. Ci aveva provato e aveva fallito, miseramente. Drammaticamente. Un periodo di cui non voleva parlare, che non voleva ricordare. Come se i protagonisti di quell’insuccesso fossero capi di abbigliamento ormai passati di moda, che vestono male, da rinchiudere nel baule delle dimenticanze. Invece pensò a Marie. Erano tanti anni che non la rivedeva. Erano così legati, da tempo, così in sintonia. Due anime che si riconoscono simili, con la facilità delle dinamiche chiare, scorrevoli, senza intoppi. Perché, si chiese, non era accaduto nulla? Perché il loro rapporto non era approdato su altri lidi più sicuri, quelli di una relazione privata, stabile, di una famiglia? Gli piaceva Marie. Ed era sicuro che lui piacesse a lei. Si rimproverò di non averci provato. “È l’uomo a dover prendere l’iniziativa”, così gli aveva impartito la sua cultura. Sebbene il vivere quotidiano gli avesse suggerito e insegnato il contrario. Magari avrebbe potuto riproporsi. Lei sembrava ancora presa. Diversa, però, tanto diversa. Gli sembrò che sulla schiena della dolce ballerina che ricordava, ci fosse passata la trincea di una guerra di confine, che la vita l’avesse lasciata piegata e rotta in più punti. Quante ne doveva aver passate? «Dai Goran, smettila di pensare stronzate e preparati», disse continuando a guardarsi. E si osservava con estrema chiarezza, visto che lo specchio era circondato da luci, proprio come quello dei camerini di un teatro. Esaminando la sua camera non poteva nascondersi delle perplessità sul tema dell’arredo. La stanza era tutta dedicata al teatro e al cinema. Un letto a baldacchino era incorniciato in un sipario di velluto rosso, posizionato più in alto rispetto al pavimento, come fosse su un palco. Come se non bastasse, di fronte al letto, appoggiata alla pediera, una cassapanca nascondeva un fantoccio, intento a far capolino, vestito di nero e con un copione in mano. Lo osservò meglio: era intagliato in legno, ricavato da un unico ceppo e dipinto a mano. Il manoscritto aperto riportava un’unica frase: “Vivi delle tue bugie, attore, e in esse ricerca la tua verità”. “Il suggeritore”, pensò Goran inarcando le sopracciglia, per lo più inquietato. Oltre alla toilette, piena di luci, un armadio dipinto riprendeva i colori pastello e i temi semplici cari al cinema dagli anni Cinquanta in poi.


47 Diverse locandine di pellicole famose erano appese alle pareti. “Via col vento”, “I cannoni di Navarone”, “Quo vadis”; ma anche quelle del neorealismo, “Roma città aperta”, “Uccellacci uccellini”, la splendida Lollobrigida di “Pane, amore e fantasia”. C’erano i grandi nomi del cinema degli anni passati: Gable e Davis sorridevano a De Sica e Fellini. Goran si sentì lusingato da tutto quel genio intorno alla sua persona. Si chiese per un momento se avessero confezionato la camera apposta per lui, ma poi, osservando gli arredi antichi e i quadri vetusti, ritenne che si trattasse solo di una coincidenza e di un facile abbinamento. Si cambiò giacca e camicia, tenne i pantaloni con cui era venuto. Per la camicia optò per una coreana molto chiara, tendente all’azzurro, così non avrebbe dovuto indossare la cravatta. Serata elegante va bene, ma lui non era tipo da smoking. E non c’erano paparazzi o giornali scandalistici da solleticare, quindi, già tanto che non si era infilato un paio di jeans e una maglia. Guardò per qualche secondo un gilet bluette, che aveva portato da abbinare alla camicia, indeciso sul da farsi e infine lo gettò su una piccola poltrona leopardata - un tocco kitsch, pensò - a fianco al letto. “Se dev’essere casual…” Uscì nel corridoio, non c’era nessuno. Si avvertiva appena il crepitio del fuoco al piano inferiore. L’atmosfera era ovattata, ferma. Niente di diverso dalle molte ali d’albergo in cui aveva sovente soggiornato in giro per il mondo. Rami di alberi colmi di vita, foglie di diverse essenze che condividevano un unico tronco, separate, eppure invischiate, da quell’unica aria respirata ed espulsa. Ferma, stantia, usata. Si avviò verso il fondo del corridoio, dove Lamia aveva accompagnato un’oretta prima Marie. La moquette a terra e il legno del parquet sottostante, attutivano i passi, come fagocitandone il rumore nel silenzio complessivo. Bussò dolcemente con le nocche della mano. Dopo pochi secondi, si affacciò l’étoile, raggiante. Quella serata doveva averla galvanizzata parecchio. Era luminosa, quasi come quando l’aveva conosciuta anni prima, quando erano giovani e pieni di speranze. Anche lei non aveva variato troppo il vestiario. L’abito era rimasto lo stesso identico tubino nero, ma aveva indossato un gilet di pelliccia bianca, rigorosamente sintetico, una cintura in corda dorata che scivolava sui fianchi e, al collo, lo scialle di raso rosso aveva lasciato il testimone a un girocollo molto alto in oro bianco, dal sapore vagamente etnico, che slanciava il visino verso gli angeli del paradiso. «Sei bellissima», si lasciò scappare Goran a bocca aperta.


48 Lei sorrise, illuminandosi. Stava per dire qualcosa, poi mosse il collo dolcemente verso l’attore, baciandolo sulla guancia, troppo vicino alla bocca. Goran stava per reagire, per acchiappare al volo quella farfalla di bacio sfuggita, ma Lola era improvvisamente apparsa dalla porta della sua camera. «Non ci crederete mai!» esordì gaudente, andando incontro ai due. «La mia camera è a tema! A tema musicale, intendo. Ho un pianoforte nella stanza, meraviglioso. Un pianoforte a mezza coda! Non l’ho ancora suonato. Non suono mai per me stessa, devo avere un pubblico, orecchie che mi anelano! Ma ci tornerò. E il letto! Ah, un letto enorme, bianco come il latte. Con lenzuola di raso ricamate a mano, con note musicali. E alle pareti ritratti di Aretha, Miles Davis, Withney e la sempre compianta Amy. Anch’io voglio essere compianta, un giorno. E voglio un ritratto in un albergo a tema. E qualcuno mi guarderà e dirà: “Lola Reddington, lei ha fatto la storia!”. Per ora mi farei un bel Martini, se ci fosse. E anche un bel maritino, se capite il gioco di parole. Voi due? Che fate qui da soli a guardarvi l’un l’altro?» «Eravamo da soli. A guardarci. Finché non sei sbucata tu», rispose asciutta Marie, avviandosi verso le scale e trascinandosi dietro una slavina di eleganza. «Stai benissimo», osservò Lola invidiando la ragazza. «Puoi dirlo forte.» «Vedi, a differenza tua, so ammettere quando qualcuno può competere con la sottoscritta. E in fatto di eleganza, lasciamelo dire, hai poche che potrebbero gareggiare.» L’ammissione di Lola stupì Marie positivamente. Sorrise alla donna e la prese sottobraccio: «Anche tu stai benissimo. È un Ferragamo?» «Sì, non potevo mettere lo stesso abito per l’entrée, che non c’è stata, e per la cena. Quel povero Valentino grida dolore da ogni fibra.» Le due cominciarono a scendere le scale. Goran era rimasto fermo davanti alla porta di Marie, imbambolato. Avrebbe voluto raccontare della sua camera a tema teatro, ma era letteralmente scomparso dalla scena, come se non l’avessero proprio preso in considerazione. “Non capirò mai le donne”, pensò. E si avviò anche lui verso il basso. Quando arrivò al piano inferiore, Lola e Marie si erano già posizionate davanti al camino. Non quello della hall centrale, bensì il camino astrologico con i segni zodiacali nella stanza con il biliardo. La nuova location non era casuale. Intanto, almeno in quella stanza, erano stati rimossi alcuni dei teli che ricoprivano l’arredo, ma ancora l’atmosfera


49 rimaneva piuttosto lugubre. Su un tavolino vicino al biliardo era stato approntato un piccolo rinfresco, un’apericena composto da pietanze stuzzicanti e ricercate, che invogliavano lo stomaco. E un paio di vini di una certa caratura, entrambi frizzanti. Un bianco e un rosato. Lola, seduta di traverso sulla bergère di destra ancora coperta dal telo, assaporava uno spiedino freddo con ovoline di fiordilatte, ovuli affettati di stagione e cubetti di prosciutto cotto affumicato. Marie, in piedi davanti al fuoco, o sarebbe meglio dire dentro il fuoco, visto quanto c’era attaccata, sgranocchiava un panetto cosparso di burrata di bufala, ricoperta con una granella di pistacchio e tartufo a fette. Goran optò per un paio di gamberi saltati al cognac e glassati con aceto balsamico. «Avete seguito il profumo?» chiese l’attore ridendo. «Squisito», disse Lola addentando un’ovolina. «Se l’antipasto è di questa qualità, posso immaginare la cena. Non so se esiste una cuoca, ma le dovrò fare i complimenti. E se non esiste, pazienza, mangerò lo stesso con molto gusto.» Marie, che deglutiva al ritmo di un passerotto assonnato, sorrideva compiaciuta di quell’armistizio tra donne scaturito da un nulla. «Questa tartina è buonissima. Tartufo fresco, mai avrei creduto che sposasse così bene la granella di pistacchio. Attenta a non macchiarti l’abito, Lola. È magnifico e ti fa sembrare una dea.» «Vero?» disse Lola compiaciuta, alzandosi e volteggiando. «Non l’ho neanche pagato, pensa. Sono i benefit dell’essere una star. Appena si viene a sapere che vado a una serata mondana, gli stilisti fanno letteralmente la fila per farmi indossare qualcosa. Ho casa invasa. Di tanto in tanto restituisco tutto e rinnovo.» E, invero, se già il primo vestito era stratosferico, questo a Marie sembrò elevare l’asticella ancora più su, perché riusciva a domare, con quel color ceruleo e la stoffa di seta lavata, l’abilità naufragante di Lola di sfociare nel volgare. Per l’occasione, la cantante si era raccolta i capelli, lasciando delle ciocche ribelli a inquadrare l’ovale del viso. Il vestito, lungo e vaporoso, la cui gonna era intessuta in molteplici strati, era stretto in vita da una cinta di diamanti – Marie si chiese più volte se fossero veri – in abbinata a un collier di filo d’acciaio su cui pendeva un importante occhio di zaffiro, affogato nel decolleté strabordante. Il seno, appena coperto da un velo di stoffa, era tenuto su da un paio di bretelline, che davano l’idea di essere pericolosamente affaticate. La schiena, lasciata completamente scoperta, perdeva la sua nudità poco sopra la


50 zona lombare, lasciando esposte due fossette simmetriche in cui qualsiasi uomo avrebbe potuto affogare per ore. «Goran!» strillò Marie con un tono eccessivo, distraendo l’amico e riportandogli lo sguardo ad altezza viso. «I tuoi gamberi come sono?» «Oh, ehm…deliziosi», rispose l’attore colto sul fatto. «Lola non hai freddo? Sei vestita un po’ leggera.» «Tesoro, noi donne abbiamo imparato a soffrire in silenzio, il costo di un vestito come questo.» «Capisco», annuì poco convinto. «Non è arrivato nessun altro a quanto pare. Saremo solo noi quattro, possibile? Qualcuno ha visto quell’omino baffuto?» «Magari fossimo in pochi», replicò Lola masticando. «Francamente mi sono già stancata della serata. Senza nulla toglierti, Goran, ti trovo un po’ troppo agée per i miei gusti. Un tempo, magari, saresti stato passabile. E riguardo te, cara», disse rivolgendosi a Marie, «ho avuto esperienze saffiche ovviamente, ma, se proprio devo, preferisco quelle più in carne. Senza offesa.» «Oh, sono onorata», replicò Marie divertita. Goran intervenne piuttosto seccato, facendo scattare in alto il mento volitivo: «Ti è mai passato per la testa che a qualcuno potresti non piacere tu? O nessuno ti ha mai detto di no?» «In effetti non è mai accaduto», rispose Lola finendo l’ultimo pezzetto di ovolina e guardando tristemente lo stuzzichino desolato. «Là dove non arriva la volontà, arriva il denaro. Non so se mi capisci.» «È disgustoso. E svilente per il ruolo femminile», sentenziò Goran. «Ah Ah Ah», rise Lola. «Sentilo come si scalda il difensore delle pulzelle. Magari sei tu che non sei abituato a sentirti dire di no. Scherzi a parte, penso che vi saluterò. Non per altro, ho investito qualche milione nella tecnologia Blockchain e vorrei monitorare le mie azioni in Bitcoin. Ho una farm in Croazia che sta minando all’inverosimile. Lo farei dal mio Iphone, ma è disperso là fuori.» «Non ho capito una parola», disse Marie, «dio come mi sento vecchia.» «Bitcoin, die Währung der Zukunft!» La voce paffuta di Mies arrivò dall’ingresso della sala. Che fosse sceso dalle scale o arrivato dalle cucine non era possibile capirlo, ma Goran avrebbe scommesso che veniva dalle cucine. «Ja, richtig», rispose Lola traducendo. «“La moneta del futuro”. Vieni Mies, caro. Accomodati anche tu. Ci sono solo due poltrone, ma Marie qui, ha deciso di immolarsi come Giovanna d’Arco dentro il caminetto.»


51 «Arriva dalle cucine, Her Mies?» chiese Goran all’architetto. Lui sembrò stupirsi della domanda. Rispose quasi come sembrasse impacciato. «Ja, ja», rise. «Io essere sempre interessato di posti nuovi che non conosco. Sono andato a curiosare in giro mentre aspettavo voi. Ho trovato cucina e aiutato Frau Lamia con specialità che avete appena assaggiato.» «Un vero cavaliere», commentò Lola, strizzando l’occhio a Mies, maliziosamente. «E dimmi, cavaliere, come mai ti intendi di criptovalute?» Mies rispose come sempre gesticolando vistosamente: «Oh, io essere curioso di natura. Mi piace sempre imparare nuove abitudini di mondo. E saper investire denaro è una di queste novità.» «Che lavoro fa nella vita, di cosa si occupa?» chiese Marie. «Io essere architetto, fräulein. Già chiesto, ma io risponde nuovamente.» «Oddio è vero!» disse Marie ridendo. «Sono proprio una sbadata. Beh, una persona normale! Con tutto il rispetto her Mies, ho avuto il dubbio che questa fosse la classica cena piena di celebrità.» Mies sorrise bonariamente e Lola gli diede un colpo sul fianco, quasi facendogli cadere lo spiedino di funghi. «Suvvia, architetto! Non ci servono i finti modesti.» «Cioè?» chiese la ballerina. «Non me ne sono ricordata subito, in realtà», continuò Lola. «Vedi cara Marie, anche il nostro Mies qui è una celebrità nel suo campo. Mies van der Recht ha progettato gran parte dei grattacieli di Dubai, compresa la cosiddetta “boa volante”. Sei sicuramente un uomo che sa il fatto suo. E con un discreto gruzzoletto. Non che questo possa minimamente competere con la sottoscritta…» «Non sapevo!» ammise Marie tra il sorpreso e il dispiaciuto. «Meglio che mi taccia, oggi non ne dico una giusta.» «Puoi tacerti a prescindere», osservò Lola. «Non poteva sapere», disse Mies. «Viviamo in due ambienti piuttosto distanti. E invece lei, Lola, perché conosce me?» «In realtà non ti ho mai visto di persona. Ma, come te, anche io sono un’appassionata di tutto. Credo persino di avere una laurea in architettura, non ricordo. Come ho detto, non mi piace dare sfoggio delle mie qualità», disse Lola versandosi del vino rosato in un bel calice di cristallo. «Non fai altro da quando siamo arrivati, praticamente», commentò Marie con un mezzo sorriso.


52 Lola si alzò e cominciò a camminare per la stanza: «Se proprio bisogna essere onesti, anche io vi ho riconosciuti appena siamo entrati. Sia tu, Marie, che Goran.» «È vero», confermò l’attore. «Del resto, Marie è piuttosto famosa. “Colei che ha portato la grande danza classica fin dentro l’uscio di casa”. Così titolavano i giornali. Ed è un grande onore secondo me. Ci sono persone che sono naturalmente illuminate dal dono divino dell’arte.» «Basta Goran, così mi fai diventare più rossa del fuoco nel camino», disse Marie, sorridendo e dando piccoli buffi alle candide guance. «Sì, sì, va bene», tagliò corto la cantante, pensosa. «Quindi, oltre a essere quattro artisti, in un modo o nell’altro ci conosciamo tutti.» «Non vedo cosa ci sia di sorprendente», commentò Goran ovvio. «Siamo famosi. È normale che sia così.» «Ah, la celebrità», disse Mies sorridendo. «È bella finché non ce l’hai. Poi, quando hai capito di aver venduto la tua anima al diavolo, daresti oro per tornare indietro. Ma il tempo, ahimè, quello non può comprarlo nessuno.» Ci fu un momento di silenzio che seguì alle dichiarazioni di Mies. Nessuno seppe replicare. Forse perché era vero. Tutti gli astanti erano consapevoli del prezzo del loro successo, del peso, a volte insostenibile, della fama, della luce abbagliante della notorietà. E delle conseguenze che da essa derivavano. Conseguenze che qualcuno, in quella stanza, aveva pagato a caro prezzo. Lola, che dalla dormeuse si era alzata ed era passata per la bergère mettendosi ferma davanti al fuoco al fianco di Marie, si mosse improvvisamente, quasi minacciosa. Andò dal bell’attore che la guardò arrivare come un mastino dalla rabbia contenuta, ringhioso, coda bassa. Che non sai se sta per assalirti: «Goran…» iniziò, ma un tuono rimbombò all’esterno e andò via la luce. Marie urlò come se avesse visto un fantasma. «Oddio», disse scusandosi subito dopo, «perdonatemi, ho il terrore del buio.» «Tu hai paura pure dell’aria che respiri», commentò Lola. «Marie vengo da te», disse Goran muovendosi verso il camino. «C’è il fuoco, vedi? Non sei al buio, un po’ si vede. E ora ti sono vicino io.» «Sì, grazie», disse Marie rassicurata. «Da bravi, battete le mani e continuate a parlare!» esortò Lola, scherzosamente.


53 Nella penombra, omaggiata solo dal tenue chiarore nel focolare, si udirono rumori, la pioggia battere, improvvisa e furente. Nel frastuono del temporale un rumore più sinistro, un latrato, un grattare sulle pareti. «Cos’è?!» chiese Marie stringendosi a Goran, terrorizzata. «Avete sentito?» «Io non ho sentito nulla», rispose Lola, con uno strano tremolio nella voce. «Io invece ho sentito», disse Goran, «sembravano dei versi di animale, ma erano lontani. Siamo in mezzo a un bosco Marie, non ci trovo niente di strano. Sarà qualche cinghiale.» La porta si spalancò all’improvviso. Come fosse stata aperta dalla mano del vento, divelta, se i cardini non fossero stati abbastanza tenaci. Entrò una donna, scortata dalla pioggia e illuminata dal poco chiarore emanato dal focolare del camino di ingresso. Completamente nuda e bagnata. Fastidiosa alla vista perché il corpo, una volta armonioso, denunciava pesantemente i segni dell’età. Una umile corda, di canapa, cercava di vestire quanto era possibile. Girando intorno al collo a formare una spirale, scendeva tra i seni flaccidi e si insinuava nella vulva, rasata alla vista, risalendo faticosamente tra i glutei, piatti, a formare un piano unico con la schiena, e si ricongiungeva al collo. L’immagine creò imbarazzo a tutti i presenti che ammutolirono. Voce bassa, roca. «Passerà il gallo e lo starnazzare delle illusioni. Ravanate nella paglia dei sogni. Immagini nere, raccoglieranno la luce. I tuoni, poi i pianti. Nasceranno bambini ciechi.» )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


INDICE

1. Goran .......................................................................................... 5 2. Marie ......................................................................................... 11 2. Marie ......................................................................................... 11 3. La Magione del Mezzo ............................................................. 17 4. Lola ........................................................................................... 26 5. Mies .......................................................................................... 35 6. Truccate per gli ospiti ............................................................... 45 7. Jordie ed Elijah ......................................................................... 62 8. Schiena d’asino ......................................................................... 72 9. Un’antica piaga ......................................................................... 82 10. Antonia.................................................................................... 92 11. La cena delle sette maschere ................................................... 96 12. Da che pulpito ....................................................................... 107 13. Due occhi rossi...................................................................... 122 14.Anima spezzata ...................................................................... 127 15. Guarda dall’alto .................................................................... 134 16. Crine di cavallo, ispido alla lingua ....................................... 142


17. Nel mezzo ............................................................................. 155 18. In libris, veritas ..................................................................... 163 19. Pezzi di cuore ........................................................................ 169 20. Segui le mollichine, Arianna ................................................ 176 21. Di madre in figlio .................................................................. 189 22. Viola d’estate ........................................................................ 195 23. Il rumore di fondo ................................................................. 205 24. Anima Lieve ......................................................................... 220 25. Dell’amore e della morte ...................................................... 234 Ringraziamenti ............................................................................ 251


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Quinta edizione del Premio ”1 Giallo x 1.000” per gialli e thriller, a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 31/12/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 1.000,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


AVVISO NUOVI PREMI LETTERARI La 0111edizioni organizza la Prima edizione del Premio ”1 Romanzo x 500”” per romanzi di narrativa (tutti i generi di narrativa non contemplati dal concorso per gialli), a partecipazione gratuita e con premio finale in denaro (scadenza 30/6/2022) www.0111edizioni.com

Al vincitore verrà assegnato un premio in denaro pari a 500,00 euro. Tutti i romanzi finalisti verranno pubblicati dalla ZeroUnoUndici Edizioni senza alcuna richiesta di contributo, come consuetudine della Casa Editrice.


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