In uscita il 29/1/2016 (1 , 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine febbraio e inizio marzo 2016 ( ,99 euro)
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SIMONE PORCEDDU
PIÙ PESANTE DELL’ARIA
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PIÙ PESANTE DELL’ARIA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-949-4 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Gennaio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Jessica Serra che per tutto questo tempo non ha mai smesso di supportarmi e sopportarmi.
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te.” (Cormac MacCarthy - La Strada)
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CAPITOLO 1
Qui la notte è un recipiente di silenzi dove il mio pensiero vive. Tendo l’orecchio alla campagna deserta; il vento mi descrive ogni piega del terreno, ogni albero nel bosco di eucalipti. Lo sento piegarsi sul profilo arrugginito del vecchio trattore diesel e infilarsi tra i filari della vite che riposa. Gli ulivi gettano pallide ombre sul suolo sbarazzato dall’erba, hanno grossi frutti che sembrano orecchini di marmo lucidato. Tra poco l’inverno scavalcherà i monti e scivolerà sulle valli, raffredderà la terra e le verdure non potranno più essere piantate in campo aperto o le radici marciranno dentro a un abbraccio fradicio. La luna sembra un faro che traccia larghe insenature d’ombra. Cerco di scaldarmi con il suo bagliore osseo, ma è troppo distante per sentirlo sulla pelle. In alto osservo splendere la costellazione dell’Auriga, sorge tra le foglie del susino sotto al quale cerco riparo dai miei pensieri. Che cosa fai qua fuori, Lariano? Ascolto il vento. Spero di non averti svegliata. Sei un tipo silenzioso… e non dormi molto. Solo qualche ora, poi mi sveglio con il fiato corto. È colpa dei ricordi della guerra? Anche per quelli. Lo senti il vento? Sì. A te non fa paura il suo silenzio? Il vento non sta in silenzio, prende la voce delle cose che incontra. Mi piacerebbe sentire il mare, le onde, l’acqua che si abbatte e poi si ritira. Mi manca ogni momento che sono sveglio. Forse è anche per questo che non dormo molto, così è tutto più vivo. Perché hai deciso di raccontarmi questa storia? Voglio che qualcuno sappia. Per non farla morire, capisci? Perché proprio ora? Io sono vecchia, con me non sopravvivrà a lungo.
6 Dovresti… Sì dovrei, ma sarai tu a raccontargliela quando saranno più grandi, se vorrai. Sai, nessuna estate che ho trascorso qui è stata calda come quella che ho nel cuore. Voglio partire per Punta Crespa. Voglio tornare a quando avevamo le ali. Estate 1928 Il sole batteva sulla testa come una martellata e spargeva in mare vetri scintillanti. Il cielo sopra di noi era talmente chiaro che sembrava non esistere. Sentivo il tonfo delle onde sotto i pontili e poi il risucchio quando tornavano indietro. Lungo la spiaggia che faceva un arco di chilometri fino a Punta Crespa, le onde arrivano come enormi manate che spianavano il bagnasciuga. Stavo disteso sulla sabbia con le braccia lucide dal sudore, il vento c’investiva come lo scuotersi di un lenzuolo. Raffiche salmastre che si mescolavano con l’odore acido della pelle. A quell’ora Martino pescava sotto il pontile. Lo vedevi piccolo tra i piloni di cemento e i ferri d’armatura piegati all’infuori. Teneva i pantaloni arrotolati al ginocchio, il petto nudo, la schiena lucente di sudore e aveva i capelli che iniziavano a essere lunghi. Recuperava la lenza con la stessa prudenza di uno studente che ha appena iniziato a fare le addizioni. Controllava l’esca, se era soddisfatto si sbracciava in avanti per rituffarla in mare, le volte che non andava bene ne prendeva una nuova dalla lattina di cibo per cani e la sostituiva. Avevamo tutte le esche che volevamo, bastava scavare nella terra umida tra la pineta e il fiume. A un certo punto mi volto verso Eleonora, mi sta guardando. Ha gli occhi di un azzurro fuori discussione. «Non riuscirò a dirgli che sono sua madre. Io non voglio dirglielo, non c’è motivo. È andato tutto bene tra me e lui fino adesso, perché dovrei farlo? Tu non puoi pretendere questo.» «Io non pretendo niente.» «E allora perché ne parliamo?» «Non c’è bisogno che glielo dici adesso.» «Non ho potuto dirglielo, non so nemmeno perché ne ho accennato a te, in fondo non so chi sei.» «Sono Lariano Campanelli.» «Il tuo nome non mi dice chi sei.» Il caldo mi stordiva. A una decina di metri da noi c’era uno spiazzo sas-
7 soso, scogli sbiancati dal sole e arrotondati dal sali scendi delle maree. I bambini erano là. Chiara, Michele, Mariano, Anna, Emilio; si aggiravano senza sosta tra le pietre, prendevano in mano quelle più piccole, le scambiavano di posto, riempivano con quelle gli spazi tra le pietre più grandi ed erano tutti intenti nella loro opera d’incastri e costruzione. La sera stavano seduti e fissavano i riflessi sul mare come in un cinematografo a guardare le notizie. Certe volte mi sembravano dei granchi che si spostano rapidi lungo la battigia, altre volte erano come figli di marinai ad aspettare padri che non sarebbero più tornati. Eleonora si dondolava con una mano premuta contro la bocca come se ciò favorisse lo scorrere dei pensieri o il diluire del dolore. Indossava una gonna lunga fino alle caviglie, la linea di separazione tra l’abbronzatura e la pianta dei piedi era netta. Imprecò, la voce slittò sul pianto attraverso le dita chiuse. «Ci siamo io e te, va bene? Io, te e i bambini. A Martino non dirai nulla se non vorrai. Oppure - perché no? - glielo dirai quando sarà grande e potrà capire meglio. Lui ha la possibilità di diventare grande.» Lei scosse la testa allontanando le mie parole. Liberò senza attenzione i capelli dal viso e mi domandò una sigaretta. Mi frugai nelle tasche e gliela diedi insieme al mio accendino a petrolio. Quanti anni aveva? Ventisei, ventisette. Forse qualcuno in meno, ma ciò che aveva passato le dava quell’età. Quell’accendino. Sì, è lo stesso che ci ha fatto quasi perdere il fienile. Dovresti buttarlo via, è pericoloso e tu non ne hai più bisogno ora. Lo porterò con me quando andrò via. Estate 1928 Con le mani fece scudo alla fiammella, scostò i capelli dal viso appiattendoli dietro alle orecchie. Lo faceva ogni volta che il vento glieli spingeva in faccia, era un gesto meccanico, come se non volesse nascondere il dolore che aveva sul viso. Tirò una lunga boccata e il vento le strappò il fumo dalle labbra prima che potesse soffiarlo via. Si abbracciò le ginocchia e quando i capelli ricaddero ancora sul viso strinse la sigaretta tra le labbra e li riportò dietro alle orecchie. «Glielo dirò quando diventerà grande. Quindici, sedici anni è un’età giu-
8 sta. Secondo te è un’età giusta sedici anni? Forse è meglio diciotto. Venti… cazzo, quaranta.» Martino continuava a pescare tranquillo all’ombra del pontile. «Non c’è un’età giusta. È sufficiente che sia grande e che possa capire.» «Pretenderà di sapere chi è il padre. Martino è un bambino intelligente.» «È normale che vorrà saperlo, è suo diritto.» «E io che gli dico? “Mamma te l’ha detto solo adesso perché prima aveva il terrore di doverti spiegare. Sai, non ci dormiva la notte al pensiero di doverti dire cosa è successo a tuo padre”.» «Per favore Eleonora.» «”Doveva dirti che tuo padre l’ha ucciso mamma”. Non è tremendo? No, no che non lo è. Non è stato tremendo sparargli un colpo in fronte. Qua, vedi? In mezzo agli occhi. È un attimo, un sollievo per chi spara e per chi riceve la palla.» Disse quella frase d’un fiato e scalciò la sabbia quando ebbe finito, poi si calmò, di colpo svuotata. Aveva gli occhi lucidi, un sottofondo di onde ne incorniciava il profilo. «Secondo me non dovresti mettergli addosso troppa responsabilità.» «Hai proprio deciso d’insegnarmi come mi devo comportare con mio figlio?» «Non è questo.» «Cos’è allora?» Accennai ai bambini sui sassi. «Qua stanno bene. Stanno meglio di prima, possono avere un presente; è già molto. Però non puoi pretendere che Martino faccia nella sua vita tutto ciò che resterà incompiuto nelle loro.» «So io cosa pretendere da mio figlio.» Continuavo a sudare, sentivo le macchie d’umido sotto alle ascelle e le gocce solcarmi il petto sotto alla camicia. Per brevi tratti il vento cadeva e allora si sentiva l’odore delle alghe che marcivano al sole. C’era un vecchio ombrellone infilato tra i sassi accanto ai bambini, era di tela rossa. Ce n’erano stati degli altri prima, ma il vento li aveva trascinati in mezzo alla zona d’erba e spine dietro alla spiaggia o ancora più lontano sotto la pineta. Aveva le stecche andate ed era lì lì per volare anche lui. La stoffa che sbatteva faceva rumore di petardi. «Puoi chiedere ad Anastasio se ci dà una scorta di pinoli?» disse Eleonora spegnendo il mozzicone sulla sabbia «di quelli che raccoglie lui. Noi non riusciamo a trovarne perché in questo periodo le pigne sono vuote.
9 Digli che non c’è bisogno che ce li dia già sgusciati, non voglio che si disturbi anche in questo.» «Sai già che ci darà quelli sgusciati.» «Tu diglielo comunque. Prendi il sacchetto che ci ha dato l’ultima volta. Credo che i pinoli siano nutrienti e ai bambini facciano bene. Avrei anche bisogno di sapone, il volontariato passa di quei mattoncini che sanno di lavanda.» «Glielo chiederò.» «Va bene. Grazie Lariano.» «Per cosa?» «Per offrirti di andare da Anastasio.» «È un modo per essere utile.» «Non sentirti obbligato a…» «Non mi sento obbligato infatti.» C’era un altro pontile oltre il primo dove pescava Martino, distava circa cento metri, collegava il mare con uno stabilimento di perlite in disuso. Sembrava un enorme braccio di cemento appoggiato su un tavolo pronto per un prelievo; lo stabilimento, una testa di metallo accartocciato reclinata sulla spalla. Chissà da quanto tempo le navi non attraccavano più. «Hai pensato a cosa succede se quelli vengono e ci trovano?» domandai. «Ci pensavo i primi giorni, ora ho smesso. Non ha senso pensarci, ho una pistola e munizioni sufficienti per tutti noi.» «Credi che sia il rimedio giusto?» «Non ne vedo altri. Non sono un soldato per poterli combattere. Tu sei un soldato, potresti affrontarli da solo e farti uccidere mentre io penso a noi.» «Eleonora, ma…» «È per questo che mi piace il presente: non ci sono “se” e non ci sono “ma”. Puoi tornare a casa tua se vuoi. Non sei legato da nulla, non hai obbligo e neppure necessità di stare qui.»
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CAPITOLO 2
Scusami Luisa. E per cosa? Ciò che racconto non è sempre piacevole da sentire. È la vostra storia, vale la pena di ascoltarla a costo del dispiacere che si può provare. Ieri hai detto che dobbiamo tenerla viva, ecco, come questo fuoco. Porteresti altra legna da fuori? Oggi fa freddo. Volentieri. Sembra che non faccia altro che chiederti favori. Se nessuno lo facesse non servirei a niente. Non è vero questo, lo sai. Quando avrai attizzato il fuoco proseguirai a raccontare? Sì, ma io ero da Anastasio per i rifornimenti quando il piccolo Mariano rischiò di morire. Furono Eleonora e Martino a raccontarmi tutto. Estate 1928 Sistemavo le bretelle sulle spalle, la osservavo con gli occhi stretti per via del fumo della sigaretta - a quel tempo ricordo di averne avuta una tra le labbra quasi in ogni momento - lei mi dava le spalle, era sulla punta dei piedi per raggiungere il filo sistemato in alto. Era messo in quel modo per evitare che i bambini tirassero giù la roba per giocarci. L’aveva teso quando ancora non c’ero, tra un chiodo nella facciata laterale dello stabile e un vecchio palo della corrente poco distante. La schiena di Eleonora formava una curva piacevole, i capelli cadevano nello stretto spazio tra le scapole e le punte si stavano schiarendo per via del sole. Si chinò per prendere altra roba dalla cesta di vimini lì accanto. La spallina della canottiera scivolò sul braccio e lei si preoccupò di risistemarla subito come se fosse la cosa più importante del mondo. Afferrò un vestitino rosa con un bel colletto bianco e un fiocco a pois sulla schiena; era strappato e non poteva essere indossato così. Lo guardò per un lungo
11 momento e io vidi la sua espressione cambiare. «Sai» disse una volta «mi sembra di stendere dei fantasmi. Li appendo per le maniche o il colletto o per gli orli; sgocciolano sul cemento, le pozze che formano sembrano tutto ciò che resta della loro vita.» Mi accostai alla moto - la tenevo appoggiata contro la parete dello stabile perché i due cavalletti avevano la molla guasta - e tolsi la coperta di tela cerata riscaldata dal sole che aveva preso tutta la mattina. Mi diedi da fare perché non volevo notasse che mi ero accorto del suo viso, eppure non potei fare a meno di voltarmi per osservarla ancora. Aveva sempre quel vestitino in mano. Cercai di occuparmi delle mie faccende, sistemai la tela cerata sotto un blocchetto di cemento e spazzolai il sellino dagli aghi di pino incastrati. Svitai il tappo nel serbatoio e agitai la moto per misurare a occhio il livello della benzina - la lancetta del carburante non ha mai funzionato, ti potevi consumare il polpastrello a furia di ticchettarci sopra, ma segnava sempre che era vuoto; direi che non è mai stata molto ottimista - poi tornai a guardarla. Le faccende della moto riuscivano a occupare solo una piccola parte della mia testa e per poco tempo. Se ne stava accovacciata accanto alla cesta e tentava di riunire i lembi dello strappo. Rinunciò e mi guardò. «Era di Alessandra» disse «non ricordavo di averlo tenuto.» Aveva un’espressione assorta mentre parlava. Non avevo conosciuto Alessandra. Feci un cenno d’assenso con la testa perché ero convinto che non cercasse la mia compassione, quello era solo uno sfogo dai pensieri che la tormentavano in quel momento. Chiusi il serbatoio della moto e andai dentro allo stabile per afferrare le borse da riempire con i rifornimenti. Quando tornai il vestitino era per terra insieme ad alcune mollette, lei stendeva il resto della roba. Mi ci vollero due tentativi per mettere in moto, quando ci riuscii infilai il capotto lungo, il casco di pelle, gli occhiali e infine la mia sciarpa rossa dalla quale non mi sono mai separato in tutti questi anni. La salutai, ma era di spalle e forse nemmeno sentì. La strada era fatta di cemento e saliva allontanandosi dallo stabile. Quando la salita finiva, iniziava la pineta e nell’attraversarla ti accoglieva il fresco odore degli alberi. A volte era un sollievo. Mi sentivo più leggero lì, con Eleonora e i bam-
12 bini alle spalle. Però non facevo molta strada prima che mi sentissi male per averli lasciati soli. Ti posso capire, è una sensazione che conosco. Credo che Eleonora non avrebbe mai provato quel sollievo. In nessun caso. Verso la fine di quell’estate mi disse che ogni volta che partivo si metteva a contare augurandosi di sentire la moto una seconda volta. In numero pari, andata e ritorno. Un numero pari era per lei qualcosa di positivo; “se lo dividi per due non avanza nulla” diceva. Aveva pure contato gli ombrelloni sulla spiaggia quando era arrivata; erano cinque. La scaramanzia è una delle tante cose a cui si appiglia la speranza. Sai, quando andavo a prendere i viveri, quando mi assentavo per tutte quelle ore, ho detto che era un sollievo entrare nella pineta, ma non esisteva cosa più bella di quando tornavo. Rivedere Eleonora, ritrovare il suo profilo mescolato alle ombre nella poca luce della cucina; salutare i bambini sempre intenti in qualcosa. E poi c’era Martino. Mi accoglieva sempre con un sorriso e non facevo in tempo a scendere dalla moto che già partiva a raccontare, inesorabile come il fuoco di una mitragliatrice. Credo che sia quella una delle gioie di essere genitori, sentire un bambino che si confida, che vuole confidarsi con te. Credo di sì, a dire il vero io non… ma sì, forse non usano parole, ma a modo loro si confidano con me. Eleonora ti raccontava qualcosa? Indirettamente, con mezze frasi. Sedeva vicino o faceva finta di essere impegnata in qualche lavoro e intanto scavava dentro se stessa ed esponeva i suoi sentimenti. Se una donna fa questo è perché ti tiene in ottima considerazione. Ho sempre pensato che fosse solo un modo per sfogarsi. Non ci si sfoga con qualcuno che non si apprezza. Estate 1928 Quando finì di stendere scese in spiaggia da Martino. Gli domandò se avesse preso qualcosa e lui mostrò la retina con dentro un pesce grigio. Eleonora la afferrò per vedere se si poteva cavarne qualcosa da mangiare e il pesce tirò fuori la pinna dorsale fatta di aculei velenosi. Imprecò gettando la retina; Martino non riusciva a raccontarmi questo episodio perché non la finiva di ridere. «Brutto bastardo!» diceva lei succhiandosi il dito. «Non devi prenderlo dalla schiena.» «E me lo dici adesso?»
13 «Lariano mi ha detto che questi sono Pesci Ragno. Si nascondo tra la sabbia nell’acqua bassa.» Quando il Pesce Ragno ti punge fa molto male, io l’ho imparato a mie spese quando avevo circa l’età di Martino. Eleonora lo imparò nello stesso modo; a tarda sera aveva ancora il dito gonfio. «Mi ha detto di non toccarlo; ha fatto la prova con un bastoncino e lui ha tirato fuori le spine.» «Chissà perché a me Lariano non ha detto nulla.» «È piccolo ma sa difendersi» aggiunse riferendosi al pesce «avanti, ributtalo in acqua. Non vorrai mangiarti quella porcheria.» Martino voleva tenerlo per farmelo vedere. «Buttalo, buttalo. Che ne dici se usiamo la retina per pescare le telline?» «Sì, però le mangiamo senza sabbia questa volta.» «Le lascerò spurgare nell’acqua per più tempo.» «Lariano mi ha detto che vanno lasciate almeno due giorni.» «Lariano è un gran chiacchierone quando non parla con me. Dai, avanti, la retina ha le maglie abbastanza fini per non farne scappare troppe. Quelle piccole però le ributtiamo in mare.» «Perché?» «Così diamo loro la possibilità di crescere.» «Però poi le peschiamo quando sono cresciute e allora finiscono lo stesso per essere mangiate.» «Però almeno hanno vissuto un poco più a lungo, no?» «Sì, ma muoiono lo stesso.» «Se continuiamo a parlare le telline grandi diventeranno vecchie e quelle piccole cresceranno, e intanto noi avremmo parlato tanto e mangiato poco.» Martino svuotò il pesce in acqua, s’inginocchiò dove batteva l’onda, infilò nella sabbia il cerchio metallico all’imboccatura della retina e lo tirò su scuotendolo. Gli avevo insegnato io quel metodo, in quel modo la sabbia passa attraverso le maglie e le telline rimangono dentro. Una buona tecnica per pescarne molte con poco sforzo. “Ero inginocchiata al suo fianco” mi disse Eleonora raccontandomi quell’episodio “continuavo a passare il palmo della mano rasente alla sabbia, ma i gusci delle telline mi sembravano tutti troppo piccoli.” «Che ne dici se ci riposiamo?» chiese dopo un po’. «Ma io non sono stanco.» «Non devi arrivare a essere stanco. Quando sei stanco, dopo non puoi
14 più continuare.» Sedettero sul bagnasciuga. Sotto al pontile sembra di essere in un corridoio che si restringe in lontananza, fatto di porte aperte sull’acqua; alla fine si vede una piccola veranda d’azzurro, cielo e mare eternamente immiscibili. Si sente la voce cavernosa dell’onda, a volte colpi così secchi da sembrare un uomo che tossisce. Là seppellivamo le brocche dell’acqua affinché rimanessero fresche. Ne avevamo parecchie, era acqua dolce che ci serviva per bere e lavarci. Per ricordarci la posizione le segnavamo con una canna che aveva in cima un pennacchio. “Lo guardavo” mi raccontò ancora Eleonora quella notte “vedevo ogni dettaglio del suo corpo mentre scavava. La curva della schiena lucida, i nodi della spina dorsale in evidenza e le costole che gli fasciavano i fianchi. Avevo una voglia tremenda di abbracciarlo; mi coglie ogni volta che mi sta vicino ed è intento a fare qualcosa e non mi presta attenzione. Il desiderio mi prende alla testa come un liquore forte, mi dà ebbrezza e mi annebbia la ragione. Mi sono proibita di abbracciarlo, è un giuramento che ho fatto anni fa. L’abbraccio è una materializzazione troppo esplicita dei miei sentimenti.” Mi disse che quel pomeriggio c’era andata vicina a confessargli tutto, forse perché erano soli o forse perché la voglia di abbracciarlo era cresciuta a tal punto da non poterla più contenere. “Ho paura Lariano. Se Martino non capisce a me non resta più niente.” Il loro rapporto era fatto di legnetti e lei si preoccupava di metterne da parte ogni giorno in una piccola catasta. Bastava una parola sbagliata, un abbraccio, e tutto si sarebbe consumato con un’unica fiammata. Poi sarebbe restata solo cenere, il vuoto, l’abbandono. Lei voleva aumentare il combustibile a dismisura, giorno dopo giorno, lavorando a testa bassa, facendo in modo che alla fine la legna fosse così tanta che non sarebbe bastata nessuna fiamma a consumarla. «Martino…» lo chiamò in quel momento. «Sì Eleonora.» «Se raccogliamo le telline quando sono più grandi, dentro al guscio ci sarà più da mangiare. Ci conviene, no?» «Hai ragione, non ci avevo pensato.» «Ti piace stare qui?» «Sì.» «E con gli altri bambini? Ti piace stare con loro?» «Sì... sono un po’ strani.»
15 «Sono fatti a modo loro.» «A volte ho un po’ paura che li venga quella cosa e magari iniziano a digrignare i denti, e quegli occhi e…» «Non ne parliamo adesso. Torniamo a raccogliere le telline, ci siamo riposati abbastanza.» «Io ero riposato anche prima.» Ripresero a lavorare. «Pure Lariano è buono.» «Ti diverti con lui?» «Molto.» Martino le passò una tellina, fu nel sollevare la testa per afferrarla che Eleonora si accorse di ciò che stava accadendo. Colse un movimento nella spiaggia, vide Mariano alzarsi dai sassi e scendere in acqua. Si mise a correre, strillò per cercare di richiamarlo, ma lui aveva lo sguardo fisso al largo e avanzava nell’acqua che dopo qualche passo gli arrivava già alle clavicole. “Ero sola” mi raccontò “non c’era nessuno che potesse aiutarmi, era tremendo. Gli altri bambini restavano seduti sui sassi e sembrava che per loro non stesse accadendo nulla. È andato sotto; correvo e la distanza sembrava non diminuire mai. È riemerso per un attimo, ha preso ad agitare le mani, si è svegliato dal suo incanto, forse per lo shock del passaggio tra il caldo della spiaggia e il terrore freddo dell’acqua che gli impediva di respirare. Annaspavo con le mani, tentavo di aprire l’acqua e afferrarlo. Aveva già smesso di lottare, ma quando sono riuscita a raggiungerlo si è rianimato.” Quella sera mi mostrò i segni rossi delle unghie che le scavavano gli avambracci. Lo riportò a riva, lo colpì qui, sul petto, col pugno chiuso. Martino li aveva raggiunti e saltava come se la sabbia scottasse. Eleonora fece girare Mariano su un fianco e picchiò con la mano aperta sulla schiena. “Ha vomitato saliva e quel poco che aveva pranzato. Dopo un po’ il respiro si è acquietato e il viso ha ripreso colore; sbatteva le palpebre, aveva sabbia attaccata sulla fronte e sui vestiti, ne aveva tra i capelli che mi sembravano erba incendiata. L’unica cosa che per tutto il tempo era rimasta uguale è la Macchia.” Quella di Mariano partiva dalla clavicola e si arrampicava su un lato del collo per fermasi sulla guancia. Era bruna, somigliava a ruggine.
16 Mi disse che dopo, quando tutto era più calmo e lei sedeva sui sassi con Mariano avvolto in un lenzuolo, contò quanti eravamo alla spiaggia: se stessa, io e i bambini. Otto. Un numero pari. Sì, avrebbe dovuto portare fortuna. Tu tornasti quella sera? Credo fossero circa le nove, molto più tardi del solito. Non avevamo orologi per misurare il tempo, non ne avevamo bisogno. Avevo il cappotto e la camicia strappati, non sentivo più il braccio per il bruciore e perdevo sangue. È quella cicatrice che hai là, quella specie di bruciatura? Estate 1928 Davanti allo stabile c’era un piazzale di cemento. Ogni sera accendevamo un fuoco, era confortante posare lo sguardo sulle fiamme che frustavano l’aria e lasciare che i pensieri andassero a posto da soli. Lo usavamo anche per cucinare quando dentro faceva troppo caldo, ma soprattutto serviva ai bambini. A loro piaceva stargli intorno. Restavano assorti per ore o ci correvano vicini con le braccia aperte; le ombre che si proiettavano sulla facciata dell’edificio facevano sembrare che lì ci fosse una festa. Eleonora mi venne incontro; era tardi, avevano già cenato. Sulla faccia aveva appesa una domanda per il mio ritardo, ma trovò subito la risposta nel mio braccio e nelle raschiature sulla carena della moto. S’incaricò di portare dentro le borse e poco dopo ne uscì con della garza; intimò a Martino di fare attenzione ai bambini e sorreggendomi mi costrinse a seguirla fino all’acqua. Non chiese nulla, mi aiutò a togliere il cappotto e a sollevarmi la manica della camicia. Aveva il viso scuro ed era chiaro che non la smetteva un attimo di rimuginare su qualcosa. Iniziò a buttar fuori tutto nello stesso momento in cui poggiò la garza sulla ferita. Mi disse di quanto era successo a Mariano e poi parlò di lei e Martino seduti sotto il pontile. Il chiarore lunare guizzava su piccole onde di peltro che ci lambivano le caviglie; lontano, i faretti sulla torre costiera di Punta Crespa sembravano gli occhietti abbacinati di un animale notturno. «Questa è finita» disse una volta terminata la garza. «Lasciane un pezzo scoperto allora.» «Anastasio ti ha dato dell’altra garza?»
17 «Sì, è insieme alle altre cose.» «Aspetta qui e non rimetterti la camicia, altrimenti mi viene male fasciarla con le maniche di mezzo.» «No, vengo su con te.» «Hai paura di star solo al buio?» «Non voglio che fai la strada da qui allo stabile per due volte. Abbiamo già lavato la ferita e non c’è più bisogno che sto qui. Hai l’aria stanca Eleonora.» «È perché sono stanca.» «Hai preso spavento questo pomeriggio, è normale.» «Ho preso spavento anche prima, quando ti ho visto tornare al buio con il braccio sanguinante e con la pelle staccata. Ma non è per lo spavento che mi vedi così, sono veramente stanca.» Raggiungemmo il piazzale; Eleonora si chinò su Anna e le sistemò meglio la coperta attorno alle spalle. Superò l’entrata priva di porta, attraversò l’andito rinfrescatosi al calare del sole. In fondo c’erano le scale che portavano di sopra, a sinistra un soggiorno e a destra la cucina con le borse sul tavolo, gonfie delle provviste che avevo portato. Rovistò per cercare dell’altra garza, io rimasi nello spazio della porta e mi accesi una sigaretta. In quel momento arrivò Martino. Era affascinato dalla ferita sul braccio; nonostante Eleonora lo rimproverasse, voleva che scostassi la garza affinché potesse vedere meglio. In lui c’era ancora lo spavento per ciò che era successo a Mariano, ma fu dall’episodio del Pesce Ragno che partì a raccontare. Mi unii a lui nel prendere in giro Eleonora per la sua goffaggine. Lei ribatteva che ero io quello goffo perché ero cascato dalla moto maciullandomi un braccio. E chi la spuntò? Nessuno. Lo facemmo così, senza metterci d’accordo, per stemperare la tensione e per cercare di far dimenticare a Martino l’immagine di Mariano sdraiato sulla sabbia a cercare di respirare. Estate 1928 Eleonora prese una scatola di latta dalle provviste, era blu notte con alti palazzi dalle finestre impilate, strade affollate di bolidi affusolati che si lasciavano dietro code di luci rosse, in lontananza un aerostato sospeso sull’orizzonte che imbruniva. L’aprì, porse un biscotto a Martino.
18 «Dallo a Mariano. Chiamalo in disparte quando glielo dai e sta attento a non romperlo altrimenti non lo mangerà più.» «E per me?» «Tu puoi mangiarlo domani, insieme a tutti gli altri.» Quando Martino se ne andò, accesi la lanterna a petrolio e la misi sul tavolo accostandoci il braccio. «Quella maledetta buca non l’ho proprio vista.» «Dovresti andare più piano.» «Fino alla settimana scorsa quel tratto di strada era a posto. Sono sicuro che hanno gettato la terra ricoprendo una vecchia trincea.» «E oggi invece c’era un bel fosso al posto della strada. È stata una primavera piovosa ricordi?» «Io ricordo di aver fatto un bel volo. Mi sono grattugiato il braccio e la schiena.» «Puoi ritenerti fortunato, potevi sbattere la testa e invece non hai nulla di rotto. La moto?» «Non lo so. L’ho spinta fin qui con un braccio solo perché non mi andava di risalirci, mancava poco e non ho nemmeno provato a metterla in moto. C’è qualche ammaccatura e graffi sul fianco; domani mattina controllerò se ha qualcosa di più serio.» Si chinò sul mio braccio per terminare la fasciatura. «Cosa dice Anastasio?» «Tante cose.» «Di che tipo?» «Parla della guerra, del Giudicato e della ricostruzione di Punta Crespa. A volte sembra parlare da solo e io non lo capisco e non gli chiedo conto di ciò che dice.» «Anastasio è vecchio, ma è un tipo in gamba.» «Non dico il contrario.» «Domani mi racconterai meglio, per stanotte non credo di poter assorbire altro. Questa intanto è a posto.» Diede una stretta secca al nodo tagliando con i denti la parte in eccesso di garza. «Domani sera la cambio, o forse l’altro domani ancora così risparmiamo in bende; sei un adulto e puoi tenere i denti stretti. Farò un po’ d’ordine tra queste cose per adesso…» Rovistò un attimo fino a che le mani non incontrarono la superficie morbida di un panno che avvolgeva una bottiglia. Portò la bottiglia alle lab-
19 bra, mandò giù e stette per un attimo ad assaporare il ritorno caldo del liquore. Mi passò la bottiglia e io le feci un cenno di ringraziamento prima di bere. Il primo sorso di quella roba mi fece increspare le labbra. Aveva un sapore secco come fosse corteccia. «Stavo pensando» dissi «l’ombrellone là fuori può essere visto da Punta Crespa?» «No, siamo coperti dagli alberi.» «Forse dovremmo toglierlo.» Bevetti un altro sorso e mi affrettai ad aggiungere: «Come precauzione.» «Ho detto che non si vede da Punta Crespa.» «Magari qualcuno che si addentra nella pineta potrebbe scorgerlo.» «Io… non mi va di toglierlo. C’è sempre stato, prima o poi volerà via da solo.» Le restituii la bottiglia. «Non abbiamo mai parlato di ciò che c’era prima.» «Cosa vuoi dire?» «Non so. Cosa facevi prima di arrivare qui?» «Non c’è nessun prima» mi fissò un attimo come se stesse pensando a ciò che doveva dire «pensiamo al presente Lariano, è la miglior cosa da fare.» Bevette un altro sorso e mi passò nuovamente la bottiglia, dopo prese a sistemare le provviste dandomi le spalle. Io tappai la bottiglia e la misi in mezzo all’altra roba. Fuori mi accolse l’odore di aghi di pino che bruciavano. Chiara era accanto al fuoco con una manciata di foglie in mano, senza prudenza. Aveva la carnagione pallida e una sottile vena azzurrognola le percorreva la tempia sinistra; il calore del falò le faceva il viso rosso come quando si tiene stretta nel pugno una lampadina accesa. Sul suo vestitino c’erano fiori sparsi con i petali scuciti, il vento le spingeva il fumo in faccia ma lei non se ne curava. Feci qualche passo avanti per andarle incontro, vedevo che si avvicinava troppo alle fiamme. Si piegò leggermente sulle ginocchia poi slanciò le braccia in avanti e gettò le foglie; ci fu un crepitio e si levò uno spruzzo di scintille che sparì nel buio. La chiamai, lei si voltò verso di me, ma i suoi occhi puntavano al cemento della piazzola. In quel momento pensai che avremmo dovuto prenderci cura dei fiori affinché un giorno potessero crescere; è già difficile che questi possano sbocciare sulla sabbia.
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CAPITOLO 3
Ha braccia forti e una volontà che sembra scolpita nel ferro. La pelle è ancora scura dall’estate scorsa, lo stesso colore della gente di mare. Lui è appartenuto al mare per un’estate soltanto, ma sembra che il sale gli sia penetrato nella pelle e il fragore dell’onda gli agiti il sangue. Ha l’aspetto selvaggio della corrente al largo, figlio della marea che s’arrampica sull’arenile. Sono sicuro che con quelle spalle, con quei bicipiti, mi farebbe sudare per buttarlo a terra. Deve possedere una resistenza infinita sotto a quel torace e un grado di sopportazione al dolore ancora più alto. Anch’io mi sono rafforzato lavorando la terra, zappando l’erba e tracciando solchi, ma la mia pelle non è tesa come la sua e il mio volto non è liscio già da quell’estate. Potrei batterlo con l’astuzia, sopraffarlo con l’imbroglio; non sarebbe corretto, no, ma se dovesse rendersi necessario non potrei provvedere in altro modo. Non che sia stupido. I suoi ragionamenti sono lineari, ma anche molto concreti; se una cosa non è utile lui non la fa. Adesso è meglio che pieghi di nuovo la schiena e avvicini la faccia al suolo altrimenti il lavoro non finirà nemmeno per l’ora di pranzo. C’è l’erba da estirpare, se non lo faccio finirà per soffocare la lattuga. Maledetta erba; più la sradichi e più sembra farsi rigogliosa la settimana dopo. Guardalo, non si ferma nemmeno un attimo per dar tregua alla schiena. Vorrei sapere da dove prende tutte quelle energie. Prima che arrivassi tu c’era un rapporto privilegiato tra me, i piatti e l’acquaio. Lui non mi ha mai aiutato in questo. Dopo tutto quello che hai preparato a pranzo mi sembra il minimo. Non è stato nulla di speciale. Ma voi cosa mangiavate alla spiaggia? Principalmente patate, quelle erano il nostro pane. A volte con le trappo-
21 le catturavo qualche coniglio nella pineta, ma non ce n’erano molti. Raccoglievamo i fichi d’India e spillavamo le more dai rovi mangiandole a manate. Prima ridevamo nel guardarci la lingua e i denti neri e poi ci disperavamo perché le mangiavamo calde e ci facevano venire dei brutti mal di pancia. I pesci li prendevo al fiume. Nuotavo da sponda a sponda e lo sbarravo con una rete. Lo facevo verso sera, quando l’acqua era torbida e i pesci non riuscivano a vedere la trappola. Poi usavamo le telline come condimento; Eleonora le cuoceva con delle erbe in padella, ma le prime volte abbiamo mangiato sabbia perché non sapeva che andavano lasciate in acqua a spurgare. C’erano i viveri che ci passava Anastasio: scatolette di carne, biscotti, latte e tè. Per cucinare cercavamo di usare il meno possibile la stufa che era in cucina. Per via del caldo, capisci? Eleonora beveva sempre il tè la mattina, le piaceva o forse lo usava semplicemente come surrogato del caffè. In un pomeriggio come questo cosa facevate di solito? Estate 1928 Stavo sulla soglia del soggiorno al piano terra, valutavo se era il caso di rimediare al rattoppo sul soffitto dell’andito; si era formato un buco nel solaio tempo prima e avevamo messo delle tavole per coprirlo e impedire che qualche bambino ci infilasse per sbaglio il piede. Eleonora e Martino sedevano al tavolo, io ogni tanto guardavo le pagine dell’antologia dalla quale lui leggeva. I volti stampati sulla carta avevano la stessa disperazione che c’era in giro per la vita. Li trovavo tutti falsamente tristi. Scrittori, poeti, saggisti. Tutti morti prima che arrivasse la guerra. Lo provavano le poesie che Martino leggeva a voce alta. Se l’autore avesse conosciuto la guerra non avrebbe infuso quell’allegria alla tristezza. Con quei versi estrapolava la bellezza che è racchiusa nel dolore, ci affondava dentro il pensiero per tirar fuori una sfera lucente da un groviglio sanguinolento. Il dolore sembrava per quell’autore un passaggio necessario, un sudario con cui vestirsi per andare in giro a declamare versi - dal buco di un proiettile si tira fuori solo sangue e non c’è niente di allegro in questo - se quegli autori avessero conosciuto il vero dolore non l’avrebbero più cercato con tanta leggerezza. «Basta con quello» fece Eleonora. Forse anche lei aveva avuto la mia stessa impressione. Chiuse di colpo l’antologia con il dito di Martino ancora in mezzo alla pagina.
22 «Adesso posso andare a fare il bagno?» disse lui. «No, l’hai già fatto questa mattina.» «Non ho fatto il bagno.» «Eravamo in acqua non ricordi?» «Sì, ma stavamo raccogliendo telline.» «È la stessa cosa, quando siamo usciti avevamo tutti e due le dita molli. Cosa succede quando si sta troppo in acqua?» «Che si diventa come sapone.» «Appunto. Leggi qualche altro libro adesso, c’è quello di geografia.» «L’ho già letto due volte quello.» «Allora prendi una pagina del libro e ricopiala, così farai esercizio di scrittura.» «Ma Eleonora io…» «Martino.» «Loro giocano!» C’era Mariano seduto sul pavimento che faceva strisciare una vecchia calza di Eleonora. Questa calza aveva cinque nodi e somigliava a una salsiccia o ai vagoni di un treno. Ogni scompartimento era riempito con qualcosa: sassi, sabbia, erba, e ognuno di essi dava una sensazione diversa al tatto. Michele era accovacciato su una sedia e la faccia non si vedeva per via dei capelli dal taglio femminile che gli ricadevano davanti. Aveva un pastello rosso che impugnava come fosse un martello, si ostinava a farlo roteare su un foglio. Chiara si pizzicava il vestito dietro al collo e cercava in tutti i modi di sfilarselo, doveva aver poggiato le spalle al muro perché erano bianche d’intonaco. Emilio era seduto in terra a modellare con le dita della posidonia, accanto a lui c’era Anna che aveva il viso rivolto a Eleonora, ma con gli occhi fissava una manciata d’alghe portate dentro dal vento. «Devi studiare Martino, devi fare esercizio.» «Perché Eleonora, perché? Loro non lo fanno.» «Martino» urlò lei squadrandolo e sollevando un dito. «Ma tocca sempre a me studiare?» «Dovresti essere contento di poter studiare.» Martino chinò lo sguardo al tavolo, Eleonora proseguì: «E io cosa dovrei dire che devo cucinare per tutti e lavare la roba di tutti? Sistemare questa specie di casa, spazzare via l’intonaco che continua a staccarsi e riempire tutto di polvere, rifare i letti e trascinare l’acqua dal fiume fin qua e sciacquarvi quando puzzate. E non azzardarti a sbuffare
23 adesso o ad andare in giro pestando le cose.» Martino si alzò, andò verso una mensola nella parete e tirò giù il libro di geografia. «Avanti, ricopia quella pagina, e fallo con attenzione perché dopo controllo. Voglio vedere se fai le “ti” diritte e le “esse” che sembrano delle esse.» Eleonora si alzò. In quel momento Chiara prese a piangere, aveva il vestito sulla testa e tutto il resto di fuori. Mariano abbandonò il suo treno di stoffa e scappò fuori senza un motivo. Sento un ritmo sincopato provenire dal buio, fa parte del sogno mi dico, mentre mi scopro a mugolare e muovere la testa di scatto come per evitare un pugno. Il sogno è finito, è il solito, quello dove vedo la terra dall’alto e lo scintillio dei fiumi nel pomeriggio. Quel ritmo mi sta strappando dal sonno, ma prima ancora di aprire gli occhi sento l’odore di pulito che riempie la casa. Nel soggiorno c’è una luce grigia. Troppo tenue, troppo simile alla notte. Ci deve essere in arrivo un bel temporale se a quest’ora del pomeriggio c’è così poca luce. Mi strofino la faccia, sembra che stia tornando dopo uno svenimento. È la radio in cucina che porta quel ritmo, suona un charleston passato di moda. Lariano? Luisa è all’ingresso del soggiorno, nella nebbia che ancora mi offusca il pensiero riesco a notarla solo quando si muove e si stacca dalla credenza che occupa gran parte di una parete. Mi viene incontro, mi metto dritto sul divano; ha un largo sorriso sulle labbra, uno straccio per spolverare le sbuca da una tasca della veste e ha due tazze in mano. Spero che la radio non ti abbia svegliato. Scuoto la testa. Per svegliarmi meglio e per negare che la radio mi abbia svegliato. Ascoltavo il radiogiornale, ma poi mi sono ricordata che oggi è mercoledì e c’è quel bel programma di Olivia Staldi, si chiama… si chiama…
24 ah, maledetta testa vecchia, proprio non mi viene in mente adesso. Non pensarci. Ti verrà in un altro momento quando non te lo aspetti. Prendi, prima che mi passi di testa pure questo e si raffreddi; ho preparato del caffè. Grazie. Peccato che non riesca a ricordare il nome del programma. Sono convinta che da una certa età in poi siano talmente tante le cose che accumuli dentro alla testa che iniziano a sovrapporsi, una cosa si nasconde dietro l’altra e tu non riesci a vederla bene per richiamarla. Comunque, il mercoledì c’è questo programma e lo presenta questa ragazza, Olivia Staldi, dico ragazza perché dalla voce io non le darei più di trent’anni; è un’esperta di musica sai? Sì? Mette sempre del charleston alla radio. Be’, questo fa di lei un’esperta di musica... Ridiamo. Ai lati del viso di Luisa si formano delle onde, il suo volto è un lago di montagna che rispecchia il cielo. Ha i capelli grigi come il cemento schiarito dal sole, lo scialle le scivola dalle spalle per i sussulti e lo rimette al suo posto con una mano. Con l’altra tiene la tazza di caffè e io noto per un attimo il brillio delle due fedi che porta al dito. Sta arrivando un bel temporale. Mah, non direi. Sono cadute un paio di gocce qualche ora fa, ma adesso il cielo è sgombero e tu potrai guardare le stelle questa notte o ascoltare il vento sotto il susino. Aspetta… qualche ora fa? Sì, saranno state le tre o le tre e mezza. Cosa? Perché adesso che ore sono? Le sei. Le sei? Ho dormito così tanto? Sì, ma non preoccuparti, ne avevi bisogno Lariano. Hai ancora molte notti insonni da recuperare. C’era l’erba da estirpare. Non preoccuparti ti dico. Avanti, torna a sederti comodo. Ha già fatto tutto il lavoro da solo? Sì. Tutto? Ne sei sicura?
25 Certo. Porca miseria; all’improvviso mi sento inutile, Luisa. Macché. Visto che sei riposato e qui siamo soli, perché non continui il tuo racconto? Estate 1928 Era un’alba buia, Eleonora e io sedevamo sulla cresta della spiaggia, alle nostre spalle c’era una fascia d’erba che si agitava appena nella brezza del giorno nascente. Il piazzale di cemento era silenzioso, lo stabile e i pali della corrente erano l’unica cosa che spiccava da terra in quella fascia, poi il terreno sabbioso saliva, l’erba si diradava e infine iniziava la linea della pineta che occupava tutto l’orizzonte a est. Eleonora teneva un lenzuolo sulle spalle e soffiava sulla tazza di tè che si era preparata. «Vedo la terra dall’alto: campi coltivati, granai, stalle, strade di campagna che serpeggiano tra macchie di vegetazione. Lo scintillio dei fiumi nel pomeriggio.» «Almeno sogni qualcosa di piacevole.» «Quello è solo l’inizio.» «E poi che succede?» «Cerchi di luce che sbucano dalle nuvole; i riflessi del sole sulle eliche. Sono belli, ma solo per un attimo, il tempo necessario per capire che con quei cerchi sono sincronizzati dei mitragliatori.» «Deve essere terribile stare là sopra. Voglio dire: sei cosciente che non puoi fermarti e scendere se qualcosa va storto, non è come andare in moto.» «Ci abituiamo a non pensare a quell’eventualità.» «I piloti dovrebbero essere le persone che meglio affrontano la vita.» «Perché?» «Vivere è come salire su un aereo da combattimento.» Ci pensai un attimo. Mi trovai d’accordo ma aggiunsi: «Abbiamo un’alternativa» toccai la pistola nella fondina di pelle allacciata al fianco; era una Luger, un trofeo di guerra rubato al nemico «questa è la nostra assicurazione, lei ci risolve qualsiasi imprevisto. Se ad esempio l’aereo dovesse andare in fiamme, lei le spegne.» «Appunto, esattamente come nella vita.» Io afferrai delle alghe e presi a stropicciarle, un po’ nervoso perché trovavo che Eleonora avesse nuovamente ragione. «Questa… missione. Questa missione che ti sei imposta può essere una
26 cosa pericolosa.» «Ti sembra che siamo in pericolo?» il suo tono mutò come l’intensità dell’onda dal mattino al pomeriggio. «Ricordi cos’è successo quando sono arrivato su questa spiaggia?» «Credevo di essermi spiegata; il passato e il futuro è meglio lasciarli dove stanno. È come se fossimo arrivati nudi in questo pezzo di mare.» «Avanti, non è trascorso nemmeno un mese. Era inizio estate, non puoi parlare di passato in questo caso.» «Lo vedi lo stabile?» «Sì, lo vedo.» «Guardalo Lariano, guardalo per favore.» Voltai la testa in quella direzione. La facciata era scrostata, delle finestre rimanevano solo le croci degli infissi senza vetri. «È come se fosse nostra madre. Non ci sono mobili dentro, né oggetti di valore, l’intonaco cade, la pittura è ingiallita. Ci sono solo letti nelle camere, tavoli, sedie al piano terra e quella vecchia stufa che ho rattoppato per poter cucinare. È un guscio di cemento vuoto che ci ha accolti, proprio come una madre che ti accoglie nudo.» «Una madre si preoccupa del futuro dei propri figli, come fai tu con Martino; non ti prenderesti la briga di fargli studiare quei libri se non vedessi almeno uno spiraglio.» Non rispose, finì di bere il tè a piccoli sorsi e si tenne le mani calde con la tazza. «Mi hai quasi sparato, ricordi?» «Tu non vuoi proprio stare alle regole vero? Forse volando ti è entrata troppa aria nel cervello.» «Indossiamo un casco di pelle per impedire che questo accada.» Mi guardò, poi guardò dentro alla tazza vuota. «Non ti ho “quasi sparato”.» «Già, mi hai proprio sparato. Fortuna che la tua pistola era scarica altrimenti mi avresti ucciso.» «Non è vero, avevo mirato per mancare il bersaglio.» In quanti hanno provato a spararti, Lariano? Vuoi dire a parte le Ali Nere? Quasi tutte le persone importanti nella mia vita: Eleonora, Anastasio e tu Luisa.
27 Estate 1928 Le domandai perché la pistola era scarica. «Ero nella pineta a caccia di conigli.» «O da queste parti ci sono dei conigli molto furbi oppure hai una pessima mira. Avevi finito tutte le munizioni, probabilmente anche quelle di scorta. È strano che Anastasio ci rifornisca di abbondanti munizioni per la tua Glisenti.» «Hai ragione, sono una pessima tiratrice.» «Cazzate. Quella bambina si deve essere rivoltata contro di te.» «Di chi parli?» «Di Alessandra. Non ho dimenticato cosa mi ha detto Martino. La prima volta che l’ho incontrato era sotto il pontile e quando gli ho domandato se lui e i bambini vivevano qua da soli lui mi ha parlato di te e Alessandra. Il resto l’ho immaginato col tempo. Il vestitino che stendevi, quello era di Alessandra.» «No che non era di Alessandra.» «L’hai detto tu stessa, ed era strappato.» «Ciò che faccio non ti deve riguardare. Non hai da controllare la moto?» «Credi che non sappia cosa accade ai bambini con il Tocco di Strega?» «Non hai da controllare la moto?» «Più tardi, non vorrei che il baccano del motore svegliasse i bambini.» «Si alzeranno con il sole alto, avrai molto da attendere a startene là seduto senza far nulla.» Si mise in piedi e scosse la gonna per liberarla dalla sabbia. «Ho molto da fare invece.» Anch’io mi tirai su. «Per prima cosa ho intenzione di sistemare questa fasciatura» arrotolai la manica della camicia fino al bicipite; la garza pendeva mollemente «non so dove hai imparato a fasciare una ferita, ma è sicuro che lo fai nel modo sbagliato.» Eleonora indurì le labbra. Mi fissò mentre disfacevo il suo lavoro, poi prese la direzione dello stabile a passo spedito. ),1( $17(35,0$ &RQWLQXD