Santo Spirito

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CARLO ROGATO

SANTO SPIRITO

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SANTO SPIRITO Copyright © 2012 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-459-8 In copertina: Immagine proposta dall’Autore

Prima edizione Ottobre 2012 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova


Grazie alla mia mano destra che ha creato, agli occhi di mio padre che hanno corretto, alla bocca di Antonella che ha concretizzato l’intenzione. Dedicato alla mia Ispirazione, alla Concentrazione di lui, alla Volontà di lei. * * * “Sì come una giornata bene spesa dà lieto dormire, così una vita bene usata dà lieto morire.” Leonardo Da Vinci

Gli opali sacri celati in queste righe vorrebbero placar lo struggimento dell’anima, ma se la tua continentia d’ora in poi rifiutasse l’azzardo disvelato, caro lettore, allora tutto il mio dire qui affronta e qui dimentica.



PREFAZIONE

Questo libro è intitolato Santo Spirito perché Santo ne è il protagonista, perché è stato completamente concepito in un campo santo, perché le mani che ora stanno scrivendo appartengono ad un umile traghettatore d'anime. Se aveste avuto tra le mani il manoscritto originale, avreste sfogliato pagine bagnate dalla pioggia, macchiate di terra e caratterizzate da una pessima grafia, perché scritto su scomode postazioni quali glaciali lastre di marmo e gallerie d’ossari appena illuminate dalla fioca luce di dimenticati lumini impolverati. Vogliate perdonare sin d’ora tutte le mancanze o gli errori che troverete scorrendo queste pagine, frutto di un pensiero creativo, scevro da qualunque frenesia cittadina e influenzato da una miriade d’altrui echi, da fugaci visioni e da spiazzanti sensazioni a fior di pelle. Che quelle folgoranti impressioni siano figlie di una genuina suggestione o di una spiccata veggenza, entrambe causate dall'atmosfera del luogo in cui è stato concepito, è un dubbio che l’autore non potrà mai estirpare dalla coscienza del lettore, ma è anche vero che costui molto probabilmente non ha mai trascorso decine d’ore al giorno, per quasi un decennio, in un misterioso e affascinante cimitero di Milano, in cui l'autore ha visto centinaia di migliaia di anime varcare la soglia dell’eternità. Non tutti i frequentatori di un cimitero hanno però, la sensibilità o semplicemente l'interesse di oltrepassare la mera materia ma, se colui che dona la pace al corpo di un defunto sigillandolo nella nuda terra, ha una coscienza progredita e un serio intento spirituale, allora potrà percepire il limite oscuro dove l'energia dei due mondi s'intreccia. I gatti di un cimitero avvertono la trasumanazione degli Spiriti che evaporano dalla terra al cielo, anche i corvi se ne accorgono e talvolta giocano brutti scherzi ai deboli lembi di Spirito di coloro che sono stati insignificanti esseri umani. C’è un incommensurabile mondo che forse tutti dovremmo osservare. Questo libro non tratta di morte, nessuno, a mio avviso, potrebbe darne una descrizione veritiera, almeno non con le comuni parole di un essere umano, questo scritto è stato semplicemente partorito e battezzato nella terra di mezzo, tra la vita e la morte.



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I

Un ultimo sospiro e le venne dentro con tutta la forza che il suo bacino poteva sferrare. Le rimase poi disteso addosso, un po’ per puro piacere, un po’ perché quello scomodo giaciglio non gli permetteva di coricarsi al fianco dell’amata. Sì, la sua amata che sembrava ancora calda in confronto a quel letto di metallo. Ancora poche ore e anche quest’altra fàce che aveva infuocato la sua anima gli sarebbe stata portata via. Succedeva sempre così, il suo cuore si era ormai abituato a legarsi tanto intimamente e con la stessa fugacità a dover cicatrizzare il dolore per il brusco abbandono. Nonostante ciò non smetteva di amarle tutte col più elevato e sincero sentimento che il suo Spirito potesse provare. Già i primi bagliori ricoloravano l’asettica stanza che accoglieva tutte le sue notti, monotone o dilettevoli che fossero. Si fece forza, si avvinghiò per l’ultima volta a quel corpo con tutta la più disperata ritualità racchiusa nell’addio a un defunto e si congedò da lei con un sussurro di casto amore a fior di labbra. Da quel momento in poi sarebbe diventato un altro, un professionista senza volto e nome, un anonimo necroforo di Milano. Dopo aver sistemato come da prassi il corpo della giovane donna, riempiendo di ovatta la bocca e le cavità nasali, le fece indossare un imbarazzante sacchetto di plastica al posto degli eleganti e sensuali slip che più sarebbero convenuti a ornamento di un tale sublime corpo. Accese una grossa lampada sul bel volto di ninfa mostruosamente immobile… una punta di spillo ferì inaspettatamente i suoi occhi al sibilo del folle amore che gli sussurrò ancora negli orecchi. Premette il palmo della mano sinistra sulla fronte, con la destra estrasse una sigaretta e una nuvola di fumo dissolse immediatamente il suo esitare. Finì l’opera da gran maestro. Truccando quasi impercettibilmente quel viso smunto, capovolse totalmente l’impressione che destava agli occhi. Prima era una morta ammazzata che portava inesorabilmente i tratti degli ultimi istanti di orrore vissuti, con la mascella contratta, la fronte corrugata, quasi la poveretta volesse imprimere attraverso quel corruccio d’onde sulla pelle il nome scritto in corsivo del suo assassino. Il morbido gabbiano del labbro superiore era pressato, saldo a quella gengiva che aveva avuto il compito di difendere per tutta la sua breve esistenza. Ora, colei che si era prestata a far da tela all’anonimo Leonardo che operava in quel freddo laboratorio, pareva la bella


8 addormentata nel bosco, più attraente e più viva di qualsiasi essere vivo per davvero. Che smisurata crudeltà sarebbe stata quella creazione agli occhi del padre della giovane che, folgorato da quella visione, avrebbe cominciato a invocare mille volte quel così noto nome alle sue labbra finché non sarebbe stato capace di pronunciare più alcunché. Santo il necroforo si sedette sulla sua solita sedia all’ingresso della camera ardente. Aspettò gli operai del giorno, e quando giunsero si congedò con un sorriso trasparente e un cenno del capo. Ormai erano anni che da ambo le parti si evitavano accuratamente. Ai colleghi necrofori non piaceva quell’essere ambiguo, esangue, che passava intere nottate coi morti in solitudine, che non aveva mai chiesto alla direzione di essere spostato nella turnazione diurna pur avendone tutti i diritti, visto che oramai compariva sempre e soltanto la sua firma sul registro di tutti i servizi notturni da un periodo talmente lungo che la stessa direzione, per constatarne l’integrità mentale, lo aveva richiamato a più riprese. A segnare la totale rottura degli operai del giorno con Santo furono i tagli sul personale, a seguito dei quali si ritrovò permanentemente solo ad affrontare il turno della notte. Egli non batté ciglio, non cambiò espressione, nessuna lamentela, nessuna richiesta per una migliore posizione economica a fronte del maggior carico di lavoro. Da allora i suoi colleghi lo privarono anche di quel caffè alla macchinetta che di tanto in tanto gli offrivano, giusto per sentirsi a posto con la coscienza. Lui non sembrò far neanche caso all’ostilità di quel gruppo di energumeni materialisti che trattavano carcasse umane come fossero sacchi di patate, infarcendo le orecchie vuote e passive dei defunti di efferate discussioni sul rigore non dato nel derby della sera prima o sull’ultimo calendario hard di una qualsiasi show girl della scuderia “televisione immondizia”. S’incamminò veloce attraverso il lungo viale alberato, spoglio di gente ma affollato di precipitate foglie morenti che coloravano l’asfalto con le tipiche tinte della stagione dei morti. Aspirava avidamente quell’aria intrisa di austero freddo e umido silenzio. Pochi passi ancora e si ritrovò sulla strada principale che lo ricollegava al mondo dei vivi. Si sedette sulla panchina. Attese pochi minuti ed ecco giungere l’autobus di linea che lo avrebbe condotto nel cuore della città. Scese alla solita fermata di fronte alla maestosa cattedrale gotica di Milano. Il suo sguardo era fugace a discapito di quell’incredibile monumento di beatitudine mista a timore, e di sovrannaturale perfezione. Le alte guglie, le forme di quei corpi e di quei vividi visi intrappolati nei bassorilievi non riuscivano a frenare quell’irrigidimento corporeo e quell’irretita ansia che lo sconquassavano terribilmente alla venuta dei primi raggi solari. Non si sentì al sicuro fin quando non richiuse dietro di sé il solido portone di legno scuro della cattedrale. Non che egli fosse un vampiro, ma si era talmen-


9 te disabituato alla luce del sole che quella prolungata esposizione al giorno pareva quasi gli ferisse gli occhi e lo debilitasse oltremodo. Eccolo finalmente attraversare l’ampia navata centrale! Percorso ogni centimetro di quelle sacre mura, con la delicata raffinatezza di occhi abituati ai particolari più soavi, celati e tenuti al sicuro dalla semioscurità, si andò a sedere sulla solita panca, vicino alla consolle dell’organo, posta sotto alla cassa cinquecentesca di destra, nell’angolo più buio e meno frequentato di tutta la chiesa. Amava stare vicino al luogo dove musicisti anonimi al popolo attivavano la mostruosa potenza sonora di quelle sedicimila canne. La maestosità e l’imperiosità dell’organo erano state concepite proprio al fine di spaventare e di far prender coscienza alla plebe dell’infinita potenza di Dio. Sia l’enorme vastità fisica di questo strumento, sia l’esagerata mole di suono che ruggiva attraverso le sue migliaia di canne, erano il convincente monito per destar in tutti il timore verso l’Infinito. Sfuggevoli i suoi occhi percorsero tutta la zona a lui circostante. Poi, con circospezione, Santo estrasse dalla tasca una ciocca di biondi capelli e la respirò avidamente. Con essa si sfiorò guance e labbra ancora intorpidite dal freddo. La sensazione era esilarante e al contempo misteriosa e sacrale. Un brivido d’energia, la cui fonte derivava da ogni angolo della chiesa, come se quell’enorme edificio dormiente all’improvviso avesse aperto i suoi quattro grandi occhi, ognuno alla sommità di ciascun angolo. Il loro sguardo ultrasecolare pareva essere dotato di un magnetismo quasi tangibile, quasi visibile a occhio umano, sembrando per un impercettibile istante soffermarsi sul volto di Santo. Il potere della morte. Si scrollò dalle membra quel divinatorio inturgidimento e si rimise in tasca quel potentissimo amuleto che era appartenuto alla folta chioma della sua ultima amante. Santo, un essere assai misterioso per chiunque lo avesse incontrato per strada. Alto più di un metro e novanta, con fianchi marcatamente stretti, dal tratto tipicamente adolescenziale, e ampie spalle a coronare un imponente torace, mani lunghe e robuste e una lunga chioma di capelli corvini e lisci a incorniciare un volto eccessivamente pallido e glabro, quasi non avesse ancora raggiunto la maturità. Gli occhi, nel loro tratto, erano affilati come quelli di un gatto: le ciglia erano folte, le sopracciglia nobilmente arcuate e due iridi, nere più della pece, celavano ogni sua emozione al resto del mondo. L’immenso Duomo di Milano! Amava perdutamente quel luogo, era l’ancora di salvezza per la sua folle anima. In quel sacro sito purificava il suo Spirito, confessava i suoi ricordi, il suo vissuto, così intriso d’arte, di blasfemie e di grottesche abitudini e poco gli importava a chi andasse realmente il suo dire,


10 se a Dio, a un demone, o semplicemente a se stesso; era il suo modo per pacificarsi col mondo. In quei frangenti ricordava spesso la notte in cui conobbe l’affascinante Dafne. Il primo istante in cui i loro occhi s’incrociarono, lui era proprio sopra di lei, entrambi totalmente nudi. Le era appena venuto abbondantemente dentro, senza chiederle il permesso, senza neanche sapere che lei fosse ancora viva. Sì, è una storia alquanto paradossale quella che lega Santo Neri, un anonimo necroforo della città di Milano, alla famosa contessa Dafne Monteghini, quasi quanto ciò che gira intorno alle più strane leggende popolari. Lei, una splendida donna quarantenne, di elevata eleganza, si presentò una sera di ben due anni addietro all’obitorio di piazzale Gorini per il riconoscimento del corpo del marito, morto schiantandosi a folle velocità contro un guardrail con la sua Ferrari. Quand’ella, qualche giorno dopo, ritornò all’obitorio per accompagnare la salma del povero marito al camposanto, ancora sconvolta per l’atroce visione di quell’ammasso di carne sanguinolento, di quel volto orrendamente gonfio e tumefatto che solo lontanamente rassomigliava al bell’uomo di cinquant’anni con il quale aveva condiviso metà della sua vita, restò stupefatta. La salma che le presentarono era semplicemente sensazionale! Era la statua di una divinità antica, dal bel corpo nobilmente proporzionato, adagiato in maniera inequivocabilmente elegante. E poi quel volto… mai suo marito era parso tanto bello e raggiante, nemmeno vent’anni prima, quando ella aveva avuto la fortuna d’imbattersi in lui. Più lo guardava più il suo dolore si trasformava in un inquietante senso di incontrollabile eccitazione. Improvvisamente credeva a tutto ciò che quel corpo da vivo le aveva sempre voluto far credere: “Con i soldi, mia cara, noi possiamo tutto, potremo sempre scamparla, sempre farla franca, in qualunque situazione avremo la nostra strada preferenziale che ci terrà al sicuro da tutto”. Ebbe immediatamente il viscerale impulso di spogliarsi completamente nuda e gettarsi sopra quel corpo immobile ma possente. Tutto ciò che riuscì a fare, però, fu solo una lievissima carezza sulla guancia del defunto, e l’impenetrabile gelo che quel corpo le trasmise la pietrificò all’istante. Chiese, chiese disperatamente chi fosse stato il curatore della salma di suo marito. Il suo abituale atteggiamento superbo e distaccato, tipico delle persone di alto rango, era dissolto, la sua voce aveva un tono supplichevole che imbarazzò gli operai dell’obitorio. Le riferirono che il loro collega della notte era una persona estremamente schiva, forse pericolosa. Loro ci avevano poco a che fare e non avrebbero saputo dirle dove abitasse e che tipo di vita conducesse. Quella potente signora, con i mezzi che aveva a disposizione, avrebbe potuto in un baleno sapere qualunque cosa sul conto di Santo, ma preferì ideare un


11 piano sensualmente romantico e diabolico in ugual misura. Contattò il suo medico personale e si fece procurare una pozione sconosciuta alla medicina moderna, una miscela d’altri tempi, un liquido capace di fermarle il cuore per una decina di ore. Lo stesso intruglio, le assicurò il dottore, che Giulietta assunse per fingersi morta agli occhi del mondo, la stessa potente magia che aveva ingannato finanche Romeo, la sua dolce metĂ .


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II

Dafne, di umili origini, non aveva inizialmente la giusta malizia per destreggiarsi negli altolocati ambienti frequentati dal marito. Nei primi tempi del suo avvento nell’alta società, infatti, la bella contessa soffriva intensamente affrontando quotidianamente il patinato vuoto di quelle riunioni, ma il suo ruolo le imponeva quel gravoso compito. Era la donna di un uomo potente e a lei spettava la gestione pubblica e mondana degli affari del marito. La superba ostentazione di quella società la rattristava immensamente e aveva imparato che il mostrare i propri sentimenti era sintomo di debolezza, così preferiva mascherare le proprie emozioni, mantenendo un controllato contegno. Una consolatoria amarezza l’avvolgeva tiepidamente nel richiamare alla memoria frasi dei “grandi” imparate a memoria per proteggersi da quel mondo di squali. Stendhal non diceva forse, nel “Il rosso e il nero”, che: “…soltanto gli sciocchi sono irritati con gli altri, una pietra cade perché è pesante. Sarò sempre un bambino? Quando dunque prenderò la buona abitudine di dare della mia anima quel tanto che devo in cambio dei loro quattrini, a questa razza di gente? Se voglio essere stimato e da loro e da me stesso, bisogna che dimostri loro che soltanto la mia povertà tratta con la loro ricchezza, ma che il mio cuore è a mille leghe dalla loro insolenza, e situato in una sfera troppo alta per esser raggiunta dai piccoli segni del loro sdegno o favore”. Poi R.P. Malagrida non insegnava che: “La parola è stata data all’uomo perché possa nascondere il suo pensiero”? Questa massima, inizialmente, l’aveva seguita alla lettera, comportandosi da posata e discreta dama di classe, regalando sorrisi, belle parole e gesti amichevoli a tutti, indistintamente, pur ritenendo gran parte di loro una massa di retrogradi, devastatori del buon gusto. Ma ben presto si rese conto che le sue moine e i suoi affettati modi non sortivano alcun effetto su quei goffi bipedi, per loro era quasi un obbligo il suo fare educato nei loro confronti. Di contro, questi ereditieri di nascita si prendevano la libertà di criticarla, di inventarsi storie tanto per sparlare sul suo conto, e addirittura qualcuno ebbe talvolta il coraggio di riprenderla in pubblico per dei suoi atteggiamenti poco consoni “a una signora che aveva avuto la fortuna di raggiungere quella posizione”, sottintendendo che solo grazie al marito poteva frequentare la crème della società.


13 Dafne si disperava confidandosi col marito che, pur facendo parte di quel mondo, aveva l’animo molto diverso dal classico stereotipo di ricco. La consolava dolcemente, sapeva accudirla come avrebbe fatto un padre con la figlia. Aveva dieci anni in più di lei, una differenza relativamente piccola a confronto della media delle coppie dei loro pari, in cui talvolta l’uomo sorpassava la donna di trenta o quarant’anni, ma in quei momenti egli assumeva un modo di fare tanto premuroso e comprensivo da sembrare il nonno di quella piccola creatura tremante che accoglieva tra le braccia. Le spiegava con un’infinita pazienza che lei avrebbe dovuto tener lontane le sue emozioni, i suoi sinceri impulsi e le sue idee dalla pubblica mondanità, e che, pur sembrando situazioni di svago, quelle feste, cene e serate fra amici erano delle vere e proprie riunioni di affari nelle quali si stipulavano alleanze, intese ed equilibri che avrebbero poi influenzato l’intera economia dei loro imperi. Lei sposandolo era divenuta la regina del regno dei Monteghini che, di generazione in generazione, era arrivato fino alle mani di lui. Quando cingeva tra le braccia la sua docile sposa, le sussurrava all’orecchio: «Tu sei la regina, recita il tuo ruolo di supremo comandante, usa la tua acutezza di spirito per render vani i loro sforzi di farti apparire inadeguata, usa le loro stesse armi per volgerle a tuo vantaggio. Sii amichevole e gentile, ma mantieniti nel medesimo istante distaccata e altezzosa; questi sono i migliori ingredienti per gestire l’alta società! Assumendo un’accigliata espressione di noia nei riguardi degli arroganti sancirai la tua sicura vittoria su quei fastidiosi interlocutori, che si mostreranno goffi e stupidi ai loro stessi occhi.» Cambiò. I consigli del suo uomo e la sua singolare intelligenza posero fine alla frustrazione indotta da quelle ore mondane. Una volta estratte, le sue unghie diventarono le più affilate e le più temute in tutti i rispettabili salotti della nuova aristocrazia. Di quelle importanti sere di galà la contessa Dafne Monteghini divenne l’indiscussa regina, incoronata dalla sua abituale espressione da “eccesso e noia”, tipica insegna del suo rango. Tra i suoi ospiti lei si distingueva sempre per essere la tigre, colei che con acuta scioltezza sapeva criticare quei bignè ripieni di soldi, sapeva trovare il difetto, un qualsiasi cedimento in ognuno di loro, per sferrare il suo attacco e vivacizzare il salone con l’eco delle risa di coloro che in quel momento avevano scampato la pungente freddura, e dello sventurato a cui era toccata la stoccata e che, per non dare l’impressione ai signori e alle signore presenti di essere stato colpito nel vivo - cosa che sarebbe stata alquanto di cattivo gusto, poiché un individuo della sfera superiore della società aveva come prima qualità l’essere sempre distaccato e inattaccabile da tutto - rideva talmente forte da coprire tutti gli altri col suo rumoreggiare che raggiungeva, a tratti, soprattutto nelle dame, il tipico riso isterico della disperazione.


14 Alla conclusione di una serata in cui lei era stata degna del più intrigante salotto dei Tolomei, Dafne stava ancora pavoneggiandosi orgogliosa della sua performance con il suo compagno, quando quest’ultimo l’ammonì con un tono di finto rimprovero. «Mia cara, stai diventando più cattiva e astuta di Lucrezia Borgia, comincio a temere anche per me stesso.» E lei, sorridendogli e facendogli le fusa come una tigre che si finga gatta: «Mio adorato, mio potente Imperatore, ciò che attuo con gli altri l’ho appreso in toto dalla tua fierezza nel gestire il mondo e non potrà mai ritorcersi contro di te, sei tu che stabilisci le leggi di questa dimora.» E lui, parandole dinanzi uno sguardo che tentava di forarle il corpo per leggerle l’anima, disse: «Mio aguzzo gioiello, il tuo dire mi pare quasi un gioco di parole. Max Stirner diceva che “la volontà del dominatore è legge. A che ti servono le tue leggi se nessuno le osserva, a che ti servono i tuoi comandi se nessuno li esegue?”» Lei assunse subito un’aria ferita. «Quando mai ti ho contraddetto pubblicamente?» «Tu non ti scontri mai con me, sei più furba, mi raggiri melliflua e tutto va secondo i tuoi piani.» «Oh no, Carlo, questo non puoi dirlo di certo! Che io spinga in favore delle mie idee perché talvolta le ritenga più consone a una determinata situazione, questo sì, ma che si faccia sempre come dico io, non è affatto vero! Tu sei l’uomo, la forza nella nostra dualità, e non posso assolutamente vincerti perché, come dice Stirner, “la forza precede il diritto”.» Lui le sorrise, fiero di aver una così perspicace damigella a suo fianco, e le ribadì: «Sì, precede il diritto. ma, mia bellissima devota, per arrivare ai tuoi scopi tu non percorri mai un sentiero diritto, procedi sempre di sbieco e mi precedi!»


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III

Dafne, la famosa sera prima del piano che le avrebbe cambiato la vita, non aveva il completo controllo su di sé. Era tutta nel suo batticuore, polmoni e orecchie erano soltanto passive casse di risonanza per la grandezza di quei colpi ancestrali che le provenivano dal petto. Ella era incredulamente sottomessa a quell’oceano emozionale che la investiva; finanche i suoi modi, sempre esageratamente artefatti e misuratamente posati, si increspavano, si rendevano tortuosi e incrinavano la sua abituale cristallina vocalità. Parole pronunciate troppo forte inciampavano su quelle dette appena prima, balbettate e tremanti. Perse le sue facoltà razionali, abbandonò la mondanità del suo salotto frequentato da “ebbri pinguini impalati dai loro stessi smoking, pieni di soldi fino al buco del culo, tanto che la merda sono stati costretti a mettersela in testa… e quelle damigelle imbellettate che fingono d’esser, davanti ai loro maritini, bianche colombine timorose, e che in loro assenza divorano cazzi con la stessa velocità che hanno nello spender quattrini!”. Proprio queste furono le esclamazioni che le uscirono di bocca congedandosi da quella ciurma di idioti. Fortunatamente il suo maggiordomo ebbe l’accortezza di chiudere la pesante porta del corridoio non prima, però, di aver volutamente urtato una piramide di calici in cristallo che si frantumò sul pavimento con un agghiacciante boato che investì la sala degli ospiti, nella speranza che ciò coprisse le colorite esclamazioni della sua signora. Nel suo letto a baldacchino la donna fremeva all’idea di svegliarsi e ritrovarsi truccata come lo era stata l’incantevole Cleopatra VII nel suo mausoleo, acconciata nella stessa maniera dei faraoni egizi. Solo che la bella regina non aveva avuto la stessa fortuna che a lei sarebbe spettata, di rimirar con quale sfarzo e fascino si sarebbe presentata al cospetto della Morte. E poi la sua condizione attuale era sicuramente migliore di quella nella quale versava Cleopatra poco prima di morire, uccisasi insieme alle sue due schiave, Iras e Carmion, tramite il morso di un serpente velenoso. La splendida regina era andata incontro alla morte dopo la disfatta del suo ultimo amore, Antonio, dopo la morte dei figli, e dopo un breve ma devastante periodo di prigionia presso l’imperatore Ottaviano. Ebbe un fremito a ripensare alla sorte della divina regina cui lei tanto si ispirava. Mille volte aveva rivissuto il dramma di Cleopatra immedesimandosi in quella figura storica e leggendaria al tempo


16 stesso. Si immaginò per l’ennesima volta il petto della più ambita amante dell’antichità, ricoperto dalle ferite inflittasi di sua mano per la disperazione causata dalla morte di Antonio. Ottaviano l’aveva vista sdraiata su un modesto pagliericcio, con i capelli arruffati, sopraffatta dalla cocente febbre giunta per le infezioni di quelle ferite… oh, povera invincibile donna, le era capitato ciò che nessun essere femminile poteva non vedere come il peggiore incubo! Il suo dottore l’aveva assicurata che l’artista dell’obitorio sarebbe stato messo al corrente di doverla soltanto vestire e truccare, usando solo artifizi che non intaccassero assolutamente l’interno del suo corpo e le vie respiratorie. In quel letto Dafne realizzò che si sarebbe trovata totalmente nuda e non cosciente nelle mani di un estraneo che l’avrebbe toccata, l’avrebbe potuta guardare sotto ogni angolazione senza freni né inibizioni. Quel pensiero la fece arrossire come una bambina alla prima interrogazione a scuola, ma poi una vampata di calore si liberò dal suo addome. Cominciò a toccarsi, come non faceva da forse dieci anni. Santo vacillò sulle ginocchia man mano che riprendeva coscienza di sé. Dalla sua posizione in ginocchio, riacquistando il nitido uso della vista, gli si parò dinanzi il solito enorme muro di libri che copriva interamente uno dei quattro lati del suo monolocale. Sulla destra rivide la sua postazione elettronica, i fogli liberi, sparsi sul pavimento, libri aperti su pile di altri libri dalle intestazioni lugubri, in latino, tedesco, ebraico, rivestiti di pelle consunta e consumata, di datazione assai antica. Per un attimo Santo si sorprese quando notò il pentacolo di luce azzurrognola che lo circondava; poi pian piano ricordò tutto. Si alzò a fatica da quella posizione innaturale. Forse il suo corpo era stato ore piantato lì, inanimato e rigido come una statua di bronzo, come un cadavere. Durante quelle circostanze egli perdeva totalmente la concezione umana del tempo, diventava Spirito, capace di andare dovunque. Santo era ciò che gli antichi avrebbero definito uno stregone. Quei numerosi anni passati in volontario esilio dal resto degli esseri umani, l’avevano portato ad accrescere immensamente il suo sapere sull’occulto e la sua capacità di concentrazione per la realizzazione di magie che, ormai, avevano di gran lunga superato i classici trucchetti che solitamente gli esseri comuni chiamano “magie”. L’arte che più amava e che allo stesso tempo più padroneggiava era la capacità di separare il suo Spirito dal corpo e di farlo librare attraverso le sacre correnti dell’Unio Mystica, dove il tempo, lo spazio, le dimensioni e le genti passate, presenti e future si rimescolavano, colmando qualunque distanza potesse intercorrere tra loro e abbattendo qualunque logico muro che li avrebbe inevitabilmente separati. Era tutto a portata di mano, unito insieme, ma allo stesso tempo ogni monade di quel tutto era pienamente autonoma e indipendente.


17 Santo era perfettamente conscio dell’estrema pericolosità di quei viaggi astrali, il rischio di perdersi nell’infinito e di non riuscire più a tornare indietro era estremamente concreto. D’altronde egli si era prodigato in quegli anni ad affinare sempre più gli stratagemmi per proteggere la sua individualità, evitando di essere inghiottito dalla beatitudine della pura spiritualità. Anche se si trattava di beatitudine, non era certo il caso di abbandonare definitivamente il suo corpo quand’era ancora in perfetta salute e capace di donargli le preziose emozioni terrene di cui era ghiotto. Ormai sapeva molto bene che, prima di diventare Spirito, doveva legarsi a un’ancora terrena, a una cosa che non avrebbe potuto dimenticare in quella condizione non materiale e che gli avrebbe permesso di mantenere un briciolo di coscienza di sé, riportandolo indietro il prima possibile. È veramente cosa assai ardua spiegare senza essere fraintesi ciò che significa diventare Spirito. Le persone che praticano la meditazione possono all’incirca, se non capire, almeno intuire cosa provochi in un essere trascendere a Spirito. Il meditatore, quando entra in stato di trance, ha come l’impressione di uscire dal proprio corpo e di vagare attraverso galassie, epoche, e via discorrendo. Questa è soltanto una sensazione. Egli, tramite una visione veggente, intuisce i mondi e le dimensioni esterne alla nostra e si abbandona emozionalmente a questo miraggio. Quando il praticante di meditazione vede se stesso o meglio il suo corpo da fuori, in realtà incappa in un ingannevole gioco di specchi, perché egli agli effetti continua a restare nel proprio corpo, è semplicemente l’occhio della mente a immaginare di vedersi attraverso uno specchio che ha proprio sulla testa. Fin dagli albori della storia umana, grazie agli stregoni e agli sciamani dell’era preistorica fino a giungere ai moderni occultisti della nostra epoca come Steiner, Spallet, Crowley e molti altri, formule magiche, riti e sabba si sono succeduti fino ad arrivare alle più moderne tecniche di meditazione, per far prendere coscienza alle comuni genti degli invisibili fili che legano la nostra psiche allo Spirito che la sovra-determina. Ciò dà la possibilità anche ai profani di sperimentare l’idea di Spirito, ma è doveroso sottolineare l’ovvia limitatezza dell’esperienza visto che si tratta solo della sua idea; come dire, andiamo al museo della preistoria per avere un’impressione di cosa fossero i dinosauri. I maestri dell’anima ci rivelano le condizioni necessarie per poter entrare in contatto con ciò che è al di là della nostra parte conscia, per migliorare i confini della saggezza. È ovvio che dentro al nostro subconscio ci siano una coscienza e un sapere più vasti che nel nostro piccolo cervello razionale, una conoscenza dettata dalla terra ultra millenaria che ci sfama, dal nostro DNA che lega i nostri tratti e le nostre cellule alle più antiche dinastie della stirpe degli uomini. Ecco che se ci ricolleghiamo a ciò nasce la chiaroveggenza, l’intuizione delle cose che nessuno ci ha mai detto, che sono accadute o


18 che stanno per accadere. Però le intuiamo solamente. Sono cose talmente vaghe che, per percepirle, abbiamo bisogno del silenzio assoluto, di una ferrea disciplina per aumentare la nostra concentrazione, di una enorme sensibilità e capacità ricettiva per avvertire quei messaggi attraverso l’intuizione e aver poi anche l’abilità oratoria di trasformarli sotto forma di parola con un senso compiuto. Avviene tutto questo ai fortunati che possiedono queste qualità, anche se a volte neanche loro hanno una reale consapevolezza di tutto il lavoro interno che compie il proprio io per proporgli quelle intuizioni. Per quanto riguarda il discorso sulla capacità di diventare realmente Spirito, cioè un essere cosciente che si muove e sperimenta autonomamente, a prescindere dal corpo dal quale sia venuto, la cosa è alquanto diversa. Questa enorme e terribile abilità, che pressoché quasi nessuno conosce, e che per l’appunto gli inventori di tecniche di meditazione, alcuni occultisti e stregoni comprendono realmente, ha insito in sé una potenzialità divina che spesso disintegra il corpo o peggio ancora l’anima di chi la sperimenta. Coloro che sanno le procedure e gli incantesimi per attivarla, il novanta per cento delle volte non l’hanno mai vissuta, si limitano a comprenderla e già questo dà loro un potere inimmaginabile.


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IV

Pioveva a dirotto quando, verso le diciannove, una lunga automobile nera di marca americana, tirata a lucido, vetri scuri, attraversò il lungo viale alberato che portava alla piazza dell’obitorio. Le fronde delle querce s’incurvavano sotto al fitto vento che contribuiva a peggiorare la caduta di quelle gelide gocce e a rendere ancor più plumbeo quello scorcio di cielo che si intravedeva in mezzo alle cime degli alberi, perfettamente parallelo alla strada sottostante, che la fissava con il suo impassibile sguardo. Questa volta, però, pareva avesse quasi un sopracciglio inarcato per il disappunto. Si stava consumando un insulto e il sommo blu del cielo sopra le mortali teste non ammetteva che si prendessero in giro i suoi abitanti, i trapassati. Quattro orsi travestiti da uomini uscirono dalla porta sul retro del cortiletto dell’obitorio, la grossa auto aveva già il portellone posteriore spalancato. I quadrupedi estrassero la bara metallica dall’auto e la poggiarono sul carrello, sotto agli occhi sempre vigili dell’autista, del dottore personale e del maggiordomo della contessa. I quattro operai trascinarono il carrello oltre la porta e sparirono percorrendo un lungo corridoio bianco, asettico, illuminato a neon. Mentre i tre accompagnatori della contessa si affrettavano per raggiungere gli operai, un quinto individuo spuntò da una porta sul lato del corridoio, esordendo con una voce monotona e metallica. «Buonasera signori, potete gentilmente accomodarvi in ufficio per i documenti?» I tre, colti alla sprovvista, ubbidirono loro malgrado. Mentre il dottore sbrigava le varie pratiche, il maggiordomo si avvicinò all’autista. «Questa folle idea della signora non mi piace affatto. Saperla sola, inerte e con attorno quegli zulù, mi fa veramente girare le palle!» disse, quasi digrignando i denti. «Aspettiamo qualche minuto e senza dare nell’occhio inforchiamo il corridoio e diamo un’occhiata in giro, ok?» ribatté prontamente l’autista. «Ok» rispose l’altro. I quattro operai, intanto, avevano già aperto la provvisoria bara metallica e sfilato il lenzuolo che copriva il corpo apparentemente esanime di Dafne. Rimasero molto contenti dello spettacolo gratuito, anzi pagatogli, cui assistevano. Una bellissima donna, pallida, con pelle liscia, seni generosi e rotondi, coi


20 capezzoli rosa che guardavano in su, fianchi sinuosamente arrotondati, gambe dritte, muscolose e lunghe, e quel ciuffo di peli arricciati graziosamente disegnato attorno al pube. Non riuscirono a vedere altro, il viso era un accessorio secondario, di poca rilevanza. «Che esemplare di femmina!» esclamò il primo, con già le mani affondate sopra entrambi i seni. «È calda!» sussurrò lascivamente il più anziano avendo già fatto sparire due dita tra i peli pubici. «Dai, schifosi, adesso ve la volete anche chiavare?» esordì il più giovane. «Non dire cazzate, non mi avvicinerei mai a un pezzo di carne che dentro sta già marcendo. Solo che se non scherziamo un po’ noi che siamo gli unici due vivi… voialtri siete peggio dei morti in frigo!» replicò il vecchio, facendo ghignare rumorosamente il compagno “palpatore”. Inserirono la salma, stranamente non ancora perfettamente rigida, nel freezer e chiusero il pesante sportello della cella. Pochi istanti, e si spalancò la porta sul corridoio. L’autista e il maggiordomo si pararono innanzi a loro. «Oh, cazzo, siete pazzi? Mi avete fatto prendere un colpo. Che ci fate qua?» disse l’anziano. Il maggiordomo capì subito che la contessa era già al suo posto. «Scusate, cercavamo il bagno e ci siamo persi.» «In fondo a destra» disse il più giovane congedandoli con uno sguardo aggressivo. I dadi erano lanciati. L’idea più folle della contessa Dafne, stupenda quarantenne eccentrica, libertina ed eclettica, era ormai stata partorita e consegnata al mondo esterno. Gli sviluppi sarebbero stati tanto imprevedibili, quanto terribili. Il dottor Mosa non riusciva a pensare ad altro. Aveva quarantacinque anni ed era amico della famiglia Monteghini da quasi quindici; alle loro stranezze ci era abituato, ma quest’ultima follia della contessa era alquanto terrificante. La perdita del marito le aveva dato un autentico dolore, ma pure una liberazione totale dagli ultimi, pochi freni che ancora si poneva. Ora era soltanto una ricca ereditiera, affranta dal dolore, che non doveva più dar conto a nessuno. Egli aveva dovuto accettare suo malgrado di diventare complice di quel blasfemo piano, e non era assolutamente per una questione di denaro. Mosa, come del resto la stragrande maggioranza degli uomini che giravano attorno a Dafne, era stato dapprima attratto dal naturale eros che ella trasmetteva spontaneamente, fino a innamorarsi perdutamente della sua persona. Il dottore, inizialmente, era molto più legato al marito di lei, con il quale condivideva partite a golf, a poker, le classiche cene in famiglia e i vizi segreti dell’alta società, comprese le prostitute di alto rango. Ragazze bellissime ed espertis-


21 sime che non aspettavano altro che essere comandate. Insieme i due uomini si erano ritrovati finanche a condividere lo stesso letto con tre o quattro freschissime ninfe che si rotolavano e si concedevano lascivamente a tutte le loro più malate richieste. Fino a che… fino a che un bel giorno, come d’abitudine, il dottore entrò nella sala d’ingresso di villa Monteghini, chiese al maggiordomo di essere annunciato al conte e, dopo pochi minuti gli si parò dinanzi la contessa Dafne, avvolta in un aderentissimo e sensualissimo abito nero da gran galà. La sua pelle bianca faceva tanto contrasto con il nero del tessuto che gli sembrava di vedere annebbiato, come se attorno alle parti nude del bel corpo un’aurea luminosa l’avvolgesse misteriosamente. «Buonasera dottor Mosa, temo di darle una spiacevole notizia, ma mio marito è partito d’urgenza per un affare. Posso alleviare almeno un poco la noia e il fastidio causati dall’annullamento dei suoi prossimi piani, visto che ormai è qui, concedendole la mia modesta compagnia, giusto per consumare un aperitivo insieme?» Ricordava ancora perfettamente ogni singola parola del loro dialogo. «Se è così, non posso che rimettermi totalmente nelle sue mani, che poi, a ben guardare, mi paiono divine» rispose sorridendo, sorridendo sempre più. Ella lo prese sottobraccio e s’incamminarono attraverso il labirinto di corridoi e immense sale che componevano la sinfonia di quell’immane villa. Giunti a una stanza, con luci soffuse, arredata con poltrone di velluto rosso, moquette nera e pareti violette, ella lo sospinse su una poltrona di fronte a un letto rotondo, anch’esso rosso porpora. A quel punto, con un filo di voce la contessa sussurrò a bruciapelo al dottore. «La perizia di quelle docili ragazze che lei e mio marito frequentate è tale da farvi credere che al mondo solo le donne pagate siano le migliori compagne nel letto?» «Come? Io e suo marito… mai!» provò a balbettare lui. «Io le dico che mio marito è un egoista e non è nemmeno un raffinato buongustaio per quanto riguarda l’eros e il sesso. Le assicuro che io sono una cortigiana sensazionale, una donna tanto lasciva e libertina da far rizzare i peli, e non sono quelli, a chiunque riesca ancora almeno a respirare.» Stupendolo con tali ardite parole, pronunciate mantenendo pedissequamente un voluttuoso sorriso, con nonchalance lasciò cadere, come per magia, lo stretto tessuto che l’avvolgeva. Egli da quel momento l’avrebbe ricordata sempre e solo così, col bel corpo sinuoso e pallido, e quegli occhi di fuoco, assetati di lussuria. Mentre già si alzava dalla poltrona per lanciarsi su quella femmina, vide comparire da dietro a una tenda un giovanotto totalmente nudo, che afferrò Dafne con decisa voluttà. Lei, mansueta, si adagiò sul letto,


22 spalancò le gambe davanti ai suoi increduli occhi di dottore ormai poco lucido, per poi vedersi privato di quella visione paradisiaca da un paio di atletiche gambe di maschio che cominciarono a pompare freneticamente la moglie del suo miglior compagno d’avventure. Ciò cui assistette a bocca aperta fu un saggio di tale maestria e perversione femminile, che sarebbe stato più facile citare cosa non fosse accaduto su quel letto. Egli giunse a un fortissimo orgasmo senza nemmeno sfiorarsi. Finita la performance, il maschio scomparve così come era venuto. La bella contessa, ancor più attraente e affascinante di prima per l’odore di sesso consumato che aveva addosso e per quel rossore fanciullesco che le dipingeva il volto, assolutamente inconciliabile con la lubricità e la disinibizione con la quale aveva praticato posizioni e atti lussuriosi, gli si avvicinò con l’atteggiamento di una pantera pronta ad attaccare. Ancora nuda, si sedette sulla poltrona vicino alla sua, gli tolse dalle labbra la decima sigaretta che il dottore si stava fumando in quella sala e aspirò profondamente. «Mio caro bel dottore, mi spiace non essere mai stata invitata a un suo intimo ritrovo, mi sarebbe piaciuto affrontare le sue bizzarrie adagiata su un comodo letto di pizzo… oh, ma si è fatto tardi! Mi deve proprio scusare, ma ho da sbrigare un’infinità di affari di tutti i tipi, e non posso più trattenermi con lei.» In quell’istante si aprì la porta ed entrò il maggiordomo. «Prego signore, le faccio strada.» Lei era ancora nuda, sorrise. «Giorgio, una volta accompagnato il signore ritorna qui, abbiamo molto da fare…» Gli sudavano ancora le mani e ancora si eccitava a ripensare a quell’episodio. Nel tempo la contessa gli aveva regalato perle di raffinatissimo eros, che svariavano attraversando tutti i campi della sfera dell’eccitabilità mentale; sì, perché ella si limitava a ricreare solo visivamente e a inebriare con i più accesi umori i luoghi dei loro incontri, senza nemmeno farsi sfiorare da lui. Egli sapeva di essere totalmente nelle mani di lei e non se ne vergognava affatto, anzi, ne era felice.


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V

Beep! Il monotono suono del badge avvisò i colleghi del suo ingresso nel corridoio bianco dell’obitorio. Santo sorrise loro. «Buonasera colleghi.» «Ciao Neri. Stanotte hai solo una salma, noi andiamo.» La meccanica voce del collega più giovane, l’unico che ancora gli parlava, lo informava sul lavoro. Punto. Da quel momento in poi non avrebbe udito più nessuna voce umana. Indossò il camice bianco, si legò i bei capelli corvini e, sigaretta alla bocca, aprì lo sportello del freezer 1. Fece scorrere il carrello e scoppiò a tossire. «Mio Dio, bella regina delle ninfe, che ci fate qui?» Egli parlava a tutti gli inermi corpi con i quali si trovava a condividere la notte di quella stanza. «Voi non siete comune, sapete ancora d’ambrosia, di nettare degli Dei, che è caratteristica imprescindibile dell’immortalità della vita senz’ombra di morte.» La annusò, o meglio la respirò da capo a piedi. «Voi mi sconcertate, mi dite che siete qui per me, che non è la morte ad avervi fatta entrare qui dentro, ma l’interesse nel conoscermi. Ma questa è un’assurdità, cosa mai potete saperne di me?» Non era un visionario, non sentiva voci inesistenti nel cervello che rispondevano ai suoi quesiti. Egli sapeva che lo Spirito era strettamente legato all’odore, e che nelle salme fresche esso abbandonava lentamente il corpo attraverso i pori della pelle e intanto comunicava i suoi istanti di ex-persona vivente, i suoi gusti, le sue aspirazioni, il suo carisma. Tutte le coscienze delle anime morte, man mano che trasumanavano dal corpo dove avevano dimorato, si illudevano di essere ancora vive e comunicavano con Santo credendo di adottare ancora i classici sistemi umani dei cinque sensi. Si vedevano sedute di fronte a lui in una stanza, a chiedergli chi mai fosse, e perché i più prossimi parenti improvvisamente non rivolgevano più loro la parola. Era lui a creare i luoghi per quei dialoghi. Vestiva le varie anime che si susseguivano notte dopo notte con la sola forza della sua mente, e le coscienze di queste, confuse e intorpidite dalla morte, si lasciavano ingannare dalle visioni che egli mostrava loro. Il suo modo di fare era una maniera per preparare quegli Spiriti alla mor-


24 te, al passaggio dal regno della materia a quello dell’astratto. Caronte, il traghettatore dell’Averno, non era il solo ad attraversare l’oblio di quelle acque scure per trapassare coloro che non appartenevano più al mondo dei vivi. Ed ecco verso noi venir per nave Un vecchio, bianco per antico pelo, gridando: “Guai a voi, anime prave! Non isperate mai veder il cielo: i’ vegno per menarvi a l’altra riva ne le tenebre eterne, in caldo e ‘n gelo.” (Divina Commedia, Inferno, versi 82-87.) Santo, però, non era rude e torvo come costui, si comportava più da moderno psicologo con quelle vacillanti ombre. Aveva soppiantato, almeno per quelle poche anime che avevano avuto la fortuna di incontrarlo, il metaforico ruolo di Caronte il quale, con grossolana veemenza e senza un minimo di tatto, torturava quelle povere ombre che pensavano ancora di poter tremare e che non comprendevano affatto quel brusco passaggio di dimensione. L’occultista, in uno stato più profondo del trance stesso, si collegava a quei vaganti Spiriti e li preparava ad affrontare quell’importante viaggio. Ma questa volta qualcosa sbalordiva Santo oltremodo. Quando egli cominciava a comunicare con gli Spiriti, lo faceva attraverso il sesto senso, l’intuizione. Quindi tutto ciò che percepiva doveva poi trasformarlo in un messaggio che la mente razionale e i suoi cinque sensi di persona fisica potessero decodificare. Solo quando decideva di staccarsi dal corpo per diventare Spirito, adottando gli stessi identici parametri dei trapassati, si collocava sulla loro stessa lunghezza d’onda e tutto diveniva chiaro, come se un qualunque essere umano in carne e ossa stesse interagendo con lui. Nella fredda stanza di obitorio aveva sotto ai suoi occhi quest’orchidea di donna con un’anima che non solo era convinta di essere ancora viva, ma che gli pareva fosse talmente legata a quel corpo da comunicare attraverso l’aurea che questo emanava. Addirittura ella aveva scavalcato i soliti rituali di Santo per comunicare direttamente con lo Spirito di lui senza alcun preambolo. L’uomo si sedette allora a fianco di quel corpo, chiuse gli occhi e cominciò a sondare gli angoli più profondi della sua mente intuitiva. …in una bolla di velluto rosso, era adagiato su un morbido cuscino aureo. Lei, la bellissima donna, nuda di fronte a lui, gli sorrideva. «Buonasera mio bel principe, siete venuto a ridestarmi?»


25 «Ave, stupenda imperatrice. Ahimè, desidererei ardentemente il vostro risveglio per condividere questa terra con le vostre armoniose fattezze, ma purtroppo mi si spezza il cuore nel dovervi rivelare un fatto tragico per me, quanto innovativo e positivo per voi.» «Cosa mai mi dovete dire di così terribile per voi? Non ci conosciamo affatto, ma già fate parte della sfera più intima del mio essere, che fino a poco fa perfino io ignoravo.» «Mia cara, ora il vostro fascino appartiene ad altra dimensione. Non temete di abbandonare questo corpo, perché tanto la bellezza ve la porterete appresso e sarà eterna. Prima deciderete di guardare in alto e spingervi oltre l’oblio, e prima assaporerete la gioia di librare veloce sul tutto che ormai non è nulla per voi. Più state qui, più i vostri tormenti si trasformeranno in potentissime ancore che non vi permetteranno l’agognato balzo verso il cielo cui aspirerete, tra un po’ di tempo, con tutta voi stessa» disse lui con fare calmo ma perentorio. «Che mai dite, io sono viva, più viva di voi che a tratti avete l’aurea che sfugge al vostro corpo per poi tornarvi. Io sono qui perché ho brama di sperimentarvi, vi sprono a sperimentarmi!» Diminuì l’apertura delle sue palpebre e i suoi occhi diventarono quelli di un gatto, con lo sguardo tanto affilato da togliere il fiato. Si adagiò sul velluto in terra e sorrise come mai a nessuno aveva visto fare… Santo colpì con la tempia il bordo del carrello di metallo, sicché la sua caduta dalla sedia, oltreché improvvisa, fu anche spiacevolmente dolorosa. Si alzò di scatto, immemore del dolore, e fissò quel corpo apparentemente inerte. La visione appena vissuta nel suo intimo lo aveva sconquassato. Non era assolutamente andato in astrale! Avendo semplicemente avuto l’impressione che il suo intuito fosse stato ingannato dallo Spirito che trasumanava da quel corpo, che si fingeva l’aurea di una persona ancora vivente, aveva richiesto a una parte più profonda del suo intimo di illuminargli la faccenda. Ora era ancora più esterrefatto di prima. Solitamente, per gli Spiriti che trapassavano, creava un luogo ideale, affinché potesse poi accompagnarli più morbidamente possibile verso l’altra dimensione. Quelle solite immagini erano come sbiadite, leggere. Egli guidava quelle particelle di Spirito che trasmigravano dal corpo, le riuniva insieme e quasi egli stesso le aiutava a esprimere le loro stesse volontà. Questa volta si era ritrovato di fronte a un’anima completa, forte, che non stava vivendo nessun trauma per il trapasso. Quell’anima aveva creato essa stessa il luogo del loro incontro e aveva già una sua totale autonomia, come se avesse comunicato telepaticamente con un suo pari, fatto di carne e ossa!


26 Uscì in corridoio a fumare. Rifletté a lungo su quell’esperienza. Poteva avere di fronte un corpo posseduto e, una volta morta la legittima proprietaria, lo Spirito che condivideva quella dimora, ancora lì dentro, non avendo subito il passaggio dalla vita alla morte, era ancora nel pieno possesso dei suoi poteri e si burlava di lui. Nel frattempo chissà che tormenti attraversava la povera anima ancora intrappolata in quel corpo, con un demone come aguzzino. In quel caso egli doveva assolutamente scindere il destino di quelle due entità staccandole dalla materia che le legava insieme. Decise. Con il suo stesso sorriso che gli solleticava le labbra, avrebbe fatto ciò che quella visione gli aveva chiesto. Fare l’amore con un demone che faceva il parassita in un corpo estraneo per gustare illecitamente i piaceri della materia lo intrigava e lo eccitava perdutamente. Lo spettro non sapeva assolutamente con chi aveva a che fare, egli conosceva moltissimi segreti per imprigionare o spazzare via lontano un’anima, si trovava perfettamente a suo agio a vagare in astrale e in più aveva la forza di avere un corpo vivente a suo servizio che lo proteggeva incatenandolo alla dimensione materiale. Rientrò nella stanza, si diresse verso quell’autentico corpo di fata che racchiudeva in sé la coscienza dell’eros e del sesso. «Eccomi di nuovo qui per voi, stupenda creatura. Qualunque cosa voi siate, esaudirò ogni vostra richiesta con la più sincera voluttà e immenso appetito per quel pallido velluto che vi riveste.» Finito di dire ciò, era già nudo. Passò labbra e lingua, alternandole, su tutta la superficie di quel freddo corpo che parve quasi rianimarsi per un istante, tremando appena. Pochi attimi e il suo ardore di uomo passionale sfociò in una furibonda penetrazione di quell’immobile dea egizia. Pompava freneticamente inarcando la schiena e contraendo i muscoli dei glutei per lo sforzo e, al sommo del piacere, quando il suo seme e tutta la sua energia si materializzarono in quell’abbondante liquido seminale, le due palpebre sigillate della salma sotto di lui si aprirono mostrando due profondi occhi neri, spalancati per lo stupore e per il terrore insieme. Il cuore di Santo per un attimo inciampò, i suoi battiti si accavallarono, si fermarono pochi istanti, poi si cimentarono in una frenetica corsa che quasi lo uccise. Lei, pallida, ancora frastornata, non capì nulla per parecchi minuti. Guardava quell’uomo immobile e nudo, si sforzava di capire dove fosse, chi fosse. Lei era nuda? Avvertiva una sensazione di freddo insostenibile, e quando si rese conto che quel gelo le proveniva da dentro, fu presa da uno sgomento folle. La paura l’avvolse e la soffocò, e solo il più disperato istinto di sopravvivenza le fece aprire bocca. «Ti prego, abbracciami, ho tanto freddo.»


27 La voce che le uscì dalle labbra conteneva fragranze d’indifesa fanciulla e una punta acuta di disperazione che avrebbero fatto inginocchiare finanche il più altezzoso dei re. Di fronte a una simile richiesta tanto necessaria per quello spiro di donna ancora echeggiante nella stanza, Santo si ridestò da quella paralisi che lo teneva sospeso tra la vita e la morte e senza pensare fece la cosa più naturale che un uomo potesse fare per servire una madonna in pericolo. Si distese sopra lei, si avviluppò intorno al bel corpo con tutta la superficie di cui disponeva e la protesse con tutto l’amore che sgorga da un essere caduco per un suo simile, con tutta la tenerezza e la forza di un padre premuroso per l’unica sua figlia. Si baciarono, si strinsero muti. Ella piangeva irrompendo in fragorosi singhiozzi che le torturavano il petto e lui beveva dai seni di lei quei tormenti e la acquietava. «Ti amo» disse lui «rappresenti tutto l’impossibile della mia vita terrena, sei lo stupore per colui che tutto conosce.» Ella affondava il viso nel collo di Santo, lo martoriava con la levità di languidi baci alternati a efferati morsi, succhiandolo avidamente. La femminile isteria senza remore, senza controllo, quel bisogno di mantide, di divoratrice d’uomini, era presente tanto quanto la fanciullesca disperazione di una bambina spaventata che voleva fondersi con le braccia paterne. Le due antitetiche passioni si fusero in un unico moto e si risolsero nell’ebbro ardore di una pulsazione univoca, sanguigna verso il bassoventre, che la trasformò in un animale eccitato. Dafne aprì le gambe a quello sconosciuto e lo esortò, toccando il sesso di lui con febbricitanti mani, a penetrarla. Questa volta l’amplesso, alimentato da entrambi quei corpi iniettati di dionisiaca follia, esplose con un concentrato emozionale tale da lasciare i due amanti privi di sensi. La stanza è notte. L’aria è viva, respira. Eros e Thanatos sperimentano la tregua. Fu lui il primo ad aprire gli occhi. Fissò le sue mani, le mani di lei. C’era tutto, quel corpo, quell’incantesimo incommensurabile che lo aveva rapito al suo esoterico raziocinio. Ora egli era completamente desto e lucido e la sua implacabile coscienza aveva sete di spiegazioni. Urtò lievemente la spalla di lei con una mano e fissò quel volto che pian piano si rianimava. «Chi sei? Cosa significa tutto questo?» Lei riacquistò la sua lucidità e con essa la sua indole di donna d’élite. Sorridendo altezzosa e superba come Osiride incarnata, disse: «Ebbene Santo, sono stata io a desiderare questo incontro e, come hai già avuto modo di constatare, odio gli usi e i costumi convenzionali che la gente adotta per giungere a uno scopo. Io sono la vedova del conte Monteghini,


28 quel milionario che si schiantò due mesi fa in auto disfacendosi totalmente, a cui poi magistralmente tu ridesti un aspetto di tal nobile salma da non sembrare tanto bello neanche da vivo. Dopo la sua morte era nata in me la totale ossessione di come mi sarei presentata il giorno del mio funerale. Sarei riuscita a essere ancora l’affascinante donna che sono? No, non fraintendermi, intuisco già il disgusto dal tuo sguardo. Non sono assolutamente una persona superficiale che bada essenzialmente all’estetica, il mio io è totalmente dentro al profondo di qualsiasi cosa. Ho bisogno di estremizzare qualunque evento, qualunque idea o voglia mi si prospetti davanti. È la classica malattia di tutte le persone ricche, solo che io non accumulo oggetti come fanno certi benestanti, ma eventi, emozioni, squarci d’esistenza, di qualsiasi tipo. Quello che è successo qui, però, è un evento imprevisto della faccenda. Ho assunto un veleno che mi avrebbe dovuto far sembrare morta fino al pomeriggio di domani e ho incaricato io stessa il dottore di avvertirti di non praticare sulla mia persona nessun tipo di lavoro invasivo, limitandoti al mero trucco che le tue mani creano divinamente. Volevo apparir stupenda per gli invitati al mio funerale, che è già organizzato come fosse un giorno di gala, e volevo avere il privilegio di ridestarmi da quel profondo sonno e sgomentare tutto l’ottuso pubblico dell’alta società; volevo mirar la bellezza che avrei potuto offrire in dono alla morte, se non mi fossi mai destata. Ti sembra folle tutto questo?» Santo l’ascoltò a bocca aperta. Era la prima volta che un essere umano lo stupiva tanto. Rispose prontamente. «Folle? Mia incantevole dama, mi hai illuminato con le tue vicissitudini, posso ora permettermi di dire che i tuoi progetti non saranno assolutamente fermati dalla mia persona. Visto che questa tua stravaganza m’intriga oltremodo, voglio parteciparvi con tutto l’ardore. Prima, però, voglio svelarti un segreto che ti farà comprendere meglio la magica trasformazione di un corpo che passa sotto alle mie cure. Il trattamento, come superficialmente può sembrare, non è per nulla imputabile a una qualche perizia nel trattare un corpo, un viso. Questa mia abilità d’estrarre il sublime da un corpo inanimato lavora a un’altezza molto più profonda della sfera della materia. Poco prima di averti sveglia tra le mie braccia, ho comunicato con il tuo inconscio e a quel punto mi sono reso conto dell’anomalia che verteva attorno al tuo corpo lì disteso, apparentemente esanime. Devi sapere che l’anima di un individuo morto trasumana dal cadavere.» Gli occhi di lei lo fissavano ancora increduli sebbene ella, in cuor suo, credesse a ogni singola parola che gli veniva rivelata da quell’uomo magico. La sua bocca si aprì genuina e spontanea. «Trasumana?»


29 «Sì» rispose prontamente la maschile fermezza della voce di Santo «trasumana è un termine usato dagli occultisti per riferirsi a quella determinata trasformazione che scinde la materia dell’uomo che appartiene al mondo minerale dallo Spirito che tende verso la dimensione spirituale. Potremmo anche dire che lo Spirito trasuda dal corpo, evapora, e seppur attraversi un enorme cataclisma che gli dà l’impressione di vivere un incubo senza fine, riesce ancora a comunicare le emozioni e i pensieri, convinto di continuare a condurre la propria esistenza nella condizione terrena. Io semplicemente accompagno questo fragile Spirito verso l’alto, lo libero amorevolmente da tutti i dubbi che lo tormentano, che lo tengono legato al corpo. Esso in cambio mi lascia in dono le fattezze di un corpo che è già entrato in armonia con la sua nuova condizione di semplice materia inorganica e non si contrae più per respingere l’avvento della sua disgregazione; così sarà estremamente malleabile e facilmente plasmabile. Avendolo svuotato da tutte le controversie e gli attriti che si espandono man mano in ogni tessuto al sopraggiungere della morte che spodesta la vita, questo corpo si decomporrà molto più velocemente, e l’odore della putrefazione non raggiungerà i consueti livelli nauseabondi, caratteristica di questo processo chimico. Questo è il mio segreto. Ti ho spiegato molto a grandi linee, omettendo un’infinità di cose essenziali per comprendere un po’ di più questo argomento, ma è veramente impossibile poter esplicare tutto il sapere che si aggira attorno all’occulto in una sola notte, e questa non è certo la sede più indicata per intavolare una così vasta elucubrazione sulle modalità dell’esistenza.» Dafne aveva il volto buio e calde lacrime irrigavano il letto del fiume che lambiva i solidi colli delle sue gote. «Lui, mio marito… la sua anima ha sofferto? Non si meritava una fine così, nessuno la meriterebbe.» Santo, imperturbabile, pronunciò parole dure, quanto sincere e leali. «Madonna, la morte di ognuno di noi è necessaria per far evolvere il proprio Spirito e per lasciar spazio sulla Terra alle altre anime che devono sperimentare la materia. Gli esseri umani devono capire che il dolore è indispensabile, è l’attrezzo più valido di Dio per interagire con i suoi misteriosi figli della Terra. Baudelaire, da “I paradisi artificiali” a tal riguardo diceva: “La morte, che non consultiamo sui nostri progetti e alla quale non possiamo chiedere il consenso, la morte che ci lascia sognare felicità e fama e non ci dice né sì né no, esce bruscamente dall’agguato e con un colpo d’ala spazza via i nostri piani, i nostri sogni e le architetture ideali dove tenevamo riparata, in pensiero, la gloria dei nostri ultimi giorni!”» L’uomo si avvicinò alla donna e la strinse a sé. Quell’abbraccio sanciva la verità del loro respiro, dei loro affanni e delle loro emozioni, decretava la loro


30 esistenza di esseri ancora viventi, ancora capaci di sperimentare l’ebbrezza della materia. «Sei viva!» disse all’improvviso Santo «puoi ancora tutto e soprattutto devi ancora tutto alla tua sete di vita. Il dolore è una scossa che serve a farci affrontare con maggior vigore il resto della vita che ci rimane. Come ho già avuto modo di constatare, questa filosofia di pensiero tu l’hai già sposata in toto, quindi perdona la mia rudezza, ma il tempo stringe e se vuoi che si compia il tuo stravagante piano, ti esorto a ingurgitare ora un po’ di quella pozione magica che ti trasformò nella bella addormentata ch’eri poc’anzi, così che io possa trasformarti nell’immortale regina che hai sempre desiderato essere al cospetto del tuo funerale.» Dafne si scrollò subito di dosso quell’angoscia gettandola in pasto al suo bramoso coraggio di sperimentare l’esistenza. In quel medesimo istante si ricordò le premurose indicazioni del suo dottore. Costui teneva sinceramente alla sua bella contessa. L’aveva infatti ammonita sul fatto che la pozione che avrebbe assunto sarebbe potuta non essere abbastanza efficace per tutto quel tempo. D’altronde egli ignorava l’esatta dose da assumere per quel lasso di tempo stabilito e, temendo di sbagliare prescrivendole un sovradosaggio che l’avrebbe uccisa, aveva preferito essere parsimonioso nel consegnarle quel magico quantitativo. Ora Dafne si ricordava che, se si fosse svegliata nel cuore della notte nella stanza d’obitorio, il dottore l’aveva esortata a non spaventarsi e a cercare nella sua bella chioma il resto del contenuto della fiala che le avrebbe ridonato l’incoscienza. Infilò le mani tra i lunghi capelli lisci che componevano il suo fluente elmo di battaglia di divina ninfa dell’alta società ed estrasse la boccetta sorridendo. «Va bene, mio intrigante scultore, tra pochi istanti sarò di nuovo morta. Resterò qui, nuda, alla tua mercé, possa trattarsi di una violenta prepotenza o di una raffinata imbellettatura. Adesso sono nelle tue mani. Poi chissà, magari sarai tu nelle mie.» Così dicendo bevve in un sorso quel poco liquido della boccetta e rimase a fissarlo finché tutto non divenne vacuo, fumoso, poi nulla.


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VI

Quando sopraggiunsero l’autista, il dottore e il maggiordomo nel cortile dell’obitorio, il misterioso operaio della notte si era già dileguato. Era giorno, la presenza di un maestoso sole rotondo in quel cielo azzurro chiaro spiazzava un po’, essendo ormai ottobre inoltrato. A far capolino alla porta d’ingresso c’erano i soliti quattro rozzi individui già incontrati in occasione della morte di Carlo Monteghini, che fumavano e intanto discutevano riguardo un futile argomento calcistico con le ovvie imprecazioni che coloriscono queste disquisizioni di bassa leva. Il dottore, dopo un veloce saluto di routine, si scaraventò letteralmente con il suo seguito all’interno della camera ardente. Pochi secondi per abituare la vista alla penombra e i loro occhi s’incantarono sul capezzale della contessa Dafne, per poi incrociare i loro sguardi e leggere ognuno rispettivamente negli occhi degli altri lo stesso stupore. Era bellissima. Cercare altri aggettivi sembrava superfluo. Quando qualcosa racchiude il superlativo assoluto della bellezza, non si può aggiungere altro, altrimenti si rischierebbe di far calare l’attenzione sul più consono e ineluttabile aggettivo di quel caso: bellissima! Era vestita come Osiride, con la classica bianca tunica usata dalle nobildonne egizie che le fasciava l’attraente corpo sinuoso. Sarebbe stata in grado di spezzare il fiato a qualunque persona, uomo o donna che fosse. Indossava i tipici antichi gioielli che avrebbe indossato una regina di quel periodo. Erano quelli che il maggiordomo aveva consegnato a Santo per la vestizione del corpo, ma il modo in cui erano sistemati al fine di ornare la bellissima Dafne, era incredibilmente perfetto. Quegli ori e quelle pietre, così posizionate, sarebbero state in grado di giocare con qualsiasi tipo di luce per valorizzare finanche gli angoli di bellezza più nascosti di quel corpo, di quel viso… quel viso era più giovane, di una giovinezza incalcolabile, eppure apparivano millenarie quelle marmoree linee del volto, inviolabili, eterne. E quella magnifica chioma nero lucido? Pareva avesse microscopiche lampadine su tutta la sua superficie, abbagliando i comuni mortali. Quella donna rappresentava l’attrazione e si resero conto tutti che ognuno di loro avrebbe voluto possederla così, immobile, in quel medesimo istante. Il maggiordomo ruppe quel diabolico magnetismo esordendo con voce quasi tremante.


32 «Tutto è pronto nella villa, gli invitati ormai dovrebbero aver gremito l’intera antisala. Credo siate totalmente d’accordo con me nel portare noi stessi la contessa a destinazione.» Gli altri annuirono con la sola espressione del volto, ancora intorpiditi dall’incanto. Giunti presso l’imperioso ingresso della villa, già si scorgevano le schiere di automobili di lusso di coloro che non sarebbero mai mancati, per nessuna ragione al mondo, all’evento più tragico e più cool dell’anno, il funerale della famosa e discussa vedova Monteghini, morta suicida dopo appena due mesi dal tragico incidente che segnò la fine del marito. La sala principale era allestita a camera ardente con cangianti corone floreali dai più rari fiori esotici e con un esoterico miscuglio d’essenze che carezzava l’aria, rendendola armonicamente mistica. Dafne fu adagiata in un lucente sarcofago d’oro massiccio, egregiamente intarsiato, poggiato su una rettangolare pietra di marmo che realizzava fin nel dettaglio l’idea di una solenne ara. Intorno furono sistemati enormi candelabri d’oro e d’avorio, impreziositi da adamantini brillanti, coronati da bianche candele con su intagliata in bassorilievo un’antica e ben accurata simbologia egizia. Tutto richiamava la sfarzosa atmosfera di un faraonico mausoleo. Gli invitati, che già si deliziavano con gli squisiti spuntini della più fine nouvelle cuisine, affollando l’enorme antisala e le sale minori attorno alla principale, si ammutolirono all’istante quando si aprirono le imponenti porte di quella sala a cui tutti continuavano a dare cauti sguardi di circostanza, ogni qualvolta che da essa proveniva un rumore. I vari ospiti, in base al grado di parentela e alla vicinanza con la contessa, man mano si accodarono con grande circospetto alla fiumana di genti che avanzava verso la sala. Ben presto il luogo fu gremito di personaggi illustri, e tutti quei visi, molti stupefatti, alcuni con dipinta un’invidiosa espressione difficilmente celabile, altri rapiti da un misterioso deliquio, certuni letteralmente sbigottiti, formavano l’unanime specchio che rifletteva la visione che avevano davanti. La Bellezza era scesa fra loro a burlarsi dei loro sforzi per apparir gradevoli all’alta società. Pur essendo essi i legittimi proprietari di quel tempo, testimoni di prim’ordine dell’epoca contemporanea, con i loro smoking all’ultimo grido, scarpe lucide dalle grandi firme della moda, vestiti da sera dai tagli superlativi, costosissimi gioielli disegnati dai noti stilisti che decidevano le forme dell’aristocrazia moderna, si sentivano all’improvviso estremamente a disagio nelle loro ridicole vesti, calati nella plurimillenaria atmosfera dell’antico Egitto, al cospetto di una divinità immobile che li giudicava dall’ignoto oblio della morte. Il sincero dolore di molti dei presenti per la perdita di quella donna si trasformò in una confusionaria allucinazione. L’impressione che, forse, la matrona della


33 villa si sarebbe ridestata da quel profondo sonno cominciò a offuscare la loro già precaria lucidità. Qualcuno ebbe il coraggio finanche di invocare il nome di Dafne ad alta voce, scongiurandola di alzarsi. Dopo momenti di concitata turbolenza tra gli invitati, proprio quando tutto sembrava acquietarsi, un miracoloso scalpore segnò l’abbandono totale di qualsiasi tipo di contegno tra gli ospiti della villa. La contessa si mosse impercettibilmente, ma tutti lo notarono. Pochi istanti e quelle palpebre deliziosamente dipinte si aprirono svelando la profondità di due occhi neri, fissi nel vuoto, ma vivi! Il maggiordomo da un lato, il medico dall’altro, si avvicinarono immediatamente al sarcofago, consci di quello che stava accadendo, ma impreparati alla reazione che Dafne avrebbe potuto avere al suo risveglio. Cauto, il dottore le tastò il polso e si sincerò che il battito del cuore fosse regolare, mentre Giorgio, il maggiordomo, pronunciò il nome di lei a fior di labbra, accertandosi della sua totale ripresa di coscienza. Lei lo guardò per un apparente lunghissimo lasso di tempo che durò pochi secondi, poi gli sorrise. Gli occhi le brillarono e tutta la civetteria di astuta dama di corte immediatamente le dipinse in volto un’espressione trionfante. I due uomini la aiutarono a sollevarsi dal talamo funebre che la circondava. Bellissima, fu scortata fino alle quattro scale che portavano a un mini-palco simile a quello che usavano gli oratori greci, dello stesso marmo dell’ara che l’aveva sostenuta dormiente. Squarciò il chiasso della moltitudine appena schiuse le labbra. «Benvenuti, miei speciali ospiti! Grazie per aver presieduto al mio primo funerale. So che lo sgomento che vi ho procurato con il mio risveglio e il dolore che ho inflitto a coloro che hanno sinceramente sofferto per la mia perdita, vi sta portando adesso a provar un forte astio nei miei riguardi ma spero che, passato il batticuore, a mente serena possiate giudicare il mio gesto come un atto di profondo interesse nei vostri riguardi e di quelli di tutti i nostri salotti. La “noia” e il “tutto previsto” stanno trasformando le nostre vite in semplici “ingurgitatrici” di materia. Sembra che ormai noi benestanti non abbiamo più nessun altro scopo se non accumulare lussi, ricchezze, agi, che poi sono i diretti responsabili del nostro inaridimento interiore, tanto funesto che ci priva della possibilità di godere degli altri aspetti della vita. Questa nostra fortuna non è il fine cui dobbiamo aspirare, ma deve essere il mezzo che ci permetta di vivere il più liberamente possibile, godendo degli immensi, ameni frutti a nostra disposizione.» La moltitudine era affondata nel più totale sgomento: avevano assistito a un miracolo o era la più grossa presa in giro mai subita? La paura, mescolata al fastidio e al confuso vociare che immediato era ripreso non appena terminarono le parole di Dafne, rappresentò un paradosso maggiore della sua stessa resurrezione. I nomi di Dio, di Gesù e di molti Santi riecheggiarono


34 nell’ampia volta del salone; erano bestemmie, preghiere o semplicemente esclamazioni di stupore, che scomodavano tutte le somme porte dell’eterno. Tutti parlavano, ma nessuno dei presenti sembrava avesse il cervello collegato alla bocca, fino a che una robusta voce, con estremo cinismo uscì dal coro. Uno dei gentleman della compatta schiera degli smoking, brizzolato, sulla quarantina, con occhi vispi e fisico possente, ruppe quel crescente panico. «Mia signora, non ci chiederete adesso di spogliarci tutti e di percorrere le strade della nostra città chiedendo l’elemosina per i poveri come san Francesco?» Una modesta risata generale finalmente riabilitò le ciniche menti degli sfruttatori del globo, che man mano riacquistavano le loro sicurezze e con esse la loro impassibile compostezza. Tremavano ancora tutti, ma nell’istante in cui, seppur uno solo di loro, aveva dimostrato self control sfoderando la fondamentale freddezza del brillante uomo d’affari, imperturbabile di fronte a qualsiasi evento, di colpo tutti corsero ai ripari per recuperare la faccia. Loro erano i potenti, comandavano proprio grazie al fatto di riuscire a controllare ogni cosa. Dafne inviolata rispose. «Oh, mio carissimo ospite, sarebbe una cosa eroica e nobile. Purtroppo, però, né io né tanto meno voi possedete un cuore tanto grande e pulito. Su una cosa, però, ci siete andato vicino. Liberatevi dei vostri limiti e delle vostre convenzioni che vi fanno sembrar pinguini intirizziti e godetevi la vita una volta per tutte. Sì, mio bel signore, spogliarsi come ha fatto san Francesco sarebbe già un buon passo per iniziare…» E così dicendo sciolse la sua candida tunica da dietro e questa magicamente scivolò a terra rivelando la magnificenza del suo corpo. Il diadema sulla testa, le collane, i bracciali e la cintura, tutto rigorosamente in oro e pietre preziose rimasero finemente al proprio posto. Il lucore delle tremolanti candele si affollava tutto per riflettersi sul bianco marmo di quei seni, gonfi e rotondi e sulla pianura lattea di quell’addome di velluto. Poi c’era il brivido di quel triangolo rivelato dal basso ventre e dalle gambe, ch’erano i tre lati inarcati a precipizio su quel morbido pelo pubico che trascendeva ogni delizia. Il suo sguardo era rimasto fisso su tutti, senz’ombra di titubanza alcuna, e furono essi a imbarazzarsi, e molti di loro furono costretti ad abbassare lo sguardo. Lei sorrise con cerimoniosa lentezza, si voltò mostrando il resto delle sue nudità. Quelle spalle e quella schiena parevano una magica vela che il vento soffiava delicatamente inarcandola alla perfezione. I glutei appartenevano ai sogni più erotici dell’immaginario maschile e le gambe sulle quali erano poggiati erano la più naturale e armonica prosecuzione di quello splendore. Poi ella scomparve, inaspettatamente, da una porta nascosta sullo sfondo del pal-


35 co, lasciando ai maschi un’impotente irritazione. Tutti in quel momento rimproverarono loro stessi per la loro codardia e il loro imbarazzo di fronte a quell’invito tanto desiderabile e voluttuoso. E le signore? Le signore l’avrebbero baciata, ci avrebbero fatto l’amore senza remore, ma questo rimase un germe nelle loro coscienze, un intoppo tra lo sterno e l’esofago che presto ricacciarono giù affinché lo stomaco lo digerisse, per recuperare da quest’ultimo la loro invidiosa acidità dai classici schemi femminili, intrisa di turpi offese e critiche gratuite per la mancanza di bon ton e per l’eccesso di superbia di quella donna di basse origini familiari.


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VII

Santo si riabbottonò il lungo soprabito e riconcesse il suo pallido viso in pasto alla bramosia del pungente freddo autunnale, non prima però di aver indossato un paio di occhiali da sole a specchio che gli fasciavano completamente gli occhi. Percorse pochi metri immerso in quella sbiadita luce di un’uggiosa mattinata metropolitana. Si fermò alla piazza circolare subito dietro alla chiesa, estrasse la chiave dell’auto e si infilò in una Jaguar nera con i vetri oscurati. Erano trascorsi appena tre anni da quello squarcio di azzardi che aveva portato Santo e Dafne a riunire i loro destini e ad accelerare follemente la corsa della loro evoluzione, liberando le loro rispettive coscienze al pari dei loro istinti. Era come se le loro vite prima di allora fossero appartenute a un’incarnazione precedente. Ingranò la terza e con un colpo di gas sorpassò la fila di auto che procedeva lenta. Certo, a prima vista il cambio nello stile di vita di Santo riguardava soprattutto la sfera economica. All’improvviso poteva disporre di tutta la ricchezza e i lussi della contessa pur non avendo nessun vincolo o obbligo nei confronti di lei. Viveva in pianta stabile nell’enorme villa Monteghini, aveva la possibilità di consultare un’incredibile quantità di libri recenti e antichi sull’esoterismo e su tutti gli argomenti che potevano minimamente interessarlo. Oltre ad avere a disposizione la biblioteca ultracentenaria della famiglia Monteghini, coi mezzi economici di Dafne poteva permettersi il lusso di ordinare testi rarissimi dal valore immenso. In un angolo appartato dello smisurato parco che circondava l’imponente dimora, si era messo finanche a coltivare misteriose piante dalle proprietà magiche più disparate. Certamente queste libertà avevano splendidamente migliorato la qualità della sua vita, permettendogli cose inimmaginabili nella sua precedente condizione. D’altro canto era perfettamente conscio che tra lui e la bella contessa era avvenuto un equo scambio di ricchezze. Lui le aveva aperto le porte dell’anima svelandole i segreti dello Spirito. Si era stabilito al suo fianco, dandole la costante presenza di un essere perspicace e profondo con cui potersi esprimere liberamente, con cui poter sperimentare tutto. I due non rappresentavano propriamente una coppia nel senso comune del termine. Nessuno dei due era vincolato all’altro da qualche obbligo, non uscivano abitualmente insieme, non si presentavano in pubblico vicini, non ave-


37 vano nemmeno l’abitudine di condividere lo stesso letto durante la notte, anche perché Santo aveva continuato a occupare il suo posto di necroforo notturno all’obitorio. Egli, infatti, agli occhi dei pochi estranei che era solito incrociare, non aveva cambiato nulla nella sua vita. Si presentava ancora all’obitorio arrivandoci con l’autobus, la grossa Jaguar di cui usufruiva liberamente, la parcheggiava vicino alla cattedrale apposta per evitare di essere notato dai colleghi. Non gli piaceva affatto pavoneggiarsi delle sue fortune, tanto meno rispondere alle domande indiscrete che gli sarebbero piovute tra capo e collo. L’austero cancello automatico di ferro battuto si aprì e la Jaguar scomparve in quel rigoglioso verde che caratterizzava il parco di villa Monteghini. Lasciò le chiavi dell’auto al maggiordomo e salì l’ampia scalinata ottocentesca della casa. Entrò nell’immenso salone mantenuto in penombra grazie alle purpuree tende che si paravano mastodontiche sulle vetrate della balconata, e notò subito il bel corpo di una giovane donna adagiata supina sul sofà, completamente nuda, le gambe leggermente divaricate. Sembrava immersa in una sorta di trance, dopo aver abusato dei più sopraffini piaceri. «Credo di aver intuito cosa stiate pensando, mio bel centurione, ma quest’oggi questa schiava non è in condivisione. Non permetterò a nessuno, nemmeno a un romano di nascita, di avvicinarsi a lei!» Lui si girò sorpreso. Le sue labbra si schiusero mostrando la bellezza dei suoi denti imprigionata in un sorriso. Era Dafne! Egli impazziva sempre di piacere nel rientrare a casa per ritrovarsela a impersonare un qualsiasi bizzarro personaggio che le passasse per la testa. Comprese subito che in quell’occasione stava recitando il ruolo di Cleopatra VII, uno dei suoi preferiti. Indossava una lunga tunica semitrasparente, i seni erano maliziosamente scoperti, con i capezzoli dipinti con una scura tintura, gli ori e le pietre preziose su di lei erano quelle degne del suo ruolo. Era stato lui a insegnarle quei giochi e certe disinibite licenze, e in qualunque momento era pronto a seguirla in quell’eccentrica recita nella quale lo storyboard si decideva di secondo in secondo, dove tutto era istintivamente improvvisato e deliziosamente artefatto. «Mia Regina, il quadro che ho di fronte mi fa supporre che la vostra lussuria si sia sbizzarrita per l’ennesima volta, e ora, solo nell’immaginare cosa abbiate potuto chiedere alla bella fanciulla in deliquio su quel sofà, mi sorge naturale concedere a quell’anima, non ancora avvezza a simili licenziosi piaceri, il meritato riposo. Comunque ricordate che colui che chiamate centurione, con quel vanesio accento che vi contraddistingue, pur non esibendo come vossignoria il supremo titolo di re, rimane sempre il vostro signore, nel letto come nella reggenza del vostro regno sconfitto dalla supremazia di noi Romani;


38 quindi mi si spezza il cuore nel rammentarvi che in mia presenza non possiate proprio ordinare nulla.» La sinuosa Dafne s’adombrò in un lampo. Sembrò d’improvviso addolorarsi per davvero, come se le sorti dell’antico Egitto fossero ancora tutte da compiersi. Poi in un baleno tornò sul suo volto la tipica espressione di sfida dell’affascinante Cleopatra. «Mio bell’Antonio, voi Romani siete abilissimi nel conquistare terre e nell’assoggettare popoli, ma poi vi comportate come vampiri, perché alle genti sopraffatte voi rubate l’ingegno, le invenzioni, gli stili e proprio nulla siete in grado di creare veramente. E alla fine, per ironia della sorte, vi ritrovate a ubbidire alle idee degli stranieri che avete sottomesso. Pensate solo al calendario che ora utilizzate a Roma. Mi si spacca il cuore al solo rammentarvi, e il mio cuore vi assicuro che è molto più robusto del vostro, che l’amato Cesare fu tanto influenzato dalla sua conquista, che sarei io, che nel ‘47 inserì quella famosa riforma Giuliana che adeguava il calendario romano, basato sul ciclo lunare, con una durata variabile tra i 375 e i 378 giorni, a quello solare egiziano che contava 365 giorni e un quarto e ogni quattro anni arrivava un anno bisestile di 366 giorni. Tutti questi calcoli furono stabiliti da Sosigene, che è il mio geniale astrologo di corte, e Cesare li applicò tutti senza batter ciglio.» «Oh, quale arroganza si desta dalle affilate labbra della mia bellissima amante per giunger a ronzarmi malevolmente attorno agli orecchi. Prima di pavoneggiarvi nel dire che noi Romani abbiamo poca fantasia, imparate questa massima, che per ironia della sorte l’ha inventata adesso, seduta stante, un romano per le vostre raffinatissime membra. Le idee sono devote e si concedono a fiorire concretamente solo per chi ha il potere di metterle in atto, e questo non è certo cosa da poco visto che il novantanove per cento di tutti i pensieri di oggi e di domani sono già stati concepiti da qualcun’altro, e quel vacante un per cento appartiene all’inattuabile, all’utopia, che pure essa ha le sue radici intrise dell’influenza del già fatto!» A quel punto Santo mutò notevolmente l’espressione del suo volto distendendo morbidamente la maschera d’attore impostato. «Mia cara, voglio aprire una parentesi, tornando un attimo a essere me stesso, per dirti che con quell’atto Cesare si è accattivato appieno le mie simpatie, poiché stimo immensamente chi riesce a cambiare le regole del tempo in questa dimensione dimostrando che anch’esso, come tutto il resto, è soggettivamente interpretabile. Nella dimensione dello Spirito esso si svasa, s’allunga, si sfoca, perdendo tutte le sue matematiche convenzioni, e possono passare dieci anni in un secondo terrestre o viceversa, nulla è assoluto.» Lei gli sorrise fanciullescamente.


39 «Va bene, va bene, petulante romano. Vi concedo, anzi vi regalo la mia schiava, sin da ora potete farci quello che volete. E quando sarete tra le sue braccia, vi prego di non preoccuparvi della mia gelosia, saprò come riprendermi tutta la vostra intimità a tempo debito.» Così dicendo Dafne sparì nell’oscurità del lungo buio corridoio. Santo era stanchissimo dopo la lunga nottata in obitorio. Si tolse scarpe e giacca e si distese sul sofà, a fianco della fanciulla di seta, che non aveva dato nessun cenno di volersi risvegliare. Quando Santo riaprì gli occhi rimase storditamente disorientato. Il sofà su cui riposava era sparito, come del resto tutto l’arredamento intorno apparteneva a un altro luogo, di certo non al salone che aveva lasciato poco prima di addormentarsi. Dafne, eccentrica e fanatica com’era, usava spessissimo cambiare gli arredamenti delle stanze della villa. Erano le coreografie per le sue recite, diceva, e tutto doveva essere autentico durante le sue immedesimazioni nei vari personaggi della storia reale, della leggenda o della sua semplice fantasia. Santo, il suo prediletto compagno di vita, era l’unico altro attore del suo teatro immaginario, o meglio il suo pari protagonista. Tutti gli altri partecipanti alle sue sceneggiature si limitavano al semplice ruolo di comparse, più o meno consapevoli di far parte di quell’artefatto meccanismo scenografico che presenziava fisso sull’atmosfera di tutta la dimora Monteghini. Il protagonista maschile della scena mosse appena gli occhi per rendersi subito conto della sua totale nudità e, dopo pochi attimi, scoprì l’orribile sua condizione di non riuscir nemmeno a muovere un dito. Diabolica strega! Questa volta Dafne aveva esagerato per davvero. Forse con l’aiuto di qualche esotica droga che inibiva l’apparato nervoso, o forse grazie a un portentoso unguento paralizzante, fatto sta che il risultato finale era la sua terribile e totale paralisi del corpo. Non avrebbe dovuto assolutamente permettersi di limitare la sua libertà in quella maniera, erano i patti… o forse a ben pensarci il loro unico patto equivaleva a nessun patto. L’aria della stanza che ormai sembrava un antico luogo sacro, come se si fosse trovato all’interno di una piramide egizia, proprio dove la mummia del faraone veniva deposta insieme ai suoi tesori e agli utensili che gli sarebbero serviti nell’altra vita, era vivacizzata da un pregiatissimo odore di muschio e ambra. Il tepore che gli carezzava il corpo era in netto contrasto con l’irritazione che gli fremeva dentro. Non poteva far nient’altro che aspettare, e alla fine si lasciò andare. Socchiuse gli occhi, incatenato in quell’obbligata immobilità, e la sua rabbia si volatilizzò per alcuni istanti, stampandogli l’ironia di un sorriso quasi soddisfatto sul volto. Era stato proprio lui a cominciare tutto, a insegnarle e ad affinare i suoi modi d’essere e gli espedienti per far sì che la sua esistenza fosse il concentrato di


40 una moltitudine di vite. Ricordava ancora tutto nitidamente, come se stesse accadendo proprio in quel momento, davanti ai suoi occhi. La sera dopo l’ebbra notte del loro primo incontro egli era libero dal suo turno lavorativo e poteva dedicarsi senza limiti a sperimentare i suoi viaggi spirituali. Era rimasto notevolmente affascinato dalla stravaganza e dall’ingegno dell’incantevole contessa. Stupirlo su questa Terra era diventata cosa assai ardua, ma addirittura essere stordito da un’emozione, com’era avvenuto con lei, aveva un sapore squisitamente unico. Mentre ripensava alla peculiare avventura capitatagli, aveva disegnato sul pavimento dell’unica stanza che componeva il suo appartamento il pentacolo che l’avrebbe protetto durante la sua esperienza in astrale. Al ritorno dall’estenuante viaggio spirituale, Santo si accasciò sul pavimento della sua stanza. Stette col viso incollato sul gelido pavimento per interminabili minuti prima di riuscire a riaprire gli occhi e a riacquistare la consapevolezza di essere tornato nel disordine del suo appartamento. Gli ci volle un’altra manciata di minuti per rendersi conto che non era solo. Di fronte a lui, comodamente seduta su una sedia, abbigliata di un tailleur nero estremamente elegante, le gambe accavallate e con un’espressione a metà tra lo sgomento e la curiosità tipicamente femminile, c’era la contessa Monteghini. Indossava intorno al collo un boa di piume di struzzo che la rendeva ancora più seducente di quanto già non fosse. Cosa ci faceva a casa sua quella folle dama che aveva scoperto ancora viva nel suo talamo funebre? Arrossì ancora ricordando l’immenso imbarazzo che lo avviluppò incrociando lo sguardo di lei, pur essendo lui il padrone di casa e la donna in questione un’ospite, in quella circostanza, indesiderata. Fu lei a rompere il silenzio. «Oh mio Dio, non so cosa ti possa esser capitato, ma credo proprio sia stato qualcosa di sensazionale! Sembravi morto, il tuo corpo pareva essersi tramutato in una rigida statua impassibile. Sei rimasto così per circa due ore e poi, d’improvviso, ti sei rianimato crollando sul pavimento, come se ti avesse stritolato un gigante. Cosa significa tutto questo?» Santo era assolutamente incredulo, avrebbe voluto adirarsi, chiedere a quella donna come si fosse permessa di entrare in casa sua e soprattutto come sapesse chi era, ma riuscì soltanto a chiederle: «Che significato ha la tua venuta qui?» «Io sono qui perché tu e io dovremmo unirci, vivere insieme, scoprire qual è il limite oltre cui possiamo aspirare.»


41 Santo era tutto fuorché una persona razionale. Viveva d’intuizioni, sensazioni e di campi energetici che lo circondavano, ma sentirsi dire quelle folli parole da una persona che apparteneva al mondo reale, lo fecero sorridere di stupore. «Che cosa mi stai dicendo? Mi sono perso un paio di passaggi. Io non so tu chi sia, non so come tu possa pensare una cosa del genere basandoti su un semplice evento extra ordinario che ci ha accomunato.» Gli occhi di lei s’incupirono. «No, non credere ch’io sia una stupida, un animale superficiale che si trascina senz’anima su questa Terra. Forse non percepirò come te ciò che ci fluttua intorno, ma ho piena consapevolezza del ponte che si è creato tra me e te. Un ponte, sì, invisibile, ma che vale più di qualunque reale legame tra esseri umani di questa dimensione. Ho sempre vissuto il mio Spirito in solitudine, dubitando talvolta perfino che fosse soltanto una mia fantasia, una mia perversa inclinazione nevrotica, ma ho continuato a essere cosciente di quelle porte dentro di me che s’aprivano sull’infinito. Poi, però, per la prima volta mi è accaduto di non essere sola, di vivere il mio mondo parallelo con la presenza certa di un altro essere. Questo essere eri proprio tu e sai benissimo che non puoi negarlo.» «Ok, hai avuto la prova che il mondo spirituale non è una tua paranoia, è reale. Sai anche che si può entrare in contatto con un altro Spirito, ma questo non è certo un fondamento per cui giungere alla conclusione che le nostre vite debbano proceder parallele, non trovi?» «Va bene, signor Neri, allora retrocederò di qualche passo, permettendomi d’invitarvi a cena da me domani sera. Verrà il mio autista a prendervi e… vi prego di accettare sin da ora questa piccola mia arroganza che vincola parte del vostro tempo alla mia persona. Accettate?» Santo osservò quella stupenda tigre che lo scrutava famelica. Lei lo desiderava ed egli provava la stessa attrazione, ma non avrebbe mai rinunciato al suo mondo, alle sue abitudini per intraprendere una relazione, pur intrigante quanto sarebbe stata la loro. «Una cena! Accettare il vostro invito mi pare il minimo che possa fare, visto che il nostro primo incontro è avvenuto saltando qualunque tipo di preliminare.» Santo ricordava ancora perfettamente gli odori e i colori di quella sera, passata a lume di candela con Dafne, nella sua idilliaca villa Monteghini. Erano passati subito al sodo, senza vane parole di circostanza. Lui le aveva spiegato il suo mondo, i suoi viaggi, ciò che riusciva a fare con i morti, e lei, ansiosa e smaniosa di vedere quel mondo spirituale che le vibrava in ogni centimetro di pelle schiudersi davanti ai suoi occhi, bevve avidamente ogni parola di Santo e, a sua volta, gli svelò tutta la sua esistenza antecedente al loro incontro.


42 Dafne era una perspicace e adamantina fiera. Egli vedeva fiorire attraverso gli occhi di lei la caparbietà e la voluttà che la caratterizzavano in toto. Sarebbe stata in grado di fare qualsiasi cosa, se solo gliene fosse stata data la possibilità. Quella notte stessa, dopo la cena, si rifugiarono nell’alcova della contessa per liberare le loro voglie e i loro istinti, per dar voce alla materia, che purtroppo o fortunatamente coesisteva anch’essa insieme allo Spirito. Tra purpuree lenzuola, divorando gli amplessi, percorrendo la pelle con le bocche perennemente insaziate, respirando ogni candido alito dell’anima che ribolliva attraverso la loro incandescente carne che si avviluppava e tormentava, si unirono. Accarezzarsi e stritolarsi insieme, raggiunger un limite per sbaragliarlo, per concedersi oltre, per spogliarsi della nudità, per esser profanati in ogni angolo del corpo, dell’anima, dalle parole, dal sangue e dagli ardenti sguardi dell’eccesso. Avere la propria totale intimità alla berlina ed esserne allo stesso tempo un godente spettatore, la vittima e il carnefice. L’Amore e l’Odio. Essere amati e fottuti insieme! La più feroce volgarità servita al banchetto nuziale del dio dell’Amore. Eros, che ti scopa selvaggio! Si stipulò quella notte il loro patto, la loro unione. Essere complici, complottare alle spalle dell’esistenza per rubarle più vita possibile. Da quella notte Santo non andò più via da quella sfarzosa dimora… Ancora immobilizzato dalla potente droga somministratagli dalla contessa, l’occultista non poteva far altro che continuare a farsi cullare dai ricordi, regredendo fino al tempo vissuto prima di conoscere Dafne, che poi comprendeva la stragrande maggioranza della sua vita. In particolare, nell’ultimo lustro della sua esistenza ante Dafne aveva volontariamente deciso di abbandonare la reale esistenza per buttarsi a capofitto in quel mondo d’immagini e d’intuizioni che appartenevano all’altra dimensione. Che poi non aveva proprio alcun senso per lui chiamare “reale” il mondo in cui gli esseri umani sono abituati a vivere. Ciò ch’egli viveva al di là del tempo canonico era ben più vero e forte di quanto avesse mai trovato sul pianeta che alimentava il suo corpo. Per quanto possibile, il suo ascetismo verso le cose immanenti l’aveva portato in un paradossale limbo. Quand’era desto, era come se affrontasse un obbligato incubo e, qualunque incombenza dovesse sbrigare, la trattava come un’assoluta necessità, un mattone per quell’invisibile ponte che ogni volta gli avrebbe poi permesso di viaggiare, di staccarsi dal suolo per diventare un tutto nell’universo. Era diventato un uomo colpevole al contrario. Se solitamente il reo vive la vita desta prepotentemente, la notte invece, nei momenti in cui la parte razionale abbassa la guardia per prepararsi al sonno, il subconscio fa riemergere i suoi lati oscuri esplicitati da immotivate ansie e


43 turbamenti che di conseguenza mineranno la fase del sonno con i più funesti incubi. Così Santo era uno Spirito colpevole di possedere un corpo. Durante la fase meditativa era lucido e pieno, mentre durante la veglia il suo subconscio, o forse per assurdo dovremmo coniare il neologismo “sopraconscio”, muoveva i fili dei suoi impegni e degli obblighi che gli spettavano come essere vivente di questo mondo, costringendo la sua anima a strisciare tra le bassezze delle effimere cose. Poi giunse l’era di Dafne, la regina di mezzo. Colei in grado di mescolare le sostanze e le leggi di qualsiasi mondo con la sua arguzia e il suo pragmatismo. Lei mutava la realtà ordinaria partendo dalla mera estetica degli oggetti, degli arredi, dei paesaggi che fungevano da palcoscenico per loro due, protagonisti eccelsi e indiscussi, fino a ingaggiare fantomatici attori in carne e ossa, che recitavano senza batter ciglio il ruolo da lei assegnatogli. Era tanto astuta da aver combinato tutto in maniera tale che fosse il suo avvocato a organizzare tutta la parte pratica, di modo che lei potesse pienamente entrare nel personaggio deciso con tutta la sincerità del suo cuore, cosicché vedesse l’artificioso mondo intorno per lei costruito e le stesse comparse, come realtà indiscutibili delle sue allucinazioni. Santo aveva la propria stanza neutra dove chiudersi solo con se stesso per poter accedere all’ebbrezza dei suoi viaggi astrali. Dafne, d’altro canto, un po’ per invidia, un po’ per evitare la tristezza di sentirsi esclusa da una parte così importante della vita di Santo, si era creata la sua stanza neutra, un luogo improbabile dove ogni cosa doveva celare quanto più possibile il secolo in cui lei viveva. In questo modo ella poteva confondere i propri ricordi e ingannare il proprio raziocinio. È inutile nascondere che la contessa amplificava il suo stordimento grazie all’inalazione di sostanze stupefacenti che venivano filtrate nei condotti d’aria della stanza. In quel turbinio di stati d’animo prodotti dal paradossale luogo, dalla solitudine e dalla chimica, il suo io si frantumava cominciando a delirare in visioni, sensazioni e a descrivere accurate immagini e scene che davano man mano una sempre più nitida idea del secolo in cui la sua psiche distorta era piombata. Dopo poco era semplice perfino comprendere la persona a cui agognava identificarsi. Poteva scrivere il suo visionario miraggio, gridarlo, o semplicemente sussurrarlo a fior di labbra. Dall’altra parte c’erano sempre orecchie e occhi desti, pronti a ricevere i suoi desideri e a trasformarli in realtà. Le sue folli elucubrazioni, una volta dichiarate, la portavano a sprofondare in un funereo stato catatonico, tanto supremo era lo sforzo della sua anima che tentava di staccarsi da quel corpo per vedere più da vicino quello specchio di al di là che descriveva tanto avidamente. Come la lingua del leopardo quando s’insinua sulla ferita della sua preda o l’acuto sguardo dell’aquila quando individua dall’alto un suo possibile nutrimento, così i suoi sensi vivevano la creazione


44 di quei paradossali desideri. Come la bella addormentata delle favole, Dafne rimaneva poi sospesa tra il sonno e la morte, dando la possibilità a mani invisibili di creare il suo miraggio nella Terra di oggi. Se a Santo bastava il suo corpo spirituale per viaggiare dov’egli desiderasse, Dafne invece era costretta a trascinare anche il suo corpo materiale nelle allucinazioni dei suoi viaggi, ingannandolo con oggetti, attori e finanche droghe, affinché l’esperienza risultasse veramente soddisfacente. In quel frangente per Santo vagare nei suoi ricordi significò ritrovarsi faccia a faccia con le sue idee, le sue convinzioni, i suoi status quo, che gli permisero di concentrarsi abbastanza da staccarsi definitivamente dalla coscienza per la sua deprimente immobilità che lo trasformava molto anticipatamente rispetto ai tempi, in una reliquia di ciò ch’egli era. A quel punto fu un attimo per l’occultista aprire il suo terzo occhio e liberarsi dall’impiccio materiale della terza dimensione. Era in viaggio. Ora, la miriade di punti energetici che componeva la sua anima fluttuava nell’eterna corrente divina, l’Unio Mystica. Ciò che per i profani è leggenda e per i fedeli è la suprema aspirazione, per lui diventava realtà, tangibile più della materia, un sogno lucido, immensamente vero, più di qualsiasi effimera esistenza. Quell’ineluttabile deliquio era la coscienza stessa di ogni cosa, di ogni essere. La sua volontà non si annullava, ma era tanto perfettamente congrua a quell’atavica universale consapevolezza, che non distingueva più i suoi confini, assaporava solo una vertiginosa pienezza che lo riempiva morbidamente. Tutto attorno a lui era pieno; come una bolla di sapone in fondo al mare, che soavemente si riempie d’acqua, per diventare acqua nell’acqua, nel tutto, egli era il tutto stesso. Non decideva nulla, sarebbe stato impossibile essere relativi, scegliere qualcosa quando tutto era scelto e tutto sceglieva, quando dove si voleva andare già ci si era, quando ogni luogo era coesistente nello stesso luogo. Nulla si deve fare quando si è tutto! Quel massimo livello di illuminazione, quel viaggio nel cuore della divina coscienza, andava poi perdendo pian piano consistenza e Santo si ritrovava a navigare gradatamente sempre più lontano dal nucleo originale, per poi essere catapultato in una qualsiasi relativa dimensione dell’esistenza. Egli sapeva che, non appena si fosse allontanato dal centro, avrebbe avuto qualche secondo per poter decidere consapevolmente verso quale realtà dimensionale dirigersi. Questa volta, invece, lasciò che il suo subconscio o il caso, dettassero la direzione. Chi sarebbe stato, dove, quando e come, erano le più affascinanti scoperte di ogni suo viaggio. Pochi istanti e si accinse a librare sulla quieta campagna di uno sconosciuto luogo della Francia. Comprese subito che sarebbe stato soltanto un’ombra, un osservatore silente di qualcosa che si sarebbe


45 compiuto in quelle terre. Non avrebbe avuto la possibilità di intervenire, né di farsi udire, avrebbe soltanto passivamente osservato l’evoluzione di eventi. Ed ecco prendere forma sotto ai suoi occhi la spettante storia che gli veniva donata. FINE ANTEPRIMA. CONTINUA...


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