SIMONA VALENTINA TORNABENE
SARA VITTI
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SARA VITTI Copyright Š 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-517-5 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Aprile 2013 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova
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Vorrei ringraziare la vera Cloe, per aver condiviso parte della sua storia. Un altro ringraziamento va alle mie corrispondenti da Tokyo. Ma soprattutto ringrazio tutte le persone, estranee e non, che consciamente e inconsciamente hanno reso possibile la stesura di queste pagine.
Questo libro è dedicato a te, lo hai sempre saputo.
5
Capitolo uno. Cloe
Quella notte non avevo dormito per niente. Ero così arrabbiata, frustrata e amareggiata che non ero neanche in grado di stendermi sul letto. Era stata una giornata lunghissima, la più disastrosa della mia vita. Sara stava definitivamente per uscire dalla mia vita. Ricordo ancora la prima volta che la vidi. Fu nel corridoio affollato della mia università. Stavo raggiungendo la mia aula, pronta per la lezione di Filologia Orientale, quando improvvisamente dei ribelli capelli castani mi tagliarono la strada per strappare non so quale annuncio dalla bacheca. Per poco non inciampai, ma riuscii a proseguire lungo la mia strada evitando palesi figuracce. Quando mi voltai, alquanto seccata, vidi la sua figura esile contornata da una chioma scura che con un cenno mi chiedeva scusa. Ricambiai con un sorriso tirato e mi infilai nell’aula. Mentre l’insegnante spiegava, invece di ricopiare dalla lavagna, stavo scrivendo cosa avevo mangiato a pranzo, come ordinato dalla mia dietologa. Ripensavo alla ragazza dai lunghi capelli e al suo fisico snello e slanciato; non sarei mai riuscita ad avere quella linea, ma dopo un anno la mia dieta iniziava a dare risultati. Ero ancora in carne ma almeno non mi sentivo più la ragazzina grassa presa di mira dai compagni del liceo. Forse destino, forse coincidenza, mentre mi avviavo verso la casa dello studente, dove alloggiavo, la incrociai nuovamente. Si sfilò le cuffie, che ricordavo di averle visto indosso anche la mattina, e con mia sorpresa mi rivolse la parola. «Non volevo tagliarti la strada stamattina, ma a volte mi dimentico delle persone che mi stanno intorno» mi disse con un leggero sorriso, poi protese la mano per presentarsi «sono Sara Vitti, sto al terzo piano.»
Come mai non l’avevo mai notata? Eppure tutto di lei era fuori dal comune. Sembrava muoversi con lentezza rispetto le altre persone e il suo sguardo risultava essere enigmatico e inquietante. «Io sono Cloe, piacere di conoscerti!» Le strinsi la mano, accidenti che stretta potente… Da quel giorno ci incrociammo spesso, ancora mi chiedo come mai non l’avessi mai vista, nonostante mi fossi trasferita ormai da tre mesi nel palazzo. Lei frequentava la facoltà vicino alla mia, le nostre strade erano inevitabilmente collegate, almeno questo è quello che mi piace ancora pensare. Senza nessuna intenzione precisa cominciammo a pranzare insieme. Ci scambiavamo i gossip sulle colleghe e ci davamo una mano con lo studio, fino a quando prendemmo l’abitudine, orari permettendo, di avviarci insieme all’università. Lei era proprio il mio tipo. Sapeva il fatto suo, era intelligente, spiritosa e pungente. Anche se a tratti risultava scontrosa, sapeva sempre metterti a tuo agio e questa sua dualità aumentava il mio interesse. Io sono timida e un po’ impacciata. All’inizio pensavo dipendesse dai miei problemi a relazionarmi con gli uomini, ma quando poi presi coscienza della mia omosessualità capii che non c’entrava. Era il mio carattere, e a quello non c’è rimedio. Lottavo da anni contro i pregiudizi di una società che non ammette niente che sia un minimo diverso. Forse era proprio quello che mi avvicinava a persone così fuori dal comune, il desiderio di relazionarmi con qualcuno che avesse provato ciò che avevo subito io. Quello di cui sentivo il bisogno era la certezza di essere compresa. Sara mi piaceva moltissimo. A volte mi ritrovavo a fissarla, persa nelle mie fantasie e quando lei se ne accorgeva, ovviamente ignara del reale motivo, non ne sembrava turbata. Io adoravo quei momenti perché lei mi sorrideva, mi sorrideva sempre… Quando iniziai a conoscerla, mi accorsi di quanta tristezza potessero nascondere i suoi sorrisi. Le sue labbra tendevano a formare una curva malinconica e per quanto sembrasse felice, dopo breve distoglieva lo sguardo. Volevo conoscere ogni cosa di lei e col tempo mi accorsi che non era per niente facile. Non parlava mai di sua iniziativa di se stessa. Era una di poche parole e quando cercavo di indagare sul suo passato lei era palesemente evasiva.
7 «Non c’è molto da dire…» iniziava guardando un punto immaginario «vivevo con i miei zii, poi sono venuta a studiare qui. Preferisco l’indipendenza.» Per avere delle risposte, bisognava porle le domande giuste. «I tuoi genitori?» chiesi un giorno con un tono apparentemente tranquillo, che nascondeva una curiosità ai limiti del lecito. «Defunti» fu la risposta secca che ebbi. Dal suo tono capii che non avrei ottenuto altro. Sara era così, troppo diretta quanto vaga. Dopo anni della nostra pseudo-amicizia, come amavo definirla, avevo capito fin dove potevo spingermi. Cercavo in tutti i modi di avvicinarmi a lei, senza mai tradire le mie vere intenzioni. Non era semplice per me esserle solo amica, soprattutto le notti in cui non rientrava nel suo alloggio o le mattine in cui la ritrovavo direttamente in aula con la faccia di una che aveva fatto tutto tranne che dormire. Il pensiero di lei che si contorceva fra le braccia di chissà quale uomo, mi irritava e mi eccitava allo stesso tempo. I miei sentimenti repressi, molte sere si trasformavano in scariche elettriche incontrollabili e spesso mi ritrovavo a masturbarmi pensando a lei. Quando il piacere personale non bastava più, chiamavo Anna, una ragazza conosciuta un paio di anni prima. Lei era una di quelle scopa-amiche che non si faceva problemi se durante i nostri amplessi si sentiva chiamare Sara. Il sesso fu una di quelle scoperte per niente imbarazzanti. Il contatto più intimo con una persona mi riusciva facile, non mi intimidivo, chiaro segnale di quanto ancora avrei dovuto lavorare sul mio carattere. La mia prima volta fu addirittura umiliante. Uscivo con lui da poco più di un mese. Era carino, affettuoso, solare, i suoi lineamenti erano morbidi. Eravamo amici di lunga data, poi lui sentì il bisogno di avere qualcos’altro. Io non avevo il trasporto che lui dimostrava nei miei confronti, ma amavo la sua compagnia. I baci, le carezze, le sue mani nei miei posti più intimi, non mi provocavano quello che mi aspettavo. Le mie compagne, le mie amiche, parlavano dei loro ragazzi e delle loro esperienze sessuali con un entusiasmo che io non provavo. All’epoca pensavo non solo di essere grassa, ma anche stupida. Quel famoso giorno ci ritrovammo soli nella sua camera, i suoi genitori erano appena usciti e non sarebbero rientrati prima di sera. Iniziammo a baciarci, quello era il momento che preferivo. La scoperta di un universo di sensazioni ignote. Una volta sdraiati nel letto lui iniziò a spogliarsi.
Non sapevo bene cosa fare, così lo imitai spogliandomi anch’io. Era la prima volta per entrambi, ci muovevamo in maniera goffa. Non mi sentivo per niente a mio agio, il mio corpo non mi rispecchiava, così come le mie azioni. Dopo aver riposto un asciugamano sulle lenzuola, mi ci stesi sopra e aspettai. Fu molto premuroso, si muoveva lentamente per non farmi male. Quando mi penetrò, ero più confusa che eccitata. Non che il mio corpo non rispondesse a tali stimoli, ma era la mia mente a trovarsi altrove. Non sentii dolore né persi sangue, per fortuna. Il solo pensiero mi aveva tormentato per mesi, comunque non fu così piacevole. Quando alla fine del rapporto lui mi sorrise condividendo la sua felicità ed esprimendo l’intensità dei suoi sentimenti, io mi sentii in colpa. Non provavo nulla di tutto quello, per cui mentii spudoratamente nell’affermare la stessa gioia. Confrontandomi con una mia amica, giorni più tardi, mi informò che per molti la prima volta non è poi così speciale. Questo mi rincuorò e decisi di riprovare. Il mio carattere timido mi aveva sicuramente impedito di godere del momento, continuavo a ripetermi. Nei mesi seguenti lo facemmo spesso ma, per quanto affinassi molti miei atteggiamenti, non mi sentivo pienamente soddisfatta. Fingevo l’orgasmo, mi fingevo felice. Fingevo di essere una donna appagata dal suo uomo. Fu una sera d’inverno che ebbi finalmente risposta a molte mie domande. Mi trovavo nel salotto di casa sua, lui e suo padre discutevano di politica, io leggevo un libro. Udii dei passi e delle risate provenire dall’androne delle scale. Quando la porta si aprì, riconobbi subito sua madre seguita da una ragazza leggermente più bassa di me. Non l’avevo mai vista ma intuii, dalla somiglianza con la madre, che si trattasse della sorella del mio fidanzato. Sapevo solo che studiava a Roma e che tornava a casa raramente. Mi alzai per salutarle, lei mi squadrò dalla testa ai piedi. Il suo sguardo insistente però non mi infastidì. Mi presentai e lei fece lo stesso. «Sono Anna! Piacere!» Aveva un fare spigliato e dei lineamenti più duri, rispetto a quelli del fratello. «Tu devi essere Cloe, mio fratello mi ha parlato spesso di te.» Mi prese il mento con la mano destra. «Sei molto carina, hai un viso davvero delicato» aggiunse allontanandosi. Quando si avviò nella sua camera seguita dai genitori, io rimasi a fissarla. C’era qualcosa nel suo modo di camminare davvero attraente. La parte del viso che aveva sfiorato aveva risposto in modo insolito. La
9 sentivo calda, pizzicava sotto le mie dita. Quando quella notte la sognai in atteggiamenti poco leciti, molte cose mi furono chiare. Solo due anni dopo ebbi modo di rivederla. Era seduta a un tavolino di un pub con un’altra ragazza. La sua ragazza. Io la fissavo dall’altra parte del locale, seduta su un divanetto adiacente al muro, a mia volta accompagnata da una ragazza. La mia ragazza. Fu proprio dopo una delle tante scopate con Anna che decisi che un “no” o un “non sono lesbica, sono normale” non importava più. Troppe volte avevo ricevuto dei rifiuti. I primi erano sopportabili, i secondi un po’ meno ma dai terzi in poi tutto diveniva doloroso. Dopo vari anni riuscivo facilmente a capire chi poteva ricambiarmi e chi invece non mi avrebbe risparmiato un’espressione disgustata. Ma con Sara era diverso. Talmente diverso che il dolore provocato nel non essere corrisposti, nel sentirsi non voluti, passò in secondo piano. Non mi dava chiari segnali ma non mi teneva a debita distanza. Questo mi diede il coraggio di tentare, o forse più semplicemente ero stanca di nascondere dei sentimenti divenuti troppo importanti. Dovevo dirle cosa lei rappresentasse per me, farle sapere che l’amavo. Che i sentimenti che provavo per lei non erano paragonabili a qualsiasi altro sentimento provato. Le mandai un sms dandole appuntamento alla fontana vicino alle nostre facoltà. Nell’attesa immaginai i mille modi per dirglielo, ma stavo chiaramente entrando nel pallone. La mia timidezza iniziò a prendere il sopravvento, per cui quando arrivò e si sedette accanto a me non riuscii a proferire parola. Restammo in silenzio qualche minuto, potevo vedere con la coda dell’occhio gli sguardi interrogativi che Sara mi lanciava. Fu lei, come al solito, a fare la prima mossa. «Cloe, quanti chili hai perso fin ora?» “Effettivamente in confronto a lei devo sembrare enorme” pensai… «Ormai venti, da quando ho iniziato la dieta anni fa» risposi ancora a testa bassa. «Senti, non dimagrire più ok? Sei perfetta così» mi adulò scrutandomi da sotto le ciglia. Sentii le mia guance scaldarsi, non era sua abitudine regalare complimenti. Nervosamente mi sistemai i capelli con gesti compulsivi. «Stavo notando con quella gonna, che hai proprio delle belle gambe, le cosce soprattutto.» Ok, fermate tutto…
Sperai non si voltasse a guardarmi, perché avrebbe subito notato l’uniformità della mia pelle con la mia maglia rossa. Belle cosce? Non sono così ingenua da ignorare questo segnale. Sono impacciata, timida, ma non stupida. Decisi che era il mio momento, presi fiato e impedii al mio cervello di razionalizzare ulteriormente. «Senti Sara…» Il prendere coscienza di quello che stavo per dire mi fece esitare e ne seguì una pausa, troppo lunga, così il mio poco coraggio sfumò con lo squillare del suo cellulare. Ancora non avevo idea delle conseguenze di quella telefonata. Appena rispose la sua espressione cambiò, si alzò di scatto in piedi dandomi le spalle. Quel distacco, in un momento per me così intimo, mi infastidì. «Cosa vuoi?» disse in tono brusco. Uhm… non doveva proprio essere una persona amica. «Va bene, va bene.» Seguì una pausa. «Ci vediamo» concluse chiudendo la chiamata con aria seccata, poi si voltò verso di me e con quello sguardo triste che conoscevo fin troppo mi disse: «Scusami, ma devo proprio andare.» Senza aspettare una mia qualche risposta la vidi avviarsi verso l’uscita della città universitaria. Io rimasi lì come una ebete. Tutta l’adrenalina accumulata si stava riversando nel mio corpo impedendomi di alzarmi, sentivo delle scariche elettriche sotto le unghie delle mani. Le mandai un altro messaggio: -Ti chiamo staseraLei ovviamente non rispose e questo era parecchio normale, peccato che non ebbi risposta neanche alle seguenti dodici chiamate. Il totale silenzio fu il vero protagonista quella sera. Dopo una decina di messaggi e numerose chiamate, lanciai il telefono sul letto per poi rotolarci sopra a mia volta. La gelosia mi pervase, avevo paura che potesse esplodermi il petto. Dov’era? Con chi era? Stava con una persona così importante da non potermi neanche rispondere? Sentivo le tempie pulsarmi per l’ira. Alla tredicesima chiamata, quando il messaggio del gestore telefonico mi informava che aveva spento il telefono, la mia rabbia divampò in un “fottiti!”. Immaginai di averla di fronte, di violare il suo corpo in preda alla rabbia e di chiederle una qualche spiegazione.
11 Immaginavo di sbatterla sopra un letto e di possederla sotto di me, mi eccitai a tal punto da bagnarmi istantaneamente e così, arrabbiata e vogliosa, diedi sfogo ai miei desideri sessuali. Sara sparì per tre giorni, più di quanto fossi disposta a sopportare. Dal giorno in cui mi ero resa conto di non provare solo dell’amicizia per lei, non avevo mai affrontato il problema “mancanza”. Quella sensazione di leggerezza che mi avvolgeva quando condividevo il tempo con lei, quando le raccontavo la mia giornata, le mie esperienze. L’essere privati di tutto questo fu per me micidiale e inaspettato. La mattina del terzo giorno, al limite della mia sofferenza, la vidi uscire dagli uffici del rettore. Portava sempre le cuffie ma quando i suoi occhi incrociarono i miei mi si avvicinò con una velocità che mi spiazzò. «Ti cercavo» mi disse. “Ah sì… prima non rispondi alle mie chiamate e poi mi cerchi?” «Dove cazzo sei stata, ti ho mandato mille messaggi!» le urlai senza pensarci. Il corridoio era affollato, per fortuna nessuno si accorse della scenata di gelosia che stavo per fare. La vidi sorprendersi un attimo, poi con la sua solita calma mi rispose: «Cloe, ho davvero bisogno del tuo aiuto.» Mi invitò con un gesto della mano a sedermi sui gradoni fuori lo stabile. La seguii come un cagnolino ubbidiente, perché a lei non avrei mai potuto dire di no. «Allora, mi dici cos’è successo?» le chiesi sempre più ansiosa. «Sei a un passo dalla laurea in lingue orientali» mormorò. Uhm… stava tergiversando, non era da lei… «Ho bisogno che tu mi dia qualche lezione di giapponese» concluse. La sua frase mi sorprese, mi ero immaginata chissà cosa… certo era una richiesta un po’ bizzarra per una che frequentava Lettere e Filosofia. «Tutto qui?!» affermai sollevata. «Va bene, anche se non capisco a cosa ti serva; hai sempre detto che era impossibile capire tutti quei segni assurdi» dissi citando le sue stesse parole. Quando la guardai in faccia e vidi che guardava quel punto immaginario capii che dietro a quella richiesta c’era qualcosa di più e iniziai ad agitarmi. «La ditta di mio zio ha vinto una gara d’appalto a Tokyo, sono costretta a seguirli, capisci…» Cosa? No! Cosa? No che non capivo!
O meglio non volevo capire… quella sensazione di tranquillità nell’aver Sara nuovamente al mio fianco sparì all’istante. Se i tre giorni precedenti mi erano sembrati un inferno, adesso non riuscivo a capire come sarei sopravvissuta. Quella giornata stava prendendo una piega assurda. Il mio sogno era sempre stato lo stesso fin da bambina, andare a vivere in Giappone. Per questo appena finito il liceo ero partita per Roma, avevo iniziato l’università e stavo studiando lingue orientali, per questo risparmiavo ogni centesimo, per questo stavo sprofondando nell’angoscia… il mio sogno stava diventando un incubo. Avevo una rabbia in corpo che la testa iniziò a farmi malissimo, io avrei dovuto ancora faticare tantissimo prima di poter andare in Giappone e adesso quest’ultimo si stava portando via la ragazza di cui ero innamorata. Quando due desideri si fondono, finiscono per annullarsi a vicenda. Mi alzai di scatto, troppo in fretta per la mia pressione; quasi caddi dalle scale. Con una furia ceca senza neanche voltarmi le risposi: «Cercati qualcun’altro!» poi mi allontanai con una strana calma. Forse mi aspettavo che mi seguisse e mi fermasse, come nei migliori film strappa-lacrime, ma ovviamente questo non avvenne. Arrivai al mio alloggio al limite del mio autocontrollo, gettai la borsa per terra, spensi il cellulare, accesi la radio al limite del volume, e iniziai a piangere talmente forte che ebbi conati di vomito. Dopo abbondanti ore di disperazione, arrivai a un punto in cui le lacrime si erano ormai esaurite, lasciandomi solo una sensazione di bruciore mista a sonnolenza. Anche le mani mi dolevano, troppo a lungo avevo tenuti i pugni serrati. Il mio amor proprio mi impose comunque di pulire gli ultimi residui di trucco rimasti, lavarmi i denti e tentare di rilassarmi con una doccia. Ma quella notte non dormii per niente. Ero così arrabbiata, frustrata e amareggiata che non ero in grado neanche di stendermi nel letto. Era stata una giornata lunghissima, la più disastrosa della mia vita. Sara stava definitivamente per uscire dalla mia vita. La tisana che mi ero preparata ma che non avevo mai bevuto, ormai era fredda e densa. La osservavo ancora un po’ intontita mentre rimanevo seduta, con indosso l’accappatoio, sul mio letto. Fuori era ancora buio, quando qualcuno suonò il campanello d’ingresso. Non mi sarei mai presa il disturbo di vedere chi fosse se nel mio intimo non avessi sperato che potesse essere Sara. Quando, osservando dallo spioncino, il mio desiderio si palesò, aprii di scatto la porta. Non sapevo
13 minimamente cosa le avrei detto, come avrei giustificato il mio atteggiamento, ma non volevo che niente ci separasse, tanto meno una porta. Aveva ancora lo sguardo triste di quella mattina, ma quello che avvenne dopo, per me, fu tutt’altro che triste. Si fiondò su di me richiudendo col piede la porta dietro di sé, lanciò per terra la sua borsa e mi afferrò i capelli con forza. Non so quante volte, nella mia testa, quella scena si era ripetuta, e ora che stava realmente accadendo facevo fatica a crederci. Sentii la sua lingua fra i miei denti e la accolsi con una foga pari alla sua. A mia volta le afferrai i capelli e la avvicinai a me, come a imprimere sul mio corpo quel momento tanto desiderato. Sentire i suoi seni sul mio sterno, mi provocò un brivido tale da irrigidirmi le dita dei piedi. Sentivo i miei capezzoli indurirsi per l’eccitazione stimolati dai capelli di Sara introdottisi nella mia scollatura. Percepivo dall’accappatoio la mia pelle che iniziava a scaldarsi, mi staccai da quel bacio soffocante emettendo un gemito quasi di liberazione. Non mi importava se per Sara significassi quello che Anna significava per me, in quel momento desideravo solo scoparla. Il solo pensiero mi fece girare la testa, ero innamorata, nient’altro importava. I nostri sguardi si incrociarono. Si leccava il labbro inferiore e notai che anche le sue guance erano leggermente arrossate. «Non provare mai più a sparire così. Ti ho chiamata e ti ho mandato una serie infinita di messaggi. Ti ho cercata in facoltà e poi sono venuta qui» disse con una leggera tensione nella voce. «Siamo pari» le risposi acida. Potevo vedere i suoi occhi a distanza ravvicinata. Dio se erano intensi. «Cloe» sospirò. Iniziò a massaggiarmi i capelli poi la nuca, sentii di nuovo i piedi formicolare. Proseguì infilando la mano nel mio accappatoio, si fermò nell’incavo dei miei seni. Volevo che continuasse, volevo che lei mi toccasse, volevo sentire le sue mani su di me da anni. Anch’io desideravo scoprire il suo corpo. Con ancora la sue mani sul mio sterno, tirai giù la zip della sua felpa, ma con un gesto fulmineo lei mi fermò. Alzai lo sguardo per capire cosa avevo fatto e mi ritrovai il suo viso a pochi centimetri dal mio.
«Cloe» sospirò nuovamente come se cercasse di temporeggiare nel dire qualcosa, ma io la anticipai. «Sara, tu mi piaci» affermai con voce strozzata. Non erano proprio le parole che volevo usare ma finalmente c’ero riuscita. «Ho tentato di dirtelo più di una volta, ma…» Fui interrotta da un altro bacio impetuoso. Mi persi nella moltitudine di emozioni che il mio corpo e la mia mente stavano ricevendo. «Anche tu mi piaci Cloe» disse con voce quasi impercettibile. «Sai cosa intendo» aggrottai le sopracciglia «non sei una semplice amica» replicai insistente. «Da quando le semplici amiche si baciano e tentano di spogliarsi a vicenda?» rispose con aria divertita, poi aggiunse: «Voglio il tuo corpo stanotte, la tua anima penso di essermela presa da tempo!» Ora rideva. Io ero sempre più agitata e lei rideva. Lei mi voleva, forse non con lo stesso desiderio di cui io ero pervasa, ma lei voleva me e io non avrei mai potuto dirle di no. Sciolsi la cinta del mio accappatoio che cadde a terra provocando un rumore sordo. Ero imbarazzata, non avevo un buon rapporto col mio fisico, ma lei rimase a guardarmi con aria bramosa e questo mi bastò per prendere l’iniziativa. Le sfilai la felpa e subito dopo la canotta. Non portava il reggiseno, aveva un seno piccolo e ben fatto, sentivo il mio ventre contrarsi per l’eccitazione. Dopo averle tolto i jeans, la osservai ancora con indosso gli slip. Mi piaceva scoprirla un po’ per volta, l’attesa rendeva tutto più importante. La sua pelle chiara era liscia e profumava incredibilmente di vaniglia, era bellissima, nulla a che vedere con le mie fantasie erotiche. Ci adagiammo sul letto, mi sdraiai al suo fianco e iniziai a giocare coi suoi seni, mentre lei mi sfiorava la schiena su e giù con un ritmo ben preciso. Presi a baciare e leccare ogni parte del suo corpo, lei mi lasciava fare e io ero talmente rapita dai colori della sua pelle che non riuscivo a fermarmi. Mi piaceva sentirla vibrare sotto di me. Le baciai lo sterno, le costole, il bacino, il ventre e mi fermai sulle sue mutandine. Iniziai a morderle la vulva, potevo sentire attraverso la biancheria la totale assenza di pelo. Era completamente depilata. Notai in seguito che le gambe e così le braccia erano perfettamente depilate. Non doveva sopportarli molto, anche le sue sopracciglia erano molto sottili. Sentì la sua mano giocare con i miei capelli, le sue gambe si allargarono per accogliermi così, togliendole lo slip, iniziai a leccare tra le sua
15 labbra. Ero in completa estasi e Sara con me. Mi afferrò i capelli con forza e il dolore si trasformò subito in piacere. Si mise a sedere costringendomi a baciarla. Con una mano mi cinse i fianchi e in un attimo mi ritrovai supina sul letto. Sara si mise a cavalcioni su di me, potevo sentire sulle mie gambe il suo interno coscia rovente. Volevo che mi penetrasse, lo volevo da impazzire. Si avvicinò al mio viso e mi afferrò delicatamente il collo, il suo gomito mi premeva sul petto. Con l’altra mano mi carezzava l’ombelico e si muoveva frenetica verso la mia intimità. Allargai le gambe istantaneamente e quando sentii le sue dita sul mio clitoride rigirai la testa all’indietro per trattenere un urlo di piacere. «Cloe, voglio penetrarti. Dimmi che mi vuoi dentro di te… dimmelo!» Il suo fiato sul collo era più di quanto avessi mai immaginato. «Ti voglio Sara» ansimai, la sua mano non si fermava «ti voglio… dentro…» Non terminai la frase perché un gemito mi uscì incontrollato mentre sentivo le sue dita scivolarmi dentro. Ero molto bagnata. Sara si chinò su di me, avvicinando la mia testa al suo petto, le morsi un seno. Non riuscivo a tenere ferme le gambe, la sua mano mi violava con ritmo sostenuto. Sentii le estremità del mio corpo formicolare, anche la testa iniziò a girare, sentivo l’orgasmo prendere possesso di tutto il mio corpo. «Non trattenerti, fammi sentire la tua voce» mi sussurrò all’orecchio. Così feci. Le urla di piacere che emisi risuonarono nella stanza, le sentivo strane come se non fossero parte della mia voce. Sara mi penetrava con forza instancabile ed ebbi un secondo orgasmo. Fu una cosa davvero nuova per me, non avevo mai avuto un orgasmo multiplo. Finalmente aprii gli occhi, il sudore aveva bagnato le mie ciglia. Lei teneva la testa nell’incavo della mia spalla. Vedere i nostri toraci che si muovevano all’unisono mi fecero sentire Sara ancora più vicina. Si voltò e mi baciò l’orecchio. Spostò dalla mia fronte i capelli madidi di sudore e sorridendo mi disse: «Cloe mi piaci sul serio. Mancano tre mesi alla mia partenza, vorresti stare con me anche se non sarò mai in grado di avere una relazione a distanza?» «Ovviamente» risposi senza pensare. “Tre mesi insieme alla persona che amo piuttosto che crogiolare nella mia sofferenza” pensai immediatamente. Sapevo che avrei sofferto molto di più che in tutta la mia vita, ma al viso che avevo di fronte non avrei mai potuto dire di no. Anzi c’era una cosa che avrei dovuto dirle molto tempo fa.
«Sara io ti a…» Mi baciò di scatto, non ebbi neanche il tempo di respirare. Poi tornò a fissarmi con il suo solito sguardo triste. La cosa non mi piacque. «Vado a fare una doccia» apostrofò alzandosi dal letto. Mentre contemplavo la sua figura longilinea avviarsi verso il bagno, notai un’enorme cicatrice sul polpaccio sinistro. Doveva essersi cicatrizzata da tempo, ma all’epoca doveva esser stato un taglio molto profondo. «Sara» dissi con una voce un po’ troppo tesa «cos’hai fatto alla gamba?» Il mio tono rasentava l’allarmismo. Lei si fermò un po’ rigida, non si voltò. Mentre risalivo con lo sguardo sul suo viso, notai un’altra brutta cicatrice sulla spalla destra. Aveva una forma rotonda frastagliata. Prendendosi la spalla con la mano, nella speranza che almeno quella cicatrice non venisse notata, si volse verso di me. Con lo sguardo perso nel suo punto immaginario mi disse soltanto: «Di questo non voglio parlare.» Poi mi guardò tornando alla realtà, e con uno dei suoi sorrisi tristi mi disse: «Scusami.» Si chiuse nel bagno e io rimasta sola nella stanza mi coprii con il lenzuolo ormai tutto spiegazzato. Ero come svuotata, una sensazione che mi avvolgeva sempre dopo un rapporto sessuale. Ma questa volta c’era qualcosa di diverso. Adesso che eravamo così intime, avevo preso coscienza di quanto fosse solo l’inizio. L’inizio di un periodo molto breve che mi avrebbe separato da Sara per sempre. La sua voce mi destò. Stava canticchiando qualcosa di incomprensibile sotto alla doccia. Questo mi fece sorridere, era un aspetto che non conoscevo di lei. Mi rallegrai al pensiero di quante cose avrei scoperto e provato nei tre mesi a venire. Sentivo l’angoscia che pian piano risaliva all’interno del mio corpo, scrollando le spalle mi convinsi che fosse troppo presto e mi sforzai di sorridere. Scostai la porta del bagno. «Facciamo la doccia insieme?» proposi. Lei aprì il box doccia, noncurante del fatto che con l’acqua stava bagnando tutto l’ambiente, uscì e mi afferrò la mano. I capelli lunghi che le aderivano su tutto il corpo sembravano dei rami pronti a inghiottirla. Decisa a godermi ogni singolo momento di quella relazione entrai nella doccia, lei mi abbracciò e iniziò a insaponarmi i capelli.
17 Andai al terzo piano e aprii la porta dell’alloggio di Sara con la chiave che mi aveva duplicato il mese prima. Aveva già iniziato a preparare le valigie, la maggior parte della sua roba era già inscatolata e archiviata. In quei giorni ero riuscita comunque a mantenere un contegno. La mia calma apparente sarebbe diventata totale disperazione una volta che se ne fosse andata. “Altri due giorni” pensavo “poi potrò dar sfogo alle mie angosce.” «Ho preso della pizza, così non dobbiamo cucinare e possiamo studiare di più.» Era ormai nostra abitudine cenare insieme tutte le sere per poi dedicarci allo studio del giapponese. O meglio, quelle erano le intenzioni, ma il più delle volte l’unico studio che facevamo era quello dei nostri corpi. Quella sera sembrava una di quelle. Riposi il cartone della pizza sul tavolino per poi ritrovarmi tra le braccia di Sara. Il suo battito era accelerato. Ogni tanto potevo avvertirlo anche mentre dormiva; per quanto fosse una persona molto controllata, doveva avere anche lei i suoi pensieri. «Che succede?» le dissi con voce strozzata dal forte abbraccio. «Sei così calda, morbida» affondò il viso tra i miei capelli e li annusò «non so quanto potrò resistere lontano da quest’odore.» Parlava poco e a volte era alquanto irritante, ma ci sapeva fare con le donne. Con me di sicuro. «Sara, è difficile per entrambe» sospirai. Anche se ero convita che per me sarebbe stato molto peggio, sapevo che stava male. Mi sfiorò il collo con il naso, continuando ad annusarmi finché non trovò la mia camicetta tra lei e la mia pelle. Sbottonò i primi bottoni lasciando intravedere il reggiseno. Ebbi un sussulto. In quei tre mesi avevamo fatto l’amore molte volte. Conoscevo a memoria quel corpo che tanto adoravo e speravo che la cosa non fosse reciproca, anche se dubitavo che potesse sfuggirle qualcosa. Spesso mi imbarazzavo raggomitolandomi tra le lenzuola quando mi fissava troppo a lungo. Comunque i suoi complimenti mi aiutarono a migliorare la mia autostima. Non le chiesi più delle cicatrici né lei me ne parlò e mi rassegnai all’idea che mai avrei conosciuto i suoi segreti. Con la sua testa tra i miei seni sentivo il suo respiro raffreddarmi la pancia e il pensiero che quella stessa testa potesse scendere verso il mio ombelico e andare oltre mi provocò un brivido sulla nuca. Ma proprio mentre l’eccitazione stava per prendere il sopravvento lei si allontanò e con il suo familiare sguardo triste mi disse:
«Mangiamo e mettiamoci subito a lavoro, o faremo troppo tardi come ieri sera!» Così dicendo aprì il cartone della pizza e ne addentò una fetta, porgendomene un pezzo con l’altra mano. La serata proseguì come da programma. In quei tre mesi avevo cercato di fare del mio meglio per darle delle nozioni base sulla lingua. Con la scrittura era un disastro e mi ero dovuta rassegnare, mentre nella conversazione capiva in fretta e memorizzava. Ogni tanto mi capitava di provare invidia nei suoi confronti, la immaginavo per le strade di Tokyo, le stesse strade su cui avrei voluto camminare io. Ma poi il pensiero che quali che fossero le strade, io non avrei comunque potuto vederla, mi incupiva facendomi vergognare dell’invidia provata. Verso mezzanotte, palesemente stanca, mi apprestai a tornare al mio alloggio. Ma con mia sorpresa Sara mi disse: «Dormi qui con me.» Non ero stupita dalla richiesta in sé, dormivamo insieme quasi tutte le sere, ma mai nella sua stanza. Sempre nella mia. Comunque accettai estasiata. «Vado a prendere un cambio giù da me e ritorno» dissi aprendo la porta. Quella sera dormii benissimo, il respiro di Sara era regolare, conciliava il sonno, e il modo in cui mi cercava mentre dormiva mi faceva sentire importante. Dormimmo abbracciate per quasi tutta la notte. Ancora intontita, ebbi la percezione che si fosse alzata, forse per andare in bagno. Non me ne preoccupai e tornai a dormire dandole le spalle. Quello fu il mio errore più grande. La mattina, appena il sole iniziò a filtrare attraverso la persiana, allungai un braccio alla ricerca del suo viso. Ma quello che ne trovai fu solo un freddo cuscino. Lasciai vagare il mio sguardo ancora intontito verso il bagno, era vuoto e perfettamente in ordine, anche il balcone era vuoto. Mi alzai di scatto osservando la stanza ancora in penombra. I suoi pacchi erano nel posto in cui li avevamo lasciati la sera prima, ma non lo stesso le valigie; erano sparite. Mi bastò posare lo sguardo sul cartone della pizza, ancora sul tavolo, per far affiorare le lacrime. Afferrai immediatamente il cellulare, c’era un sms che mi invitava ad ascoltare un messaggio vocale sulla mia segreteria. Composi immediatamente il numero e attesi in ascolto. «Ciao Cloe, perdonami se mi sono comportata da stronza ma non amo gli addii.» Al suono della sua voce scoppia in lacrime. «Ho il volo alle nove.»
19 Guardai l’orologio sulla parete. Erano le otto passate, neanche in taxi sarei arrivata all’aeroporto in tempo. «Con te che mi salutavi al check-in non sarei mai riuscita a prendere questo cazzo di aereo. La ditta dei traslochi libererà il mio alloggio questo pomeriggio, ti prego di consegnargli entrambe le copie delle chiavi.» “Mi pianti e devo anche farti un favore? Sì Sara Vitti sei proprio una stronza.” Non riuscivo a fermare le lacrime. «Ti mando una mail quando arrivo e sappi che te ne manderò quante più potrò!» Il messaggio finiva così, senza neanche uno “ciao” o un “baci”. Restai in quel letto fino al pomeriggio, mi giravo e rigiravo nelle lenzuola. Erano completamente impregnate del suo odore e pensai che anch’io avrei dovuto domandarmi quanto avrei resistito senza il suo profumo. Mi ero preparata settimane prima a quell’evento. Sapevo che sarebbe accaduto, solo speravo di esserne parte integrante. Mi sentivo abbandonata e tradita, la peggiore sensazione che avessi mai provato, persino peggiore di un qualunque rifiuto. Mi alzai e mi resi presentabile per i ragazzi dei traslochi. Come gentilmente ordinato dalla mia non-ragazza - il dolore di quel pensiero fu tremendo - consegnai le chiavi e mi assicurai che la sua roba fosse trasportata con cura, poi ritornai al mio alloggio. Avevo un esame da preparare, decisi che piangere non mi avrebbe aiutato con lo studio. Nutrivo la speranza di ricevere al più presto sue notizie, ma sapevo che avrei dovuto attendere almeno due giorni. Ogni tanto riascoltavo il suo messaggio e guardavo le foto e i video fatti insieme, come per tenere allenata la memoria. I due giorni divennero una settimana e le settimane iniziarono a scorrere insieme al mio dolore. Sono passati sette mesi e diciannove giorni da allora, e di Sara Vitti non ho più avuto notizie. Non cancellai mai quel messaggio.
20
Capitolo due. Akira
Ero solito andare a lavoro in bicicletta, ma quel giorno la città era preda di un’afa massacrante per cui optai per un climatizzato taxi. Da qualche mese l’ufficio dove lavoravo era stato spostato in un edificio più grande e molto più vicino alla mia abitazione. La mia ditta era stata scelta per la costruzione del corpo centrale di un satellite, io ero uno dei tanti ingegneri che se ne occupava. Il mio lavoro mi piaceva molto e soprattutto mi piacevano le persone con cui lavoravo. Gli uffici accanto ai nostri erano occupati da una ditta italiana impegnata nella costruzione dell’antenna dello stesso satellite. Tutte persone estrose, divertenti e disponibili. Tutte tranne una. L’ascensore era pieno di gente, con totale noncuranza la signora alla mia sinistra mi schiacciava un piede. Mi convinsi di poter resistere solo per altri due piani ma per mia fortuna scese a quello successivo. L’ambiente divenne vivibile e restammo solo in quattro. Io, un anziano signore, una ragazza dai lunghi capelli e una donna delle pulizie. L’occhio mi cadde sulla ragazza davanti a me, il suo fondoschiena era avvolto in stretti jeans. Niente male, pensai. Era piuttosto alta per essere un’orientale e la curiosità mi portò ad accostarmi alla sua destra. I miei dubbi trovarono risposta in due occhi chiari che mi puntavano da sotto le ciglia. Doveva essere americana o addirittura europea. Rimase a guardarmi mentre sulla mia faccia faceva capolino un sorriso imbarazzato, poi il suo sguardo si spostò sulla mia fede nuziale. Sbuffando tornò a guardare la porta dell’ascensore, io misi in ordine la mia cravatta e subito dopo la porta si aprì. Era il mio piano quindi mi avviai verso il mio ufficio, notando con sorpresa che la ragazza seguiva la stessa direzione. Mi voltai e le sorrisi. «Do you need help?» chiesi cordialmente. Lei non si fermò e in giapponese mi disse: «Pessima pronuncia…»
21 Mi fermai in mezzo al corridoio, da lì potevo sentire le voci dei miei colleghi italiani. Avevano l’abitudine di usare un tono piuttosto alto ma, al contrario di altri, a me non infastidiva affatto. La vidi entrare proprio nei loro uffici. La mia gentilezza non era stata apprezzata, anzi, sembrava averla infastidita parecchio. Ancora contrariato entrai nel mio ufficio, avevo una riunione poche ore dopo e molto lavoro da sbrigare. Avevamo controllato il progetto ancora una volta, per sicurezza, ma la stanchezza cominciava a incombere su tutto il team. «Per oggi basta così» sbuffò un mio collega stropicciandosi gli occhi. «Siamo tutti provati, andiamo a casa, ne riparleremo domani» continuò alzandosi e invitandoci a uscire. Non vedevo l’ora di immergermi in vasca e di stendermi nel letto. Avrei chiesto a Namie di farmi un massaggio. A sera inoltrata l’aria più fresca mi indusse a fare una passeggiata. Mi fermai ad acquistare dei Takoyaki1 da mangiare per strada. Il gracidare delle cicale mi rilassava, aiutando la mia mente a svuotarsi. La strada che stavo percorrendo era praticamente deserta, in lontananza una coppia stava discutendo animosamente. Decisi di cambiare direzione per non disturbare, ma quando misi a fuoco la figura dell’uomo mi accorsi che si trattava di un mio collega. Il signor Vitti era il capo dell’azienda italiana con cui collaboravamo. In maniera non troppo educata mi avvicinai, seppur lentamente, ai due. Rimasi sorpreso notando che la donna con cui discuteva era la ragazza incontrata in ascensore la stessa mattina. Lei sembrava un po’ troppo giovane per essere la sua fidanzata, ma non erano affari miei per cui decisi di proseguire fingendo di ignorarli. Parlavano in italiano, non potevo capire quale fosse l’argomento della discussione. Continuai a camminare fino a quando le loro voci non divennero un tutt’uno con la città. 1 Takoyaki = spiedini di polipo a forma di polpette. Molto venduti per le strade in Giappone.
22 Finiti i miei Takoyaki, mi fermai a buttare la confezione e una voce non troppo lontana mi costrinse a voltarmi. «Mister Omori!» era il signor Vitti che con passo veloce mi raggiunse. «Buonasera Mister Vitti» risposi inchinandomi. «Mi scuso per prima» aggiunse sistemandosi la giacca. Mi aveva visto, dunque. «Non volevo disturbare lei e la sua fidanzata» risposi sorridendo imbarazzato. Avrei potuto omettere quel dettaglio, ma volevo sinceramente sapere se si trattasse della sua donna. Arrossì leggermente, poi grattandosi nervosamente i capelli mi disse: «Oh no, Mister Omori! Quella è Sara, mia nipote. Ha pochi anni meno di lei. Non volevo che lei assistesse a una scena così spiacevole. Sa, noi abbiamo un rapporto molto conflittuale.» Ero io adesso a dispiacermi per aver messo in imbarazzo il signor Vitti a causa della mia curiosità, ma la notizia mi diede uno strano sollievo. «Mi scusi» risposi sincero «non avrei dovuto chiedere.» Ci incamminammo insieme, parlando un po’ di lavoro, poi lo invitai a bere del sakè. Accettò volentieri e lo portai in un piccolo locale che ero solito frequentare con i colleghi. «Io e mia moglie l’abbiamo cresciuta al meglio delle nostre possibilità» iniziò il signor Vitti. Sembrava che sentisse il bisogno di confidarsi con qualcuno, e io capitavo al momento opportuno. «Mia sorella e suo marito sono morti molti anni fa e ci è sembrato giusto chiedere l’affidamento di Sara. Ha un carattere molto chiuso, ci somigliamo, e proprio per questo non andiamo d’accordo.» Prese fiato e bevve una tazzina di sakè. Io ascoltavo curioso, sentivo il bisogno di sapere il più possibile su quella scontrosa ragazza. Mandai un messaggio a mia moglie avvertendola che sarei rientrato tardi. «Vuole lasciare l’università, capisce» continuò l’italiano «vuole essere indipendente e lavorare. Così non abbiamo accettato la sua richiesta di avere un cellulare. Deve capire che l’università è fondamentale e in un impeto d’ira le ho detto che le avrei tolto il sostentamento finanziario settimanale.» Allentò il nodo della cravatta, delle piccole gocce di sudore gli si formarono sulle tempie. Non gli chiesi il perché di una scelta tanto drastica, anche se non capivo cosa ci fosse di male nel dare a una ragazza della sua età un cellulare o dei soldi extra. Aggirai il problema per avere altre informazioni.
23 «Forse ha delle persone in Italia con cui vuole mantenere i contatti?!» chiesi interrompendo il suo monologo. Era la mia curiosità a parlare. Il signor Vitti imbarazzato si grattò nuovamente i capelli, doveva essere un gesto inconsapevole. «Sinceramente non ne ho idea, non parla con noi di queste cose» mormorò. Non c’era molto che potessi scoprire in quella serata. Decisi che era ora di tornare a casa per cui mi congedai scusandomi, pagai il conto e uscii dal locale. Passarono parecchi giorni prima che rincontrassi Sara Vitti. «Sei il primo giapponese che incontro che sia più alto di me!» La sua voce mi sorprese alle spalle. Quando mi voltai vidi la ragazza dell’ascensore che con una mano misurava la differenza di altezza tra di noi. L’ultima volta che l’avevo vista era stato settimane prima, la stessa sera in cui avevo bevuto del sakè con suo zio. Mi rivolse la parola con naturalezza, sorprendendomi, visto che la prima volta era stata molto ineducata. Avevo appena finito di lavorare e stavo andando a prendere la macchina parcheggiata nel multipiano aziendale. Quella mattina avevo accompagnato Namie a fare alcune commissioni per poi andare diretto in ufficio. Chissà cosa ci faceva lei lì. «Torni a casa?» mi chiese. Ancora confuso tardai a rispondere, ma alla fine proposi: «Se vuoi conosco un posto dove fanno un ottimo sushi.» Mi resi conto, dopo averle parlato, che il mio era un vero e proprio invito. Volevo passare del tempo con lei, quell’istinto era incontrollabile. Ma cosa stavo facendo? «Non ho mai mangiato sushi!» disse alzando gli occhi verso il cielo. La invitai a salire in macchina e mandai un messaggio a mia moglie: -Problemi a lavoro, devo trattenermi in ufficio. Rientro il prima possibile. Ti amoEra vero, amavo mia moglie, per questo omisi la verità. Sapevo che niente di quello che stavo facendo poteva influire sul nostro rapporto. Non ancora. Per tutto il tragitto che ci portò al ristorante la ragazza non parlò, si limitò a cambiare le varie stazioni radio in modo compulsivo. «Questo è molto buono, quest’altro è disgustoso!»
24 Indicava i vari pezzi di pesce nel suo piatto. Era divertente il modo in cui si impegnava a tenere correttamente le bacchette. Il locale non era molto affollato e la musica in sottofondo permetteva di conversare senza essere ascoltati. «Ti chiami Sara, vero?» azzardai. Mi guardò, ma non sembrava sorpresa. «Non vuoi sapere il mio nome?» le chiesi insistente, mentre era tornata a osservare il sushi. «Se vuoi dirmi il tuo nome fallo e basta!» esclamò senza alzare gli occhi dal piatto. Non era per niente gentile. «Io sono Akira» dissi infastidito. «Ami tua moglie?» mi chiese guardandomi finalmente negli occhi e indicando con le bacchette l’anello al mio dito. Non era per niente educato porre delle domande così personali a una persona estranea. Era veramente difficile per me non provare imbarazzi nel parlare con lei. La sua espressione incuriosita mi imbarazzò ulteriormente e ancora più seccato risposi: «Certo che la amo, ma non sono cose che andrebbero chieste a una persona di cui non ti interessa il nome!» Non mi piaceva la sufficienza con cui mi trattava e neanche il potere che aveva su di me. «Magari non mi interessa il tuo nome ma mi interessi tu» disse sottovoce sporgendosi leggermente verso di me. Era snervante e allo stesso tempo affascinante. Impossibile resistere a quel suo modo di fare. Le parole sgorgarono dalla mia bocca come una valanga. «Io e Namie ci siamo conosciuti a una convention. Mi ero appena laureato, ero lì per lavoro, lei si occupava del catering dell’evento.» Sara mi ascoltava sorseggiando sakè, ogni tanto distoglieva lo sguardo per scrutare la sala dietro di me. Io non riuscivo a fermarmi, continuai: «Abbiamo iniziato a uscire insieme e dopo un paio di anni mi propose di consolidare la nostra unione. Con lei stavo bene per cui mi sembrò una buona idea.» Ancora immerso nei miei ricordi fui interrotto da una fragorosa risata. Sara posò velocemente il bicchiere di sakè per evitare di rovesciarlo e si strinse le mani sul ventre. Rideva di gusto e con un tono così alto che le persone ai tavoli vicini ci guardarono seccate. «Cosa c’è?» esclamai sgomento. Scaricai l’imbarazzo stringendo con le mani il bordo del tavolo.
25 «Tu…» mi indicò con l’indice «tu hai sposato la tua ragazza perché ti sembrava una buona idea?» Gli occhi sgranati, increduli. Si asciugò le lacrime. Sembrava sinceramente divertiva mentre io ero sempre più contrariato. D’altro canto però, non mi sfiorò mai l’idea di alzarmi da quel tavolo. «Avete figli?» mi chiese non appena smise di ridere. L’ennesima domanda personale; mi stavo piacevolmente abituando al suo inappropriato atteggiamento. «No, è ancora troppo presto per entrambi.» Bevvi velocemente l’ultimo bicchiere di sakè. Lei non aggiunse altro, contrariamente a quello che mi sarei aspettato. «Paga e andiamo» furono le sue ultime parole dentro al ristorante. «Dove abiti?» le chiesi una volta entrati in macchina. «Non voglio che mi porti a casa, lasciami pure alla stazione di Ueno» rispose secca fissando la strada. Quel suo modo di fare era quanto mai fastidioso. Sentirsi trattare come una molla con cui giocare a piacimento, mi metteva a disagio ma mi intrigava, turbandomi. La sua compagnia annullava tutto il mondo esterno. Come da sua richiesta la portai alla stazione e come all’andata nessuno dei due parlò durante il tragitto. Rimanevo zitto non per il nervosismo ma per riflesso al suo silenzio, non avrei saputo cosa chiederle. Parcheggiai davanti all’edificio ferroviario e Sara scese rapidamente dalla macchina. Non si voltò né mi rivolse la parola, non feci in tempo a scendere dall’abitacolo che lei era già sparita all’interno della stazione. Rimasi chiuso in macchina, il parcheggio intorno era semi deserto, potevo ancora percepire la sua presenza in macchina. Nel tornare a casa pensai amareggiato alla mia impossibilità nel rintracciarla. Il non sapere quando l’avrei rivista mi infastidì. Namie era ancora sveglia, stava consultando dei cataloghi, in cucina, sorseggiando del tè. «Sono molto stanco» le dissi togliendomi le scarpe per entrare in casa. Lei mi porse una tazza di tè e baciandomi mi sorrise. «Ti ho preparato l’acqua per il bagno.» Ricambiai il bacio. «Grazie» risposi sfilandomi la giacca. Non mi sentivo colpevole per aver mentito a mia moglie, ero solo andato a cena con una conoscente. Solo una cena.
26 Misi a riposo la mia mente; ero davvero stanco ma soprattutto ero nervoso. Il mio tempo in compagnia di Sara era stato troppo breve, volevo di più. Molto di più. Namie si era chiusa in bagno, piangendo. «Cara, non dicevo sul serio. Sono solo stressato dal lavoro. Apri la porta per favore» le dissi con voce tesa. Avevamo litigato e da un paio di settimane le nostre discussioni vertevano su un unico punto. Figli. Ne avevamo parlato ripetute volte. Lei insisteva nel volerne uno, io al contrario non mi sentivo pronto. Non ero ancora disposto a mettere da parte i miei bisogni. Avevo intrapreso una buona carriera e non volevo sottrarle del tempo. Ma soprattutto era un mese che non vedevo Sara e questo aumentava il mio malcontento. Mi sentivo come un bambino impotente di fronte a una vetrina piena di giocattoli che non potrà mai avere. Bussai nuovamente alla porta del bagno, questa volta Namie mi aprì gettandosi tra le mie braccia. «Ti chiedo solo del tempo tesoro» le sussurrai baciandole i capelli. Temporeggiavo. Lei mi baciò e asciugatasi le lacrime mi disse: «Voglio farlo…» La presi in braccio, le sue gambe si strinsero sui miei fianchi e la portai in camera da letto. Le sue gambe continuarono a cingermi fino a quando ci adagiammo sulle coperte. La sentivo eccitata, questo mi piaceva. Mia moglie non è una donna amante dei preliminari. La spogliai velocemente e leccai le sue gambe, iniziando dai piedi, fino ad affondare la testa tra le sue cosce. Lei ansimava vogliosa. Con ancora i vestiti indosso, slacciai i miei pantaloni e la penetrai con violenza. Le sue gambe si strinsero nuovamente in una morsa dietro alla mia schiena e io le afferrai portandomele intorno al collo. Mordendole i talloni proseguii a ritmo sostenuto. Stringevo le sue caviglie sottili inserendo ripetutamente il mio membro fuori e dentro di lei. Poi la voltai per possederla da dietro. Lei si appoggiò alla testiera del letto, era silenziosa ma il suo respiro accelerava notevolmente. Strinsi i suoi seni con entrambe le mani curvandomi sulla sua schiena, aumentando e diminuendo il ritmo per ritardare il mio orgasmo. Namie si voltò a guardarmi, potevo sentire il piacere irradiare il mio corpo. Presi il mio membro tra le mani e venni sulla sua schiena, una goccia le arrivò sul viso. La pulii con un dito e lo infilai nella sua bocca, lei lo succhiò avidamente.
27 Quello era l’unico modo che conoscevamo per porre fine ai nostri litigi. La mattina seguente presi la mia bici e mi avviai a lavoro. Uscii prima del solito, volevo godermi il cielo privo di nubi e l’aria fresca sulla faccia. Perso nel totale relax mi ritrovai a deviare il mio percorso abituale. Potevo vedere da lontano il caos della stazione di Ueno. Ancora non capivo il reale motivo di quella deviazione. E fu proprio in quel caos che rimasi immobile. Lei era lì, tra la folla. Attendeva, forse, un autobus. Indossava degli auricolari collegati a un iPod e si fissava scarpe. Adesso sapevo inconsciamente che la mia deviazione non era stata casuale, sapevo che la speranza di vederla mi aveva portato fin lì. Quell’attrazione mi stava cambiando. Sentire di poter perdere il controllo dei miei sentimenti mi spaventava, ma era proprio quella sensazione di pericolo a eccitarmi. Aumentai la velocità, avvicinandomi sempre di più all’oggetto dei miei desideri sepolti. La frustrazione, l’impotenza di questi due mesi, sparirono quando lei mi notò. Fermai la bici, ne scesi e con un sorriso imbarazzato la salutai, inchinandomi. Lei non mi sorrise ma imitò il mio gesto di saluto con la mano. «Vai a lavoro?» mi chiese osservando la mia valigetta. «Sì» risposi senza sapere se aggiungere altro. Lei si sfilò un auricolare e mise in ordine i capelli. «Io vado a Omiya, vieni con me?» domandò accennando un sorriso e inclinando la testa di lato. La sua proposta mi rallegrò, ma la mia educazione mi impose di declinare. «Devo lavorare, possiamo vederci stasera?» proposi. Non potevo farmi sfuggire un’occasione come quella. Non rispose, quindi rilanciai: «Dopo le sette?» Si rimise l’auricolare fissando un autobus in lontananza. Infine con voce quasi percettibile rispose: «Ci vediamo al chiosco di Takoyaki.» Avevo ottenuto altro tempo da passare con lei e questo mi rese estremamente felice. Di certo nell’aver accettato nuovamente un mio invito aveva palesato il suo interesse. Quella certezza mi mise di buon umore. Congedandomi notai il ritardo accumulato e pedalai sorridente verso l’ufficio. Per tutto il tragitto ripensai a quell’incontro fortuito. Sentivo la mancanza di Sara, cercavo solo un luogo che mi avvicinasse a lei e la
28 mia deviazione ne era la prova. Il destino, per mia grande fortuna, quel giorno sembrò sorridermi. Ero entusiasta. Parcheggiai la bicicletta e salii le scale, invece di usare l’ascensore, perché mi aiutassero a scaricare l’adrenalina. Dopo un’intera giornata trascorsa davanti al computer fui costretto ad andare al bagno per sciacquarmi il viso, tanto mi dolevano gli occhi. Guardai il mio orologio, erano solo le cinque. Il tempo scorreva lento, troppo lento. Chissà cosa stava facendo lei, cosa o chi c’era a Omiya ad attenderla. Non conoscevo praticamente niente della sua vita, e la cosa mi esaltava. Una volta ripreso il controllo, uscii dal bagno e vidi il mio assistente corrermi incontro. «Mister Omori, gli altri ingegneri l’attendono per un consulto!» Era affaticato dalla corsa appena compiuta. «Andiamo» risposi, intenzionato a tenermi occupato, e questo era un altro tempestivo colpo di fortuna. Era decisamente una buona giornata. O forse no? Arrivato il crepuscolo, la città indossava il suo abito da sera, luminoso e fluorescente. Corsi fuori dall’edificio con una certa ansia, dimenticando ogni cosa. La mia bici ancora nel parcheggio aziendale, i miei colleghi ai quali rifiutai un invito e mia moglie che mi attendeva a casa. Era da molto tempo che non mi agitavo così per una donna. La vidi seduta su una panchina, stava mangiando l’ultima pallina di uno spiedino di Takoyaki; decisi di calmarmi rallentando il passo. Quando fui abbastanza vicino da sorriderle lei alzò lo sguardo. «Questa roba non ha un buon sapore» esclamò con un’espressione quasi disgustata. Era molto buffa e scoppiai a ridere. Lei, stranamente, ricambiò con un leggero sorriso. «Dove mi porti?» mi chiese una volta gettati i rifiuti del suo pasto. Desideravo poter stare solo con lei, in un luogo isolato e confortevole dove potermi comportare liberamente e dove lei potesse fare lo stesso. Avevo già un’idea ben precisa ma esitai nell’affermarla, forse per imbarazzo o forse per quello che ne sarebbe seguito, poi mi decisi ed esclamai: «Andiamo in un hotel?» La mia audacia mi paralizzò la faccia.
29 La vidi irrigidirsi a sua volta per un momento, e per paura che potesse fraintendere le mie intenzioni mi affrettai a trovare una spiegazione. Lei mi si avvicinò e prima che potessi parlare, scrutandomi mi disse: «Tu…» fece una pausa «…sei interessante» concluse. Ancora attonito, fui incapace di dire qualcosa. Lei mi anticipò nuovamente dicendo: «Ma che sia uno di quei love-hotel 2 di cui ho tanto sentito parlare.» Abbassai lo sguardo completamente sconvolto dalle sue parole. Forse lei provava del desiderio sessuale nei miei confronti? Era una cosa a cui sinceramente non avevo mai pensato… forse non era strano che lei volesse venire a letto con me. E io? Volevo andare fino in fondo? Era di certo una bella donna, ma c’era qualcos’altro che mi attirava verso di lei, qualcosa che non avevo ancora capito. Con il treno raggiungemmo Shinjuku3. Scelsi con cura tra i tanti hotel, cercavo un posto che non fosse troppo spartano. Il ragazzo in portineria ci accolse con un impercettibile inchino, la presenza di una straniera lo trovò impreparato. Scelsi la camera indicando la foto corrispondente, assicurandomi che anche Sara esponesse le sue preferenze, poi ci venne consegnata la carta magnetica della stanza e ci dirigemmo verso l’ascensore. Lì la tensione aumentava, almeno da parte mia. Sara sembrava più incuriosita che propensa al sesso. Per un attimo arrivai a pensare che non sapesse cosa fossero davvero quegli hotel, ma non era una sprovveduta e accantonai l’idea. «Ma non ti chiedono un documento di identità?» mi domandò improvvisamente. «No» risposi rapido, ero visibilmente nervoso. 2 Love Hotel = Hotel molto diffusi nei paesi asiatici, predisposti e attrezzati per le coppie che intendono fare sesso.
3 Shinjuku = uno dei 23 quartieri speciali, noto anche per avere un’ampia area a luci rosse.
30 «Per pagare?» chiese sistemandosi le sopracciglia allo specchio. «Direttamente in camera» mormorai. Quella sua tranquillità mi metteva a disagio. Non mi permetteva di capire le sue reali intenzioni. Come ci saremmo comportati una volta entrati in camera? Non sono un animale, non mi sarei mai permesso di saltarle addosso. Se però fosse stata lei a fare la prima mossa, di certo non mi sarei tirato indietro. Mi sentivo imbranato. Infine inserii la tessera nell’apposito congegno e la porta si aprì. Sara ripose la sua borsa per terra e io misi la mia valigetta sul tavolo vicino al televisore. Si voltò verso di me velocemente e azzardò: «Mi hai portato in un hotel perché vuoi scopare?» Quel suo modo di fare troppo diretto era quanto mai disagiante, ma una volta abituatomi mi resi conto di quanto tornasse utile. Niente giri di parole, niente incomprensioni, niente perdite di tempo. «Le mie prime intenzioni erano altre» risposi sincero. Lei con un certo sarcasmo ribadì: «E le tue seconde quali sarebbero?» Non mi piaceva essere messo sotto pressione, non avevo le idee chiare per cui optai per l’unica via di fuga. «Andrò a farmi una doccia» conclusi spazientito dirigendomi verso il bagno. L’acqua gelata sulla nuca mi provocò brividi su tutto il corpo ma rinfrescò anche la mia mente. Continuavo a sentirmi spaesato come un qualunque adolescente; cosa volevo veramente? C’era una forte attrazione, questo era percepibile da parte di entrambi, ma sentivo che, nonostante l’alchimia, non desideravo solo portarmela a letto, volevo conoscerla. La cosa dunque non era così semplice, questo indicava quanto il mio coinvolgimento fosse profondo. Ero totalmente preso da lei. Troppo preso. Il pensiero di Namie, del nostro matrimonio, della nostra vita presente e futura affollava la mia mente, mentre il pensiero di Sara non mi permetteva neanche di ragionare. Ero in grossi guai. Guai dagli occhi magnetici e dalla pelle diafana. Finita la doccia, indossai le mutande e la camicia, ne avvolsi le maniche e uscii. Sara era distesa nel letto con indosso solo una canottiera e le mutande. Interpretai il suo vestiario come un aperto segnale. Stava giocherellando con il mio cellulare. «Mi spiegheresti come si usa?» mi chiese allegra.
31 Mi distesi al suo fianco spiegandole le varie funzioni che le interessavano. «É possibile cambiare lingua, magari sostituendola con l’inglese?» Le presi il telefono e le mostrai come fare. «Posso connettermi a internet e mandare una mail?» Continuava a riempirmi di domande. Le diedi il mio consenso, e notando il cambio d’espressione repentino le chiesi di rimando: «A chi vorresti scrivere?» Senza staccare gli occhi dal telefono mi disse: «A una persona, in Italia, che sarà sicuramente infuriata con me.» Sorrise di un qualcosa che non avrei mai capito. «Il tuo ragazzo?» la mia curiosità prendeva di nuovo il sopravvento. «O la mia ragazza» esclamò strizzando un occhio. «Sei omosessuale?» domandai più sorpreso del dovuto. A quell’eventualità non avevo davvero pensato. Se così fosse stato così, cosa ci facevamo lì con indosso solo la biancheria intima? Si voltò a guardarmi. «Non mi pongo dei limiti sessuali» mi spiegò con fare serissimo. Mi sdraiai poggiando i gomiti sul letto. Il discorso si faceva estremamente interessante. «Sei bisessuale?» chiesi senza mezzi termini. Il nostro dialogo si era trasformato in un botta e risposta. Sara imitò il mio gesto voltandosi prona. «É la persona ad attrarmi, io mi innamoro tutte le volte!» spiegò voltando lo sguardo verso i profilattici posti sul comodino. «E non ti innamori mai…» azzardai l’ipotesi. Lei si voltò di scatto, sporgendosi verso di me. Potevo sentire il suo respiro sul mio mento. «Tu sei interessante» mi ripeté. Accorciai le distanze tra noi due e la baciai. Mi stesi sopra di lei prolungando il bacio, potevo sentire la sua pelle calda aderire alla mia ancora fresca per la doccia. Mi stavo eccitando. Il mio corpo con i suoi movimenti frenetici mi faceva capire quanto agognato fosse quel momento. Mi alzai e afferrandola per una gamba trascinai il suo corpo verso il bordo del letto. Mi inginocchiai tra le sue gambe, lei mi osservava con un sorriso complice. I suoi capelli in disordine le conferivano un aspetto davvero sensuale. Non avevo mai fatto sesso con una donna europea. Sì, una volta, durante un viaggio di lavoro, ebbi un incontro intimo con un hostess americana, ma in quell’affollato bagno aeroportuale non potei arrivare fino in fondo. Quella fu la prima volta
32 che tradii mia moglie, ma anche il momento in cui capii quanto le mie scappatelle non intaccassero i sentimenti che provavo nei suoi confronti. Mettendosi a sedere, Sara si sfilò le mutandine e premette con entrambe le mani la mia testa tra le sue cosce. Leccai avidamente il suo sesso, mi piacevano i pochi peli curati intorno al clitoride, poi mi mossi verso il suo buco. Era leggermente dilatato, mi ritrovai a confrontarlo con quello molto più stretto di mia moglie, poi vi lasciai scivolare la lingua. Ancora e ancora. Potevo sentirla gemere e ansimare, teneva la testa inarcata all’indietro. Mise le gambe sulle mie spalle, le sue mani non lasciavano la mia testa, che muovevo a ritmo regolare contro di lei. Ero carico di eccitazione e desiderio per cui mi alzai tenendole ferme le gambe. Mi abbassai le mutande e afferrato il mio membro fra le mani lo strusciai per tutto il suo interno coscia. Un attimo prima che la penetrassi, mi colpì con il piede in pieno petto facendomi barcollare all’indietro. Ci fissammo per un secondo; il mio sguardo contrariato incrociò il suo sorridente, poi con un cenno della mano mi invitò a distendermi nuovamente sul letto. Ancora confuso obbedii, e lei con un gesto veloce mi fu subito sopra in modo da poter stimolare il mio sesso e io il suo. Strinsi a me le sue gambe, stranamente fredde, un brivido mi fece ansimare quando sentì l’umido della sua bocca intorno al mio fallo. Muovevo il bacino contro il suo viso, le sue mani e i suoi denti mi stringevano avide. Io mi facevo strada con la lingua verso le sue oscure profondità stimolando con la mano anche l’intimità tra le sue natiche. Il ritmo cresceva così come la mia eccitazione. «Non così veloce… altrimenti…» ansimai. Si voltò a guardarmi con espressione soddisfatta e scostando i capelli dal viso disse: «Non ti permetterei di entrare in me.» La sua frase sembrava carica di significati diversi. Le infilai due dita dentro, con l’intenzione di punire la sua troppa sicurezza. Era molto bagnata ed entrarono con facilità, quando poi le dita divennero tre, lanciò un gemito di piacere. Mi strinse il membro con forza aumentando violentemente il ritmo, sembrava volesse a sua volta punirmi. Sentii i muscoli dei polpacci contrarsi, le mie gambe si irrigidirono e venni sul mio ventre. Volevo portare anche Sara all’orgasmo, ma prima che tornassi a muovere le dita lei si alzò. Ancora disteso, la guardavo rimettersi gli slip. «Sara…» sussurrai. Lei accennò un sorriso e prendendo il mio cellulare mi disse:
33 «Mando una mail.» La vidi andare in bagno a lavarsi le mani e il viso, poi si sedette sul gabinetto e ripreso il mio telefono iniziò a scrivere concentrata. Io ero ancora a letto, la circolazione del sangue mi provocava dei lievi pizzichi sui piedi. Fissavo il soffitto, gli unici rumori che potevo sentire erano il battito del mio cuore e in lontananza il bip dei tasti del mio telefono. C’era un’atmosfera strana, la stanza sembrava avvolta da un artificiale silenzio. Nessuno dei due sembrava voler parlare. Dopo poco Sara tornò sul letto, osservava pensierosa il mio sperma colare sulle lenzuola. «Hai fame?» chiesi per spezzare il silenzio «se vuoi utilizziamo il servizio in camera.» Si stese sul letto riponendo il cellulare sul comodino. «No, sono stanca, dormirò un po’» concluse chiudendo gli occhi. Mi alzai e andai in bagno, prima di tornare sotto la doccia potei sentire il televisore accendersi. A occhi chiusi, mi rilassai lasciando scivolare l’acqua tiepida lungo tutto il mio corpo. Una volta lì, da solo e in silenzio, cercai di reprimere il pensiero di mia moglie. Quando tornai in camera Sara aveva gettato per terra il lenzuolo sporco e con il copriletto nascondeva parte del volto. Forse aveva difficoltà ad addormentarsi o forse anche a lei quel silenzio appariva innaturale. «Non riesci a dormire?» le domandai carezzandole i capelli. Mi rispose senza mai aprire gli occhi. «Ho bisogno di sentire delle voci intorno a me.» Quella frase detta con noncuranza aveva l’aspetto di una confidenza e la cosa mi fece piacere. «Ti senti sola?» le domandai sorridendole, pur sapendo che non mi avrebbe visto. «Io sono sola» concluse in tono grave. Rimasi a fissarla in attesa che si aprisse ulteriormente con me. Purtroppo non sembrava intenzionata a farlo per cui mi rivestii, presi con me il cellulare e mi avviai verso la porta. «Vado a telefonare a mia moglie» esclamai sulla soglia. Lei non si mosse e io uscii. -Namie, cara, ho molto lavoro, non potrò rientrare a casa. A domani. Ti amo. AkiraLe mandai appositamente un messaggio perché non volevo parlarle, ed essendo comunque molto tardi non potevo sapere se fosse sveglia. Non riuscii a essere meno freddo, come non riuscivo ancora a sentirmi in colpa. Sapevo che il mio atteggiamento era imperdonabile. Non era più una semplice cena con una conoscente, non era un servizio sessuale in un
34 bagno pubblico. I miei sentimenti per Sara, qualsiasi essi fossero, erano incontrollabili. Lo dimostrava il fatto che senza accorgermene mi ero ritrovato davanti a un negozio di telefonia. Chiunque volesse contattare in Italia era a troppi chilometri di distanza per rappresentare un reale problema quindi, facendomi consigliare dal commesso, le comprai il modello più colorato e più adatto per navigare in internet. Pensavo alle parole del Signor Vitti e a quelle di Sara, e io non volevo che lei si sentisse sola. Volevo renderla felice. Quando tornai in albergo, Sara stava già dormendo. Con la massima cura nel non fare rumore, mi spogliai, riposi il pacchetto regalo sul suo comodino e mi stesi a letto. Aveva fatto la doccia in mia assenza, come dimostrava il buon odore nella stanza e i suoi capelli bagnati. Lasciai il televisore acceso abbassandone però il volume, presi una ciocca dei suoi capelli e me la portai al viso. Inspirai profondamente e mi addormentai. Avevo dormito tutta la notte nella stessa posizione per cui mi svegliai indolenzito ma riposato. Fui attirato da una serie di rumori provenienti dal bagno. Non riuscivo ancora bene ad aprire gli occhi, ma distinsi chiaramente la figura di Sara che si allacciava le scarpe. «Sara… dove vai?» domandai con un filo di voce. Ferma sulla soglia del bagno iniziò a frugare nella sua borsa, ne tirò fuori un pezzo di carta. «Devo lavorare» spiegò sbrigativa porgendomi quello che capii essere in seguito un biglietto da visita. «Dietro c’è il numero del telefono che mi hai regalato.» Si chinò su di me e baciandomi il collo mi sussurrò: «Grazie…» Le fermai la testa con la mano costringendola a baciarmi sulle labbra, poi le risposi: «Prego. Ti chiamo stasera.» Quando uscì dalla camera, incuriosito studiai il biglietto da visita; era quello di un ristorante italiano. Non avevo neanche idea che Sara lavorasse. Presi il mio cellulare per salvare il suo numero e mi sorpresi nel vedere l’ora. Era già mattina, tra poche ore sarei dovuto andare a lavoro, ma ero estremamente rilassato poiché avevo dormito profondamente. Quella sensazione però durò poco. Mi accorsi di aver ricevuto un messaggio. Quando lo lessi rimasi immobile a rileggerlo per vari minuti, era di mia moglie. -Dobbiamo assolutamente parlare, ci vediamo stasera.-
35 Mi irrigidii istantaneamente, riuscivo solo a pensare a cosa avrei potuto dirle nel momento in cui mi avesse scoperto. Com’era successo? Eppure ero stato così attento. Nessun collega mi aveva visto e comunque non avevo frequentato posti dove potessi essere facilmente riconosciuto. Solo e immobile al centro del letto, mi rendevo conto delle conseguenze che le mie azioni avrebbero portato, e l’odore di Sara intorno a me non rendeva le cose facili. Non volevo rinunciarvi. Il bisogno di Sara e i sentimenti verso mia moglie mi dividevano in due. Non riuscivo a pensare lucidamente. L’unica certezza che avevo in quel momento era che dovevo lavorare, per cui mi preparai per uscire e pagata la stanza mi diressi in ufficio. Il lavoro non mancava e la giornata passò abbastanza velocemente. Quando salii sul taxi pronto per tornare a casa, iniziai visibilmente ad agitarmi. Non sapevo bene cosa avrei fatto se mia moglie mi avesse lasciato. Volevo ancora stare con lei? E se scoprendo cos’era successo mi avesse comunque perdonato, poteva tornare tutto come prima? Ero così concentrato su me stesso che riuscivo solo a pensare alla serenità che la presenza di Sara mi provocava. Volevo chiamarla, volevo andare al ristorante dove stava lavorando, non volevo tornare da mia moglie. Lo feci comunque, la mia educazione me lo impose. Quando entrai in casa, trovai Namie seduta ad attendermi in cucina. Scrutai la sua espressione per capire il suo umore. Sembrava calma, stranamente calma. «Ho ricevuto il tuo messaggio» le dissi posando la giacca sul tavolo «è successo qualcosa?» chiesi con finta ingenuità. Le lacrime iniziarono a sgorgarle dagli occhi, il momento della verità era sempre più vicino. Mi sedetti accanto a lei, le cinsi le spalle con una mano. Lei non rifiutò il mio tocco, questo era decisamente un buon segno, o forse no. «Di’ qualcosa Namie» la incitai. Non avrei sopportato a lungo quel silenzio. Prese un respiro profondo, poi parlò. «Volevo già parlartene da giorni, ma tu non eri mai a casa. Ti stanchi molto a lavoro?» mi domandò interrogativa. Stava indagando? O voleva che mi tradissi rilevando qualcosa? «Siamo in una fase di progettazione molto complessa» risposi tergiversando. «Non passerai più molto tempo a casa dunque» riprese.
36 Non capivo dove volesse arrivare. Iniziavo a spazientirmi, quindi cercai di svincolarmi dall’interrogatorio. «Namie, cos’è che non riesci a dirmi?» le chiesi ormai pronto al peggio. Non pensavo che “il peggio” potesse essere così sorprendente. «Sono incinta» affermò secca. Non so quanto tempo rimasi in quella posizione, fermo, immobile, la mente incapace di formulare qualsiasi pensiero. Cosa? Cosa? Cosa? Era questa l’unica cosa che riuscivo a chiedermi. Ancora poco lucido, realizzai di non essere stato scoperto e questo temporaneamente mi tranquillizzò, poi la cosa passò notevolmente in secondo piano. Ora tante discussioni, tanti litigi, iniziavano ad avere un senso. Arrivato al capolinea di quel dramma interiore, sbottai alzando la voce. «Avevi detto che prendevi la pillola!» «Tesoro, calmati.» Mi carezzò un braccio ma sfuggii alla sua presa e mi alzai di scatto, la sedia cadde alle mie spalle. Ero furibondo. «Mi hai mentito!» le urlai, anche se avrei potuto rivolgere a me stesso la medesima accusa «da quanto tempo lo sai?» Non riuscivo a mantenere un tono contenuto. «Akira, mi dispiace, ma prova a pensare! Avremmo un bambino tutto nostro!» Lei piangeva, piangeva copiosamente e tutto quello che io volevo era andare via da lì. Non aveva risposto alla mia domanda, non che in quel momento mi importasse davvero. Un figlio certo, ci avevo pensato tante volte perché io volevo un bambino, una vita senza era per me priva di significato, era incompleta. Era però sempre rimasto un pensiero lontano dal concretizzarsi, adesso invece vi ci venivo trascinato contro la mia volontà. Non avrei mai chiesto a mia moglie di abortire, il solo pensiero mi nauseava, ma avevo bisogno di tempo per metabolizzare la notizia. Mi sentivo preso in giro. Riuscivo solo a pensare a una via di fuga. Io fuggo sempre. «Ho bisogno di calmarmi» furono le uniche parole che riuscii a dire. Ripresi la mia giacca e la mia ventiquattrore e uscii. Namie non disse niente, mi osservò uscire ancora afflitta. Svoltai l’angolo e presi il cellulare; composi il numero di Sara e attesi di sentire la sua voce, ma non ebbi risposta. Presi dalla tasca destra il biglietto da visita datomi la stessa mattina, e chiamato un taxi mi diressi al ristorante.
37 Digrignai i denti per tutto il tragitto, non proferii parola neanche con il tassista che gentilmente tentava di fare conversazione. Risultai un vero maleducato. Prima di allora non ero mai stato in un ristorante italiano. Restai fermo per un po’ sulla soglia osservando la scritta luminosa che dava nome al posto: “Mavesi”. Mi chiesi se potesse avere un qualche significato, poi entrai. Il locale era piuttosto nuovo, doveva avere non più di cinque anni. La sala non era molto grande ma l’afflusso di gente era notevole. Non avendo fame optai per il bancone del bar e ordinai una birra. In sottofondo scorreva della musica melodica italiana, niente che io conoscessi. Cercavo Sara attraverso la sala, nella speranza che fosse a lavoro, anche se effettivamente non sapevo che tipo di mansione svolgesse. Se lavorava in cucina come avrei potuto incontrarla? Scrutai attentamente il personale, c’erano camerieri italiani e giapponesi, dalla cucina si sentiva un gran vociare che metteva allegria, per quanto possibile. Fu proprio da lì che la vidi uscire. Stava legandosi un piccolo grembiule nero in vita. Le feci un cenno con la mano e si diresse verso di me. Si posizionò dietro al bancone, dando probabilmente il cambio al ragazzo che mi aveva servito prima. Ero più sereno ora che mi era accanto. «Ciao» le dissi in italiano, lei mi sorrise. «Hai una faccia pessima, problemi a lavoro?» mi chiese, intuendo subito il mio stato d’animo. Bevvi la mia birra velocemente mentre lei riponeva delle tazze sulla macchina per il caffè, poi porsi il bicchiere verso di lei. Sara lo prese e mi spinò un’altra birra. «Da quello che vedo devono essere problemi più grossi. Tua moglie?» azzardò centrando un pieno il problema. «Abbiamo litigato» mormorai giocherellando con la schiuma del mio bicchiere. «Anch’io sarei arrabbiata con mio marito se mi tradisse con una donna più giovane» incalzò sporgendosi sul bancone con un sorriso malizioso. «Piantala!» le risposi irritato. Lei si avvicinò ancora e aggiunse: «Non ti sarai mica innamorato di me, vero Omori-san?» Sentii le guance infuocarsi, ero arrabbiato. Si prendeva gioco di me mentre io ero così affranto. Ero innamorato di lei? Non riuscii a dirigere i miei pensieri in quella direzione. Deglutii sputando la verità. «Mia moglie aspetta un figlio da me.»
38 Sara mi fissò, il suo sguardo era perso in chissà quale luogo a me proibito. Quando tornò in sé si versò un bicchiere d’acqua e lo bevve tutto d’un fiato. «Ami tua moglie?» Era una domanda che mi aveva già fatto, io le diedi l’ennesima risposta. «Certo che la amo.» Mi sporsi io verso di lei. Amavo mia moglie? Era una domanda che mi ero posto molte volte nelle ultime settimane. Avvicinò la fronte alla mia e mi disse: «Allora perché cazzo sei qui?» Non seppi minimamente cosa risponderle perché una risposta ancora non l’avevo. La nostra conversazione fu disturbata da un cameriere. «Vitti, tre caffè al tavolo quattro.» Le passò un vassoio e lei vi pose tre piattini. «Li preparo subito.» Cercai di aggirare il vero problema e con un tono forzatamente leggero le chiesi: «Da quanto tempo lavori qui? Hai già fatto la barista?» Lei era intenta a preparare l’ordinazione e mi rispose senza voltarsi. «Lavoro qui da tre settimane.» Non aggiunse altro e portò i caffè al tavolo indicatole. Quando tornò mi chiese se volevo un’altra birra. Accettai. «Non vuoi figli?» chiese. Un’altra domanda troppo diretta. «Non è questo il vero problema. Desidero dei figli, ma vorrei fosse stata una decisione comune» risposi frustrato. «Non lo è stata?» chiese sorpresa. Feci un cenno negativo con la testa. Lei riprese: «Chissà, forse non ti saresti mai deciso» convenne facendo spallucce «e forse te ne saresti pentito quando sarebbe stato troppo tardi» concluse come se stesse parlando con se stessa. Rimasi in silenzio mentre serviva da bere a una coppia avvicinatasi al bancone. Stavo finalmente sentendo la mia rabbia placarsi. Forse era l’alcol o forse la sua presenza, ma mi sentivo meglio. «Mi piace stare in tua compagnia Sara» le dissi cercando di dimenticare ogni cosa e appoggiando la mia mano sulla sua. «Akira, mi credi davvero così stronza da accettare le avances di un uomo che ha lasciato la moglie incinta a casa da sola?» Le sue sopracciglia ben curate si arcuarono sempre più. «Non voglio perderti!» mi affrettai a risponderle, capendo subito la piega che la conversazione stava prendendo.
39 Era la verità, lei adesso era l’unica persona in grado di rendermi felice. «Io ti interesso non negarlo!» continuai tenendole sempre ferma la mano. «Le cose sono molto diverse ora» scandì lentamente l’intera frase. Dalla cucina uscì un uomo nerboruto, forse sulla quarantina, da un po’ ci lanciava delle occhiate che andavano oltre la buona educazione. Si rivolse a Sara in italiano; non capii nulla della loro discussione ma sembrava che lei lo stesse tranquillizzando. Dopo un breve colloquio i due si sorrisero e lui tornò al suo impiego. «Chi era?» chiesi un po’ troppo acido. «Il proprietario» mormorò riponendo il bicchiere ormai vuoto nel lavandino. «Akira, va a casa da Namie» aggiunse sospirando. «Sara mi stai lasciando?» balbettai allarmato. Mi alzai per poterla guardare bene negli occhi. Stava succedendo e anche stavolta mi sentivo senza possibilità di scelta. «Noi due non siamo mai stati insieme» precisò quasi esasperata. Mi sentii inerme davanti allo svolgersi degli avvenimenti. Non volevo lasciarla. «Non prendermi in giro!» Il mio tono un po’ troppo alto attirò l’attenzione di alcuni camerieri. Sara si fece sostituire da un ragazzo al bancone e uscimmo dal locale. Una volta fuori l’aria fresca mi aiutò a riprendere il controllo. Anche Sara sembrava tesa, si sistemava i capelli continuamente. Inspirò profondamente poi disse: «Akira, sei interessante e lo sai…» aspettai che terminasse la frase «ma eri un uomo sposato e adesso sei un padre. Non è difficile intuire come andrà a finire.» Mi aggiustò il colletto della camicia. «Non usare me per fuggire dalla tua vita.» «Ma io…» ribattei. Poi lentamente un pensiero prese forma nella mia testa. Forse era proprio di questo che si trattava, ero insoddisfatto della mia vita. Il mio matrimonio e il mio lavoro senza dubbio mi piacevano ma non mi rendevano più felice, non ero più la persona attiva e speranzosa di tanti anni prima. Sara era quello che volevo, con lei mi sentivo davvero me stesso ma l’avevo desiderata troppo tardi. Forse non era amore, ma mi faceva stare bene. La via era parecchio affollata, i rumori della città coprivano i nostri silenzi. Da sempre mi ritenevo una persona responsabile e in
40 quell’occasione, anche se a malincuore, non sarei stato da meno. Sapevo cosa era giusto fare anche se non era giusto per me. «Va bene» fu l’unica cosa che dissi dopo aver capito che non potevo fare nulla per cambiare la mia situazione. Chinai la testa e mi incamminai verso casa. Mi sforzai di non voltarmi, potevo sentire dietro di me la porta del locale che si chiudeva. Chiamai un taxi e mi concentrai solo sull’immagine di mia moglie. Sul cellulare trovai quattro chiamate, tutte da parte sua. Il taxi arrivò e io mi lasciai portare a casa senza proferire parola. Le luci della città sfrecciavano veloci, l’aria condizionata dell’abitacolo mi infastidiva. Scorsi i numeri della rubrica fino a quello di Sara; dopo averlo osservato a lungo lo cancellai. Mi sentivo uno schifo, stavo tornando a casa ed era l’ultimo luogo dove volessi andare. Arrivato vidi Namie corrermi incontro e aggrapparsi alle mie spalle. Piangeva esattamente come tre ore prima. «Sono a casa tesoro» la tranquillizzai. Le carezzai il viso ripulendolo dalle lacrime e le passai una mano sull’addome. Avrei avuto un figlio che dovevo ancora imparare ad amare, da una donna bella e piacevole che probabilmente non amavo più. Rientrammo, e nel chiudere la porta dietro di noi osservai il cielo ormai nero. Pensai all’odore di Sara dentro alla stanza d’albergo. Sorridendo tornai a quei momenti e sospirai sapendo che a me non avrebbe mai scritto una mail seduta sul gabinetto di un love-hotel, e tanto meno fatto una telefonata. Del resto non mi aveva mai chiesto il numero di cellulare.
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Capitolo tre. Luigi
L’aereo atterrò con un’ora di ritardo e questo non fece altro che aumentare il mio sconforto. Quei luoghi che una volta ammiravo con curiosità e allegria adesso mi erano del tutto indifferenti. Una volta ritirato il bagaglio e controllato il tabellone degli orari mi diressi verso il mio treno. Il keisei skyliner4 che col suo nome una volta mi appariva divertente, ora era un normalissimo mezzo di trasporto verso casa. L’entusiasmo di quattro anni fa sembrava essersi dissolto in un solo giorno. La cucina è sempre stata una mia grande passione. Iniziai col cucinare durante le feste per i miei amici, continuai col seguire le trasmissioni dei migliori chef in televisione e finii per scegliere, senza indugio, un liceo adatto. Passai tutte le estati della mia adolescenza come apprendista negli hotel e fu proprio durante una di quelle estati che conobbi quello che sarebbe diventato il mio migliore amico, Leonardo. Eravamo solo due ragazzini con poca esperienza del mondo ma con tanta voglia di emergere. «Ho sempre sognato di aprire un ristorante!» fantasticava Leo, le sere d’estate. In realtà all’epoca io ero poco più di un lavapiatti e lui era il receptionist dell’albergo in cui lavoravamo. Aveva tre anni più di me ma era molto preciso, meticoloso e sempre di buon umore, svolgeva il suo lavoro perfettamente. 4 keisei skyliner = treno espresso che collega l’aeroporto di Narita direttamente con la metropolitana di Tokyo.
42 «Quando sarai un bravo chef e io avrò il mio ristorante, lavoreremo sicuramente insieme» mi disse un pomeriggio afoso, finito il doppio turno. Quelle parole dette davanti a una birra ghiacciata, suonavano come una frase senza peso, ma speravo che un domani potessero corrispondere a verità. Abitavamo in due città diverse, a parecchi chilometri di distanza e per non perderci di vista alla fine della stagione ci scambiammo i numeri di telefono. Avevo trovato un amico. Negli anni che seguirono riuscimmo, nonostante le vite molto diverse, a restare in contatto. Eravamo entrambi molto impegnati ma internet ci permise di mantenere un costante rapporto. Vivevo a Roma da parecchi anni quando arrivò la telefonata che cambiò la mia vita. «Pronto?» risposi a un numero che non avevo in rubrica. «Parlo con il signor Paludo?» Non riconobbi subito l’uomo all’altro lato della cornetta. «Sono io, con chi parlo?» chiesi curioso. «Oddio, la tua voce è completamente diversa!» esclamò con tono acuto l’uomo al telefono, poi seguì una piacevole risata. «Luigi, sono io, Leonardo Mavesi!» aggiunse divertito. La telefonata arrivò inaspettata, quasi come la mia reazione. «Porca troia, Leonardo! Amico, che bello sentirti!» risposi fuori di me. «Senti, hai un computer nelle vicinanze?» mi chiese ancora ridendo «sarebbe meglio sentirci tramite chat altrimenti dovrò dichiarare bancarotta! Ok?» Per fortuna ero a casa e gli chiesi qualche minuto per accendere il portatile e connettermi in rete. Ero così contento perché a parte qualche breve mail non avevamo avuto modo di sentirci negli ultimi anni. -Come stai Luigi? Dove ti trovi adesso?-Sono a Roma! Mi sono trasferito due anni fa! Ho finalmente terminato quella famosa scuola per chef (sapessi quanto mi è costata) e adesso lavoro per un ristorante. Sono lo Chef Saucier5. Sai di cosa parlo vero? 5 Chef Sucier = chef che si occupa specificatamente della preparazione di salse di base e calde, della cottura delle carni e della guarnitura dei suoi piatti.
43 -Sì, è davvero magnifico. Ne hai fatta di strada. Indovina dove mi trovo io invece?-Sono anni che non ci sentiamo! Col tuo temperamento potresti essere ovunque! Dove sei?-A Tokyo! ;) -Cosaaa? O__O-Sorpreso? Ebbene sì! Non sono qui per vacanza me bensì per lavoro. Stessa ragione per cui ti ho chiamato.-Che lavoro fai adesso?-Sono in procinto di realizzare il mio sogno, ma ho bisogno di un socio. Ho bisogno di uno Chef de Cuisine6! Sai di cosa parlo vero?In quel momento ricordo che il mio cuore cessò di battere. Ero felicissimo per Leonardo, sapere che i suoi sogni stavano per realizzarsi era per me una gioia. Sapevo a cosa si riferisse e quale fosse la proposta che voleva farmi. Certo, non avrei mai pensato che frasi dette sei anni prima avrebbero trovato un giorno un fondamento. Non riuscivo ancora a crederci. -Parli sul serio?-Sono serissimo, lavoro qui in Giappone da diversi anni e ora ho finalmente la cifra e il locale per aprire la mia attività!-Parli il giapponese?-Figuriamoci! Riesco a malapena a farmi comprendere, ma lavoro con uno staff giapponese che mi risolve le questioni d’ufficio!-Non so cosa dire!-Luigi, so che non è giusto piombare così nella tua vita con una richiesta tanto assurda! Hai di certo un buon lavoro, una fidanzata, degli amici… ma io non vorrei nessun altro nella mia cucina.-Sugli amici e il lavoro hai ragione, lasciamo perdere la vita sentimentale.;( Vorrei del tempo per pensarci!-Ti concedo una settimana!:) Vengo a prenderti in aeroporto mercoledì prossimo. Ora devo andare, ho un sacco di lavoro! A presto! 6 Chef de Cuisine = è il responsabile di tutto il personale, dei menu e dell’intera gestione del reparto cucina.
44 Quella conversazione fu la più surreale della mia vita. Stava accadendo tutto così in fretta che non riuscivo a capacitarmene. Come lo stesso Leonardo aveva intuito, non mi ci volle molto per prendere una decisione. Mio padre mi accusò di essere troppo impulsivo; mi consigliò di chiedere un’aspettativa, per non perdere il mio posto di lavoro nel caso, riportando le sue parole, fossi tornato sano di mente. Poi andai immediatamente a comprare il biglietto aereo. Sotto lo sguardo orgoglioso ma preoccupato dei miei, mi imbarcai sul volo AZ 784 diretto a Narita. Ricordo ancora con sofferenza quel viaggio interminabile. Arrivai, tra nausea e mal di testa, stanco e assonnato; era la prima volta che provavo il fuso orario. Non mi sentivo padrone del mio corpo. Come promesso da Leonardo, lo trovai al terminal 1 ad attendermi. «Luigi, dov’è finito il ragazzino mingherlino che conoscevo?» mi chiese abbracciandomi. Immaginai la sua sorpresa nel ritrovarci. L’ultimo nostro incontro era avvenuto in fase di crescita, e io ebbi quello che si chiama uno “sviluppo tardivo”, divenendo nel giro di pochi anni un ragazzotto alto e robusto. «La palestra mi aiuta a scaricare lo stress, per l’altezza devi chiedere a mia madre!» risposi ironico. Recuperato il bagaglio ci dirigemmo verso la stazione ferroviaria. «É molto più pratico utilizzare i mezzi pubblici, per quanto possano essere costosi» mi spiegò Leo. Per me era tutto nuovo ma adoravo l’atmosfera delle metropoli, per quanto Tokyo superasse in vastità e caos quanto avessi potuto immaginare. Sentivo la mia mente e il mio corpo in fibrillazione. Avevo la certezza che quello sarebbe stato l’inizio della mia vera vita. Così fu, fino a oggi. Il treno arrivò a Ueno dopo sessanta minuti esatti, con la precisione tipica dei mezzi pubblici giapponesi. Anche questo una volta era per me fonte di stupore e ora non aveva più nessun fascino. L’enorme responsabilità lasciatami mi impose, prima di andare a casa, di recarmi a Omiya per trattare con un fornitore. Così, stremato dal viaggio, fui costretto a prendere un autobus per raggiungere la cittadina. Il fornitore parlava con il mio assistente, io firmavo e basta. Non era la prima volta che svolgevo quel tipo di incarico, ma l’avevo fatto sempre da dipendente; era tutto così strano, fuori posto. Non stavo ascoltando una parola, volevo solo andare a casa a rinchiudermi nel mio dolore. Una volta finita la transizione, diedi delle direttive al mio collega e mi
45 congedai. Camminando per la città in preda all’apatia, mi soffermai a guardare un palazzo color oro dalla forma alquanto bizzarra. Stavo lì col naso all’insù, infastidito dal sole, contemplando quell’orrore architettonico e un sorriso si formò spontaneo sulle mie labbra notando una ragazza, poco più avanti, che si trovava nella mia stessa identica posizione. «Eccentrico, non trova?» le chiesi in inglese; per quanto fosse lontana era palesemente straniera. «Un edificio a forma di razzo…» contemplava ancora con lo sguardo verso il cielo «…è veramente brutto!» Scoppiai in una fragorosa risata, io l’avevo pensato lei l’aveva detto. Mi succedeva sempre anche con Leonardo; il pensiero trasformò la mia allegria in profonda tristezza. Non riuscivo a staccare lo sguardo dal marciapiede ma potevo vedere i piedi della ragazza incedere verso di me. «Mi chiamo Sara e tu sembri parecchio messo male!» esclamò in un inglese dal familiare accento. «Sara? Sei italiana?» le domandai, felice di poter usare nuovamente la mia lingua «da quanto tempo non sentivo qualcuno parlare italiano!» Sorrise altrettanto sollevata. Restammo a fissarci un attimo, anche lei sembrava triste e questo mi rincuorò. Quell’incontro era l’unica cosa piacevole capitatami nell’intera settimana, per cui decisi di prolungarne la durata. Sentivo il bisogno di compagnia, avevo ancora talmente tante cose da affrontare da solo… “Una breve chiacchierata poteva risollevare la mia giornata” pensai. «Ti va se andiamo a prendere qualcosa da bere?» chiesi, incontrando il suo sguardo calmo. «C’è un bar più avanti» indicò con la mano, accondiscendente. Una volta seduti le chiesi di raccontarmi le esperienze che l’avevano portata in Giappone. Lei era stata costretta a seguire la sua famiglia ed era in cerca di impiego, non sembrava particolarmente entusiasta. Io spinto dal desiderio di liberarmi di un peso mi confidai con lei. Non la conoscevo ma volevo farmi conoscere. «Lavoravo come cuoco nel ristorante del mio migliore amico» iniziai sorseggiando il mio drink. «Sei stato licenziato?» suppose diretta. «No, ne sono diventato il proprietario una settimana fa» risposi d’un fiato, sul mio viso non c’era traccia di gioia. Vidi il suo accigliarsi leggermente, ma non mi domandò nulla, attese pazientemente il seguito del mio racconto.
46 «Il mio più caro amico è morto, una settimana fa» udii la mia voce divenire un sibilo. Era la prima volta che pronunciavo quelle parole e le sentivo pesare come un macigno sopra il mio petto. Tacemmo entrambi, poi Sara chiese dell’acqua alla cameriera. Apprezzai la sua discrezione nel non farmi ulteriori domande. «Non devo sembrarti tanto normale» ripresi «ci conosciamo da dieci minuti eppure sono qui a parlarti di cose così personali.» «Capisco il dolore che provoca la perdita di una persona cara. Deve essere questo che mi ha colpito» rispose pensierosa. «Be’, in verità sono io che ho notato te» replicai. «No, io stavo passeggiando quando ti ho visto fermo a osservare chissà cosa. Il tuo modo di fare mi ha incuriosito così mi sono chiesta cosa stessi osservando» mi disse smentendomi. La cameriera tornò al nostro tavolo portandoci l’acqua ordinata precedentemente. «Sei single?» domandò agitando in aria il bicchiere appena riempito… ahi… altro tasto dolente. «Ci siamo lasciati» risposi secco «la mia vita sentimentale è un casino!» sospirai, e mi versai dell’acqua. Forse questa ragazza aveva intuito il mio bisogno di parlare e non a caso aveva ordinato da bere. Trangugiai tutto il contenuto del bicchiere in due sorsi, iniziavo ad avere la gola secca. «Una italo-giapponese conosciuta a una cena di lavoro» puntualizzai. Lei si versò dell’altra acqua e si sporse sul tavolo appoggiandosi a un gomito. Sembrava interessata. Così, una volta sparita la mia paura di annoiarla, le parole sgorgarono come una frana. «Sembrava andare tutto bene. Lei è un tipo razionale io invece sono molto impulsivo, ci completavamo. Lavora in una scuola elementare vicino a casa mia, è un’insegnante. Probabilmente ci incontreremo quasi tutte le mattine. Non sarà bello» conclusi ricordando a me stesso quante cose dovessi affrontare prima o poi. «Ne deduco che la vostra separazione non sia stata delle migliori?!» azzardò con fare divertito. «Ci siamo lasciati per telefono.» Quando alzai gli occhi notai la sua espressione di disapprovazione. «Gran brutta mossa! Personalmente non amo gli addii e anch’io ho lasciato una persona in Italia, per vie indirette. Ancora oggi mi pento di averlo fatto.»
47 Anche lei bevve l’intero bicchiere d’un sorso. Mi fece sorridere, si intuiva che non amava parlare tanto. Non credo si trattasse di timidezza; era riservata, come me. «Io sono appena rientrato dall’Italia dopo una settimana molto dolorosa. Ma ci sono andato senza di lei. In realtà avrebbe potuto liberarsi da eventuali impegni lavorativi, sono io che non l’ho voluta.» Feci una pausa scrutando la mia interlocutrice, non sembrava sfuggirle una sola parola. «Fu proprio questo il motivo scatenante della nostra separazione. L’ho tenuta fuori da questa storia, fuori dal mio dolore, capisci?» «Più di quanto immagini» rispose fissando pensierosa il suo bicchiere vuoto. «Ha provato a chiamarmi, a rintracciarmi tramite mail, ma nella settimana passata in Italia non ho mai voluto sentirla. Ieri da Fiumicino l’ho chiamata per dirle che era finita. Lei non sembrava neanche così sorpresa.» Dovetti bere altra acqua finendo così la bottiglia. Mi sentivo davvero strano, ero in compagnia di una ragazza sconosciuta che nello stesso tempo mi appariva familiare. «Ti avevo detto che la mia vita sentimentale è un casino» ribadii sardonico. Le sorrisi imbarazzato e lei mi sorrise di rimando. «Perché non le hai lasciato condividere il tuo dolore?» mi domandò seria. Quella era una domanda che mi ero fatto fin troppo spesso. «Quando Leonardo è morto, così si chiamava il mio amico, dentro di me qualcosa si è incrinato. Non sono la stessa persona di un mese fa, le cose dentro di me non vanno per il verso giusto e non voglio trascinarla con me.» «Se ti può fare sentire meglio, io sto accettando le avance di un uomo sposato» mi confidò sottovoce, come a voler alleggerire il discorso. «Anche tu ti muovi su un terreno scivoloso.» La puntai col dito facendole l’occhiolino, lei fece spallucce e mi sorrise divertita. Era una persona piacevole. «Sai, hai il potere di mettermi a mio agio» le dissi improvvisamente. «Non sei il primo che lo afferma, ma non credo di fare molto. Semplicemente scelgo con cura le persone che voglio intorno» esclamò portandosi dietro le spalle una ciocca di capelli troppo ribelli. «Ehi, ti serve una cameriera al tuo ristorante?» chiese, battendo le mani come preda di un’illuminazione.
48 Effettivamente, senza più Leonardo che tra le altre cose si occupava del bancone del bar, una persona era necessaria. «Non di una cameriera ma bensì di una barista. Sai farlo?» le proposi. Lei sgranò leggermente gli occhi. «Sì e molto bene!» rise della sua sicurezza «ho lavorato parecchio tempo in un pub della capitale.» «Anch’io ho vissuto alcuni anni a Roma per specializzarmi nel mio lavoro» esclamai entusiasta. Mi piaceva l’idea che avessimo visto e vissuto gli stessi luoghi. Avere cose in comune avvicina le persone, anche quelle appena conosciute. Ci scambiammo informazioni sui quartieri, sui locali, sui negozi che eravamo soliti frequentare. «Ma a quel tempo che lavoro facevi?» chiese curiosa. «Lo stesso di adesso, impegno più impegno meno. Sono uno Chef» dissi orgoglioso. Vidi il suo sorriso allargarsi, strinse forte le mani e sbattendole sul tavolo disse: «Che bello! Domani a che ora vengo a lavoro?! Preparati perché non mangio un buon piatto di pasta da mesi!» era entusiasta e la sua allegria aveva un effetto positivo su di me. «Tieni» le porsi il biglietto da visita del ristorante «domani alle undici. Ti preparerò io il pranzo, ma non farci l’abitudine» ammiccai. Mi strappò il biglietto dalle mani e alzatasi mi porse i soldi delle sue consumazioni. «Ora devo andare! A domani allora» mi disse sfiorandomi la spalla con la gamba. Fermatasi improvvisamente sulla soglia del locale mi chiese: «Ehi, ma come ti chiami?» «Sono Luigi!» Fece un cenno con la testa e uscì velocemente. Anch’io mi alzai e mi diressi verso casa. La giornata che sembrava infinita era quasi giunta al suo termine, quell’incontro fortuito l’aveva resa meno pesante ma dovevo imparare a convivere con il dolore d’ora in poi. Dovevo. La casa, rimasta vuota per un periodo seppur breve, aveva assunto un aspetto estraneo. Foto di me e Leonardo riempivano la cornice di un quadro. Quelle di me e Hiroko ricoprivano interamente il frigorifero. Gettai i bagagli sul tavolo della sala, mi strinsi le mani intorno alla testa. Dovevo dare una pulita alla casa, togliere non solo la polvere ma anche i ricordi. “Domani” pensai “domani affronterò tutto.”
49 Peccato che mi ritrovai a pensare la stessa cosa tutte le sere. Era ormai più di una settimana che Sara lavorava al ristorante. Era ordinata, educata e disponibile, sapeva fare bene il suo lavoro. Anche se l’avevo assunta senza credenziali mi resi conto di aver fatto una buona scelta. Ogni tanto le chiedevo di sbrigare delle commissioni a Omiya e lo faceva sempre con piacere. Parlava poco ed era molto riservata, di lei non conoscevo molto, mentre lei ormai sapeva molto su di me. Il pensiero di lavorare insieme o di uscire ogni tanto per una birra mi rallegrava. Per lei, nonostante quello che insinuavano i miei colleghi in cucina, non provavo niente più di un’amicizia. «Siete sempre insieme, aprite e chiudete ogni giorno il ristorante…» spettegolava Antonio, il nostro Chef Patissier7 «non mi incanti con la storia dell’amicizia!» Stavo finendo una guarnizione su un piatto quando lo interruppi. «Ti dico che è così! É di certo bella e interessante, ma non ci ho mai lontanamente pensato.» Era la verità. Incontravo spesso per strada Hiroko e dopo la nostra rottura ci salutavamo a mala pena, era una situazione delicata e dolorosa. Per quanto fossi stato io a lasciarla, non mi era ancora indifferente. La perdita di Leonardo poi era ancora dura da accettare. Sentivo un peso sullo sterno, qualcosa di opprimente e fastidioso. Riuscivo ad alleggerirlo un po’ solo quando andavo in palestra. Per due ore, tre volte alla settimana ero libero di sentirmi meglio. Il mio migliore amico era morto lasciandomi la gestione del suo ristorante, avevo ben altro per la testa, non volevo una relazione, soprattutto con Sara. «Ehi, parlo con te Don Giovanni!» mi destò Antonio «magari tu non sei attratto da lei, ma sei sicuro che lei non provi niente per te?» disse malizioso. 7 Chef Patissier = Chef che si occupa della preparazione di piccola pasticceria, di brioches e croissant, di entremets e di pasticceria vera e propria.
50 Il dubbio era comprensibile, per quanto fossero imperscrutabili le emozioni di Sara. Non ero concorde con i miei colleghi ma non la conoscevo ancora così bene da esserne sicuro, quindi la sera stessa volli chiarirmi le idee. «Cosa?» esclamò quasi sbigottita mentre insieme riordinavamo i tavoli. «Ti ho solo chiesto se sei fidanzata» risposi ripiegando le tovaglie. «Non è la domanda a stupirmi, ma la tua intraprendenza.» Si portò una mano sulla fronte, poi aggiunse: «Non sei mai così diretto, solitamente tendi ad aprirti tu per primo. Aspetti che gli altri si confidino per mettere a confronto le vostre esperienze…» «Tu sai molte cose di me, sembri comprendermi» dissi spontaneamente «come mai io so così poco di te?» le chiesi iniziando a spegnere le luci. «Preferisco ascoltare che raccontare» mormorò prendendo la borsa e la giacca. «Ti vedi ancora con l’uomo sposato?» chiesi un po’ esitante. Decisi che se non mi avesse detto nulla di sua volontà l’avrebbe fatto rispondendo alle mie domande. «Sì, mi piace! Non ha le idee molto chiare ma è carino» rispose alludendo a cose che non potei capire «andiamo a bere qualcosa!» aggiunse intenzionata a tagliare il discorso. Mi assicurai un’ultima volta che tutti i macchinari fossero spenti e uscimmo. Il locale era sempre lo stesso, un minuscolo bar sprovvisto di tavolini in grado di contenere solo il bancone. Mi piaceva l’aria di decadenza che vi regnava. C’era un’alta concentrazione di personaggi eccentrici, noi compresi. Il gestore era un omino incurvato dal viso sorridente sepolto da spessi occhiali. «La vecchia ti fissa di nuovo» mi sussurrò Sara all’orecchio. La “vecchia”, o meglio la signora Yamamoto, era un’anziana donna dall’alito pesante e dallo stile discutibile. Una delle tante persone presenti ogni sera al bar. Il vistoso trucco nascondeva in parte i suoi lineamenti e i suoi discorsi privi di senso facevano da sottofondo alle nostre serate. Da giovane doveva essere stata una donna avvenente, ma l’alcol e gli psicofarmaci l’avevano deturpata nel fisico e nell’animo. Le avevamo dato un soprannome come a tutti i nostri compagni di bevute. «Non è bizzarro passare le proprie serate in un posto simile a quello lavorativo?» dissi bevendo la mia birra. «Probabilmente siamo due persone con gravi problemi di distacco.»
51 Risi di quella affermazione tanto vera. «Luigi, come è morto Leonardo?» Ero ancora immerso nei miei pensieri quando la domanda mi colse alla sprovvista. «Perché devi essere sempre così diretta?» risposi con un’altra domanda. Stavo tergiversando. «Non cercare di guadagnare tempo» mi apostrofò. Sorrisi, io l’avevo pensato lei l’aveva detto, era successo di nuovo. «Uno stupido incidente automobilistico» sputai fra i denti, la rabbia era ancora sepolta. «Era tornato in Italia per le ferie. Voleva solo passare del tempo a casa sua dai suoi genitori, dai suoi amici» feci una pausa, non riuscivo a parlare bene, le parole si sovrapponevano per la foga «quando ho ricevuto la telefonata di suo padre non riuscivo a capacitarmene, ma quando l’ho visto al funerale tutto è cambiato.» Il ricordo ancora mi perseguitava. Il freddo e lucente pavimento della chiesa, le lacrime ipocrite di estranei, poi il suo viso cinereo, la sua espressione così dura… eppure quante volte l’avevo visto sorridere. Cercai di reprimere quelle sensazioni pronte a inghiottirmi. «Il dolore che si concretizza davanti ai tuoi occhi è qualcosa di terribile. Ti divora annullandoti, non riesci più a provare niente e aspetti soltanto che il tempo passi» conclusi. Potei sentire le lacrime segnarmi il viso. Lacrime autentiche, vere. «Sì, sì non si preoccupi! Un attimo di commozione.» Sara stava tranquillizzando il barista preoccupatosi del mio pianto. Tenevo i pugni premuti contro i miei occhi, ancora non ero in grado di gestire così tanta sofferenza. Dovevo portare il discorso su un piano più leggero. «Sara, quali sogni coltivi per il futuro?» le chiesi ancora a capo chino. Desideravo sentire racconti carichi di emozioni positive, leggeri e speranzosi. Volevo solo stare bene. Sapevo che prima o poi ci sarei riuscito ma il traguardo sembrava ancora lontano. Temporeggiò lei questa volta, poi rispose: «Io programmo il mio avvenire a piccoli passi, non riesco a essere troppo lungimirante. La vita è una tale incognita che mi riesce difficile decidere per me stessa senza sapere se domani sarò ancora viva.» Mi piaceva il suo modo di ragionare, era piacevole ascoltarla, seppur in piccole dosi. «Sei felice di essere qui? O seguire i tuoi zii è stata una forzatura?»
52 «Non è il posto che mi interessa particolarmente, ma le persone che ci vivono. A Roma ho una persona che non avrei voluto lasciare.» Sorrise accavallando le gambe. Restammo nuovamente in silenzio; era tipico del nostro rapporto, ci confidavamo e poi ci davamo del tempo per assimilare le informazioni ricevute. «Come ti sentiresti, se sapessi di avere i mezzi per poter donare alle persone a cui vuoi bene il loro maggiore desiderio?» riprese Sara, con occhi ardenti. «Penso che mi sentirei orgoglioso di me stesso» risposi sovrappensiero. «Esatto! Per questo sto risparmiando ogni yen guadagnato» disse entusiasta, sistemando ancora i capelli. Stavo per chiederle cosa avesse in mente ma mi fermò posandomi una mano sulle labbra. «Luigi, sii orgoglioso di te stesso per aver preso in mano il ristorante…» Le sue parole mi sconvolsero e mi portarono, ancora, indietro nei ricordi. La mia adolescenza, i sacrifici fatti per diventare uno Chef, la mia amicizia con Leonardo e il suo sogno che ora era diventato il mio. Questo mi faceva paura e più mi spaventava più lo tenevo stretto a me. Potevo farcela da solo? Non lo sapevo ma ci avrei provato con tutte le mie forze. Mi sentii improvvisamente stanco, sia fisicamente che psicologicamente. «Sara, vado a casa, e dovresti farlo anche tu. Ci vediamo domani» le dissi alzandomi dal bancone. La testa mi ronzava lasciandomi quasi spossato. «Io resto qui, mi farò offrire un altro drink dalla Vecchia. A domani» rispose facendo un cenno al cameriere. Raramente tornava a casa prima di me, sapevo che il suo vagabondare notturno era la risposta a un disagio casalingo. Non conoscevo i suoi zii, non sapevo che tipo di persone potessero essere e tanto meno il motivo per cui non andavano d’accordo. Sperai solo che un giorno, quando si fosse sentita pronta, mi avrebbe parlato di loro. Non l’avrei mai forzata, sarei stato paziente. Era una giornata parecchio fresca e da molto tempo non mi sentivo così bene; il macigno sul mio petto sembrava pesare meno. Avevo chiesto a Sara di andare a Omiya insieme a un mio assistente per risolvere un disguido con un fornitore. La sua presenza influiva sempre positivamente, il suo fascino ammorbidiva anche l’uomo più burbero. Mi accusava scherzosamente di sfruttarla troppo ma sapevo quando qualcosa le faceva piacere, e un’ora fuori casa era una di queste.
53 Mentre camminavo immerso nei miei pensieri riconobbi subito la voce che richiamava la mia attenzione. «Luigi!» Mi voltai sapendo che non era un sorriso quello che avrei trovato sul volto del mio interlocutore. «Hiroko» la salutai. Lei mi si avvicinò velocemente e io rimasi volutamente fermo sul posto. «Come stai?» mi domandò con sguardo implorante. «Meglio, grazie dell’interessamento. Scusami ma devo andare, sono in ritardo» mi affrettai a risponderle. Ovviamente non era vero. «Finisce davvero così, allora.» Fece un altro passo verso di me accorciando le distanze. Cosa avrei dovuto dirle? Stava soffrendo, era palese. «Non sembravi sorpresa quando ti ho telefonato dall’Italia, le cose già non andavano bene tra noi. Scusami, ma devo proprio andare.» La scostai e mi avviai verso il ristorante, lei proseguì per la sua strada. Sapevamo entrambi che ci saremmo incontrati ancora… forse era quello che sperava o forse ero io che lo desideravo. Le mie intenzioni nei suoi confronti erano ancora troppo confuse, per poter prendere una qualsiasi decisione. Affidai al caso e al nostro prossimo incontro la risoluzione di questo problema. Quando Sara rientrò, io mi trovavo in magazzino intento a segnare le date di scadenza di alcune merci e a esaminarne alcune appena arrivate. La sala iniziava a riempirsi per il pranzo e avevo ancora molto lavoro davanti a me. Fece capolino sulla soglia e con la sua solita calma mi disse: «Capo, oggi esco alle sei e mezza! Recupererò le ore domani!» poi tornò al bancone senza neanche aspettare il mio consenso. Passate le ore più critiche distribuii dei lavori al resto del personale e mi concessi una pausa. La sala ormai era quasi vuota. «Mi prepari un caffè?» le chiesi sfilandomi il grembiule e sedendomi al bancone. «Sei venuto a indagare?» sorrise preparando l’ennesima lavastoviglie. «Dato che hai già capito mi risparmi giri di parole inutili» dissi allungando un braccio oltre il bancone per afferrare un piattino e un cucchiaino. «Ho un appuntamento col mio uomo sposato!» esclamò porgendomi la tazzina insieme a una zolletta di zucchero.
54 «Davvero non ti senti in colpa nei confronti della moglie?» chiesi incuriosito. «Lui cerca un rifugio dalla sua vita e io adesso ho voglia di darglielo» rispose mentre si preparava un caffè a sua volta. «Sai già che finirà quindi?» annuii sorseggiando la bevanda troppo calda. «Bisogna vivere ponendosi poche domande, è così che ho imparato ad affrontare la vita.» Quindi in precedenza di domande doveva essersene fatta molte. «Bene, ma riuscirci non è sempre semplice» sottolineai prima che una voce dalla cucina richiedesse la mia presenza. Dopo poche ore, totalmente assorbito dal lavoro, la salutai e lei si congedò velocemente. L’indomani le avrei chiesto come era andata. La mattina Sara si presentò in orario di apertura. Ciò che notai immediatamente, furono i vestiti che aveva indosso. Quelli della sera prima. «Non guardarmi così! Ti avevo detto che avrei recuperato le ore prese ieri, per questo sono arrivata così presto!» esclamò legandosi i capelli. Aveva frainteso il mio sguardo. «Qualcuno ha passato la notte fuori casa» puntualizzai sarcastico, accendendo le luci. «Di certo non tu» rispose altrettanto pungente. Svolgemmo le rituali operazioni di apertura nel più completo silenzio. Azionammo i vari macchinari, preparammo alcuni tavoli riservati, sistemammo delle cose in cucina e poi mi rifugiai in ufficio nell’attesa del resto dello staff. Così almeno volevo credere, in realtà non riuscivo a starle accanto, ero pervaso da strane sensazioni. Gelosia, rabbia, non capivo… forse quella che più mi rappresentava era l’insoddisfazione. Sara allungò un post-it verso di me, ero talmente concentrato che non l’avevo sentita entrare. «Cos’è?» domandai nervoso. «Il mio numero di cellulare» rispose afferrando il suo grembiule e tornando al bancone del bar. La seguii immediatamente. «Mi avevi detto di non avere un cellulare» il mio tono era teso. «Un regalo» mi liquidò evasiva, poi aggiunse «adesso posso finalmente inviare mail!» Rise, persa in chissà quale pensiero. Dunque il suo uomo sposato le aveva fatto un bel regalo. «Premuroso il maritino!» risposi stizzito.
55 Si voltò di scatto lanciandomi uno straccio che mi colpì in pieno viso. «Si può sapere che ti prende?» sbuffò spazientita. Mi sedetti su uno dei tavoli e mi portai le mani sugli occhi. Non riuscivo a calmarmi. Sara prese una sedia e si sedette vicino a me poggiando i gomiti alla spalliera. Tacque nell’attesa del mio monologo, ormai conoscevamo bene i meccanismi del nostro rapporto. «É difficile da spiegare ma credo di volere qualcos’altro» mormorai. Arretrò col busto e tese le mani avanti. «Alt, alt, signor Paludo!» sbottò. «Non fraintendermi!» la interruppi subito, gesticolando nevrotico «tu sai praticamente tutto di me e io invece? Avvicini le persone e poi le respingi. É frustrante!» alzai la voce e balzai in piedi. «Sara…» la fissai negli occhi, lei mi ascoltava pazientemente «ci siamo incontrati, conosciuti e avvicinati. Anche se all’inizio me lo permetterai a piccole dosi, voglio davvero esserti amico. Non sono una persona invadente, ma voglio conoscerti.» Avevo il fiato corto ma riuscii comunque a concretizzare finalmente i miei pensieri repressi. Si portò un ginocchio al petto e rimase così per qualche minuto. Conoscevo quello sguardo concentrato in elaborati pensieri. Andai dietro al bancone e mi versai dell’acqua, riempii un altro bicchiere e glielo portai al tavolo. Anche quello faceva parte della nostra pantomima, l’acqua portava sempre delle confidenze. «Credo proprio di voler un amico» convenne sovrappensiero. Presi a mia volta una sedia e la posi di fronte la sua, eravamo così vicini che lei istantaneamente indietreggiò, ma io ero deciso a non mollare. «Chi è la persona che hai lasciato a malincuore in Italia?» Volevo delle risposte… «Una ragazza di cui credo essere innamorata.» …e lei sembrava pronta a darmele. Una ragazza… non mi stupii, da tempo avevo capito che da Sara potevo aspettarmi di tutto. «Perché non vai d’accordo con i tuoi zii?» continuai con il mio interrogatorio. «Mi trattano come se fossi un antico vaso di porcellana cinese!» rise del paragone e io con lei, poi proseguì: «Pensano che potrei rompermi in qualsiasi momento. É intollerabile.» «Più che una porcellana cinese, mi sembri un boccale di birra!» Cercavo di alleggerire l’atmosfera ma con pessimi risultati. Per quale motivo la sua famiglia si comportava così? L’ennesima domanda che
56 necessitava una risposta, ma pensai fosse giusto riservarla per un’altra serata. «Come sono morti i tuoi genitori?» Quella era una cosa che da tempo desideravo chiederle. Quando vidi un’espressione triste far capolino sul suo volto mi pentii della mia audacia. Si strinse le spalle, forse aveva freddo? Fissò a lungo il pavimento e poi lentamente rispose: «Di questo non voglio parlare» spiegò tornando a fissarmi negli occhi «niente di personale Luigi.» «Spero che un giorno riuscirai a farlo» conclusi passandole un altro bicchiere d’acqua. Restammo in silenzio per un po’, come eravamo soliti fare dopo una ogni conversazione, poi ci sorridemmo e tornammo a lavoro. Quella sera metà del locale era pieno, i clienti erano quasi tutti a fine pasto, chiamai le ultime comande riguardanti i dessert. Antonio, il nostro chef patissier, amava lavorare da solo, per cui indicai al garzone come ripulire al meglio la cucina. Sara aveva da poco finito il suo turno e stava riponendo il grembiule nella sua postazione, almeno così mi era parso di vedere dal fondo della cucina. Era strano che fosse andata via senza salutarmi e prima che potessi tornare in sala per accertarmi della situazione incrociai Matsura, il cameriere che aveva sostituito Sara o che almeno avrebbe dovuto… «Mi scusi capo, ma Vitti mi ha chiesto di occuparsi di un cliente.» Era profondamente imbarazzato ma lo tranquillizzai con un gesto della mano. Chissà cosa stava succedendo. Senza farmi notare mi sporsi sulla soglia della cucina. Sara stava servendo una birra a un uomo sulla trentina, i capelli arruffati e il nodo della cravatta allentato gli davano un’aria stressata. Dal modo in cui lui la monopolizzava capii subito che si trattava del suo uomo sposato. Non aveva una bella cera e sembrava cercasse conforto, noncurante del luogo dove si trovava. Del resto sembrava che Sara potesse darglielo. Lei lo ascoltava attentamente, lui parlava in tono molto basso ma con uno sguardo serio. Quando decisi che il mio interesse per la conversazione stava andando oltre il lecito, vidi quello che interpretai come un segnale. Forse vedevo cose che non esistevano o forse avevo davvero imparato a conoscerla, ma quando le vidi versarsi dell’acqua e irrigidirsi chiamai Matsura. Non so se avrei potuto fare qualcosa ma ci avrei provato. Probabilmente invece ero solo pazzo.
57 «Vai a dire a Sara che i signori del tavolo quattro aspettano i loro caffè» affermai con un tono di voce troppo alto. «Ma il tavolo quattro non ha ordin…» replicò il ragazzo che non ebbe tempo di terminare la frase. «Li offre la casa, e adesso vai!» urlai facendo correre il cameriere verso il bancone. Quando furono interrotti da Matsura, la faccia un po’ scocciata dell’uomo fu per me una soddisfazione, e dette a Sara il tempo per rilassarsi. Poi però la conversazione non prese la piega sperata perché l’uomo iniziò ad alzare la voce e decisi che quello era il momento di darle un appoggio. Mentre mi avvicinavo al bancone potevo sentire su di me lo sguardo inacidito dell’uomo, ma non gli diedi la soddisfazione di incrociarlo. «Sara, il maritino ti sta disturbando?» le chiesi, deliberatamente in italiano. «Luigi, è tutto a posto, davvero» rispose in tono calmo. Forse era davvero così, lui sembrava l’unico a non avere un bell’aspetto ma volevo esserne sicuro. «Se hai bisogno di qualcosa» mi affrettai a dirle, ignorando totalmente l’uomo che ci osservava incuriosito. «Se dovesse essere così sarai il primo a esserne informato» ribadì, e mi allontanai deciso a farmi i fatti miei. La sala iniziava a svuotarsi e il lavoro in cucina era notevolmente diminuito. Mi avviai alla cassa per occuparmi della contabilità e mi sorpresi nel trovare Matsura dietro al bancone. «Dov’è Vitti?» gli chiesi sforzandomi di ostentare disinteresse; non volevo che il personale pensasse che potessi avere delle preferenze. Possibile che fosse andata via senza salutarmi? Stavo andando a controllare se aveva riposto il suo grembiule quando il ragazzo rispose anticipando le mie mosse. «É qui fuori con quel cliente» affermò discreto, indicando con un cenno del capo la porta d’ingresso. Non ero un maniaco per cui resistetti alla tentazione di sbirciare dalle vetrate e facendo un po’ di calcoli attesi pazientemente che Sara rientrasse. Dopo poco difatti sentii la porta aprirsi violentemente. Quando alzai lo sguardo per capire cosa stesse succedendo, incrociai gli occhi di Sara a poca distanza dai miei. «Quando chiudi il ristorante ti aspetto al solito posto» mi disse un po’ contrariata prendendo la sua borsa e uscendo a passo veloce.
58 Annui dubitando che potesse avermi visto e mi affrettai a finire le ultime operazioni di cassa. Arrivato al nostro bar abituale la trovai intenta a scrivere una mail con il cellulare. Non volli disturbarla e mi sedetti nel posto che mi aveva riservato ordinando del sakè caldo. «Questo lo offre la signora Yamamoto» mi informò il barista. Mi voltai per ringraziare la vecchia che, seduta nel suo posto abituale, mi inviò un bacio con un gesto della mano. Le mie attenzioni tornarono su Sara, che dopo aver lanciato stizzita il telefono nella sua borsa girò lo sgabello nella mia direzione. Alzò il suo bicchiere quasi vuoto ed esclamò: «Cosa festeggiamo?» Aveva un sorriso triste. Immaginai di spaccare il naso del maritino frustrato con un bel cazzotto. «Al tutto e al niente, poiché ogni cosa dovrebbe essere degna di festeggiamenti e niente è mai degno di essere festeggiato.» «Bella questa!» rise facendo risuonare i nostri bicchieri in un brindisi. Finì in un sorso la sua birra e ne ordinò subito un’altra. «Ti ha piantata?» chiesi, stanco di aspettare che fosse lei a parlarmene «il maritino alla fine sceglie sempre la moglie no? Posso spaccargli un braccio se mi dici dove lavora» mi sforzai di mantenere un tono leggero, ma avrei voluto davvero fare quello che avevo detto. Rimase a fissarmi immobile, poi scoppiò in una fragorosa risata. Non era la reazione che mi aspettavo, ma sempre meglio delle lacrime, pensai. Dubitavo però che Sara fosse tipo da piangere in pubblico. «Ti ringrazio, ma sono io che ho piantato lui» rispose. Bene, non avevo capito niente. «Eri innamorata di lui?» chiesi nuovamente per ulteriori chiarimenti. «Io mi innamoro sempre. Ci sono persone terribilmente affascinanti a cui è impossibile resistere.» Che strano… era la stessa cosa che pensavo io di lei. Io lo pensavo lei lo diceva, di nuovo. Iniziava a piacermi. «Infatti nessuna donna mi resiste!» aggiunsi ironico. Ridemmo insieme e facemmo un altro brindisi. “A noi due” pensai. «Affascini anche me» mormorò dopo aver svuotato il bicchiere. Mi voltai verso di lei per capire se stesse scherzando, ma il suo viso era molto serio. Ricambiò il mio sguardo e capendo il doppio senso si affrettò a terminare la frase.
59 «Solo che non verrei mai a letto con te!» «Sì, anche tu sei alquanto ripugnante» la apostrofai in tono scherzoso, poi continuai: «Il nostro rapporto è nato così e tale voglio che resti. Sei la mia più cara amica.» Le strinsi le spalle con un braccio e lei si lasciò coccolare. Non ci stavo provando e lei lo sapeva. «Sì non sei niente male come amico» rispose chiudendo gli occhi sul mio petto. «Signori stasera offro io! Chi vuole qualcosa da bere?» urlai felice. Felice. FINE ANTEPRIMA. Continua...