Sesso, soldi e scuola

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In uscita il 29/2/2016 (15,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2016 (4,99 euro)

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MARCO SCALDINI

SESSO, SOLDI E SCUOLA

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SESSO, SOLDI E SCUOLA Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-959-3 Copertina: immagine Shutterstock.com

Prima edizione Febbraio 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Nota preliminare Alcuni dei personaggi di questo romanzo sono già apparsi in Una scuola come tutte le altre (Rizzoli, 2012). La storia qui pubblicata è comunque completamente indipendente.



“È mia opinione che un uomo felicemente sposato dovrebbe cercare di non andare a letto con nessun’altra donna se non sua moglie.” Quest’idea follemente eccentrica mi colse completamente alla sprovvista. “Che idea bizzarra! Nessuno la pensa così!” Margaret Doody Aristotele e i delitti d’Egitto I didn’t know I was lost. Avicii Wake me up when it’s all over Affrontiamo il progresso coi nostri problemi di sesso. Franco Battiato Tramonto occidentale Mi addolora sempre la morte di un uomo di talento, perché il mondo ne ha più bisogno del cielo. Georg Christoph Lichtenberg Osservazioni e pensieri



PRIMA PARTE



9

Sudavo. Abbondantemente. Me ne rendevo conto, ma la sudorazione non era la mia preoccupazione principale e non facevo niente per mascherarla né per asciugarmi la fronte. Mi ero cacciato in un pasticcio e non sapevo come venirne fuori. «Vedesse com’era grosso, professor Perboni. Era terribile e io mi sentivo pietrificata, non riuscivo a reagire. Stava lì sopra di me, con quell’affare enorme che entrava e usciva e intanto con le braccia mi teneva immobilizzata. Che paura! Tutto mi spaventava, la sua voce, la sua espressione, il fatto che bestemmiasse, le sue dimensioni…» Al terzo accenno in poche frasi alle inusuali dimensioni, alzai una mano per interrompere il profluvio di parole della ragazza. Forse intravedevo uno spiraglio per cavarmi da quella situazione, ma dovevo muovermi con cautela e pesare le parole una a una. Poco prima Bergamini Mariella, di quarta F, mi aveva avvicinato nel corridoio durante la ricreazione. «Professor Perboni, le posso parlare?» «Certo, dimmi pure» Non era una mia studentessa ma la conoscevo dall’estate precedente, quando mi avevano incastrato ai corsi di recupero. Incastrato come un pivello. La procedura non scritta prevedeva che un solo insegnante per disciplina, in genere, si sobbarcasse nel mese di luglio l’onere dei corsi di recupero per i rimandati a settembre; quasi sempre li teneva un precario, che in tal modo racimolava qualche euro per l’estate. In mancanza di precari toccava all’ultimo arrivato, in mancanza di un ultimo arrivato recente facevano a rotazione gli insegnanti di ruolo. La rotazione non avrebbe previsto me l’estate precedente, ma le colleghe di inglese erano riuscite con perfidia femminile a mettermi in mezzo, facilitate nel loro compito dalla mia tradizionale e purtroppo nota imbranataggine nei rapporti con l’altro sesso. Per prima si era fatta avanti la Boldroni. Serena Boldroni era attraente. Molto. Pure troppo per una scuola. Leggendari i suoi accavallamenti di gambe dietro alla cattedra, con i quali riusciva a ridurre al silenzio anche le classi più scalmanate, perlomeno nella loro componente maschile. Quando parlava con i colleghi maschi si avvicinava fin quasi al contatto fisico e poneva loro una mano languida sull’avambraccio.


10 Non aveva mai problemi a reclutare fra di loro qualcuno che la sostituisse per un’ora di permesso. Quella volta, per appiopparmi i corsi di recupero, mi si era accostata superando l’abituale soglia del quasi al contatto fisico, e oltre alla mano sull’avambraccio mi aveva premuto i seni contro il torace. E non si trattava di seni che lasciassero indifferenti. «Gianmarco» di solito mi chiamava Perboni «lo so che toccherebbero a me quest’anno i corsi di recupero, ma ti giuro che davvero non posso. Senti… non lo sa nessuno e mi fido nel dirlo a te perché so che sei riservato, una perla rara in questo ambiente, ma… insomma, il mio matrimonio è in crisi. Arrossisco a confessartelo, però in questo momento non ci sto con la testa, ho davvero bisogno di staccare e non pensare al lavoro. Non volermene se io mi chiamo fuori, anzi sei proprio un tesoro (la pressione dei seni aumentò) a essere così comprensivo. Da te non mi aspettavo niente di meno, grazie, grazie davvero.» A parte il fatto che non avevo notato la minima traccia di rossore sul volto della Boldroni, neppure avevo aperto bocca per manifestare la mia comprensione. Mi ero limitato a respirare piano per evitare che il contatto con la quarta misura (o era una quinta?) mi procurasse imbarazzanti erezioni, e a tenere la bocca chiusa, o meglio serrata, nel timore che potesse colarne fuori un filo di bava. Quando la Boldroni si allontanò, cercai di guardarmi intorno con la maggior noncuranza possibile, per contare in quanti fra i colleghi mi avessero visto fare la figura dell’allocco. Incrociai soltanto lo sguardo di Mentechini, che si limitò a farmi capire con un esplicito gesto delle mani quanto mi invidiasse. Peccato che insegnasse scienze, altrimenti la Boldroni sarebbe riuscita a convincerlo a tenere corsi di recupero anche a Ferragosto. La Gotti seguì a ruota, pochi giorni dopo. Samuela Gotti non era appariscente come la Boldroni, però era una morettina peperina che si faceva correre dietro da molti colleghi, anche perché la si sapeva single. Nella ipotetica scaletta per l’assegnazione dei corsi di recupero, una volta saltata la Boldroni toccava a lei. «Perboni, mi sono fidanzata!» Sperai che dalla mia espressione non trasparisse troppo quanto la cosa mi fosse indifferente. «Lui lavora da Euronics.» Stavolta, credo, si intuì chiaramente come di ben poche cose su questa terra potesse fregarmene di meno. «Ma non capisci? Gli è toccato il turno delle ferie a luglio.» Iniziai ad avere un’idea di dove la Gotti volesse andare a parare. Un brivido freddo mi corse lungo la schiena e feci per uscire dalla sala insegnanti, ma lei mi si piazzò davanti tagliandomi ogni via di fuga.


11 «Con un legame così recente non possiamo certo permetterci di fare le ferie separate. Ne ho già parlato con il preside e anche lui è d’accordissimo; impossibile che io possa tenere i corsi di recupero.» Il preside Bottani, detto il pronubo, non poteva che essere “d’accordissimo”. Ogni preside ha un suo pallino e quello di Bottani era di vedere gli insegnanti della sua scuola felicemente coniugati. Si dava da fare come un ruffiano per favorire le unioni fra colleghi ma accoglieva con favore anche le notizie di fidanzamenti al di fuori delle mura scolastiche, purché vedesse una persona indirizzata ad abbandonare il suo status di single. Risultato: i corsi di recupero del mese di luglio erano stati ingloriosamente mio appannaggio. Tutto sommato era andata meno peggio di quanto credessi; la calura estiva fiaccava gli studenti e le lezioni si trascinavano monotone ma tranquille. Forse per quel motivo avevo accondisceso a una pratica per me insolita: le chiacchiere confidenziali con ragazzi e ragazze per colmare gli ultimi dieci minuti, quando tutti erano sfiniti. In quel momento però ne pagavo il fio; la Bergamini, forse memore di quelle insulse chiacchierate, mi aveva scambiato per un potenziale confidente. Purtroppo avevo aggravato senza volere la mia situazione, poiché in un primo momento avevo equivocato sulla sua richiesta; lei mi aveva chiesto di potermi parlare privatamente e io l’avevo condotta nel laboratorio linguistico, in quel momento vuoto. Non era la prima volta che mi succedeva; gli studenti del corso di recupero chiedevano di uscire per andare in bagno, poi mi fermavano nel corridoio per chiedermi la risposta a una domanda del compito in classe che stavano svolgendo in quel momento, sempre credendo di poter sfruttare la confidenza acquisita nell’estate. Con consumata malignità, sfoderavo in quei casi la mia abituale battuta: “Vuoi sapere come fare per prendere un bel voto nel compito?” “Sì” rispondevano speranzosi gli studenti. “È semplice: svolgi correttamente tutti gli esercizi.” Ben pochi apprezzavano il mio umorismo. La Bergamini invece non aveva estratto nessun bigliettino con sopra appuntata una domanda ricopiata in modo sgrammaticato, bensì mi aveva gelato con un micidiale: «Prof, mi hanno stuprata. Che devo fare?» Colpito a freddo, inghiottii a vuoto un paio di volte. Non sapevo cosa rispondere, anzi non riuscivo neppure ad aprire bocca o a organizzare i pensieri. Ma la Bergamini parve non accorgersi del mio momentaneo stato confusionale e si lanciò nella descrizione dello stupro, perpetrato da un altro studente di quella scuola, un compagno di classe. La cosa migliore sarebbe stata voltarsi e andarsene di corsa, ma non potevo escludere che la ragazza mi seguisse nel corridoio, magari parlando ad alta voce di uno stupro.


12 «Fermati un attimo, Bergamini.» Intanto volevo guadagnare tempo. Estrassi un fazzoletto e finalmente mi asciugai il sudore, poi mi misi a sedere, le gambe tremanti. «Siediti anche tu.» La ragazza prese una sedia e si sedette di fronte a me accavallando le gambe. I jeans risalirono e scoprirono un tatuaggio sopra il malleolo sinistro. Raffigurava alcune linee sinuose. Bergamini Mariella era una ragazza belloccia, che sicuramente dimostrava più dei suoi diciassette o diciotto anni. Anche il trucco del volto non era da adolescente, ma a quello ero ormai abituato. Tempo prima, nel corso di una cena di classe di cui avrò modo di riparlare, era accaduto qualcosa che pensavo non potesse succedere mai a uno che, come me, si considerava un cinico non affetto da moralismo: mi ero scandalizzato. E anche impaurito. L’abbigliamento da sera della brigata di allegre sedicenni, che conoscevo nella usuale uniforme scolastica di jeans e felpa, mi lasciò a bocca aperta: microgonne o microabiti che coprivano a malapena la linea del sedere, tette a profusione in generosa esposizione, unghie e trucco che non avrebbero sfigurato in un trans da strada. La paura mi derivava dall’avere una figlia femmina che entro una dozzina di anni avrebbe preso il posto di quelle aspiranti veline. Involontariamente ero rabbrividito. «Hai detto che ce lo aveva grosso» mi decisi infine a precisare. Il solo fatto di pronunciare quella frase mi provocò una nuova abbondante sudorazione. La Bergamini annuì vigorosamente. «Ora, per fare un’affermazione simile, come dire… dovresti possedere dei termini di paragone, non so se mi spiego.» Mi pareva di camminare sull’orlo di un precipizio. La ragazza annuì di nuovo, ancor più vigorosamente. Alzarsi e chiudere a chiave la porta del laboratorio? Ancora peggio; se qualcuno provava a entrare e poi si scopriva che mi ero rinchiuso là dentro con una studentessa… meglio non pensarci. «Quindi tu questi termini di paragone ce li hai presenti. Voglio dire… ti sembrava grande in relazione ad altri che…» Quasi si staccava la testa dal collo, Bergamini, nel fare segno di sì. «Però, per poter fare un confronto diciamo… valido, ecco sì, valido, sarebbe necessario che questi altri con cui fai il paragone non fossero troppo pochi. Mi capisci?» Ebbi voglia di alzarmi e fermarle la testa con le mani; quel continuo annuire mi dava ai nervi, ed ero già sufficientemente teso per conto mio. «E tu… insomma… quanti ne avresti…» «Venti?» «Lo chiedi a me?»


13 «No, cosa ha capito? Che sono venti lo so benissimo. I ragazzi che ci sono andata insieme me li segno sul diario. Chiedevo se venti era un numero sufficiente per fare il confronto.» A quel punto decisi che era inutile continuare a detergersi il sudore, anche perché il fazzoletto era ormai fradicio. Presi in seria considerazione l’ipotesi di scappare dalla finestra, visto che ci trovavamo al piano terreno. Poi mi ricordai di una cosa. «Senti Bergamini, non mi hai ancora detto il nome del ragazzo che… insomma del colpevole.» «Fantaccini.» «Non lo conosco. È in classe con te, mi hai detto?» «Sì.» «E dove eravate quando è successo?» «In camera mia.» «In camera tua. Quando?» «Di pomeriggio.» «E c’era nessun altro in casa?» «No, i miei lavorano e mia sorella piccola ha il tempo pieno.» «E lo avevi invitato tu, questo Fantaccini?» «Sì, è il più bravo a inglese. Volevo che mi aiutava.» «Capisco. E lui d’improvviso ti è saltato addosso…» «Veramente no. Nel senso che io gli ho fatto capire che per me andava pure bene se lui ci provava. Se devo essere sincera, il preservativo gliel’ho dato io, perché lui non ce l’aveva. Quando gliene ho parlato è diventato tutto rosso, poverino.» «Ah.» «Solo che poi mi sono spaventata perché lui si è scatenato, io l’ho visto così grosso e non volevo più.» «Ah. E glielo hai detto?» «No.» «E perché no?» «Non lo so. Forse ho avuto paura.» «Ma dopo cosa gli hai detto?» «Niente. Abbiamo fatto inglese.» «Allora non è stupro.» «Davvero?» «No. Se dopo avete fatto inglese, no.» «Non mi sta prendendo in giro, vero professore?» «Se sei venuta a chiedere consiglio proprio a me fra tutti quanti, è perché di me ti fidi, giusto?» «Si capisce.»


14 «E allora fidati, non è stupro.» Suonò la campanella di fine ricreazione. «Devo andare. Mi sento meglio al pensiero di non essere stata stuprata. Grazie, professore.» «Figurati. Scusa una domanda; oltre al tatuaggio sopra la caviglia, ne hai per caso altri?» «Un altro proprio qui, sul seno. Vuole vederlo?» «No no no, era solo una curiosità. Vai pure cara, ciao.» La mia domanda non era priva di senso. Poco prima, ripensando al tatuaggio che avevo scorto alla caviglia, mi era tornato in mente il ragionamento di un altro studente con cui avevo chiacchierato di futili argomenti ai corsi di recupero: «Professo’ mi creda, quelle tatuate so’ tutte facili.» «E perché mai?» «Lei se l’è mai fatto un tatuaggio?» «No, e non ci tengo.» «Ha ragione. Deve sapere che ti brancicano tutto, quello che te lo fa ti tratta come un pezzo di lesso: tocca, stringe, strizza. Se una ragazza si fa palpare in quel modo senza problemi da uno sconosciuto, vuol dire che ce n’è per tutti.» Uscendo dal laboratorio mi imbattei proprio in Giobatti, l’autore del pensiero populista che mi aveva salvato. Gli strinsi calorosamente la mano. «Grazie, Giobatti, grazie.» «Di niente, professo’» rispose lui meccanicamente, probabilmente chiedendosi se avessi già bevuto di prima mattinata. Dopo aver evitato quella mina vagante, credevo che l’anno scolastico appena iniziato mi avrebbe concesso la tranquillità necessaria per tornare sui binari della mia vita abitudinaria di un tempo, sconvolta dagli avvenimenti dei mesi precedenti. Non sapevo quanto mi sbagliassi. *** Da quella che mi sembrava una vita, ormai ero abituato a scandire il tempo che passava in anni scolastici piuttosto che in anni solari. E per me l’anno scolastico precedente era stato veramente epocale, nel bene ma soprattutto nel male. Difficile elencare in ordine di importanza gli avvenimenti che mi avevano sconvolto l’esistenza. Tanto per cominciare, era naufragato il mio matrimonio. Dopo le vacanze di Natale Sandra, mia moglie, mi aveva abbandonato portando via con sé nostra figlia Elisabetta per andare a stabilirsi dalla sorel-


15 la miliardaria in Australia. Trascorso qualche mese aveva cessato di dare proprie notizie e nel giro di poche settimane mi ero preparato a battaglie legali con il coltello fra i denti. Invece, inaspettatamente, quella che ormai consideravo già la mia ex moglie era ritornata con la coda fra le gambe. La presunta ricchezza di sua sorella si era rivelata un bluff, la rovina finanziaria di mia cognata aveva travolto anche i miei benestanti suoceri, e Sandra era stata costretta ad arrendersi senza condizioni. Senza la necessità di alcun accordo scritto Elisabetta abitava adesso insieme a me e a mio fratello. Gli avvenimenti tumultuosi di quei mesi avevano infatti causato anche un imprevisto e imprevedibile riavvicinamento a mio fratello Alberto, con il quale per anni ci eravamo limitati agli auguri di Natale. Il suo fidanzamento ultradecennale era terminato per una storia di corna e adesso lui si era scoperto molto adatto nel ruolo di zio; poiché non lavorava, si occupava a tempo pieno di Elisabetta, che dal canto suo lo adorava. Facevamo del nostro meglio affinché una bambina di tre anni soffrisse il meno possibile del fatto di ritrovarsi a vivere con due uomini e senza mamma. Non ci ponevamo troppe domande, perché interrogarsi sulla nostra adeguatezza poteva metterla in discussione e non potevamo permettercelo, poiché non esistevano alternative. Non mi soffermavo troppo neppure a ripensare alle vicende tragiche dell’anno precedente. Un mio studente, il ragazzo che avevo più caro, era stato ucciso, assassinato perché voleva denunciare un giro di prostituzione che coinvolgeva la sua ragazza e altre studentesse. Che alla fine fossi stato proprio io a scoprire l’assassino mi consolava ben poco. Nel ruolo dell’investigatore dilettante non mi ero trovato per niente a mio agio, non sono portato per l’azione e mi adagio volentieri nelle abitudini e nella ripetizione dei gesti quotidiani. La scuola con i suoi rituali e i suoi confini ben definiti era un acquario dove da sempre nuotavo felice, perciò lo sconvolgimento delle mie certezze, famiglia e scuola, mi aveva colpito duramente. Cacciavo i ricordi non appena si presentavano e vivevo alla giornata. *** L’anno precedente si era inoltre chiuso con una decisione che avrebbe dovuto cambiare la mia vita ancor più radicalmente: l’abbandono dell’insegnamento. Dalla casa editrice per la quale lavoravo come traduttore mi avevano fatto balenare la possibilità di diventare scrittore, iniziando con il pubblicare un libro che raccontasse le peripezie attraverso le quali ero appena passato. Considerate le avventure che, mio malgrado, ero stato costretto a vivere, la trama poteva definirsi gialla e c’era la concreta speranza che il romanzo potesse costituire un successo. Tale prospettiva, unita al disgusto


16 per l’ambiente scolastico causatomi dalle molte, troppe disavventure patite a scuola e fuori, aveva fatto sì che decidessi di appendere il registro al chiodo. Decisione affrettata quant’altre mai. I moduli per la richiesta dell’aspettativa sul lavoro li avevo compilati in pochi istanti, con grande entusiasmo. Entusiasmo che si era subito raffreddato davanti alle pagine del mio romanzo. Rimanevano bianche. Bianchissime. Come le mie notti. Non riuscivo più a dormire e mi rigiravo continuamente nel letto, proprio io che avevo sempre preso sonno come un bambino. Non soffrivo di un semplice blocco dello scrittore, bensì di un’autentica paralisi. Duravo fatica e penavo, quasi fisicamente, anche soltanto nel sollevare la mano per battere sulla tastiera del computer. E la mano quasi sempre ricadeva senza aver neppure sfiorato un tasto. Cercai di non arrendermi subito, e attribuii la colpa proprio al computer, a dover stare seduto con l’obbligo di produrre. Acquistai perciò una Moleskine e me la misi in tasca, pronto a estrarla ogni qualvolta mi cogliesse l’ispirazione, per fissare subito sulla carta i miei pensieri. Ma l’ispirazione non mi coglieva. Mai. Neppure a tradimento, quando non avevo niente a portata di mano per scrivere. Fui costretto a cercare una delle soluzioni che in genere, se appena potevo, evitavo con cura, vale a dire chiedere consiglio a mio fratello. Purtroppo Alberto aveva l’irritante tendenza a fornire consigli giusti, ed essere poi obbligato a dargli ragione mi rodeva. Dal canto suo lui sembrava non aver mai bisogno di alcun tipo di aiuto (anche perché non faceva nulla) ed era quindi ancor più fastidioso non potersi mai rivalere. Ma la perdita del sonno mi angosciava e non vedevo vie d’uscita. «Io di scrittura non so niente, quindi credo di essere la persona più adatta a suggerirti cosa fare» esordì nel suo tipico stile, quando finalmente gli ebbi esposto il mio problema «ho conosciuto altri che scrivevano e ho visto che per loro era una necessità; il blocco dovevano imporselo per smettere di buttar giù parole e andare finalmente a letto. E bada bene che non trovavano un cane disposto a pubblicar loro neppure una riga; se avessero avuto, come nel tuo caso, un editore che chiedeva espressamente un libro scritto da loro, avrebbero rinunciato senza esitazioni a dormire e mangiare, pur di riempire una pagina dopo l’altra. Ergo: lascia perdere, non fa per te. Prima rinunci e prima smetterai di mangiarti il fegato. E cerca di non essere banale; invece di prenderti del tempo per pensarci sopra, come si usa in questi casi per far


17 vedere che la decisione è sofferta e per mettere su un po’ di spettacolo, rinuncia subito. Ora.» «Va bene. Rinuncio» esclamai quasi prima che avesse terminato di parlare. Respirai di sollievo; era vero, mi ero tolto un’oppressione più pesante di quanto credessi. Mi sembrò quasi di sentire le palpebre appesantirsi immediatamente, con il corpo che si rilassava in cerca del riposo per la stanchezza arretrata. «Bravo. Però non è finita. Adesso ti si presentano due strade, e anche in questo caso devi decidere rapidamente.» «Quali sarebbero?» «La prima alternativa è vivere di rendita finché te lo puoi permettere, e in tal caso benvenuto nel club. Altrimenti dovrai tornare a scuola.» Mio fratello da anni si era messo in aspettativa dal suo impiego in provincia, e campava della vincita a una lotteria. Anche io nel corso dell’anno precedente ero riuscito ad accumulare un piccolo capitale, in previsione delle costose battaglie legali per l’affido di mia figlia. L’editore mi aveva promesso un buon anticipo sui diritti d’autore e con quello contavo di andare avanti per tutta la stesura del libro, che nell’entusiasmo iniziale mi immaginavo rapida e indolore. Come tutti gli ingenui, mi ero poi prospettato una piacevole carriera fatta di scrittura, presentazioni di libri, convegni, magari l’insegnamento in qualche master di scrittura creativa… Nella situazione nella quale mi ero invece venuto a trovare avrei potuto ricorrere a quel capitale di riserva, ma dopo? Senza più la prospettiva dei ricavi del libro, cosa avrei fatto? Neppure era da escludere che in seguito quei soldi mi servissero davvero, se mia moglie si fosse pentita della propria arrendevolezza, facendosi avanti per riottenere nostra figlia. Anche la mia seconda fonte di reddito, le traduzioni, si era prosciugata; per potermi dedicare completamente al mio futuro bestseller avevo rinunciato alla più sicura ma meno lucrativa professione di traduttore, e riprenderla non sarebbe stato facile. La casa editrice per la quale lavoravo, infatti, era la stessa della mia abortita carriera di scrittore; nel momento in cui avessi comunicato che del libro non se ne faceva nulla, probabilmente mi avrebbero chiuso il rubinetto anche per le traduzioni. Non avevo altra scelta che tornare all’insegnamento, che in definitiva non avevo mai abbandonato se non nella mia testa. Strappai la domanda di aspettativa che ancora non avevo consegnato e mi misi l’animo in pace. Erano le tre del pomeriggio e in vita mia non mi ero mai concesso la pennichella pomeridiana, ma corsi a infilarmi a letto e dormii beato fino al mattino successivo. Sognai di compiti e interrogazioni a sorpresa e, nel sonno, mi divertii moltissimo.


18 Neppure i corsi di recupero estivi, come si è visto, servirono a farmi cambiare idea. *** Il nuovo anno scolastico iniziò con il botto. Fin dai primi giorni di lezione la voce era passata rapidissima con il tam tam del gossip nei corridoi, che nelle scuole funziona più velocemente che in qualsiasi altro luogo. «Rullani Loredana si è data al porno!» Loredana Rullani, nostra ex studentessa, aveva goduto di fama istantanea e notevole circa tre anni prima, quando era risultata vincitrice in un concorso di bellezza di livello nazionale, e grazie a quella vittoria aveva iniziato a fare apparizioni televisive. Niente di eclatante, ma sufficiente per farsi una notorietà in provincia. Ragazza di avvenenza non comune, possedeva tuttavia un difetto molto diffuso fra i giovani, maschi e femmine, del giorno d’oggi: non appena apriva bocca, faceva cadere le braccia. Oltre a esprimersi con un marcato accento regionale e a ignorare l’esistenza del congiuntivo (il suo “dichimi pure” nei confronti di un noto conduttore televisivo aveva imperversato per settimane su Blob) non era in grado di collegare due pensieri per manifestare un’opinione. Riusciva a sfigurare perfino nel piattume televisivo. Inevitabilmente, la sua fortuna cominciò ben presto a calare e il suo posto nelle trasmissioni televisive fu preso da ragazze altrettanto belle e con appena un pizzico di parlantina in più. Nel frattempo Rullani aveva mollato gli studi, convinta di possedere un radioso futuro nel mondo dello spettacolo. A scuola si era fatta vedere solo una volta accompagnata dal fotografo di un giornale di gossip, per uno degli articoli di rito su quel tipo di periodici nel quale la si vedeva abbracciata con le vecchie compagne di classe. «Professor Perboni venga, facciamo una foto anche con lei, così racconta com’è che ero quando stavo a scuola.» «Non vorrai rovinarti la reputazione» avevo risposto senza neanche voltarmi. A scuola però ci era tornata con prepotenza, non di persona ma con la ventata delle dicerie. Pareva, anzi era certo, che per contrastare la sua morte mediatica (da mesi non la si vedeva più né in televisione né sui rotocalchi) la Rullani si fosse decisa a girare un film pornografico. In città quel film era già diventato introvabile. I videonoleggi avevano messo in vendita il DVD a cifre astronomiche e nonostante ciò non avevano faticato a esaurirlo nel giro di poche ore.


19 Nell’ambiente scolastico tutti mordevano il freno dall’impazienza, anche perché nessuno di noi aveva avuto il coraggio di presentarsi ad acquistare un film pornografico. Finché un giorno Piccioni - matematica e fisica - dopo aver esaminato i presenti in sala insegnanti annunciò trionfante: «Ce l’ho!» Non c’era bisogno di specificare cosa. Gli altri, me compreso, si fecero subito intorno per chiedere come ci fosse riuscito. «Lo avevo messo a scaricare su Emule già da qualche giorno, ma andava a rilento. Poi finalmente stanotte si è completato e questa mattina, prima di venire a scuola, l’ho masterizzato.» «Ma come facciamo a vederlo?» si preoccupò subito la Boldroni, senza nessuna remora a manifestare pubblicamente il proprio desiderio di visionare quanto prima un prodotto pornografico. Piccioni fece segno di avvicinarsi ai sei o sette colleghi che aveva intorno. «Ascoltate, ho detto la cosa a voi perché in questo momento in sala insegnanti c’erano soltanto colleghi fidati. Oggi pomeriggio abbiamo il collegio docenti; ritroviamoci, soltanto noi qui presenti, un’ora e mezzo prima dell’inizio e andiamo a vederlo in aula video.» Nessuno trovò qualcosa da obiettare. Mentre arrivavo puntuale all’appuntamento, non potei fare a meno di chiedermi perché mai Piccioni avesse voluto condividere la visione di quel film. In fin dei conti avrebbe potuto guardarselo da solo a casa, indisturbato. Mi ricordai però di un discorso, anzi di un’omelia, che mi aveva tenuto lui stesso qualche tempo prima. Al suo solito modo, con una mano in tasca e l’altra che gesticolava in aria, i capelli perennemente arruffati, gli occhiali tondi leggermente sghembi, percorreva in su e in giù a grandi passi l’aula insegnanti. «Da che mondo è mondo, Perboni, negli ospedali i medici trombano le infermiere. Da che mondo è mondo, nelle aziende i direttori trombano le segretarie. Da che mondo è mondo, negli alberghi i portieri trombano le cameriere. Da che mondo è mondo…» «Se dobbiamo ripercorrere l’intera storia copulatoria dell’umanità, domani siamo ancora qua. Stringi, Piccioni.» «Vengo al punto. Seguendo questa logica, a noi insegnanti toccherebbe di trombare le bidelle… vedo già dall’espressione del tuo volto che non ti viene in mente neppure una bidella passabile, lo so.» Il volto mi si era involontariamente contratto, ma non per il motivo che credeva Piccioni. L’anno precedente avevo avuto una relazione con una bidella. Sessualmente molto appagante, fatto salvo il trascurabile particolare che poi costei si era rivelata un’assassina e aveva cercato di far fuori anche me. La mia smorfia era quindi di raccapriccio, ma Piccioni non poteva saperlo; la


20 polizia dava ancora la caccia alla complice e la storia non era trapelata sulla stampa. «Purtroppo» proseguì imperterrito il collega «salvo rare eccezioni, questa insostituibile lavoratrice della scuola ci viene fornita solo nel formato extra large e con ciabatta infradito ai piedi, quindi del tutto inutilizzabile ai nostri scopi. E allora rivolgiamoci alle colleghe, dico io, perché invece di colleghe appetibili ce ne sono. Eccome se ce ne sono. A questo punto però, caro amico mio, incappiamo in un grande punto interrogativo: le professoresse trombano?» Non mi detti la pena di rispondere. Sapevo che ormai Piccioni era lanciato e non si sarebbe interrotto. «Sembrerebbe di no. Quanti anni di insegnamento hai alle spalle, Perboni? Venti? Bene, in vent’anni ti sei mai trombato una collega? Non importa che tu mi risponda, lo so già: no.» Rimasi impassibile, ma in realtà durante il tumultuoso anno precedente mi era toccata in sorte anche la relazione con una collega. Che ovviamente era la complice ancora latitante della bidella assassina. Il mio volto però non tradì niente e Piccioni proseguì inarrestabile. «Io insegno da un po’ meno, quindici anni, ma con lo stesso risultato: zero via zero. Fra tutti e due mettiamo insieme trentacinque anni di carriera senza neppure un’ingroppata fra le mura scolastiche. Che desolazione!» «Non è normale, ammettilo, specialmente in una specie come quella umana, che ha fatto dell’accoppiamento quasi la sua unica ragione di vita. E allora mi sono chiesto di chi sia la colpa, e sono giunto a una conclusione.» Piccioni aveva fatto una pausa, aggiustandosi il nodo della cravatta. In un’epoca in cui ormai soltanto i promotori finanziari la usavano, era rimasto uno dei pochi, se non l’unico, a venire sempre al lavoro in giacca e cravatta. Ovviamente a quel punto si aspettava che io gli chiedessi a quale conclusione fosse giunto, ma non sprecai il fiato; sapevo bene che me la avrebbe comunicata in ogni caso. «La conclusione, caro Perboni, è che la colpa è nostra. Soltanto nostra. La verità è dura da accettare, ma dobbiamo avere il coraggio di guardarla in faccia.» Non faticavo minimamente ad accettare quella verità, ma cercai comunque di atteggiare il volto a uno che non avesse il coraggio di guardarla in faccia. «La scuola in qualche modo ci inibisce e non ci proviamo mai, o almeno ci proviamo ma manca la convinzione. E gli anni passano senza risultati. Ma da domani ho intenzione di cambiare: dritto al bersaglio, niente più esitazioni!» «E chi sarebbe questo bersaglio, così tanto per sapere?» «Per rifarmi del tempo perduto, ho deciso di puntare in alto.»


21 Puntare in alto nella nostra scuola poteva significare soltanto la Boldroni, collega di inglese. Appariscente ben oltre la media delle insegnanti, Serena Boldroni, come ho già avuto modo di raccontare, possedeva un modo di fare che le permetteva di ottenere molti favori dai colleghi maschi. Nessuno riusciva a rifiutare di sostituirla, quando prendeva delle ore di permesso. E ne prendeva spesso, dando adito alle malelingue che sussurravano le usasse per incontrarsi con l’amante. Era sposata con un medico ma a me, fosse vero o no, aveva confessato che il suo matrimonio era in crisi. Per tale motivo, dopo che tutti furono arrivati per la proiezione e Piccioni ebbe chiuso a doppia mandata la porta della sala video, mi posizionai in modo da poter osservare le avances che, ne ero sicuro, il mio collega di matematica non avrebbe mancato di fare. L’inizio della visione provocò un inevitabile imbarazzo, mentre sullo schermo scorrevano scene di fellatio ed eiaculazioni, ma quando entrò in azione la Rullani i commenti salaci si sprecarono e l’atmosfera si sciolse. Nel momento in cui un nerboruto tatuato si produceva in una penetrazione anale sulla nostra ex studentessa, vidi che Piccioni si piegava a sussurrare qualcosa all’orecchio della Boldroni. Lei rise sommessamente e gli strinse la mano. Senza poi lasciarla andare. Per quanto mi riguardava, avevo visto abbastanza. Il film era noiosissimo, dagli spettatori ormai non c’era da attendersi che un finale scontato e mi alzai perciò per andare a prendere un caffè. Senza fare rumore, per non disturbare le mani intrecciate, aprii la porta e uscii nel corridoio. Dall’esterno non potevo certo chiuderli dentro a chiave, ma confidai che a nessuno venisse in mente di andare proprio allora nella sala video. Confidai male. Non appena ebbi svoltato l’angolo, dalla parte opposta del corridoio avanzò con il suo abituale passo militare la Lopresto. Nelle scuole ci sono figure che si tramandano come caratteri genetici, simili alle maschere della commedia dell’arte; una volta che una di queste è andata in pensione, si può star sicuri che entro breve tempo se ne presenterà un’altra. La Lopresto aveva sostituito la Rampini, cui nel corso degli anni avevo giocato alcuni scherzi memorabili, nel ruolo della bacchettona. E anche lei quella volta divenne mia vittima, ma lo fu in modo involontario. Il suo lettore DVD di casa si era guastato e voleva approfittare di quello della scuola per guardarsi l’ultima uscita de Le Vite dei Santi, enciclopedia in video di cui non aveva perso neppure un numero. Sessantenne zitella e bigottissima, era un’accanita fustigatrice dei costumi moderni. Famosa la sua raccolta di firme per una petizione a favore del ritorno della messa in latino, che a scuola era stata firmata unicamente dal sottoscritto. Di fronte alla meraviglia degli altri colleghi, non avevo voluto fornire spiegazioni, né in ogni


22 caso avrei potuto. La verità era che avevo estorto duecento euro alla Lopresto per firmare, convincendola che il mio nome avrebbe attirato altri firmatari, e in ogni caso le avrebbe almeno evitato l’umiliazione di non ricevere neppure un consenso. Quando aprì con la consueta energia la porta della sala video, sul maxischermo la Rullani era intenta a soddisfare contemporaneamente tre uomini, uno dei quali di colore. Gli altri si accorsero che era successo qualcosa per il tonfo sordo che seguì subito dopo; la Lopresto era caduta all’indietro, svenuta di schianto. La botta alla testa le provocò una provvidenziale amnesia su quello che era successo e lo scandalo non scoppiò. Pochi giorni dopo la Boldroni mi avvicinò con il suo collaudato metodo per chiedermi con le consuete moine di sostituirla per un permesso breve. Le feci segno di avvicinarsi ancora di più e, quando fui a stretto contatto fisico, le sussurrai qualcosa all’orecchio; lei sobbalzò e girò sui tacchi allontanandosi indispettita. Quello stesso giorno, poche ore dopo, Piccioni ostentatamente non mi salutò. *** Ma l’inizio pirotecnico non mi aveva scosso più di tanto. La scuola fa presto a inghiottire tutto nel suo ritmo abitudinario, e infatti dopo poche settimane già non si notava più alcun avvenimento che alterasse il tranquillo e monotono trascorrere delle mie giornate. Con aspetti positivi ma anche negativi, perché la tranquillità mi dava più tempo per riflettere e gli argomenti intorno a cui la mia mente si arrovellava non erano piacevoli. La vita familiare scorreva pacifica e indisturbata. Dedicavo tutto il tempo possibile a mia figlia, per il resto accudita splendidamente da mio fratello. Elisabetta era serena e mi dava soddisfazioni enormi. Però c’erano un sacco di questioni aperte. La madre, innanzi tutto. Non si faceva vedere da quattro mesi, dal giorno in cui senza preavviso mi aveva lasciato in custodia la bambina. Telefonava a intervalli irregolari per parlare con Elisabetta, con me non scambiava parola e il suo numero era oscurato, perciò non sarei stato in grado di rintracciarla. Per quanto ne sapevo poteva trovarsi in qualsiasi parte del mondo, anche se avrei scommesso che fosse a Parigi, a leccarsi le ferite a casa dei genitori. Per la prima volta in vita sua aveva assaporato il gusto della sconfitta, e chi sapeva quali potevano essere le sue reazioni in una situazione simile? Era cresciuta nel benessere, ignorando che potessero esistere le preoccupazioni


23 per la sussistenza. Durante il suo periodo bohemien aveva creduto di innamorarsi di me e di poter vivere in modo più modesto, ma con il tempo si era ricreduta. Da un certo punto di vista mi faceva paura, temevo che dopo aver conosciuto l’indigenza agisse come una scheggia impazzita. Il mio avvocato era sempre pronto a iniziare la battaglia legale per avere l’affido esclusivo, ma io tergiversavo. Dopo tutto Sandra era la donna con la quale avevo condiviso una parte importante della mia vita e anche se non sarei mai stato disposto a riallacciare i rapporti con lei, mi dispiaceva infierire mentre era allo sbando. Per non parlare del fatto di privare definitivamente mia figlia della mamma. A Elisabetta continuavo a dire che sua madre era dai nonni per aiutarli in una faccenda difficile, ma non potevo durare all’infinito. Poi c’ero io. Il rientro nelle abitudini scolastiche non mi era stato sufficiente. Ero inquieto e non riuscivo a trovare equilibrio. Anche e soprattutto sessualmente. Nel corso dell’anno precedente, in coincidenza con il naufragio del mio matrimonio, avevo avuto per la prima volta in vita mia un paio di avventure extraconiugali (una bidella e una collega, alla faccia di Piccioni). In entrambi i casi ero stato trattato come un oggetto sessuale, poiché sia l’una che l’altra mi avevano concesso favori di letto solo e unicamente per raggirarmi e tuttavia… tuttavia non riuscivo a rammaricarmene e il sesso mi mancava. Dopo mesi di astinenza avrei accolto bene qualsiasi tipo di relazione, anzi che mi trattassero pure come un oggetto, non è che mi fossi trovato poi così male finché era durato. Però avevo paura, instaurando un qualsiasi legame, di mettere in pericolo l’affido della bambina (e mantenere una relazione segreta in provincia è quasi impossibile.) Se almeno ci fosse stato Brazzani… *** Ad alimentare il senso generale di quiescenza scolastica contribuiva anche un fatto di cui al principio non mi ero reso conto. Nessun genitore si presentava al consueto ricevimento settimanale. Andavano dai miei colleghi ma evitavano me. I genitori animavano sempre la mattinata, in special modo in una scuola come la nostra, un liceo scientifico di provincia. In una cittadina spiccatamente provinciale tutte le persone “che contano” si conoscono fra di loro e i rampolli della ricca borghesia, per motivi di prestigio, non potevano permettersi di frequentare una scuola che non fosse un liceo, indipendentemente dalle proprie attitudini e doti. Le quali, per chissà quale scherzo genetico, pareva-


24 no latitare in quei cervelli come l’acqua nel deserto. Oltretutto nessuno di quei genitori ricco-borghesi si sognava minimamente di assegnare ai propri figli una qualsiasi punizione, sia pur blanda, per gli insuccessi scolastici, e gli scioperati giovani non trovavano alcun motivo per trascorrere i pomeriggi sui libri, piuttosto che a cazzeggiare in giro, facilitati in ciò dai motorini, dalle moto e dalle automobili che le famiglie generosamente acquistavano loro anche a fronte di ignominiose bocciature. Come logica conseguenza sui registri i tre e i quattro diluviavano, e i fieri genitori di cotanta prole si affollavano ai ricevimenti a chiedere conto del nostro ardire. Perché come poteva accadere che l’appartenente a una classe notoriamente composta in maggioranza di cialtroni e tiratardi - come quella dei professori - valutasse senza il dovuto rispetto il figlio di persone che mandavano avanti con fatica e disinteresse questo paese? Pareva di assistere, in piccolo, agli attacchi alla magistratura da parte dei politici indagati. Chi si pasceva maggiormente di una situazione del genere erano gli insegnanti privati, che impartivano lezioni a ritmo continuo nel disperato tentativo di inculcare una parvenza di preparazione a quelle schiere di somari congeniti. Mi era accaduto, e non una sola volta, di vedermi comparire davanti il genitore dell’ignavo studente accompagnato dall’istitutore privato. Quest’ultimo era pronto a rendere ampia e circostanziata (nonché prezzolata) testimonianza del fatto che il pargolo era stato eccellentemente preparato e che quindi non si spiegava il voto di tre e mezzo da me assegnato al compito in classe. Ero di conseguenza tenuto a emendare la mia fallace valutazione, possibilmente seduta stante. Per le occasioni possedevo un tirato sorriso di circostanza, che ormai esibivo con disinvoltura. Evitavo scrupolosamente qualsiasi forma di aperta contrapposizione con quel tipo di genitori; sarebbe servito soltanto a farmi il fegato grosso. Mi limitavo a sorridere e a dire che avrei preso in considerazione le richieste. Poi, appena uscito il genitore, dimenticavo qualunque cosa mi avesse detto. L’estate precedente, però, mi ero preso una piccola rivincita. Mi trovavo nel breve periodo in cui ero ancora convinto che avrei abbandonato l’insegnamento. In un supermercato mi ero imbattuto nella mamma di un bocciato, la quale appena avvistatomi mi aveva aggredito verbalmente, addossandomi la colpa dell’insuccesso scolastico del figlio. A quel tipo di incontri ravvicinati ero abituato, non era la prima volta, e ormai possedevo un collaudato metodo per togliermi di torno rapidamente quel genere di seccature senza dover perdere tempo in litigi sterili e lunghi, che oltretutto procuravano lo scongelamento degli alimenti appena acquistati presenti nel mio carrello. In genere, al combattivo genitore che mi approc-


25 ciava con intenzioni battagliere chiedevo, di botto, cento euro in prestito. Mi ero malauguratamente dimenticato a casa il portafoglio, spiegavo, e non volevo rientrare senza aver fatto la spesa; se fosse stato così gentile da anticiparmi quei soldi, che poi avrei restituito al prossimo incontro a scuola… Presi in contropiede, la maggior parte di costoro farfugliava qualcosa e faceva rapidamente marcia indietro. Ma, come ho detto, all’epoca pensavo ancora di lasciare l’insegnamento, e quindi mi limitai a suggerire a quella mamma (un’appetibile MILF) di usare le sue capacità orali per praticarmi una fellatio, piuttosto che per infastidirmi. Utilizzai per l’occasione dei termini più spicci. Quando la vidi arretrare e poi darsi quasi alla fuga, provai il massimo della soddisfazione per la mia decisione di aver lasciato per sempre le aule. Non sapevo che mancavano solo pochi giorni al momento in cui mi sarei ricreduto, e comunque quell’episodio si era ormai cancellato dalla mia memoria. A scuola, come in qualsiasi altro ambiente di lavoro, si è sempre gli ultimi a venire a sapere le notizie che ci riguardano, quelle spiacevoli in modo particolare. Fu compito di Odoni, il vicepreside, comunicarmi la novità. «Bello non avere genitori fra le scatole, eh?» Ero alla macchinetta del caffè e il fatto che ci fosse anche Odoni mi insospettì subito. All’inizio dell’anno era stato nominato vicepreside, e prendeva la cosa tremendamente sul serio. Troppo per i miei gusti. Arrivava a scuola per primo e se ne andava per ultimo, vigilava nei corridoi come una ronda armata, rimproverava i colleghi non appena ne aveva l’occasione e, insomma, sfoderava l’intero armamentario di chi vuol essere più realista del re e fa di tutto per rimanere pesantemente sulle palle a chiunque, ritenendolo un segno del proprio potere. Con me, si capisce, aveva deposto le armi dopo il primo tentativo. Una volta mi aveva trovato insieme ad altri colleghi nel corridoio. Eravamo usciti durante un consiglio di classe, io per rispondere al cellulare, gli altri chi per fumare, chi per un caffè. Con il suo atteggiamento impettito da vigilante, Odoni ci passò accanto e, senza guardare nessuno in particolare, disse ad alta voce: «Nel corso dello svolgimento dei consigli di classe non è previsto intervallo. Si esce al massimo uno alla volta e previa richiesta di permesso al coordinatore.» Gli altri si affrettarono a rientrare in classe. Io, poiché avevo il telefonino in mano, ne approfittai per mettere un promemoria al giorno seguente. Detto fatto. Al mattino successivo controllai l’orario di Odoni, vidi che aveva lezione durante una mia ora buca, andai alla porta della sua classe, bussai,


26 entrai, attesi che gli studenti fossero in perfetto silenzio e poi declamai con voce chiara e con tono serio: «Allora Odoni, per quelle dicerie che circolavano sulla tua omosessualità, non devi preoccuparti: ho messo tutto a tacere. In privato puoi fare ciò che vuoi ma nessuno deve permettersi di poter dire qualcosa su di te in pubblico. Stai tranquillo.» Mi sarei volentieri goduto i trascoloramenti della faccia di Odoni, ma dovevo abbandonare subito la classe. Dove, dopo che ebbi chiuso la porta alle mie spalle, per qualche secondo regnò un silenzio tombale, seguito da un boato da stadio. Odoni era borioso ma non stupido. Capì che farmi la guerra non gli conveniva; non aveva accennato mai neppure di sfuggita a quell’episodio, e da allora si era limitato a ignorarmi. Il che mi andava benissimo. Però sapevo che attendeva l’occasione per vendicarsi, e quando mi si avvicinò alla macchinetta del caffè capii che era giunto il momento. Perché da quando era vicepreside il caffè se lo faceva portare da una bidella nel suo ufficio, evitando di mescolarsi troppo con i comuni mortali. Se quindi era lì, doveva togliersi una soddisfazione. E io volevo dargliene il meno possibile. «Dimmi subito cosa c’è, senza prenderla alla lontana.» «Come vuoi. Ti sei chiesto perché dall’inizio dell’anno ancora nessun genitore si sia presentato ai tuoi ricevimenti settimanali? Te lo dico io: sei vittima di un boicottaggio.» Qui Odoni si fermò, godendosi il mio stupore, che non ero riuscito a nascondere. «Un boicottaggio?» «Iniziativa lanciata dall’AGEC che ti ritiene, cito a memoria dalla loro lettera, un modello negativo e fuorviante, incapace di fornire ai giovani i corretti valori che sono alla base del dialogo educativo.» «Ma che cazzo…?» «Vedi, è proprio questo linguaggio a metterti nei guai. Pare che tu ti sia servito del turpiloquio per apostrofare una mamma che chiedeva notizie in merito agli esiti scolastici del figlio e…» D’improvviso ricordai l’episodio del supermercato. «Sarà mica la madre di Codelli?» «Vedo che sai benissimo di cosa si tratti e che…» «Tanto puzzo per nulla» lo interruppi «eravamo al di fuori della scuola e quindi qualunque cosa sia accaduta non conta.»


27 «Certo, e infatti l’AGEC, di cui la signora è presidente della sezione provinciale, non ha intrapreso contro di te nessun procedimento. Si limitano a questa azione dimostrativa. Tanto ti dovevo, buon caffè.» Ghignò, girò sui tacchi e se ne andò. *** L’AGEC. Associazione Genitori Cristiani. Non era la prima volta che intervenivano nella nostra scuola, ma non avrei mai creduto che potesse toccare a me. Nell’occasione precedente, alcuni anni prima, avevo assistito da divertito spettatore a un episodio che aveva sollevato l’ira di quella benefica e meritoria associazione. Ricordavo bene quella sera a cena. Già dopo il dolce, alcune mie occhiate avrebbero dovuto far capire a Santini che era il caso di fermarsi. Ma lui non se ne accorse o non le capì, e proseguì, ormai lanciato come un treno. «Mi fate ridere con il vostro porno visto su internet. Ai miei tempi abbiamo proiettato un porno al cinema parrocchiale!» «Cinema parrocchiale?» «Certo, quando ero giovane io c’erano ancora i cinema parrocchiali e la domenica…» Santini andò avanti con la sua storia della vita di provincia di trent’anni prima. I ragazzi seduti al tavolo lo ascoltavano senza fiatare. Era stato lui a convincermi a partecipare a quella cena di classe: “E dai vieni, che sono una classe simpatica, staremo bene”. Sul fatto stesso che potessero esistere classi simpatiche nutrivo seri dubbi, ma per Santini sembrava si trattasse di una cosa personale. Io gli dovevo un favore e non seppi dire di no, contravvenendo alla mia ormai consolidata abitudine di non partecipare mai ad attività che si svolgessero al di fuori delle mura scolastiche, fossero gite, cene di classe o qualsivoglia manifestazione. Per certi versi, Santini era il mio esatto opposto. Insegnante di educazione fisica, grande amicone di tutti gli studenti, giungeva fino a quello che io consideravo un autentico abominio: il legame di amicizia su Facebook con i propri alunni. E d’altra parte, se avessi posseduto lo spirito del missionario, lo avrei messo in guardia dai pericoli di un tale comportamento. Ma in generale ritenevo che chi si vuole procurare del male da solo debba essere lasciato in pace. Perciò, a parte quelle occhiate interrogative, continuai a gustarmi il limoncello mentre Santini insaponava la corda e poi se la metteva al collo.


28 «…avevamo organizzato tutto alla perfezione. Sapevamo che don Vasco, il parroco che si occupava personalmente della proiezione, una volta messo in funzione il proiettore si addormentava all’istante per poi svegliarsi soltanto alla fine del film. Non gli interessava guardare, perché la pellicola se la era già vista da solo, la sera prima, per controllare che non ci fossero scene spinte. Quella volta davano un film sui tre moschettieri, ma noi avevamo sostituito le pizze…» «Le pizze?» chiese una stupefatta Gelsomini contemplando i resti della quattro stagioni nel suo piatto. «Si chiamano così i rulli di pellicola che si proiettano al cinema» spiegò frettolosamente Santini, ormai ansioso di portare a termine quel racconto di cui andava così orgoglioso. «Il padre di uno di noi lavorava in un cinema; il figlio gli aveva sottratto le chiavi e ci eravamo impossessati di nascosto delle pizze di Gola profonda, che loro avrebbero proiettato soltanto il giorno dopo.» «Gola profonda?» interruppe di nuovo Gelsomini, osservando stavolta con perplessità la propria borsa. Come quasi tutte le altre ragazze, aveva una borsetta con il marchio in quel momento all’ultima moda: Gola. Stavolta Santini si mise a ridere. «Ti confesso che ogni volta che vedo quelle borsette non posso fare a meno di ripensare al titolo del film.» Essendo coetaneo di Santini, anche a me era capitato di fare quella associazione di idee, ma davanti a una studentessa non l’avrei ammesso neppure sotto tortura. Santini, al contrario, proseguì imperterrito. «Come al solito, uno di noi aiutò don Vasco a sistemare il proiettore, poi rimase dentro per assicurarsi che si addormentasse come al solito. Noi intanto ci eravamo già piazzati in sala, scegliendo i posti strategici vicino alle ragazze. Non ci crederete, ma ci fu uno, di cui non posso farvi il nome ma che conoscete molto bene, che era quasi riuscito a convincerne una a praticargli la stessa cosa che passava in quel momento sullo schermo.» Perfino io, che ho un folto pelo sullo stomaco e non mi impietosisco mai, fui preso da un po’ di pena di fronte a un insegnante che davanti a un assembramento di studenti minorenni parlava dei propri rapporti di sesso orale, e volli gettargli un salvagente. «Perché hai detto quasi?» «Perché il prete si svegliò. Le vecchiette che assistevano al film si erano messe a fare un baccano d’inferno. Per almeno tre quarti d’ora se ne erano rimaste in silenzio, prima perché mancava loro letteralmente il fiato, poi perché i mariti, seduti accanto, continuavano a dire loro di stare zitte, che se don Vasco aveva messo quel film un motivo c’era e che magari ne avrebbero parlato dopo la fine. Quello di noi che era in cabina di proiezione spense e


29 simulammo un guasto. Prima che il prete si fosse completamente svegliato e avesse afferrato la situazione, avevamo fatto in tempo a togliere la pellicola.» Come prevedevo, il giorno dopo la storia era in bella mostra su Facebook, con tanto di registrazione audio e video dei particolari dalla viva voce di Santini, fatta di nascosto con il cellulare dagli studenti di quella classe simpatica. Fra le innumerevoli conseguenze, l’AGEC ne chiese l’immediata sospensione dal servizio. Non l’avevano ottenuta, però Santini (per motivi di opportunità, dissero) si era comunque dovuto trasferire e, mi avevano riferito, da quel momento ce l’aveva con me poiché in qualità di unico collega presente al misfatto non gli avevo esternato la mia solidarietà. Ovviamente si era trattato per me della prima e ultima partecipazione a una cena di classe, così come mi astenevo dall’accompagnare gli studenti in gita e in qualsiasi altra manifestazione al di fuori delle mura scolastiche, ben sapendo che era l’unico salvacondotto per stare lontano dai guai. Ma erano i guai che sembravano intenzionati a non mollarmi. *** Seppi subito come comportarmi di fronte a quel boicottaggio: sbattermene altamente. Nella scuola, come in tutte le amministrazioni pubbliche, l’importante è far trascorrere il primo momento; una volta smaltito il bollore iniziale, tutto tende a tornare allo status quo. Come previsto, dopo qualche settimana di sacro furore nei miei confronti, i primi genitori tornarono timidamente a far capolino ai ricevimenti. Troppa era l’urgenza di conoscere le sorti scolastiche del proprio pargolo, per permettere a una stupida presa di posizione di impedirlo. E tutto riprese il solito andamento. Ma la normalità, anche quella volta, durò poco. Certo, quel ventidue di novembre non potevo immaginare le dimensioni del ciclone che mi avrebbe travolto, però capii che la ruota della fortuna girava nel senso sbagliato. La legge delle probabilità, infatti, teoricamente escludeva che dopo un anno scolastico movimentato dal punto di vista criminalgiudiziario come quello precedente, anche il successivo potesse esserlo in ugual misura, se non di più. A maggior ragione in una sonnacchiosa cittadina di provincia come la nostra. Che fossi diventato come la signora Fletcher, uno che si attirava addosso omicidi e crimini vari dovunque volgesse lo sguardo? E alla vista del quale magari si facevano i debiti scongiuri?


30 Comunque, contrariamente ad altri colleghi, all’inizio non mi preoccupai, anzi ci tenni a godermi lo spettacolo, perché De Riccobonis mi stava pesantemente antipatico. Lui e tutti coloro che come lui giocavano a recitare il ruolo del simpatico e scambiavano la cattedra per un palcoscenico. Invece di limitarsi a fare onestamente lezione, De Riccobonis si preoccupava soprattutto di risultare gradevole agli studenti. Istrione, amicone e compagnone, era il re indiscusso delle cene di classe, conteso come una rockstar per la partecipazione alle gite. Nelle sue classi non c’erano mezze misure: la maggioranza degli studenti lo adorava, la minoranza lo detestava. Non lo confidavo a nessuno, però tendevo a identificare questa minoranza con l’eccellenza. Inutile aggiungere che le studentesse cadevano innamorate a frotte. E qui De Riccobonis camminava in perpetuo sul filo del rasoio. Perché piacere gli piaceva. Troppo. Gli studenti che si illuminavano al suo passaggio erano per lui come i dati auditel per un conduttore televisivo. Non faceva assolutamente niente, perciò, per scoraggiare quei deleteri innamoramenti. Molti colleghi guardavano alla cosa con preoccupazione, temendo conseguenze spiacevoli se poi fosse scoppiato uno scandalo. Io mi ero sempre limitato ad attendere che De Riccobonis inciampasse e cadesse. E ovviamente De Riccobonis cadde. Ma in un modo così eclatante che neppure io mi sarei aspettato. *** La mattina del ventidue novembre di quel malaugurato anno scolastico la bidella Anna Rosati ciabattava lungo il corridoio, rendendo evidente a chiunque la osservasse lo sforzo di trasportare i circa cinquanta chili in più che la distanziavano dal peso forma. L’andatura lenta allungava il tempo di transito davanti a ogni classe, permettendole di sentire che tutto era normale. Prima C. Silenzio assoluto. Ovvio, in classe c’ero io e specialmente nelle prime costituivo un autentico spauracchio. Poi con gli anni si rendevano conto che era più fumo che arrosto e allora cominciavano ad allargarsi, ma in quel momento non volava una mosca. Seconda D. Altro insegnante di inglese, la Gotti, ma situazione opposta: confusione tremenda, già insopportabile dal corridoio, figurarsi in classe. Non che fosse sempre stato così, la Gotti era una brava insegnante, ma ultimamente aveva un problema: si era innamorata. E allora non ci stava più con la testa e trascorreva le ore in classe a scambiare messaggini con il fidanzato, del tutto indifferente a ciò che la circondava. Quarta D. Risate. C’era all’opera De Riccobonis, che alla bidella Anna Rosati piaceva moltissimo. Primo, perché era proprio un bel ragazzo, come se


31 ne vedono raramente fra i professori. Secondo, perché era sempre gentile e scherzoso anche con lei, non come quei musoni (ed erano la maggioranza) che le bidelle non le cacavano neppure di striscio. Normale che ai ragazzi piacesse. Quinta E. La porta era aperta ma le parole di Margiani, religione, si sentivano lo stesso a malapena. Margiani era di voce fievolissima e di solito non la udivano già alla seconda fila di banchi. In quel momento, però, non c’erano problemi poiché in classe oltre a lei erano presenti solo due studenti. Si trattava della prima ora della mattina, e quasi tutti coloro che avevano religione alla prima o alla ultima ora chiedevano l’esonero, o meglio chiedevano di non avvalersi dell’insegnamento della religione cattolica, come era divenuto consono dire. In tal modo potevano entrare dopo o uscire prima. Le uniche eccezioni erano date non dagli studenti più pii, bensì dai più somari; chi si ritrovava a rischio bocciatura, infatti, preferiva avere dalla propria parte anche l’insegnante di religione, notoriamente incline a promuovere urbi et orbi. Finalmente la bidella raggiunse lo sgabuzzino delle scope. Per compiere il tratto di andata aveva impiegato più o meno cinquanta volte il tempo che sarebbe servito a Bolt per coprire quella stessa distanza, ma nel ritorno riuscì a dimezzare il divario, nonostante la zavorra che la appesantiva e le urla scomposte che emetteva correndo. Perché nello sgabuzzino delle scope aveva trovato Guzzoni Samantha, quinta A, figlia della segretaria della scuola. Distesa scompostamente a terra e verosimilmente morta. *** Chi si fosse illuso di stare leggendo una storia gialla, basata su un inspiegabile assassinio e con una lunga e complessa ricerca dell’esecutore del crimine, magari contornata di depistaggi e coronata da un finale a sorpresa, resterà deluso; colpevole e movente furono trovati e resi noti immediatamente, addirittura prima che arrivasse la polizia. Nella confusione generale, dopo pochi minuti si udì una voce più alta e acuta delle altre, capace di farsi sentire anche al di sopra delle sirene in avvicinamento. Mentre noi insegnanti faticavamo a tenere in classe gli studenti e a mantenere un po’ d’ordine, Stella Manfredi, la madre della ragazza morta, giunse nel corridoio dove si trovava il cadavere, urlando, piangendo, strillando il nome della figlia e lanciando accuse all’assassino. Io, dalla soglia della prima classe del corridoio, fui spettatore privilegiato dell’intera sequenza. Stella Manfredi era quello che si suol dire una bella donna. Alta, bionda, fisico asciutto ma prosperoso. Sull’ultimo aspetto, la


32 prosperosità, la bidella Anna Rosati era pronta a giurare che non tutto fosse merito della natura; ricordava bene, diceva a chiunque glielo chiedesse (e anche a chi non glielo avesse chiesto) come all’arrivo in quella scuola il suo reggiseno fosse di almeno due misure più piccolo. Divorziata, non era in buoni rapporti con l’ex marito e si diceva che la figlia avesse ricominciato a vedere il padre solo da poco, una volta raggiunta la maggiore età. Ormai ero sufficientemente cinico da notare che i seni della Manfredi che mi passava correndo davanti erano rigidi e puntati in direzione orizzontale, pur nell’agitazione di tutto il suo corpo. La bidella Anna Rosati si trovava presumibilmente nel giusto. Le parole della Manfredi, però, mi sottrassero subito a qualsiasi altra considerazione. «Tu me l’hai uccisa! Tu l’hai strangolata perché era incinta di te! Assassino! Sei stato tu a ucciderla!» Quel tu, come indicavano chiaramente i gesti della Manfredi, era De Riccobonis. Il quale, pallido come un morto, dalla porta della sua classe la fissava muto, un’espressione di terrore sul volto. *** E così De Riccobonis, a furia di camminare sul filo del rasoio, era caduto. E facendosi pure molto male, assai più di quanto avrei creduto o supposto. Perché che le accuse lanciate contro di lui fossero fondate era subito apparso palese a chi, come me, ne aveva osservato da pochi metri di distanza l’effetto. Bianco in volto come un cadavere, si era aggrappato allo stipite della porta per non cadere, incapace di dire anche una sola parola. Né l’avrebbe detta in seguito. Pareva che la scoperta dell’assassinio gli avesse procurato uno stato catatonico; dopo l’arresto rimase pallido e muto, quasi il tempo per lui si fosse fermato in quell’istante. Nessun dubbio che fosse colpevole. E neppure una grande sorpresa; non che lo ritenessi capace di un omicidio, s’intende, però chi va a infilarsi in situazioni morbose e aggrovigliate fa presto a scivolare molto più in basso di come avrebbe ritenuto possibile. Cadere nella merda, in situazioni di quel tipo, a scuola è assai più facile che in altri ambiti lavorativi. Avevo visto nella mia lunga esperienza più di un collega che si era detto fra sé: quella studentessa è maggiorenne, è figa, ci sta, una bottarella e via… dimenticando che se in un ufficio entrambi i copulanti furtivi hanno interesse a tenere nascosta la loro relazione, a scuola la studentessa posta su Facebook i dettagli della congiunzione carnale prima ancora che questa sia terminata: già durante l’amplesso, mentre l’insegnante ansima e sbuffa sopra di lei nel tentativo (vano) di dimostrare che la differenza d’età non influisce sulle sue capacità amatorie, la ragazza con la mano


33 oltre la sua schiena mette a frutto la potenza del proprio smartphone, informando i propri amici (mezzo mondo) della fornicazione in atto. No, quello che a ripensarci mi sorprendeva, e non potevo non ripensarci, era invece la capacità di De Riccobonis di fingere fino a pochi minuti prima. Era in classe a ridere e scherzare con gli studenti come sempre, eppure sapeva che a pochi metri di distanza c’era il cadavere di una ragazza che aveva ucciso. Possibile? E poi, quando l’aveva uccisa? Al mattino era entrato a scuola insieme agli altri insegnanti, l’omicidio era stato scoperto che eravamo ancora alla prima ora, come aveva potuto trovare il tempo e il modo di appartarsi in uno sgabuzzino con una studentessa e strangolarla? Già a una prima analisi superficiale, quindi, c’era più di un punto che non tornava. Mi affrettai perciò a prendere una decisione al riguardo, secca e definitiva. La decisione di lasciar perdere e di non pensarci più; a giocare al poliziotto dilettante ci avevo provato l’anno precedente e per poco non ci rimettevo la pelle. Non avevo nessuna voglia di riprovarci, che se la sbrigassero da sole le forze dell’ordine ad appianare le contraddizioni. A ognuno il suo mestiere. *** Per quel giorno di fare lezione non se ne era più parlato; a metà mattinata gli studenti erano stati mandati a casa, e anche la mattina seguente la scuola era rimasta chiusa, poiché erano ancora in corso i rilievi della scientifica. Presentarsi davanti ai cancelli a curiosare non era il caso; i giornalisti prendevano d’assalto tutti i testimoni o chiunque conoscesse vittima e assassino. Era il classico caso che ogni giornale di provincia aspetta con ansia per rilanciare le tirature: torbida storia di sesso e morte, con intrigo fra studentessa e insegnante. Sembrava costruita apposta. Non mancarono di fare la loro apparizione anche le televisioni; c’erano sufficienti elementi per andare sul nazionale e questo mi costrinse, fra l’altro, a non guardare il telegiornale per qualche giorno. Come era possibile sopportare di ritrovarsi davanti, a pieno schermo, il faccione di Odoni sottotitolato con un bel Vicepreside del Liceo Scientifico Torricelli di ***? Per fortuna anche i giornalisti si stancarono presto della sua logorrea onnisapienziale, che nei trenta secondi dell’intervista pretendeva di fustigare i costumi dei giovani d’oggi ma soprattutto dei colleghi insegnanti di oggi, di ieri e verosimilmente anche di domani. Se aveva sognato o sperato di conquistarsi l’invito a qualche programma di spazzatura televisiva dove si disquisisse di delitti morbosi, rimase con un palmo di naso.


34 Il giorno dopo l’omicidio uscii lo stesso di casa alla solita ora in cui mi recavo a scuola, perché un tarlo mi rodeva. Insistente. Mi diressi al bar che una volta era di Brazzani. Brazzani, ex collega ma soprattutto grandissimo puttaniere. Proprio per uno scandalo legato alla frequentazione di un bordello aveva dovuto lasciare l’insegnamento e si era dedicato alla gestione di un bar. Io ero uno dei pochi che gli era rimasto amico, e mi fermavo spesso a prendere il caffè da lui. Finché un giorno non avevo trovato il cartello Nuova gestione e l’attuale titolare mi aveva spiegato che Brazzani era emigrato in Svizzera, dove la prostituzione era legale, rilevando la conduzione di una casa d’appuntamenti. Finalmente era riuscito a coniugare i propri interessi con la vita professionale. A quanto ne sapevo, però, il proprietario del fondo del bar era ancora Brazzani, e quindi il gestore doveva per forza averne i recapiti telefonici. Ciò di cui gli volevo parlare non era un argomento da trattare al telefono, ma contavo sul fatto che periodicamente tornasse in città, almeno per vedere la figlia che abitava con la madre; mi pareva improbabile infatti che la sua ex moglie la autorizzasse ad andare a trovare il padre in un bordello. Il barista mi fornì senza problemi il cellulare di Brazzani. Io però sono affetto da molte abitudini maniacali, che con l’età vanno peggiorando. Una di queste è che mi è sempre scocciato chiedere informazioni in un locale pubblico senza comprare niente, perciò invece di limitarmi a ringraziare e uscire acquistai la prima cosa che mi trovai a portata di mano. Un biglietto gratta e vinci. *** Dover ricorrere a Brazzani non era facile per me. Sia per ciò che volevo chiedergli, sia perché sono sempre recalcitrante a chiedere consiglio. Con mio fratello ormai mi ero abituato o quasi e mi pesava meno, però con gli altri ero costretto a combattere e vincere una serie di remore prima di decidermi. Anche perché a me non piaceva neppure l’opposto, vale a dire che odiavo recitare il ruolo di consigliere e come potevo evitavo. Per fortuna sotto questo ultimo aspetto, almeno in ambito scolastico, avevo provveduto da anni a fare terra bruciata intorno a me. L’ultima volta era accaduto con Torrini. Un giorno teneva un simil-comizio in sala insegnanti. Spettatori presenti: uno. Io. «Non possiamo arrenderci, qualcosa si potrà e si dovrà pur fare per cambiare le cose! Se continuiamo ad accettare supinamente lo smantellamento della scuola pubblica, fra qualche anno qui ci sarà il deserto.»


35 Il giovane precario Torrini era purtroppo affetto da una brutta malattia: l’entusiasmo. Peggiorato dalla convinzione di essere un missionario o un paladino; in pratica, voleva educare le nuove generazioni a essere migliori. Inutile dire che si scontrava con una delusione dopo l’altra. Contravvenendo ai miei principi, impietosito, provai ad aiutarlo. «Vedi Torrini, la soluzione esiste, ma si scontra con alcune difficoltà pratiche.» «Sentiamola questa soluzione, io sono pronto a metterla in atto.» «Ne dubito. L’unica opportunità per rimettere le cose a posto è la rivoluzione. Ma di quelle vere, con i fucili, gli spari e i morti. Soprattutto i morti.» «Be’, ora non esageriamo, siamo pur sempre in una democrazia…» «Torrini tu insegni lettere, io inglese, ma permetti che ti faccia un ripasso di storia?» «Se serve…» «Allora ascolta. Settant’anni fa con la caduta del fascismo e la nascita della repubblica, nella migliore tradizione italiana, tutto cambiò affinché tutto rimanesse come prima. Nei posti chiave del comando (funzionari di stato, magistratura, forze armate, soprattutto servizi segreti) rimasero i fascisti di prima, che si limitarono a mettere via la casacca nera e a dichiararsi democratici. Non fu fatta nessuna epurazione, nessuna fucilazione di massa dei burocrati fascisti. Finita la guerra i partigiani avevano deposto le armi, proprio nel momento in cui sarebbero state più necessarie. Oggi, se veramente volessimo cambiare le cose, dovremmo completare l’opera lasciata a metà: riprendere in mano i fucili e fare piazza pulita dell’attuale classe dirigente. Qualsiasi altra soluzione è solo un palliativo. Adesso dimmi sinceramente, ti sembra praticabile?» «No, direi proprio di no. Ma allora?» «Allora bisogna dedicarsi alla guerriglia urbana, accontentarsi di colpire il sistema nel nostro piccolo, sfruttare le sue falle per trarne vantaggio.» «Per esempio?» «Tu quest’anno hai la cattedra su due scuole, giusto?» «Purtroppo sì.» «Quindi doppi impegni pomeridiani, con doppie spese di trasporto, senza neppure un centesimo in più di retribuzione.» «Infatti.» «Fai come facevo io: se hai un consiglio di classe alla scuola X, comunichi che quel pomeriggio c’è una riunione per materie alla scuola Y, e viceversa. In tal modo, invece di raddoppiare gli impegni, puoi dimezzarli e combattere il sistema.» «E se mi scoprono?»


36 «Torrini tu sei un precario. Diciamo le cose come stanno: di te non frega niente a nessuno. Che tu ci sia o non ci sia il collegio docenti si tiene ugualmente, chi vuoi che si dia la briga di controllare?» «Dici?» «Dico. Fidati.» Al primo tentativo di inganno Torrini fu subito scoperto. Ricevette una nota disciplinare e la decurtazione di un giorno di stipendio. Mi tolse il saluto e per mesi andò in giro a dire che come rivoluzionario sarò stato bravo a parole, ma nella realtà dei fatti ero un minchione. Richieste di consigli da allora ne ricevevo raramente. *** La mattinata in qualche modo dovevo trascorrerla. Dopo aver recuperato il numero di telefono di Brazzani decisi di passare dal mio amico Marcucci, senza preavviso. Ci avrebbe pensato il portiere a dirmi se era alzato oppure no. Il palazzo nel quale abitava Marcucci era l’unico in città dotato di un portiere con tanto di divisa. Era stato proprio il mio amico a insistere per assumerlo e, poiché gli altri condomini non volevano saperne di accollarsi la spesa, lo stipendiava interamente lui. Ovvio che poi fosse principalmente alle sue dipendenze; fra le altre cose si occupava di fargli servire i pasti in casa. Marcucci non cucinava; lo riteneva una perdita di tempo, né voleva che si usasse la sua cucina perché detestava gli odori di soffritto. La colazione gli arrivava da una rinomata pasticceria e il pranzo e la cena da un noto ristorante. Poteva permettersi questi lussi, così come di alzarsi tardi. Il portiere mi avrebbe informato se il cameriere della pasticceria era già salito ad apparecchiargli la colazione. «Buongiorno Anselmo.» «Signor Perboni buongiorno. Il signor Marcucci l’aspetta?» «No, passavo di qua per caso. È alzato?» «Sì sì, la colazione è già arrivata da una mezz’oretta.» «Mattiniero oggi.» «Sono già diversi giorni che si alza prima del solito. Deve avere qualcosa di grosso in preparazione. Quando salgo a portargli la posta lo trovo sempre al telefono che parla animatamente.» «E lei Anselmo, si prepara alle vacanze?» chiesi indicando l’opuscolo di una compagnia di crociere, aperto sul suo tavolino. «Sì, finalmente accontenterò mia moglie; fra meno di un mese partiamo. Sa com’è, in questo periodo invernale costano la metà.»


37 «Giusto. Se non dovessimo rivederci, buon viaggio allora. Citofoni che sto salendo, per favore.» Lo trovai che davvero parlava concitatamente al telefono e capii che era di nuovo partito per una delle sue avventure. Partito in senso metaforico, perché raramente Marcucci abbandonava il suo appartamento. Con il passare degli anni la sua misantropia si era accentuata; una volta mi aveva confidato che il suo incubo più ricorrente era di ritrovarsi in una situazione che il resto dell’umanità considerava normale o addirittura piacevole: in costume da bagno su una spiaggia affollata. Sentirsi così esposto e privo di difese in mezzo a un carnaio vociante lo sconvolgeva a tal punto che si svegliava con il batticuore e faticava a riprendere sonno. Ogni tanto si inventava qualcosa, un’attività a cui nessuno aveva mai pensato prima e che inevitabilmente si trasformava per lui in una montagna di soldi. Non che ne avesse bisogno, ormai avrebbe potuto campare di rendita girando il mondo e spendendo a piene mani, ma era il gusto della sfida e del successo che lo teneva vivo. Non appena mi vide, mise giù il telefono ed esclamò: «Capiti proprio al momento giusto. Se non passavi ti avrei chiamato; mi serve uno spettatore per la puntata pilota.» Bene, di sicuro non mi sarei annoiato, di qualunque cosa si trattasse. «Spiegami tutto dal principio» dissi sedendomi. Sul tavolo c’era un vassoio con diverse paste e una caffettiera ancora fumante. Sapevo di non dover fare complimenti, mi servii senza bisogno di chiedere il permesso e mi predisposi ad ascoltare. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD

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