Stelina, Luisa Rossi

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Luisa Rossi

STELINA

ZeroUnoUndici Edizioni


ZeroUnoUndici Edizioni WWW.0111edizioni.com www.quellidized.it www.facebook.com/groups/quellidized/ STELINA Copyright © 2018 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-280-5 Copertina: immagine Shutterstock.com Prima edizione Febbraio 2019 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova


Love, love, love Love, love, love All you need is love (Lennon – McCartney)

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PROLOGO

Giovedì, 16 settembre 2010 Elena aprì gli occhi a fatica, nonostante le sette ore di sonno che avrebbero dovuto rinvigorirla, dandole la forza di incominciare la nuova giornata. Invece si sentiva più stanca di quando si era coricata, forse perché il sonno era stato interrotto più volte, come le accadeva di frequente, da bruschi risvegli improvvisi e immotivati, o magari motivati dagli incubi che affollavano sempre più spesso le sue notti. Lei ne era certa, anche se di essi conservava solo ricordi sbiaditi e confusi, che evaporavano subito, al risveglio, lasciandole solo un’inquietante sensazione di disagio. “Saranno le pillole che mi ha prescritto il dottor Moscati, la cura nuova che – come dice lui – fa miracoli. Mi fanno dormire, però mi sveglio più rintronata di prima” fu il primo pensiero di Elena cosciente. Un altro giorno era incominciato e bisognava affrontarlo, come un soldato che va in battaglia. Si mise a sedere sul letto matrimoniale e considerò che il posto accanto al suo, vuoto da ormai troppo tempo, alla lunga avrebbe sbilanciato il materasso, se lei avesse continuato a


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dormire dalla stessa parte, così si ripromise di cambiare lato alternandolo ogni notte. Accidenti alle abitudini che quando si diventa vecchi si ostina a non voler cambiare. E invece doveva farlo. Un materasso nuovo non lo voleva, non sarebbe stato lo stesso in cui aveva dormito il suo Adriano. Guardò il display della radiosveglia sul comodino per capire se fosse arrivata l’ora di alzarsi oppure fosse possibile stare a sonnecchiare ancora un po’, per ammazzare il tempo accorciando la giornata, inutilmente lunga e complicata da riempire. Le sette e quarantadue. Meglio alzarsi, la pillola delle otto non poteva aspettare. Appoggiò i piedi sul pavimento, si alzò lentamente con mossa poco elastica e raggiunse la finestra da cui filtrava un filo di luce. Alzò la tapparella trovando conferma del picchiettio cadenzato e leggero che aveva udito nella notte, scambiandolo con lo sfondo sonoro di uno dei suoi incubi. Invece pioveva davvero, considerò Elena scostando la tendina a fiori. Una pioggerella sottile, settembrina, che scuriva il cortile interno su cui si affacciava la sua stanza da letto, sul lato nord di un signorile appartamento della prima periferia milanese, al primo piano. Non faceva freddo, ma Elena rabbrividì. S’infilò una vecchia e comoda vestaglia di cotone lilla a maniche corte, prendendola da una gruccia su cui l’aveva ordinatamente appesa la sera precedente, e le pantofole di stoffa blu disposte simmetricamente vicino al comò, così da poter essere infilate


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anche al buio, quando lei si svegliava per andare in bagno, senza essere costretta ad accendere la luce dell’abat-jour sul comodino. Con le pantofole sempre allo stesso posto, poteva muoversi al buio, come fanno i ciechi, pensò amaramente, tuttavia orgogliosa dello stratagemma che aveva escogitato. Ogni lampo di luce intensa e improvvisa, specie nel cuore della notte, le procurava un’ansia e un’agitazione che non le facevano riprendere sonno se non dopo ore. Per raggiungere la cucina e prepararsi l’unico caffè che il dottor Moscati le concedeva nella giornata, Elena doveva passare davanti allo specchio lungo fissato su un’anta dell’armadio, cosa che di solito faceva accelerando il passo e socchiudendo gli occhi, per non vedere l’immagine di sé che non le piaceva in nessun momento, soprattutto appena sveglia. Invece, inspiegabilmente, nella luce smorta della prima mattina, si fermò davanti all’anta dell’armadio di legno di ciliegio. Lo specchio le rimandò l’immagine della signora Elena, che di cognome faceva De Carolis, una promessa di aristocratica magnificenza contraddetta dall’aspetto dimesso e qualunque della signora. Elena era alta un metro e sessantacinque e, in gioventù, vantava una figura snella e aggraziata, che poteva portare l’ago della bilancia a sfiorare i sessanta chili. Ora che era una persona anziana, o almeno tale si considerava, era del tutto disinteressata al suo aspetto fisico e aveva smesso da un pezzo di pesarsi, per non vedere l’ago oscillare più verso gli ottanta che i settanta.


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Grassa no, ma un po’ in carne sì, e non nei punti giusti. Sospirò, tendendo la stoffa leggera della vestaglia sui fianchi larghi e la pancetta prominente, poi alzò le braccia osservando, sotto le maniche, i muscoli flaccidi tremolare. “Colpa mia, accidenti alla pigrizia. Se avessi dato retta a Giulia che va in palestra il lunedì e il venerdì, al centro anziani del quartiere…” commentò senza convinzione fra sé e sé. Prese il coraggio a due mani e si avvicinò allo specchio, osservandosi da vicino. I capelli ancora folti e naturalmente ondulati, suo punto di forza in gioventù, erano stati di un caldo color biondo rame, mentre adesso avevano un colore né mi né ti, come dicono a Milano, né tutti bianchi né tutti grigi, ma un po’ di ciascuno di questi colori, malamente mescolati, a pochi fili giallicci sulle tempie. «Dovrei proprio andare dal parrucchiere» disse ad alta voce sollevando le ciocche «se li taglio un po’ non sembro tricolore come la gatta bastarda della signora Ines.» Osservò la faccia larga e dai contorni appesantiti, che ospitava un paio di occhi verdi, grandi e distanziati, che erano stati il suo vanto, ma che ora apparivano spenti e contornati da fitte rughe. Il naso era imponente, le guance cosparse di lentiggini che col tempo si erano scurite e ora facevano tutt’uno con le macchie brune dell’età; la bocca larga, serrata sia perché la signora Elena non aveva tanti motivi per sorridere, sia perché non


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voleva mostrare i denti che erano ancora i suoi, anche se le mancavano i premolari. La ragione della ritrosia al sorriso era semplice: quella finestrella fra gli incisivi superiori, che le conferiva, da ragazza, un’aria infantile e sbarazzina che divertiva tanto suo marito ma crucciava lei, apparendole un difetto, un’incongruenza. Difetto quanto mai assurdo ormai, in un viso sciupato come quello che le appariva davanti. «Come sei vecchia, Elena. Dimostri almeno vent’anni più dei tuoi sessantuno» borbottò alla sua immagine riflessa «ma cosa ti è venuto in mente di guardarti allo specchio, scema. Va’ a fare il caffè, che è meglio.» Parlava spesso da sola, a voce alta, quasi a fasi compagnia, dato che non c’era più suo marito ad ascoltarla. Si ravviò i capelli, gettò lo sguardo verso la parte intonsa del letto matrimoniale dalla spalliera trapuntata. Per un momento le parve di vedere sul guanciale la testa calva di suo marito, Adriano, addormentato. Fu sopraffatta da un’acuta nostalgia che le punse il cuore e, come spesso le accadeva, provocò in lei la voglia irrefrenabile di accarezzare una sua fotografia, di toccare qualcosa che gli era appartenuto, quasi a voler assorbire con le sue mani una debole traccia di lui, così da sentirlo ancora vicino. Pensò che non era possibile. In casa non c’erano più tracce di suo marito. Elena provò una fitta di rimorso pensando a ciò che aveva fatto dei vestiti di Adriano, dei suoi maglioni, la sua divisa e di tutto ciò che gli era appartenuto e che parlava di lui.


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Adesso se ne pentiva, eccome… ma purtroppo non poteva tornare indietro. Rimase immobile, mentre piegava all’ingiù le labbra serrate in una smorfia amara, che nessuno avrebbe scambiato per un sorriso. Non era del tutto vero che non c’era più niente di lui, in casa. Una cosa l’aveva tenuta per sé, l’aveva voluta conservare con caparbietà, e le era costata una montagna di bugie. Fece due passi, raggiunse il comò, aprì il terzo cassetto, spostò con delicatezza la camicetta di cotone bianco, perfettamente stirata e piegata, accarezzando con le dita rugose l’oggetto che era nascosto sotto. Sorrise dolcemente alla cosa scura e disse a voce alta, come d’abitudine: «È ora che tu veda un po’ di luce, ti farà bene dopo tanto buio.» Ovviamente non rispose, la grande pistola gelida e bellissima, nera come una notte senza luna e dalla canna liscia come il velluto.


PARTE PRIMA



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CAPITOLO 1

Milano, Febbraio 2007 Elena fece un balzo all’indietro rischiando di finire gambe all’aria nel corridoio dell’ingresso, quando si aprì di scatto la porta e lei vide suo marito, Adriano, entrare in casa con un passo da marcia trionfale dell’Aida impugnando, ostentatamente puntata verso il soffitto, una grossa pistola nera, che lui girò prima da un lato poi dall’altro, con un movimento rapido del polso, così che essa apparisse in tutta la sua imponenza. «Ma che fai? Sei impazzito? Metti subito giù quel mostro!» urlò Elena con voce strozzata. La risata di Adriano ebbe il merito fantastico di regolarizzare all’istante i suoi battiti cardiaci. Elena si tranquillizzò, pur rimanendo guardinga a fissare la “cosa”. «Ta-taaa… visto che roba, Stelina? Ti sei spaventata? Scusa, non volevo. Ma cosa credevi? Che potessi fare la guardia giurata con la scacciacani? Questa è una Beretta 98FS calibro 9X21, cara mia, la signora delle pistole. Mica bruscolini!» «Stelina un corno, Adriano. Non sono la tua stella se mi spaventi così. Mi hai fatto prendere un colpo» disse portandosi una mano aperta al petto con gesto teatrale.


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Elena si rabbuiò ma si ammorbidì subito vedendo suo marito felice come un bambino che ha appena spacchettato il giocattolo dei suoi sogni. Adriano entrò in cucina e appoggiò con delicatezza la pistola sul tavolo. «Prendila! E dai, prova. Guarda qui, c’è la sicura» esclamò mostrandole il puntino rosso che era apparso sulla canna «così non puoi premere il grilletto, neanche con la forza dell’incredibile Hulk! E poi è scarica. Le pallottole sono qui.» Adriano tolse dalla tasca una scatoletta, finse di prendere uno dei dieci proiettili e di caricare la pistola. «Si fa così, Stelina, ce l’hanno insegnato al corso. Però, sai cosa ti dico? Ci metto solo un colpo in canna, la scatoletta la nascondo, vediamo… in bagno dietro le medicine, va bene? Sei contenta?» Le tese l’arma con un largo sorriso e ripeté: «Prendila, è scarica, non può far male a nessuno. È solo un pezzo di ferro, fifona che sei!» «Me ne guardo bene, mettila via subito» replicò la moglie in tono non troppo convinto. Poi però posò lo sguardo attento sulla grossa pistola. Era bella, pericolosa, con l’impugnatura ruvida e la canna nera, opaca, fredda. Elena si accorse, con grande stupore e un po’ di vergogna, che la sua reazione di scomposto allarme non era genuina ma finta, convenzionale, precisamente quella che chiunque si sarebbe aspettato da lei. In realtà, la Beretta 98FS le piaceva, e molto.


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Non certo per consuetudine, dato che nella sua famiglia nessuno aveva mai posseduto un’arma, neanche da caccia, e lei non ne aveva mai vista una se non in mano all’ ispettore Derrick o il tenente Colombo, in TV. No. La pistola l’affascinava per la sua ambivalenza, perché poteva essere innocua o malefica, neutra o capace di sprigionare un fuoco di morte. Elena era attratta dai contrasti. Amava moltissimo il mare, specie quando era liscio, appena increspato dalle onde. Poteva stare un’ora intera a osservare, in silenzio sulla spiaggia di Cesenatico, la distesa piatta e azzurra a perdita d’occhio, assaporando un benessere profondo che le scendeva nell’anima. Osservando il mare, lei si scopriva a pensare a quante battaglie, a quante lotte fra vita e morte si consumavano là sotto, invisibili allo sguardo dell’osservatore eppure ben presenti sotto l’innocente mantello turchese che luccicava al sole. Ecco perché Elena era affascinata dal mare e dalla Beretta 98FS: perché entrambi somigliavano a lei, una quieta casalinga, di carattere remissivo, moglie di un uomo che amava e da cui era adorata, tuttavia capace di scoppi d’ira, subbugli del cuore che, seppure da tempo sopiti, sarebbero potuti affiorare in ogni momento, all’improvviso. Elena accarezzò la canna gelida della pistola, dopo essersi assicurata per l’ennesima volta del puntino rosso e dell’assenza di proiettili, provando un brivido che non sapeva se di paura o di piacere, forse di entrambi.


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«Da domani tuo marito farà la guardia giurata a tutti gli effetti, Stelina. E non preoccuparti, la pistola non la userò, non sono mica un poliziotto io. È grande apposta, perché deve spaventare il bandito che ha in mente una rapina. Noi guardie dobbiamo prevenire le rapine, mica correr dietro ai ladri sparando all’impazzata, pim pum pam, come nel telefilm americani, col sangue che schizza da tutte le parti…» «Piantala Adriano! Non voglio sentire una parola di più!» concluse Elena tappandosi le orecchie. «E poi ho il giubbotto antiproiettile, quello blu con lo stemma dorato della Security. Col mio fisico, l’uniforme, la Beretta ben in vista, gli occhiali da sole a goccia come quelli di Rambo, voglio proprio vedere chi è quel pirla che si sogna di svaligiare la gioielleria Aliberti!» E Adriano piegò gli avambracci flettendoli su e giù toccandosi i muscoli come Bracciodiferro, con la differenza che lui aveva passato i cinquanta e i muscoli di Bracciodiferro se li sognava. «Sei il solito sbruffone» commentò Elena, guardandolo di sottecchi per nascondere la sua ammirazione. Sì, alto com’era, e con l’accenno di pinguedine che l’età gli regalava, faceva ancora la sua porca figura, il suo Adriano. Era proprio un bell’uomo, dimostrava meno dei suoi anni. Ecco, l’unica cosa che gli aggiungeva qualche anno era la pelata. Era proprio calvo, non aveva neanche bisogno di rasarsi i radi capelli, li aveva persi tutti poco alla volta. Ma col cappello blu e la visiera nessuno se ne sarebbe accorto. Elena non finiva mai di stupirsi del fatto che il suo Adriano avesse scelto come compagna di vita proprio un tipo


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insignificante come lei, per giunta maggiore di lui, anche se solo di qualche anno. Adriano scambiò il silenzio di sua moglie per un broncio, le si avvicinò di scatto abbracciandola stretta. «Tranquilla, Stelina. Meno male che ho trovato questo lavoro, non ne potevo più dell’ospedale.» L’ospedale era il Policlinico, presso cui Adriano aveva lavorato nel reparto di terapia intensiva fino a quando, usurato da un ventennio di assistenza a pazienti che otto volte su dieci non ce la facevano, aveva cominciato a dar segni di profondo malessere, che aveva confidato prima a Elena e poi al suo amico Ettore, assistente di chirurgia. «Non ce la faccio più in terapia intensiva, Ettore. Mi sento inutile, impotente, stanco di veder la gente morire.» «Hai provato a chiedere di cambiare reparto?» aveva suggerito l’amico, preoccupato. «Certo, a più riprese, ma non c’è stato verso. E poi… anche in un altro reparto, o in un altro ospedale, non cambierebbe nulla. Non ce la faccio più.» «Comincia a chiedere un periodo di aspettativa, Adriano. E intanto guardati intorno, e poi valuta se è il caso di licenziarti…» «Licenziarmi? Non posso! E chi ci pensa a mia moglie? Se rimango senza lavoro e senza stipendio, come campiamo? Con le mie vecchiette che mi chiamano per le iniezioni?» Si sforzò di sorridere, facendo tremolare la mano appoggiata a un inesistente bastone, tirando in dentro le labbra a coprire i


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denti, simulando gengive orfane, ed esclamando con voce in falsetto: «Che manina, sciur Adriano! Non ho sentito niente!» Ettore rise, ma sapeva che la faccenda era seria. Adriano non poteva contare su Elena, che aveva sempre fatto la casalinga, arrotondando le entrate con lavoretti di cucito e di riparazione affidatele dal signor Ernesto del negozio di abbigliamento all’angolo. Quello del signor Ernesto era stato uno dei negozi di tessuti più rinomati del quartiere, già dagli anni Cinquanta, quando il padre dell’attuale proprietario aveva aperto la sua bottega milanese. Morto il padre, il piccolo negozio sul corso era passato al figlio Ernesto e a sua moglie Maria, che da anni accoglievano le loro clienti da dietro il bancone di legno di noce nazionale, scuro con venature tendenti al nero, lucidissimo, che il signor Ernesto lustrava personalmente ogni lunedì con un prodotto di sua invenzione e di cui era assai geloso, un misto di cera carnauba e di strane polveri di cui nessuno conosceva la composizione. Il risultato era un bancone più liscio delle pezze di velluto arrotolate che talvolta ospitava, ma soprattutto, in grado di sprigionare una fragranza aromatica intensa, che sapeva di vecchio e di buono e metteva a proprio agio la cliente che spingeva la porta facendo tintinnare il campanello. Tutte le pareti intonacate di beige ospitavano alti scaffali, sui cui ripiani erano impilati gli scampoli, in ordine perfetto, suddivisi per peso e colore: rasi, velluti dalla mano serica o pastosa, un piacere per il tatto.


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Con il tramonto della moda degli abiti su misura, il signor Ernesto aveva fiutato l’aria in tempo, riducendo sempre più la quantità degli scampoli di tessuto per lasciare spazio agli abiti confezionati. La sua lungimiranza si era spinta a specializzarsi nella vendita di abbigliamento femminile per taglie forti, ancora una rarità, nonostante venissero incontro alle esigenze della sua vasta e attempata clientela. Così il signor Ernesto, con la sua abilità nel valutare al tatto il valore di un tessuto, e la signora Maria, con la sua simpatia e il vecchio metro rigido di legno che brandiva ridendo come fosse una spada, avevano superato indenni il terremoto della grande distribuzione, approdando agli anni Duemila senza i guadagni stratosferici di un tempo, ma neppure senza colossali perdite. Elena, la loro sarta abile e di poche pretese, era una collaboratrice preziosa, tanto che il signor Ernesto aveva ricavato per lei, nel retrobottega, un minuscolo laboratorio: in esso, un appendiabiti su ruote con le grucce di legno appese, su cui si trovavano gli abiti e le giacche da riparare, una sedia e un tavolo, su cui era appoggiato un cestino di vimini rettangolare, col coperchio in cotonina trapuntata blu con i fiorellini rosa. Esso conteneva solo il necessario per avviare il lavoro: un metro da sarta morbido, spolette, aghi, forbici affilate, ma soprattutto decine di spilli dalla capocchia colorata conficcati in un cuscinetto che aveva confezionato lei stessa anni prima. Il venerdì e il sabato pomeriggio, giorni di maggiore vendita, era Elena in persona a occuparsi delle clienti che chiedevano qualche modifica agli abiti, mentre nel resto della settimana se ne occupava la signora Maria, servendosi di un piccolo corredo


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suo, dal momento che Elena era gelosissima del suo cestino, che non permetteva a nessuno di utilizzare. La signora Maria si era quasi offesa quando aveva visto la sua sarta applicare un minuscolo lucchetto dorato alla chiusura del cestino. Ma insomma, ognuno ha le sue fisime. “Manco fosse pieno di monete d’oro”, pensò. Il lavoro vero e proprio di piccola sartoria Elena lo svolgeva a casa, in camera da letto, in cui aveva ricavato un angolo con la macchina per cucire e la scatola da cucito di legno a fisarmonica a due piani, che era appartenuta a sua madre, e a cui nessuno si era mai sognato di applicare un lucchetto.


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CAPITOLO 2

Adriano guardò la sua Stelina, meravigliandosi di quanto ancora l’amasse, dopo tutti quegli anni insieme. Non le aveva mai fatto un torto, nonostante le occasioni non gli fossero mancate, ma come diceva quell’attore, Paul Newman, “perché accontentarsi di un hamburger quando a casa puoi gustare una buona bistecca?”. I figli non erano venuti ma nessuno di loro due ne aveva fatto un dramma, non erano venuti e basta, si bastavano loro due. Da una decina d’anni avevano tacitato la loro coscienza adottando a distanza una bimba nigeriana, accontentandosi della letterina a Natale scritta sotto dettatura in un italiano stentato, e della foto di lei sorridente con i dentoni grandi e distanziati e il capo coperto da un velo colorato. Durante il breve periodo di aspettativa, che Adriano si era deciso a chiedere e ottenere, crebbe in lui la preoccupazione: senza lavoro e senza soldi, non avrebbero potuto tirare avanti in eterno, le bollette, l’affitto, e le rate dell’assicurazione sulla vita, che Adriano aveva fermamente voluto sottoscrivere in favore di Elena, nonostante le sue resistenze. «Se muoio io, Stelina, non ci campi con la pensione minima e la reversibilità. Almeno così sei in una botte di ferro.»


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Ma quello che dispiaceva di più ad Adriano, era veder andare in frantumi il sogno di Elena di andare ad abitare in un nuovo appartamento. Non che il loro fosse brutto, anzi, si trovava in una bella zona, non c’erano vicini rumorosi, i negozi erano comodi, ma aveva un grande difetto: mancava un terrazzino, un balconcino, anche minuscolo, in cui Elena avrebbe potuto coltivare le piante e i fiori che amava tanto, senza doversi accontentare, in estate, di un geranio sul davanzale delle finestra della cucina, unico ma bellissimo, dai fiori rosso porpora screziati di viola. Quella di Elena per il verde era una vera e propria passione, per la quale possedeva un talento unico: nessuno come lei sapeva rianimare piantine rinsecchite, più di là che di qua, o far rifiorire le orchidee di anno in anno, perciò i condomini fortunati che possedevano il balcone la chiamavano spesso in loro soccorso e le affidavano, con suo grande piacere, la cura delle loro piante quando si assentavano per le vacanze. Quante cose sapeva fare, la sua Stelina, e che cruccio per lui vederla così preoccupata da quando aveva manifestato un’insofferenza patologica per il suo lavoro di infermiere. Adriano sorrise. Era stato fortunato, perché il periodo nero era durato poco. Ci aveva pensato il suo amico Ettore a trovargli un’occupazione. Con Ettore si era trovato in sintonia fin dalle prime settimane del lavoro in clinica: chiacchierone come lui, ma bruttino, con gli occhiali spessi e il naso aguzzo, aveva trovato inspiegabilmente una moglie carina e di carattere allegro, che si chiamava Pinuccia e sbrigava part-time piccoli lavori di


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segreteria in un ufficio legale, e con cui Elena aveva legato subito. Anche loro non avevano figli, e le due coppie s’incontravano, da tempo immemorabile, ogni sabato sera, con qualunque tempo, alternativamente a casa dell’una o dell’altra, alle nove in punto, per giocare a scopa d’assi. Da qualche tempo, però, le partite somigliavano più a una veglia funebre che a un’allegra riunione fra amici, col macigno del malessere di Adriano, che appesantiva e dilatava il silenzio di riflessione dei giocatori prima di calare la carta, che nove volte su dieci era quella sbagliata, però non faceva scattare all’impiedi, paonazzo di collera, il compagno di gioco ma passava apparentemente inosservata suscitando solo un timido ed educato: «Ma come ti è saltato in mente di calare il settebello?» Adriano scacciò dalla mente quei brutti ricordi, pensando invece alla sera in cui il suo amico Ettore, stranamente euforico, lo aveva preso da parte mentre Elena, in cucina, aiutava Pinuccia a togliere i bicchieri per il Prosecco dalla credenza e a disporli sul vassoio. «Adriano, forse ho una buona notizia. Ieri assistevo il dottor Bonomi, mentre toglieva una cisti sul dorso della mano al gioielliere Aliberti, sai, quello del negozio in centro. Aveva una fifa blu e continuava a chiacchierare per distrarsi, neanche gli stessero amputando un dito, accidenti a lui, che mi rintronava la testa. Fra le mille frasi sparate a raffica, una mi ha fatto drizzare le orecchie. Ha detto che stava cercando una guardia giurata per il suo negozio, perché Anthony, il senegalese


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gigantesco nero come la pece che fa paura solo a guardarlo, gli ha dato il preavviso: ha trovato un lavoro da buttafuori in una discoteca, sai, lo pagano di più. Mi si è accesa una lampadina nel cervello e ho pensato a te! Così mi sono fatto coraggio e, mentre gli applicavo il cerotto con tutta la delicatezza di cui sono capace e facendo il simpatico, gli ho parlato di te.» Adriano non capì subito. «Di me? Come infermiere dici? Non capisco, Ettore.» «Ma quale infermiere! Di te come nuova guardia giurata per il negozio!» «Io? Guardia giurata? Ma se non so neanche da dove si comincia!» «Aspetta, non agitarti. Mi sono informato. Serve solo un corso facile, e per il porto d’armi tu hai tutti i requisiti: ci vedi bene, per tua fortuna» continuò togliendosi gli occhiali per pulirli meccanicamente col fazzoletto che si era tolto dalla tasca «hai la fedina penale immacolata e, aggiungo io, una bella presenza, non sei come il senegalese, ma quasi» ridacchiò «e poi lo stipendio è buono e non ci sono turni notturni e festivi, come capita a noi infermieri. Magari dovrai fare qualche sopralluogo ogni tanto, quando il negozio è chiuso, tanto per vedere se c’è qualche problema, e basta.» Adriano rifletté pensieroso. L’idea di girare armato non lo entusiasmava, ma qualsiasi cosa era meglio dell’ozio forzato a cui era costretto, e poi, con la divisa e la pistola, avrebbe suscitato l’ammirazione di Elena che sarebbe stata ancora fiera di lui.


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La sua Stelina. Il nuovo lavoro gli avrebbe permesso di tirar fuori dal cassetto, chiuso a chiave a doppia mandata, il sogno della casa nuova col terrazzino. Fu quest’ultima considerazione a spazzare via le sue resistenze. «Ma sì, Ettore, ci provo.» «Lo sapevo, lo sapevo! Perciò ti ho fissato un colloquio con il signor Aliberti. Ti aspetta martedì alle dieci, in negozio.» Elena non la prese benissimo ma inghiottì il rospo e fece buon viso a cattivo gioco. Non ne poteva più di vedere il marito ciondolare in casa come un fantasma con lo sguardo fisso nel vuoto.


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CAPITOLO 3

Adriano ostentava sicurezza, ma in verità era molto agitato quando si presentò al cospetto del gioielliere Aliberti, uno spilungone con occhialetti cerchiati d’oro e il naso a becco, elegantissimo nel completo blu di taglio sartoriale, la camicia immacolata e la cravatta a piccoli disegni geometrici. Si aspettava domande sulla sua reputazione, invece evidentemente il gioielliere queste informazioni se le era già procurate, perché si limitò a sfogare il suo disappunto per quegli “extracomunitari inaffidabili” con cui non voleva mai più avere a che fare, per poi proporgli uno stipendio più che accettabile e, naturalmente, l’assunzione in regola. Così, dopo aver frequentato il corso e ottenuto il porto d’armi, Adriano prese servizio come guardia giurata presso la gioielleria Aliberti, non prima di aver invitato il suo amico Ettore, dopo il lavoro, a prendere un aperitivo al bar dei Portici, dove nessuno di loro due metteva mai piede per via dei prezzi esorbitanti e dei milanesi un po’ fighetti che gigioneggiavano appesi al bancone del bar, sorseggiando il loro Martini con l’oliva, mentre facevano i provoloni con la barista. In realtà era un altro il vero motivo che gli impediva di godersi un aperitivo, e non era una fissa, ne andava della sua stessa vita.


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Le arachidi. Le maledette arachidi. Adriano era allergico alle arachidi, e di brutto: sarebbe bastato mettersi in bocca un’innocente patatina pescata da una ciotolina, lavata male, che aveva contenuto arachidi, per finire al Pronto Soccorso in shock anafilattico. Se ne era accorto quando, da adolescente, si era coperto di bolle subito dopo aver inghiottito una nocciolina, spaventando a morte i suoi genitori, che lo avevano accompagnato di corsa all’ospedale. Da quel giorno si era tenuto ben lontano dalle arachidi, fino a quando, molti anni dopo, ebbe un’altra crisi, ben più temibile, che lo avrebbe condotto dritto dritto al Creatore se non fosse stato così fortunato da trovarsi in ospedale, nella saletta riunioni del reparto di terapia intensiva, a festeggiare il pensionamento di un collega. C’erano proprio tutti: caposala, medici, infermieri ed ex infermieri, il primario che guardava l’orologio ogni due minuti, palesemente a disagio. E il collega più anziano, che aveva organizzato la colletta per il regalo – un orologio placcato oro – e la caposala, che aveva letto un breve discorso in rima zoppa, in cui pontificava la fortuna di poter godere, finalmente, di interminabili pomeriggi intorno al tavolo della briscola o sul campo di bocce, invece di punzecchiare il sedere dei pazienti. Per il buffet, il festeggiato non aveva badato a spese: panini, pizzette, pasta fredda con le olive e la mozzarella, Campari e Crodini, spumante per il brindisi, tartine e pasticcini, in un’atmosfera di apparente allegria che, come tutto ciò che segna la fine di qualcosa, portava con sé un velo di tristezza.


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Adriano chiacchierava con un collega arrivato da poco, quando scelse dal buffet una piccola e invitante tartina di pasta frolla, ripiena di marmellata di pesche con una ciliegina rossa sopra. Non poteva immaginare che sotto il velo leggero di confettura il pasticcere aveva spalmato un abbondante strato di burro d’arachidi. La tartina era piccola, perciò la inghiottì intera. Il fuoco gli ustionò immediatamente la gola. In pochi secondi il collo si gonfiò, comparvero macchie rosse su tutto il corpo, la respirazione divenne affannosa. Frenetica la concitazione intorno a lui: il dottor Locci, pallido come un cadavere, gridò: «È in shock anafilattico! Stendetelo sul lettino! Mezza fiala di adrenalina intramuscolo, flebo di fisiologica e duecento milligrammi di idrocortisone in vena. Presto! Presto!» Nel suo stato di semi incoscienza, Adriano si chiese se, per caso, fosse capitato nel bel mezzo del set di “ER medici in prima linea”, ambientato nel pronto soccorso del policlinico di Chicago, una serie TV di cui lui ed Elena non perdevano una puntata. Invece era tutto vero. Pochi minuti e si era sentito subito meglio, a parte lo spavento, si capisce. Lo avevano monitorato per dodici ore prima di dimetterlo. Appena l’edema si fu riassorbito, Ettore lo sgridò aspramente, alzando la voce per coprire lo sgomento e accasciandosi sulla sedia con la mano al petto per simulare un attacco cardiaco.


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«Mi hai fatto venire un infarto, Adriano. Ma cosa ti è venuto in mente? Possibile che tu non sappia di essere allergico alle arachidi?» «Ma sì che lo sapevo, sono intollerante a un sacco di cose, e le arachidi le evito da decenni, ma caspita, ho mangiato una tartina con la marmellata!» Ettore impallidì. «Guarda bene cosa mangi, d’ora in avanti. Sotto la marmellata c’era uno strato alto così di burro di arachidi.» L’infermiere Adriano tacque. Sapeva che per neutralizzare quella brutta bestia che albergava dentro di lui non avrebbe dovuto mai più toccare un’arachide neanche col pensiero, ma si consolò, dopotutto le evitava da anni, e d’ora in poi sarebbe stato più attento a quel che metteva in bocca. Si vergognava un po’ di questa sua debolezza, assurda in un uomo alto e forte come lui, perciò, fino ad allora, non l’aveva confessata a nessuno tranne, ovviamente, a sua moglie Elena, che da sempre usava solo olio di mais, non metteva in tavola la frutta secca a Natale e non gli proponeva mai di uscire a cena in qualche ristorante etnico, da dove si usciva senza mai sapere cosa si era mangiato. Vuoi mettere una buona pizza margherita? )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD


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INDICE

Prologo ...................................................................................... 5

PARTE PRIMA Capitolo 1 ................................................................................ 13 Capitolo 2 ................................................................................ 21 Capitolo 3 ................................................................................ 26 Capitolo 4 ................................................................................ 30 Capitolo 5 ................................................................................ 35 Capitolo 6 ................................................................................ 38 Capitolo 7 ................................................................................ 45 Capitolo 8 ................................................................................ 48 Capitolo 9 ................................................................................ 52 Capitolo 10 .............................................................................. 62 Capitolo 11 .............................................................................. 68 Capitolo 12 .............................................................................. 73

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PARTE SECONDA Capitolo 1 ................................................................................ 79 Capitolo 2 ................................................................................ 83 Capitolo 3 ................................................................................ 88 Capitolo 4 ................................................................................ 94 Capitolo 5 ................................................................................ 96 Capitolo 6 .............................................................................. 100 Capitolo 7 .............................................................................. 102 Capitolo 8 .............................................................................. 107 Capitolo 9 .............................................................................. 113 Epilogo .................................................................................. 119 Ringraziamenti ...................................................................... 135


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