Storia di anime gemelle

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TABATA BAIETTI

STORIA DI ANIME GEMELLE

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Serie BIG‐C Grandi Caratteri, lettura facilitata STORIA DI ANIME GEMELLE

Copyright © 2013 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-6307-694-3 Copertina: immagine di Simona Cané Prima edizione Marzo 2014 Stampato da Logo srl Borgoricco - Padova

Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone reali, viventi o defunte, è del tutto casuale


A chi è tornato a galla, a chi sta andando avanti.



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01 DOMINOS Si sentì di nuovo a casa. Si aspettava di vedere la sveglia a forma di rana che teneva sul comodino quando era bambino. Si aspettava di vedere i contorni della sua cameretta e il sorriso di suo fratello nel letto accanto al suo. Ma una volta aperti gli occhi, ognuna di quelle immagini svanì, risucchiata nei buchi della memoria. Quella che aveva davanti agli occhi non era certo la sua cameretta. Quella era sabbia. Davanti ai suoi occhi e dentro la sua bocca. Sabbia straniera di un paese straniero. E man mano che riacquistava i sensi, iniziava a sentire anche il garrito dei gabbiani e il soffice rumore delle onde che si infrangevano sulla battigia. Per un momento si rattristì. Non era a casa. Non avrebbe potuto, essere a casa. Tanto dolce quanto doloroso, il sogno che aveva fatto. «Ma questo è quello che hai, Matt,


6 questo è quello che ti meriti» si disse, e poi sospirò. Rotolò sulla schiena e si mise sdraiato, a osservare il cielo infinito dell'alba. Sfumature di rosa e di giallo e di azzurro si mescolavano intorno al sole pallido. Nell'aria vi era ancora il profumo della notte, ma i deboli raggi del sole spazzavano via il buio e ogni ombra. Un nuovo giorno era appena cominciato. Quante volte aveva già assistito a quello spettacolo? Innumerevoli volte, in altrettanti punti del globo terrestre. E ogni alba lo lasciava senza parole, senza fiato, senza energie, come se tutto scomparisse di fronte a quella bellezza. La natura onnipotente. Fu guardando il cielo che, tanto tempo prima, si rese conto dell’inferiorità dell’essere umano su tutto ciò che lo circonda. Fu guardando il cielo che si rese conto di quanto gli stava sotto. E adesso come allora. Si mise seduto, demoralizzato. Aveva smesso di sognare, eppure il gusto dolce‐amaro dei ricordi continuava ad assillarlo. Si guardò intorno perplesso e si portò una mano alla testa, come se quell'unico, inutile, gesto potesse contribuire a ricordargli gli eventi della sera prima. Come era arrivato in spiaggia? E cosa l'aveva convinto a dormire sulla sabbia?


7 Domande che, probabilmente, si facevano anche quei pochi coraggiosi mattinieri che vedeva correre sul bagnasciuga, in quel momento. Lo guardavano con la stessa dubbiosa espressione. Notò il suo cappello, poco lontano, e lo scrollò dalla sabbia che lo aveva inghiottito durante la notte. “Il Re del Mondo” lesse e voltò lo sguardo verso il bar alle sue spalle. Anche lì, sull'insegna, c'era scritto “Il Re del Mondo”, e inevitabilmente spuntò un sorriso sulle sue labbra. “Noi siamo infinitamente piccoli” pensò. “Talmente piccoli da essere insignificanti, rispetto a tutto ciò che c'è intorno a noi. E non esiste modo per vivere, se non lasciarsi trasportare dalla corrente”. Si alzò in piedi, barcollando. Si accorse che la testa gli girava, ma non ci fece caso. Che cosa poteva significare una testa che gira in confronto al sistema gravitazionale? Camminò, facendo affondare i piedi nella sabbia per tenersi in equilibrio. Si accorse che la schiena gli doleva, ma poco gli importò. Pensò ai terremoti, alle maree, ai vulcani in eruzione. Il “Re del Mondo” lo accolse sotto il suo tetto di legno e paglia, rovinato dagli anni, dalla salsedine, dalle tempeste, dalla meraviglia della natura. Un bar, lo chiamavano, ma


8 forse era nato come magazzino. Aveva sedie, e tavoli, bicchieri e spillatori per la birra, ma mai si sarebbe potuto definire un luogo accogliente. Quegli stracci appesi alle finestre che filtravano la luce del sole in un altro mondo avrebbero dovuto chiamarsi tende, ma lì erano solo stracci. E le luci al neon, così fredde e così anonime, ti facevano sentire in un obitorio. Questo aveva pensato, quando per la prima volta entrò nel “Re del Mondo”. Quanti mesi prima? Quattro? Cinque? Aveva perso il conto. Matt sorrise di nuovo, mentre superava il bancone e scendeva nello scantinato. Per assurdo, erano quelle quattro pareti di compensato che a Matt piacevano di più. Non pretendevano di essere altro rispetto a quattro pareti di compensato e a lui non serviva di più. Si lasciò cadere sul materasso buttato a terra in un angolo, il vero e unico pezzo di mobilia che conteneva quella stanzetta scavata nella sabbia. Si mise comodo, appoggiando la testa a un mucchio di vestiti che usava come cuscino, poi sciolse sotto la lingua un sottilissimo strato di felicità effimera e aspettò che lo scantinato scomparisse. All'improvviso galleggiava nel nulla. Galleggiava nel vuoto cosmico. Senza tempo, senza ossigeno, senza eventi. Non


9 esisteva né il prima, né il dopo. Tra le stelle troppo vicine, e i pianeti troppo grandi. Era felice. Era felice perché era nello spazio e aveva raggiunto il Suo obiettivo. Lo desiderava da tanto. E questo voleva. Questo si meritava. Nuotò a rana. Poi a stile libero. Ridendo. Ridendo a crepapelle. E dall'alto osservava la Terra, così piccola. Chiamò Sam, urlò il suo nome. «Ce l’ho fatta. Sam! Hai visto?». Poi diventò pesante e si sentì precipitare. Sentiva lo scorrere del tempo sulle ossa e sulla carne, sentiva che le cose non stavano andando come lui aveva sperato. Sentiva che tutta la sua felicità veniva risucchiata in un buco. E la Terra si avvicinava pericolosamente. Sapeva che si sarebbe schiantato e aveva paura. Urlò. Cercò di arrestare la caduta. Gridò che non voleva tornare laggiù, in basso. Ma non poté far nulla per evitarlo. Niente ha importanza rispetto all'immensità dello spazio, della natura, del ciclo della vita, dello scorrere del tempo. Non quello che desideri, non quello che vuoi, non quello che meriti. Gli eventi accadono e si succedono, il tempo passa inesorabile, e mai una volta si riavvolge. Mai una volta ha il potere di cambiare le cose, il misero,


10 insignificante, essere umano. Mai, per quanto possa impegnarsi. E quando il caldo e duro asfalto di Los Angeles lo raggiunse, si svegliò. Era di nuovo nello scantinato. Fissava il soffitto marcio e ammuffito, come molte volte prima di quella. Si ricordò perché una sera, non sapeva quale, decise di dormire sulla spiaggia. Il soffitto lo relegava in un ambiente chiuso, lo confinava, il soffitto significava fallimento, e lui non voleva fallire di nuovo. Respirò piano per scacciare il terrore nel suo cuore. Non sapeva quanto tempo era passato. Ore? Giorni? Non sapeva quanto era alto il sole nel cielo. Ma niente di tutto questo aveva importanza. Aveva ancora l’ago nella vena e il laccio annodato al braccio. Un viaggio sempre più corto dei precedenti. Di più. Gliene serviva di più. A volte scommetti con uno sconosciuto che riesci a bere più birre di lui. A volte capita che vinci. Succede che lo sconosciuto che ti sfida non sappia niente della tua vita. Non sa che hai guidato un camion su per le vette cilene masticando foglie di coca per tenerti sveglio. Non sa che sei stato piegato sul tuo stomaco per un anno intero a raccogliere la pianta del peyote. Non sa che quando


11 finivano i sigari, c’era il rum a tenerti in vita. Non sa che sei sopravvissuto ai peggiori liquori di tutto il continente sudamericano. Lo sconosciuto non sapeva niente della tua vita, e non avrebbe dovuto sfidarti. Così succede che vinci il suo bar sulla spiaggia. Non che tu l'avessi desiderato, non che tu l'avessi voluto, non che tu l'avessi previsto. É successo e basta, perché il Caso ha voluto così. Il tempo ha voluto così, e niente può impedire al tempo di scorrere, niente può costringerlo ad avvolgersi su stesso. L’asfalto di Los Angeles lo accarezzò ancora una volta. Lo toccò appena, ma il solo contatto bastò a terrorizzarlo. Il suo cuore si fermò per qualche istante. Qualche istante, che durò più di una vita intera. Quando riprese a battere e l'ossigeno fluì di nuovo nelle sue arterie, si sentì trascinare. All'improvviso veniva risucchiato nel vortice del tempo. Volò. Volò a mezz’aria. Entrò con i piedi dal parabrezza sfondato della sua Mercedes, sentì il vetro tagliare gli strati più profondi della sua vita e il sangue caldo tornargli in corpo. Sentì la fredda sensazione che tutto sarebbe finito. “Oh Sam. Non era previsto tutto questo”.


12 E ancora il soffitto dello scantinato. Brutto e marcio. E fallimentare. Di più. Gliene serviva di più. A volte capita che ti innamori di una ragazza. Te ne innamori dal primo momento in cui la vedi. Quando sei così piccolo, che neanche sai cos'è l'amore. Succede che diventi grande. Succede che, per qualche misterioso motivo, lei ti corrisponde. Succede che ci fai l’amore. Succede che lei ti faccia sentire come sospeso nel vuoto. Nel vuoto cosmico. Ed era tutto quello che desideravi. Sei felice, come mai potrai esserlo ancora. Succede che poi tutto quello che fai, lo fai per lei. Tutto quello che dici, lo dici per lei. Ma tutto è così imprevedibile. E così fuori dalle tue possibilità, anche se l'amore ti faceva pensare di essere invincibile. Folle, folle, misero, essere umano! Così dici una parola di troppo, fai qualcosa che non andava fatto. Uno stupido errore, poi un litigio, che ne fa nascere altri, che diventano altri errori, che si trasformano in altri litigi e in altri errori. E all'improvviso arriva una tempesta e tu non hai niente sotto cui ripararti. La bella dai capelli biondi come la paglia, lunghi come gli steli del granoturco pronti per il raccolto, se ne va. E quegli occhi


13 azzurri, nei quali una volta vedevi il cielo, all’improvviso, non sono più limpidi. Ma solcati da un mare di lacrime. “Oh Sam. Non era previsto tutto questo”. Ancora il soffitto dallo scantinato. Di più. Ancora di più. A volte il fato è clemente. Capita che trovi la tua anima gemella dall'altra parte della strada. Non la stavi cercando, e non volevi trovarla, ma poi eccola lì. Sola e fragile, arrampicata sul tetto di una casa nel silenzio della notte. Volte ancora più rare capita che le due metà di una mela siano così vicine, che si trovano a condividere lo stesso utero. Capita che siano così simili che a volte anche la loro madre li confonde. Nascono insieme, e per sempre staranno insieme, nessuna distanza basterebbe a separarli. Gemelli, talmente simili, talmente vicini, che sembrano una sola persona. Sono una sola persona. E ciò che il Destino ha unito, l'uomo non osi dividere. Poi l’Audi davanti alla loro Mercedes inchiodò, Matt frenò di conseguenza, e Sam venne sbalzato fuori dal parabrezza. Il tempo rallentò di colpo e la scena proseguì lentamente, fotogramma dopo fotogramma. Più e più volte Matt rivide l'incidente, in ogni singolo, crudele, dettaglio. Gli occhi mentivano e i sensi vacillavano, questo


14 credette. Quelle immagini, quegli istanti di morte, dovevano essere il frutto di qualche incubo, effetti collaterali di qualche sostanza, ma non realtà. Definitiva e immutabile. Perché niente poteva separare ciò che il Destino aveva unito. Non una cintura slacciata, non uno stupido incidente su un'altrettanta stupida autostrada, non una litigata senza alcun valore. Non quegli splendidi capelli color della paglia. Non quegli occhi azzurri che riflettono il cielo. No. Nemmeno lei. Di nuovo. Il soffitto lercio. Per l'ennesima volta, per l'ennesima dose. Il tempo passa e gli eventi accadono. E tu sei impotente. Niente che tu possa dire, niente che tu possa fare, se non osservare immobile quanto accade attorno a te, lo scorrere della vita, lo scorrere del tempo, e lasciarti trasportare. Mai una volta ha il potere di cambiare le cose, il misero, fallace, essere umano. Mai, per quanto possa impegnarsi. E se il Destino ha deciso, l'uomo non potrà opporsi. Potrà solo seguire la sua strada fino alla Fine. Matt non aveva previsto quell'incendio sulle colline, e tutto quello che successe dopo. Non aveva previsto


15 l'amore, così come non avrebbe mai potuto prevedere l'incidente. Suo fratello non sarebbe dovuto morire. Ma cosa poteva fare lui? Così piccolo, così impotente? Le parole erano state dette, le cose erano state fatte. Quante volte sognò di afferrare suo fratello per la spalla e dirgli: «Resta, e beviamo ancora un'altra birra. Non dirmi che ti ho deluso, non dirmi che non mi perdonerai mai, che non te lo saresti mai aspettato da tuo fratello. Diamo tempo al tempo. Lasciamo passare qualche minuto, qualche ora, qualche giorno, e vedrai che tutto si sistemerà!». E l'incidente avrebbe coinvolto altri, e loro due sarebbero ancora in quell'angolo di paradiso, a vivere. Matt non aveva previsto tutto questo. Ma quando, dopo l'ennesima dose, Matt non riaprì gli occhi, questo sì, che l'aveva previsto. Questa era la sua strada, il suo Destino. Era la sua Fine. Era previsto che Matt morisse di overdose. In quel secondo, uno dei tanti, quando il suo cuore smise di battere, senza più ricominciare, e lui, finalmente, incominciò a volare per sempre. Erano stelle troppo vicine e pianeti troppo grandi quelli che lui vedeva. E andava bene così. Era leggero. Era senza


16 tempo. Era senza eventi. E niente avrebbe potuto rimandarlo a terra. Fluttuava nello spazio inconsistente. Era lassù, oltre le nuvole e guardava in basso. Ed era felice. Chiamò a gran voce suo fratello. «Sono qui. Per sempre, questa volta».


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02 VICTIMS Hocus Pocus. La porta si apre. Decine di pensieri affollano la mia testa. Decine di persone si muovono. Teste che sobbalzano. Parlano. Si agitano. Ballano. Fanno rumore. L’afa, e la puzza di sudore, e il caldo. E questa musica, che mi sfonda i timpani. Ma è la musica o il mio cuore a fare questo rumore? Sta battendo così forte che sento la mia mano rimbalzare sul mio petto. Il mio cuore sta per esplodere. Credo che farà male. “Denti da cavallo” afferra il mio braccio, mi chiede se sto bene. Ancora questa domanda. Il mio cuore sta esplodendo e qualcuno mi chiede se sto bene. Sarebbe una bella ragazza se non fosse per i denti da cavallo e la criniera. «Nitrisci allora!». Mi scosto. Non mi sono mai piaciuti i cavalli. Hocus Pocus. Dove sono? Sono nella cucina di qualcuno. Sto mangiando patatine al formaggio. Una dopo l’altra.


18 Non mi sono mai piaciute, eppure continuo a mangiarle. La mia mano si abbassa, il pugno afferra, la bocca si apre, i denti masticano. Sorprendente! Sono io a volerlo? Sto facendo davvero tutti questi movimenti? Ho fame. Forse è la fame a muovere i miei muscoli. E credo che queste patatine starebbero benissimo con la panna spray sopra. Ho voglia di panna spray. Hocus Pocus. Perché la mia maglietta è bagnata? Sento lo stomaco freddo e la bocca asciutta. Ho la sensazione che qualcosa sia andato storto, ma non riesco a capire cosa. Perché la mia maglietta è bagnata? Questa puzza di alcool brucia i polmoni e tutto quello che incontra prima. Non riesco a respirare. Mi sento andare a fuoco. «Portate dell’acqua!». Mi serve dell’acqua, sto cercando un bagno. Sto andando al piano superiore, e mille persone inevitabilmente mi toccano. Mi sento a disagio. Mi sento strana. Nauseata. Hocus Pocus. Dove sono? Sono davanti a un quadro. Il leone che rincorre la gazzella. Il leone corre e corre e corre, ma la gazzella è sempre più veloce. E sta per travolgermi. Non ha intenzione di fermarsi, o verrà mangiata dal leone. «Kobe, eh?». Mi distraggo e la gazzella scompare. Chissà


19 se è riuscita a sopravvivere. Chi mi sta parlando? Ah. “Boston Celtics” mi sta parlando. Cos’ho in mano? Ah. Un bicchiere di plastica rossa. “Boston Celtics”, un bicchiere, e un fusto di birra. Le tre cose sono collegate, ma non riesco a capire come. Poi tutto si fa più chiaro. I pensieri, all'improvviso, seguono una linea precisa. «Vorrei della birra! Ho sete!». Ho davvero tanta sete! «Lo so. Me l’hai già detto!». Ma io non ricordo di averlo fatto. Hocus Pocus. Dove sono? Davanti a un frigorifero. Non è il mio frigorifero. Se fosse il mio frigorifero troverei la panna spray nel ripiano a destra. Non è il mio frigorifero e non sono a casa mia. A casa mia non c’è tutta questa gente. Tutta questa musica. Tutto questo caldo. Tutte queste luci che si accendono e si spengono. Perché sono davanti a un frigorifero e di cosa avevo fame? Hocus Pocus. Dove sono? Sono su un divano. Chi è il ragazzo che siede di fianco a me? «Che cosa bevi?» mi chiede. Sto bevendo qualcosa? Sì. Ho un bicchiere in mano. Che cosa sto bevendo? Il braccio si alza, la bocca si apre, la lingua assapora e butta giù.


20 Brucia. Potrei incenerire qualcuno con il fiato. Mi sento come un drago. E allora rido. E la mia lingua butta giù ancora una volta. Brucia! «Credo che sia fuoco!» gli dico. Ecco quello che sto bevendo. Hocus Pocus. Dov’è la birra? Non preoccuparti di come sto, Denti da cavallo. Il mio cuore esploderà. Ma prima voglio farmi una birra. Dimmi dov’è la birra, Denti da cavallo! Mi guardo intorno. Decine e decine di persone. Mi assottiglio per non toccarne nessuna, ma queste toccano a me. Mi sento nauseata. Mi sento disgustata. Cerco un bicchiere di birra. Ho la bocca secca e sto morendo di sete. Sto morendo di sete. E il mio cuore sta per esplodere. Resisti e avrai da bere! «Vorrei della birra! Ho sete!» dico, sperando che qualcuno mi ascolti. Un ragazzo, con la maglia dei Boston Celtics, mi sorride, guardando la mia maglietta di Kobe. Gli do il mio bicchiere. Finalmente, birra! Hocus Pocus. Perché ho una panna spray in mano? Non ne ho idea. Ho la sensazione che qualcosa sia incompleta ma


21 non capisco cosa. Un tizio davanti a me sorride. Poi urla. Vuole che mangi la panna. Il braccio si solleva, la mia bocca si apre, il dito preme. Una dolce inconsistenza mi riempie la bocca. Non so perché avessi una panna spray in mano,

ma

è

stata

una

bella

sorpresa.

Il tizio mi sorride ancora, poi applaude dicendomi che sono stata brava. Vuole fare un brindisi. Alzo il mio bicchiere. Hocus Pocus. Dove sono? Sono in un bagno. Perché sono in un bagno? Perché sono sul pavimento di un bagno? Non è casa mia. Se fossi a casa mia ci sarebbe un tappeto di colore azzurro sul pavimento. Invece qua è freddo e non c’è nessun tappeto di colore azzurro. E mi fa male la mano. La pelle si è arrossata sulle nocche. Mi ricordo che è questo l’aspetto di una mano quando si prende a pugni qualcuno. Ho preso a pugni qualcuno? E chi è quello?! Hocus Pocus. Perché questo ragazzo mi sta applaudendo? Alzo il mio bicchiere e lo porto alla bocca, come fa lui. Ma nella mia gola non scende niente. Mi rattristo. Il bicchiere è «Tieni! Prendi questo! Te lo sei meritato!» dice.

vuoto.


22 Mette un altro bicchiere nella mia mano. «E’ buono! Bevi!». Il braccio si alza. La bocca si apre. Chi, per l’amor del cielo, sta controllando il mio corpo, mentre io non ci sono? Ingoio. La mia gola immediatamente brucia. «Non è birra!». «No che non lo è!» dice. «É fuoco, ragazza mia!». Hocus Pocus. Che cosa sto facendo? Il mio dito preme il numero tre. Poi il numero uno. Poi lo zero. Il resto del numero lo so a memoria. Ma era da anni che non lo componevo. Chi diavolo sta controllando il mio corpo, mentre io non ci sono? “Il telefono della persona da lei chiamata non è al momento raggiungibile”. Ma certo. Come potrebbe essere altrimenti. Che cosa sto facendo? Perché ho un cellulare in mano? Di chi è questo cellulare? Inorridisco davanti al registro delle chiamate. Matt? Hocus Pocus. Chi mi sta parlando all’orecchio? Chi ti ha dato il permesso di avvicinarti così tanto a me? Non lo sai che è vietato? «Ti va di restarcene un po’ da soli?» mi dice questo tizio con la maglia dei Boston Celtics. Mi vengono in mente le Hawaii, non so perché. «C’è una stanza libera di sopra!». Mi viene in mente il Lau


23 Lau che ho mangiato a Log Cabins. Lo preparava la moglie di quel pescatore americano che abbiamo conosciuto nella baia. Il Lau Lau è il piatto più buono che io abbia mai mangiato. Credo di avere fame. Ho una fame da lupi. Devo cercare del cibo. Probabilmente è tempo di cercare una cucina. Hocus Pocus. «Stai bene?» gli chiedo. É svenuto. Ha vomitato ed è svenuto. Questo tizio, in questo bagno, svenuto. Lo scrollo. Lo tiro per i pantaloni. Ma non riesco a svegliarlo. Poi capisco. Anche lui deve avere problemi con il controllo del suo corpo. Poi capisco. «Hocus Pocus, amico!». Lo tiro per la maglietta. Sfilo il suo cellulare dalla tasca dei jeans, e poi anche il suo portafoglio. Solo venti dollari. Perché ha già speso tutto. Sei anche tu una vittima di Hocus Pocus, eh? Finirò anch’io come te, a vomitare nel bagno di qualcuno? A svenire sul pavimento di un cesso non mio? Spero di divertirmi ancora un po’ prima. Hocus Pocus. Cosa vedo? Scale che salgono. Al piano di sopra c’è il bagno. Dovevo andare in bagno, ma non ricordo perché. Qualcuno mi sta toccando. Qualcuno mi afferra per un braccio e mi allontana dal mio obiettivo.


24 Non ho mai sopportato essere toccata dagli estranei. Serro i pugni. Che finisca presto. Serro i pugni. Che finisca presto. Ma c'è troppa gente intorno a me, e questa mano continua a trascinarmi. Vedo una maglia sportiva verde. É un tizio con la maglia dei Celtics che mi sta toccando, e questo qualcuno che mi sta parlando. Chi cazzo ti ha dato il permesso di toccarmi? Vedo il mio pugno incontrare la mascella di Boston Celtics. Sento un improvviso dolore alla mano. Vengo spinta indietro. Atterro su qualcuno. Altra gente mi tocca. Mi risolleva. «Non toccatemi, cazzo! Non toccatemi». Altra gente mi afferra. Devo andarmene, o mi faranno del male. «Matt!». «Aiutami!». Vedo un uscita. Ci sono delle scale. Vedo il pavimento molto più vicino. Vedo le mie mani su quel pavimento, mentre velocemente salgo le scale. Hocus Pocus. Dove sono? Sono su un divano. Chi è il ragazzo che siede di fianco a me? «Mi chiamo Mike. Vengo dall’Oregon». «Non mi interessa come ti chiami». Né da dove vieni. Fa un sorriso. Un sorriso falso. Mi alzo disgustata. Non mi


25 sono mai piaciute le persone false, quelle che fingono, quelle che ti ingannano. Sento che mi rimetto a sedere, ma contro la mia volontà. Sento freddo allo stomaco, all’improvviso. «Credi che esista il libero arbitrio, Mike? Credi che sia veramente

io

a

muovere

il

mio

corpo?».

«Come?». Mi hai fatto un sorriso falso, ma ci sono passata sopra. Mi hai toccato il braccio per rimettermi a sedere, ma ci sono passata sopra. Ti ho fatto una domanda e non mi hai risposto. Non va bene, Mike dall'Oregon. Non va affatto bene! «Guarda! Ti sei rovesciata il bicchiere sulla maglietta!» mi dice. Ho un bicchiere in mano. É vuoto? É vuoto! Qualche tipo di liquido è finito sulla mia maglietta. Qualche odore di fuoco è nella mie narici. Non riesco a respirare! Hocus Pocus. Perché Boston Celtics mi sta abbracciando? Mi vengono i brividi. Mi sento sporca, ora. L’ultima volta che ho abbracciato qualcuno è stato anni fa. Ma mi era sembrato così bello farlo, quasi naturale. Non mi sono mai piaciuti i contatti con gli estranei. Neanche quelli


26 accidentali. «Matt!». Lui lo sapeva che a me non piace essere toccata. «No! Mi chiamo Jordan!». «Non mi interessa come ti chiami!» gli dico. Lui fa un sorriso, è sincero. Probabilmente neanche a lui interessa come mi chiamo. Si avvicina al mio orecchio. Lo tollero solo perché il basket è sempre stato il mio sport preferito, dopo il surf, s'intende. Il surf migliore l’ho fatto alle Hawaii. Non perché ci fossero onde migliori, rispetto all'Australia o al Sud Africa, ma perché fui talmente felice lì, che tutte le tappe successive mi sembrarono noiose. «Log Cabins!» gli dico. É dove ho fatto surf. Quell’estate, quella prima estate senza Sam. Sarei dovuta andare con lui. «Si fa surf anche in Florida, Heidi!», questo aveva detto prima di partire. «Vieni con me, e tentiamo di risolvere le cose. Siamo fatti per stare insieme, noi due». Ma io sono partita per le Hawaii, perché ci sarebbe stato tempo per rimettere a posto le cose, per rimettere a posto noi due, tutta una vita. E dopo le Hawaii c'è stato il Messico, e la Gold Coast, e tanti tantissimi altri posti. Cavalcavo tutte le onde che riuscivo a prendere, prima di crollare sulla spiaggia senza forze. Quella prima estate senza Sam, con tanto, tantissimo,


27 tempo davanti a me. Hocus Pocus. Perché sta squillando un cellulare? É quello che ho in mano, ma non è il mio. É quello che ho preso dalla tasca del tizio svenuto. Il mio compagno di Hocus Pocus, già! Numero sconosciuto. Forse è il suo spacciatore. Mi farebbe comodo un’altra dose al momento. Sento che la magia sta svanendo, e io vorrei che lo spettacolo non finisse mai. Una voce femminile parla una strana lingua. «Non capisco un cazzo di quello che dici!». Una voce femminile, allora, tenta di parlare uno stralciato inglese. Ǥ ǤǤǤ ͖͔͕͘ ͗ǡ͝​͝


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