In uscita il 30/9/2016 (15, 0 euro) Versione ebook in uscita tra fine settembre e inizio ottobre 2016 ( ,99 euro)
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PAOLO DE CHIRICO
STRADA SENZA RITORNO
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STRADA SENZA RITORNO Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-027-6 Copertina: immagine Shutterstock.com
Prima edizione Settembre 2016 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
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Con amore a Stella, moglie, amica e musa.
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INTRODUZIONE Saluti
Questa storia comincia con una partenza, e termina con una strada percorsa; come spesso accade nella vita, percorriamo una strada singolare e senza ritorno, e ogni scelta che compiamo porta delle conseguenze che avranno ripercussioni sul resto della nostra vita. Ognuno ha la propria strada, ma alcune sono colme di tenebra, poiché oscuri sono gli animi che le influenzano. Questa è la storia di Raffaele Doria, un ragazzo semplice, nato a Genova nel 1960, diplomato in ragioneria nel 1979, e comincia con una scelta: la decisione di partire, per un posto che affascinava Raffaele, da sempre amante di misteri e cose antiche. Quel giorno di marzo del 1988, Raffaele Doria, appena uscito dalla doccia, percorse il corridoio ancora in accappatoio, entrando nella propria cameretta in silenzio. Con attenzione, il ventottenne ripose l’accappatoio sulla sedia e indossò la biancheria e un paio di jeans a vita alta, socchiudendo la porta della cameretta per far sì che la luce accesa del comodino non invadesse la camera dei genitori dormienti. Indossati i jeans, Raffaele scrutò al di fuori della finestra, scostando la tendina e notando un limpido cielo notturno. L’alba distava ancora due ore, ma il giovane già si affrettava con i preparativi per la partenza. La valigia era pronta, chiusa ai piedi del letto, ma la camera era un disastro e ora andava sistemata. Pazientemente, raccolse la pila di libri accumulati sul comodino: uno di narrativa e due storici, uno sull’antica Grecia e l’altro sulla storia di Genova. Rimasero così
6 da sistemare soltanto i vinili ascoltati la sera prima, che ancora giacevano sullo scrittoio: l’album Aerosmith e Uprising di Bob Marley, l’ultimo prima della prematura scomparsa dell’artista. Terminato di sistemare la stanza, Raffaele prese la valigia e salutò il poster di Bob con la sua citazione preferita “Emancipate voi stessi dalla schiavitù mentale, nessuno a parte noi stessi può liberare la nostra mente...”, e scese le scale di casa. Giunto in cucina, fu sorpreso di trovare sua madre già sveglia, scompigliata, ma sorridente. «Buongiorno, Raffaele, hai già finito i preparativi?». «Ciao mamma, buongiorno. Tutto pronto. Devo andare a prendere Lucia e si parte alla volta delle grotte». Con un sorriso languido, la signora Doria scostò, pensierosa, una ciocca di capelli dalla fronte: «Sicuro che sia una buona idea? Insomma non scappano via quelle grotte, e io ho una brutta sensazione al riguardo. E poi, questo caldo? È Marzo ma ci sono quasi trenta gradi: non è naturale!». «Mamma» esordì Raffaele, sbuffando «non sono più un ragazzino. Non devi temere che mi faccia male appena svolto l’angolo. Stai tranquilla, so badare a me stesso. Adesso vado, che altrimenti arrivo tardi da Lucia». «Va bene, hai ragione» rispose la madre, scrollando le spalle. «Scusa la tua vecchia mamma, salutami Lucia, è da un po’ che non la vedo». «Non mancherò. Buona giornata!» rispose Raffaele Doria, mentre dava le spalle a sua madre, dopo aver attraversato l’uscio di casa. Nel buio della sua cucina, la signora Doria pianse, senza emettere rumore, semplicemente con le lacrime. Senza saperne il motivo, la madre di Raffaele si sentiva prosciugata di ogni energia. Nel silenzio della casa, pregò che non accadesse nulla, rimanendo in piedi accanto al tavolo della cucina. La ritrovò così, alcune ore
7 piĂš tardi, il marito: intenta a farfugliare con gli occhi chiusi. In quel momento, la donna capĂŹ di essere rimasta immersa in preghiera per tre ore di fila, pregando Dio di proteggere il suo fragile figlio.
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PRIMO Gita fuori città
«Raffaele, ci manca ancora molto per questo diavolo di paese?». Lucia era stufa di tutta quell’autostrada, abbellita solamente da Autogrill sporadici, e Raffaele non era di compagnia quando guidava, concentrato com’era sulla strada percorsa. «Non molto, amore. Siamo quasi arrivati» rispose Raffaele, senza distogliere gli occhi dalla strada. Lucia sbuffò vistosamente e accese l’autoradio: «Metto la musica». Non attese la risposta di Raffaele, cominciò a fare zapping delle stazioni radio fino a quando queste non diminuirono di numero, riducendosi a sole tre. «Ma che diamine? Sono scomparse tutte le stazioni radio! Qui non prende niente» sbraitò la ragazza. Subito cominciò a rovistare nel cruscotto una musicassetta da mettere. «È perché siamo vicini; a Castellana sarà ancora peggio, preparati all’isolamento completo». «Capirai…per un’ora di escursione, fai tante storie…» replicò Lucia. «Sono le grotte più grandi che abbiamo in Italia, il percorso che faremo noi è di tre chilometri sotterranei, con posti come la grotta bianca, la grotta nera e La Grave, ovvero l’ingresso. Deve essere stupefacente, uno spettacolo per gli occhi».
9 Meno interessata alla speleologia di quanto non lo fosse il suo ragazzo, Lucia ridacchiò, poggiandogli le mani sulle gambe. «Ma come hai studiato bene. Sembra quasi tu debba sostenerci un esame» e poi lo baciò sulla guancia, con tenerezza. Raffaele ne sorrise e la guardò di lato, senza distrarsi troppo dalla strada. «Nessun esame: mi ha sempre incuriosito conoscere cosa ci sia sotto di noi e sopra di noi. Geologia e Astronomia mi hanno sempre affascinato, credo che, capendo al pieno queste due materie, potremmo dare spiegazioni e soluzioni a moltissimi problemi della nostra società». Lucia si divertì a porgli domande per stuzzicarlo, sapeva che Raffaele avrebbe risposto mettendoci l’anima e lei si divertiva a vederlo appassionato. Nel frattempo, avevano percorso gli ultimi chilometri di autostrada, e Raffaele aveva preso l’uscita; presto arrivarono a Castellana paese. Il viaggio di Raffaele e Lucia era durato all’incirca due ore, adesso il sole era alto e l’orologio del paese segnava le dieci e quindici minuti. Tenendo conto delle due pause fatte in autostrada, era un ottimo tempo, grazie alla nuova auto di Raffaele: una Fiat 127 Panorama azzurro cielo, dagli interni neri e pomello del cambio sportivo. L’uomo andava fiero della sua auto, poiché serviva al suo scopo ma non era costata un occhio della testa, non era appariscente ed era affidabile. Raffaele e Lucia, in auto, costeggiarono il municipio e la chiesa con l’orologio e arrestarono il mezzo nel parcheggio di fronte il mercato; Raffaele scese dall’auto, si sistemò il cappello con visiera, fece il giro del mezzo e aprì la portiera a Lucia. «Che cavaliere! Allora, fare vacanza, ti migliora realmente!» scherzò lei, aggiustandosi il vestito corto e sistemandosi la borsa sulla spalla. «Diamine, che magnifica giornata è uscita».
10 «In effetti non me l’aspettavo neppure io» constatò Raffaele, ammirando l’azzurro del cielo e i colori accesi che li circondavano: piante in fiore, palazzi variopinti, marciapiedi curati, gente che andava e veniva. Uno spettacolo per gli occhi. Entusiasta, l’uomo sorrise alla propria fidanzata «È bello qui». «Vero, sono soddisfatta. Adesso cerchiamoci un alberghetto carino». I due fidanzati si diressero al bar più vicino, un caffè dal nome “l’Algerina”. Il locale era stracolmo, ma il lungo bancone di marmo giallo affrontava dignitosamente la folla di clienti; l’interno era gradevole, in stile moderno: mattonelle lucide, grande vetrina di pasticceria, macchina del caffè da dodici tazze, ultimo modello. Raffaele e Lucia gustarono un buon caffè, osservando la folla, variopinta e multietnica, sgusciare velocemente. Quando finirono la consumazione, si diressero in cassa per il pagamento. Raffaele osservò distrattamente la donna, sui quaranta, che batteva sul registratore di cassa l’importo in lire. Non prestò attenzione allo sguardo attento che la cassiera gli rivolgeva. «Siete turisti?» chiese la donna, con voce gracchiante. «Si vede?» chiese divertito Raffaele. «In effetti siamo appena arrivati, dobbiamo ancora fermarci in albergo a scaricare il bagaglio». Il volto della donna si fece appuntito e un guizzo le brillò negli occhi. «C’è un albergo qui vicino, sono nostri clienti, se dite che vi manda il bar l’Algerina vi fanno uno sconto. Si chiama L’isola di Vieste». «Che gentile» intervenne Lucia, sorridendo. «Per noi un albergo vale l’altro, perché ci fermiamo poco, quindi la sua proposta è allettante».
11 «Allora un attimo soltanto, vi do il loro pranzo, così sapranno che vi mando io» rispose la donna, facendo un cenno col capo a uno dei ragazzi dietro il bancone, che si mise subito all’opera, selezionando alcuni prodotti dolciari dalla teca, incartandoli e consegnandoli di persona alla cassiera. «Che cosa particolare, dolci per pranzo?» chiese Raffaele, incuriosito, ma la donna alla cassa non rispose, sorrise in modo plastico e porse loro il sacchetto. «La vostra colazione la offro io, per il disturbo che vi arreco a consegnare il sacchetto. Prego». Raffaele obiettò, ma la donna fu inamovibile, e così si ritrovarono sull’uscio di un bar, con colazione offerta da una sconosciuta e uno sconto per un albergo. «Mi sembra strano, Lucia. Non andiamo in quell’albergo, secondo me c’è qualcosa sotto» esordì Raffaele, guardingo. Lucia sorrise e scosse il capo. «Pensi sempre a complotti: per una volta che troviamo una ragazza gentile approfittiamone! Tanto domani saremo già in partenza, cosa vuoi che possa accadere in una notte?». «Va bene, ma solo perché è per una sola notte» rispose Raffaele, ancora dubbioso. Lucia e Raffaele chiesero a un edicolante dove si trovasse l’albergo. L’uomo rispose in modo poco garbato e indicò loro la tabella col nome “Isola di Vieste”, poi scosse il capo mormorando qualcosa sulla stupidità dei turisti. Il comportamento dell’edicolante urtò Lucia e, innervosita, strattonò per un braccio Raffaele. «Su, andiamo, con certa gente non si più nemmeno parlare». Mentre i due fidanzati attraversavano la strada, l’edicolante fece il segno della croce con un rosario in mano.
12 I due ragazzi attraversarono le porte scorrevoli dell’Isola di Vieste, ritrovandosi in una hall buia, dal parquet lucido, con un persistente odore di ammoniaca. Alcune poltrone davano le spalle all’ingresso, puntando invece a un tavolino con annesso televisore che, a sua volta, dava le spalle a un pesante tendaggio rosso, che copriva la portafinestra che dava sul cortile. La hall era piuttosto scarna e l’addetto, dietro a un alto bancone in legno di faggio, era seduto su una sedia bassa: di lui si scorgeva soltanto mezza testa e non rivolse neppure uno sguardo ai nuovi arrivati. Lucia, con passo deciso, si avvicinò al bancone e sorrise, poggiando sul ripiano la colazione a sacco preparata dal bar. «Questa è vostra, ve la manda il bar l’Algerina», ma dall’uomo ricevette soltanto uno sguardo annoiato e insofferente. «Senta, se disturbiamo, andiamo via subito» aggiunse dopo un attimo la ragazza. «Grazie per la colazione, la lascio al capo» rispose l’uomo, alzandosi dalla sedia, con aria annoiata. Lucia non poté far a meno di notare l’accentuato strabismo dell’uomo, la sua magrezza scheletrica e la scurezza delle sue mani, nere, a differenza del volto, invece chiaro. Lucia sentì un brivido lungo la schiena quando le mani dell’uomo sfiorarono le sue. Senza aggiungere altro, l’uomo prese una chiave da una cassetta col numero 104 e la mise sul bancone. «Le scale sono sulla destra, sono pochi scalini» e senza aggiungere altro, tornò a sedersi sulla sedia, fissando la cassetta delle chiavi, mezza vuota. «Che strano tipo» sentenziò Raffaele, scuotendo la testa, senza preoccuparsi che l’altro lo sentisse. Lucia prese la chiave della camera e abbozzò un sorriso «ogni paese ha le sue stramberie». I due ragazzi salirono per le scale, illuminate da plafoniere a forma di torcia. Si ritrovarono in un gradevole corridoio in penombra, con un lungo tappeto blu a ricoprire il pavimento,
13 fioriere a ogni finestra e luci che si accendevano al loro passaggio; la loro camera era adiacente alle scale e, una volta entrati, scoprirono una stanza dal grande letto, un comodo bagno con doccia e accessori e finestra sul cortile. Tutto sommato la camera era gradevole, seppur essenziale. Raffaele richiuse la porta dietro di sé, poggiando il piccolo bagaglio che si erano portati dietro tra il letto e l’armadio. Lucia si sfilò subito le scarpe e sospirò. «Mi ci vuole una doccia, l’aria qui è umida e non voglio uscire tutta appiccicata». «Fai pure, io sistemo le nostre cose nell’armadio e accendo la tv». «Allora io vado» apostrofò lei, sfilandosi il vestito e sgusciando nella doccia. «Spero ci sia acqua calda! Tu non sbirciare!». Raffaele rise di gusto, scuotendo la testa «Ma va’! Come se non ti conoscessi!» Divertita, anche lei rise ma la risposta fu soffocata dal rumore dell’acqua che scorreva. Un attimo dopo aggiunse: «è caldissima!». Raffaele sistemò il contenuto del bagaglio nell’armadio, scoprendo una piccola cassaforte al cui interno c’erano le istruzioni sul come usarla. Le sfogliò distrattamente, scoprendo che si poteva azzerare la combinazione anche da chiusa schiacciando alcuni tasti. Quando Lucia uscì dalla doccia, lui le porse l’asciugamano, la baciò appassionatamente ed entrò nella doccia anch’egli. Lucia, in accappatoio, accese la televisione, girando oziosamente i canali nel frattempo che Raffaele finiva di lavarsi. All’improvviso sentì qualcuno discutere animatamente. Abbassò il volume della televisione e si concentrò per ascoltare la discussione: sebbene non riuscisse a distinguere le parole, le sembrò che una delle due voci fosse quella dell’uomo nella hall,
14 ma l’altra non la conosceva. Quando Raffaele uscì dal bagno, i due fidanzati si vestirono e uscirono dalla camera, scesero le scale e si ritrovarono nella hall. Ad attenderli c’era un uomo anziano, sui sessant’anni, con l’occhio destro bendato, capelli e baffi bianchi e lunghi, che sorrise loro e li salutò cordialmente. «Buongiorno, signori, io sono Amurat Matoub, proprietario de L’Isola di Vieste». Aveva un accento particolare, straniero come il nome, ma il suo volto era gentile e la persona curata, nonostante l’evidente magrezza del corpo. «Buongiorno a lei» rispose Lucia, poggiando le chiavi della stanza. «Stiamo uscendo, torneremo nel pomeriggio». «Certo, signorina, devo però chiederle i documenti, perché mio figlio non vi ha registrati». Raffaele si avvicinò al bancone, affiancando la sua fidanzata. «È vero, non ci siamo registrati all’ingresso. L’avevo trovato strano, ma vostro figlio non ci ha chiesto nulla». Evidentemente in imbarazzo, Amurat si tirò il baffo, sorridendo a labbra strette, così tanto che l’occhio quasi scomparve dentro la guancia. «Dovete scusare quell’imbranato e scansafatiche di mio figlio, è un buono a nulla! Sa starsene soltanto seduto. Prima gli ho fatto una ramanzina, perché sono arrivati diversi clienti e lui non ha registrato nessuno. Non si rende conto di niente, credo abbia preso dalla buonanima di mio padre, che dimenticava anche il proprio cognome». «Non si preoccupi, non è accaduto nulla» rispose Lucia, tirando fuori i documenti di entrambi dalla borsetta. «Ecco, questi sono i nostri documenti» aggiunse, porgendoglieli. L’anziano Matoub, sempre con volto sorridente, li prese e iniziò a compilare alcuni moduli. «Raffaele Doria e Lucia Capraria, due cognomi Genovesi doc., ma la signorina è di Santa Margherita Ligure, vedo».
15 Lucia annuì, divertita da quel commento, mentre Raffaele si sporse in avanti poggiando i gomiti sul bancone: «Conosce bene Genova? Mi sembra felice di vedere due genovesi». «Abbastanza, ci ha vissuto mio nonno per alcuni anni. L’ho visitata ed è veramente meravigliosa». Raffaele approfittò della cordialità dell’uomo per togliersi una curiosità. «Mi scusi, restando in tema di nomi, mi può spiegare perché “Isola di Vieste”?». «Oh! È solamente un nome inventato. Ho vissuto a Vieste per del tempo, ma non c’è nessuna isola lì. Nessun grande mistero, mi piaceva il suono di queste parole vicine». Dicendo ciò, l’uomo con la benda restituì i documenti, Lucia li ripose nella borsa e, quando rialzò lo sguardo per salutare l’anziano, notò che questi li fissava. Lo sguardo gentile era scomparso. «Qualcosa non va?» chiese la ragazza, turbata. Amurat Matoub non rispose subito, si tirò i baffi tre volte prima di rispondere «Assolutamente niente. Posso esservi di aiuto con delle indicazioni? Dove siete diretti?». Raffaele rispose d’istinto, anche perché voleva allontanarsi quanto prima dall’albergo per cominciare l’esplorazione delle grotte. «Alle grotte, immagino che molti turisti qui vengano per quello». Il vecchio albergatore sembrò soddisfatto della risposta e raccolse qualcosa da una scatolina alle sue spalle. «Ma certo, quasi tutti i turisti, a onor del vero». Estrasse dalla scatolina un piccolo libricino e lo pose sul bancone «ma non a tutti regalo La Guida delle grotte e la mappa della zona, prendete.». «Grazie mille» rispose Raffaele, dando un’occhiata alla mappa «ci serviva proprio questa». «Lieto di esservi stato d’aiuto».
16 I due fidanzati ringraziarono nuovamente l’anziano e si diressero verso l’uscita; quando furono sull’uscio, vennero però apostrofati dal vecchio: «signor Raffaele, è da molto che non viene alle Grotte di Castellana?». Raffaele si voltò di scatto. «Non sono mai stato qui prima d’ora». Amurat Matoub sorrise nuovamente, alzando una mano all’altezza dell’orecchio «Errore mio. Chiedo scusa» ribatté l’uomo ma, quando i due fidanzati furono fuori dall’albergo, strofinò le mani e sorrise, in modo beffardo. «Che strani tipi, in quell’albergo», sentenziò Lucia, dirigendosi all’auto, con passo svelto. «Concordo in pieno». «E tu hai già dimenticato le buone maniere» disse, in tono accusatorio, Lucia; stava aprendo la portiera della Fiat 127 ma, seppur il suo tono fosse stato aspro, sorrideva. Raffaele Doria sorrise in risposta, si tolse il cappello da baseball mostrando la chioma castana scompigliata, e lo gettò sui sedili posteriori dell’auto. I due fidanzati partirono a bordo della 127 Panorama; Lucia dava indicazioni e Raffaele guidava. La strada scorse veloce e il percorso, breve, terminò in quindici minuti: era impossibile mancare il bersaglio, perché tutta la zona era costellata di cartelli con indicazioni stradali, e nei dintorni delle grotte spuntavano come funghi una miriade di prefabbricati movibili in legno atti alla vendita di ciarpame. «Incredibile» sussurrò deluso, Raffaele. «Il commercio sfrenato è proprio ovunque, mi chiedo che souvenir possano vendere in un luogo come questo». «Non hai che da scendere dall’auto, caro, per scoprirlo» tagliò corto Lucia. «Non dirmi che realmente ti aspettavi una zona immacolata?».
17 «Devo ammettere di sì». «Di immacolato qui non c’è niente, tranne la Madonna: che sempre ci protegga».
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SECONDO Le Grotte
Scesi dall’auto, i due fidanzati impiegarono alcuni minuti per orientarsi tra la moltitudine di casupole in legno, la maggior parte delle quali vendeva cartoline, portachiavi, apribottiglie e altre cianfrusaglie dalla dubbia utilità. Altri commercianti, invece, offrivano servizi da bar o ristorazione, sia al sacco sia seduti o al banco. Al centro di tutto quel caos, uno sparuto gruppo di edifici in pietra erano atti alla vendita dei biglietti per il giro nelle grotte di Castellana. I due ragazzi si misero in fila, più lunga di quanto avessero previsto; dopo diversi minuti riuscirono ad arrivare alla cassa e pagare due biglietti per il tragitto lungo: quindicimila lire in due. «Prego» disse Raffaele, porgendo i soldi «possiamo entrare subito?». «Ecco i biglietti. No, voi siete il gruppo delle quattordici e trenta, prima è tutto pieno». Lucia rimase così sorpresa da quanto detto dalla cassiera che consultò l’orologio, constatando che erano appena le dieci e mezzo. «Tutto questo tempo? Non si può fare prima?». Visibilmente innervosita, la cassiera rispose: «Nossignora. Riceviamo centinaia di visite giornaliere in qualsiasi periodo dell’anno, in primavera addirittura aumentano. Non possono entrare gruppi maggiori di quindici e quindi si fanno lunghe file.
19 È per questo che si sono sviluppati i negozietti. Adesso, per piacere, faccia passare». «Dai, vieni, facciamo un giro» la esortò Raffaele, passandole una mano sulla spalla «guardiamo cosa vendono queste bancarelle». «E se tornassimo in albergo?». Lucia, subito dopo aver fatto la proposta, ci ripensò e scosse forte la testa e aggiunse: «meno ci stiamo e meglio è. Facciamo come dici tu, rilassiamoci». I due fidanzati cominciarono l’esplorazione della zona attorno alle grotte, guardarono le bancarelle, trovando uno scultore di cristallo che Lucia adorò subito, dalla vetrina. Mentre la sua fidanzata era persa nei meandri di un’intera giungla di animali fatti in cristallo, Raffaele si sedette di fronte al negozietto sfogliando oziosamente l’opuscolo datogli dall’albergatore. Le prime pagine parlavano della storia del padre delle grotte di Castellana, Franco Anelli, speleologo scopritore del complesso sotto la città omonima a Gennaio del 1938; queste erano cose che Raffaele già conosceva e perciò passò a notizie successive, ovvero i dettagli riguardanti le grotte. Fu attratto da una grotta in particolare Lupa Capitolina, ma non riuscì a leggere tutta la sezione, perché Lucia lo aveva raggiunto e portava con sé il pranzo. «Ah! E io che credevo ti stessi lustrando ancora gli occhi con gli animaletti in cristallo, e invece hai pensato al pranzo, che brava ragazza che ho!». «E che ragazzo noioso che ho io. Subito ti sei stancato. Comunque si è fatto tardi, pranziamo che tra poco viene il nostro turno». Lucia scartò il proprio panino ma, pensierosa, attese qualche secondo prima di morderlo. Raffaele aveva già cominciato a
20 mangiare e non si accorse di ciò, ma lei richiamò la sua attenzione pungolandolo con l’indice destro sulla spalla. «Ho notato una cosa strana, non so se è una coincidenza». «Offevo?» chiese Raffaele, con la bocca piena. «C’era un ragazzo, dove ho preso i panini, che somigliava tantissimo al figlio dell’albergatore». Raffaele Doria sollevò un sopracciglio e fece spallucce. «Hai ragione, non significa niente» convenne Lucia, cominciando il suo pranzo. Quando ebbero finito, controllarono l’orario: era quasi giunto il loro turno per il tour nelle grotte. I due fidanzati si mossero verso l’ingresso vero e proprio delle grotte. Anche lì c’era fila, tutti appartenenti al loro gruppo turistico. Un ragazzo di vent’anni timbrava i biglietti, dando il benvenuto a tutti, spiegando alcune cose veloci e indicando una zona alle proprie spalle. Quando Raffaele gli porse il biglietto, il ragazzo gli sorrise: «Buongiorno signori, benvenuti alle grotte di Castellana. Vi prego di accomodarvi nel piazzale alle mie spalle, noi lo chiamiamo “la Hall”, presto vi raggiungerà la guida». Raffaele e Lucia lo ringraziarono, scesero i primi scalini, ritrovandosi in una zona più bassa, alle spalle del negozio di cristalli; insieme a loro altre dodici persone attendevano l’arrivo della guida. Il gruppo era formato soprattutto da adulti, due coppie di ragazzi e una di anziani turisti stranieri che parlavano tra di loro in inglese, rivolgendosi agli altri in Italiano. Alcuni minuti più tardi giunse la guida: una signora dagli abiti sportivi e stivali che sorrise al gruppo, facendo segno con le mani di mettersi in cerchio. «Buongiorno, signori, e benvenuti alle grotte di Castellana. Quest’anno è particolarmente importante per noi, perché scade il cinquantesimo dalla scoperta effettuata dallo speleologo Franco Anelli e perché dopo alcuni lavori, abbiamo
21 riaperto, da solo una settimana, la grotta Bianca, una vera magnificenza! «Mettetevi in fila per due e seguitemi. Nelle grotte non c’è pericolo di perdersi, perché ci sono chiare indicazioni sul come uscire. Siete pregati di una sola accortezza: se doveste sentire mancanza d’aria, nodi alla gola, respiro affannoso, avvisatemi subito. Di qui». La guida si girò e fece cenno al gruppo di seguirla, scendendo larghi scalini ricavati nella roccia che giravano sulla sinistra. Quando gli scalini divennero meno larghi e più scivolosi, la guida si fermò e tornò a guardare il gruppo. «Questa è La Grave, l’ingresso delle grotte, appoggiatevi ai passamano se avete scarpe poco adatte alle escursioni, perché il suolo è umido. Come potete notare, il caratteristico colore rosso dell’ingresso ci circonda. Alle mie spalle, comincia il percorso che Anelli percorse per primo, accompagnato soltanto da alcune torce e il suo aiutante. Prego, seguitemi». Raffaele osservò l’ingresso, rimanendo sorpreso dalla forma che aveva: schiacciato al centro e allungato verso i lati, al centro era scuro a causa della discesa, il contorno rosso mentre il centro era grigio. Dalla sua posizione, Raffaele Doria vedeva un occhio fatto di pietra. E fissava proprio lui. Lucia lo strattonò, facendogli cenno di scendere, era calma, ma non sorrideva. Sembrava tesa. «Mi fa uno strano effetto questo posto». «Anche a me, Lucia. L’ingresso sembra un occhio». «Ci ho fatto caso anche io. È molto umido, peccato non aver portato una sciarpa». Scesero gli scalini dell’ingresso e cominciarono il giro turistico vero e proprio. Videro alcune grotte ampie e illuminate, e altre particolari: la caverna della Civetta, con quel nome a causa di una
22 stalattite somigliante l’animale; la caverna dei laghetti, dove piccoli anfibi ciechi nuotavano instancabili; la caverna dei monumenti, con rocce simili a facce, dove la tradizione narrava che vi fossero impressi i volti degli uomini sfuggiti dall’inferno. A metà giro, la temperatura era salita a ventuno gradi, stabile, secondo la guida, durante tutto l’anno. Si trovavano in una piccola grotta, dal soffitto nero, senza niente di particolare o bello da osservare, eppure la guida spese più parole che negli altri posti. Raffaele era al centro della sala, e una stalattite gli sfiorava il capo. Aveva provato a spostarsi, ma per caso era tornato a posizionarsi sotto di essa. «Questa è la Grotta nera, chiamata Lupa Capitolina. Prende il nome dal colore della volta. Come potete osservare, sembra che qui dentro ci sia stato un incendio, che le pareti si siano annerite; non è così: il nero che vedete è un fenomeno naturale, un organismo che cresce soltanto in questa grotta. Appartiene alla famiglia delle muffe, in particolare è una spugna, ma le sue caratteristiche sono uniche, come la capacità di sopravvivere qui sotto, nutrendosi dell’umidità che filtra dalle rocce». La spiegazione della guida incuriosì Raffaele, che mantenne la posizione per tutta la spiegazione; quando il gruppo cominciò a spostarsi, Doria alzò lo sguardo per osservare meglio quelle rare muffe. In quel momento, qualcosa gocciolava dalla stalattite sopra la sua testa. Non volendo farsi colpire, Raffaele scartò verso destra di un passo, ma non vide nulla toccare il suolo. «Che ti succede?» chiese Lucia, colta di sorpresa per il rapido movimento dell’altro. «Nulla, credevo si stesse staccando un pezzo di stalattite». «Era acqua» rispose lei, indicando la spalla di Raffaele «e non sei stato abbastanza veloce da evitarla. Ti ha macchiato la camicia».
23 Raffaele si guardò la spalla, in effetti c’era una macchia simile all’olio: si domandò se fosse andata via con un lavaggio, prima di rimettersi in marcia dietro la guida, insieme al resto del gruppo. Le tappe successive furono: il corridoio Rosso, secondo la tradizione, di quel colore a causa di sacrifici umani perpetrati nell’antichità; il laghetto dei cristalli, uno specchio di vetro naturale creava l’illusione di un lago; la caverna della cupola e infine la Grotta Bianca. Durante la seconda metà dell’escursione, Raffaele era stato taciturno, e aveva sentito un senso di oppressione al petto e alla spalla, ma l’aveva taciuto a Lucia, per non spaventarla inutilmente. Quando giunsero alla Grotta Bianca, il senso di oppressione divenne più forte e un forte calore colpiva la zona della spalla. Raffaele cercò di resistere, stringendo i denti, dal momento che il giro era terminato e presto sarebbero usciti nuovamente all’aria aperta; si concentrò sullo spettacolo che aveva attorno, dove i cristalli nelle rocce riflettevano la minima luce artificiale, creando un gioco di specchi e riflessi, affascinante, a tratti abbagliante. Era chiamata Grotta Bianca per la luminosità data dai cristalli, unica nel suo genere. La guida stava spiegando il gioco di luce prodotto dalle rocce, quando Lucia si accorse che Raffaele barcollava, tenendosi la testa con entrambe le mani. «Guida, ha un malore!» disse ad alta voce Lucia, facendo girare tutti. La guida si avvicinò a Raffaele, che adesso si teneva la spalla sinistra, con una smorfia di dolore in volto. «Ti fa male la spalla? Anche il petto?» chiese, concitata. Non avendo risposta, la guida tastò il polso di Raffaele e lo fece sedere su una sporgenza. Tutto il gruppo rimase a osservare la mutazione dello stato di Raffaele Doria che, col passare dei secondi, riacquistava colore e tornava a
24 respirare normalmente. L’uomo aveva le lacrime agli occhi quando alzò lo sguardo verso Lucia. «Sto bene, grazie, mi mancava l’aria, ma adesso è passato». «Da quanto tempo sentiva disagio?» chiese la guida, porgendogli una bottiglia d’acqua. «Due grotte fa» rispose Raffaele, con tono sommesso, quasi di scusa. Lucia gli si avvicinò, accarezzandogli la nuca «Ora usciamo, è passato». In effetti il giro nelle grotte era terminato, e la guida li condusse in un percorso più veloce, verso la luce del giorno. Salutò tutti garbatamente, per poi avvicinarsi a Raffaele e Lucia. «Torno tra dieci minuti, così mi dite se vi siete ripresi» e scomparve dietro la biglietteria. «Come ti senti?» chiese Lucia all’uomo, che aveva cominciato a riprendere il colorito normale. «Strano, sicuramente. Mi girava forte la testa e ho sentito qualcosa» rispose l’uomo, premendo il palmo sulla fronte. «Il petto?» chiese, allarmata, Lucia. «Ora vado a chiamare un’ambulanza, meglio se ti controllano». Raffaele scosse la testa, afferrando un braccio della sua compagna. «Ora mi sento meglio, la cosa che mi ha preoccupato è aver sentito qualcuno, una voce, quando eravamo lì dentro». «Ricordi cosa dicesse?». «Non so cosa significhi, ma mi sono sentito chiamare Turhud, ripetutamente, finché non mi sono seduto. Forse era qualche altro turista che giocava un brutto scherzo, non saprei». Raffaele era evidentemente turbato. Notando la sua preoccupazione, Lucia cercò di sminuire l’accaduto. «Sicuramente. Tranquillizzati, se vuoi chiamo l’ambulanza, ma rimani calmo e vedi che starai subito bene».
25 In quel frangente era tornata la guida, avvicinandosi ai due fidanzati, osservando soprattutto Raffaele Doria. «Come si sente? Va meglio?». Raffaele si alzò in piedi, sorridendo, aveva ripreso colorito. «Decisamente meglio. Non so cosa sia stato, ma adesso sto bene». «Non si preoccupi, accade più spesso di quanto può immaginare: la mancanza di aria fresca, l’umidità, il senso di oppressione, e anche la tipicità della caverna bianca, creano campanelli d’allarme nel fisico e ci si sente male. Qualche turista giura di aver sentito parlare le statue, altri di veder muovere la civetta, uno addirittura giurò di aver visto delle dita spuntare fuori dal corridoio rosso!». Incredulo, Raffaele si grattò il capo, indeciso se rivelare o meno la propria allucinazione uditiva. Decise, dopo aver rivolto uno sguardo a Lucia, di confessare «io ho sentito qualcuno che mi chiamava Turhud , e non ho idea di cosa significhi». La guida sembrò sorpresa, ma dissimulò sorridendo e rispondendo vagamente: «Non si preoccupi, non è pazzo». Poi, rivolgendosi a entrambi i fidanzati «adesso riposatevi in albergo, dopo una notte di riposo, vi sentirete sicuramente bene». Lucia annuì, cingendo con un braccio il fianco di Raffaele: «è proprio quel che ci vuole, adesso: riposo». «Vero» confermò Raffaele. «Allora arrivederci, alla prossima» disse la guida, stringendo loro le mani, un attimo prima che si salutassero, però aggiunse: «Dov’è che alloggiate?». Fu Lucia Capraria a rispondere, marcando, col tono di voce, un certo disagio: «Isola di Vieste». La guida storse il naso, mugugnando, guardò il cielo per qualche secondo, come a cercare le parole giuste da dire. «Ha una brutta
26 fama l’albergo. È bello, moderno, tenuto a lucido, ma il proprietario e la sua famiglia sono tipi strani, loschi. Sono di Algeri» e poi, ricordando qualcosa, aggiunse sottovoce «ora che ci penso, uno dei figli di quell’Amurat Matoub, ha un bar qui alle grotte, io lo eviterei». «Troppo tardi» esordì Lucia, «ci abbiamo pranzato. Lo dicevo io, che era uguale al ragazzo della hall!». «Troppe coincidenze» disse Raffaele, pensando ad alta voce, poi, per soddisfare la propria curiosità chiese: «sa perché l’albergo si chiama Isola di Vieste?». «Girano delle voci. Si racconta che il padre di Amurat, l’attuale proprietario, aveva un battello adibito ad albergo itinerante e che, cinquanta anni fa, morì in mare, accanto al faro di Vieste. Nell’incidente, sopravvisse soltanto il figlio maggiore, Amurat». I due fidanzati salutarono la guida e tornarono in paese. Una volta parcheggiato, Raffaele non si diresse subito in albergo; andò, invece, in una cartoleria, uscendone con un libricino in mano: parlava di Vieste. «Sei il solito complottista» disse, divertita, Lucia Caprara, vedendo il libricino arrotolato, stretto nel pugno di Raffaele. «Può essere, però sono curioso di leggere qualcosa su questo paese pugliese; sono affascinato da tutta questa storia». «Va bene» rispose Lucia, guardandosi attorno. «Però adesso, un giro nel paese lo facciamo», aggiunse, senza ammettere repliche. Raffaele fu ben lieto di svagare, e acconsentì con un sorriso alla proposta della sua fidanzata. I due ragazzi si diressero verso il centro del paese, dove c’era il mercato, aggirandosi tra le bancarelle variopinte con mille prodotti esposti. Lucia si soffermò su un gruppo di banchi che esponevano capi di abbigliamento, scarpe, trucchi e tendaggi; Raffaele, poco distante, chiacchierava con un rivenditore di vinili e autoradio. I due fidanzati si
27 riunirono alle bancarelle di prodotti tipici pugliesi, dove acquistarono alcune bottiglie di vini locali, Negroamaro e Nero di Troia, dei formaggi e pasta fresca, per portarsi i sapori di quel posto nella loro casa. Dopo gli acquisti, Lucia si mise a osservare l’esposizione di quadri di un artista locale. Tra le opere esposte, per lo più paesaggistiche, ce ne era una differente: ritraeva un uomo dallo sguardo strabico, con una sciabola in mano e una lunga serie di cadaveri ai suoi piedi. Lucia rabbrividì a quella vista e osservò Raffaele fare altrettanto. I due ragazzi si avvicinarono all’artista, intenzionati a domandargli di quel quadro, ma furono interrotti da una serie di urla. Poco distante da loro, si era formata una folla, urlante e inferocita. Raffaele colse diversi insulti, pronunciati da persone diverse: anche alcuni commercianti del mercato si erano uniti alla folla, lasciando incustodite le bancarelle. Raffaele si avvicinò al gruppo più numeroso, facendo segno a Lucia di restare ferma, ma lei lo seguì ugualmente, prendendogli la mano. Quel che Raffaele vide, lo fece sobbalzare: c’era un uomo disteso a terra, e tanti, nella folla, lo prendevano a calci e gli sputavano addosso. «Ma cosa succede?» chiese sconvolto Raffaele Doria al primo uomo col quale incrociò lo sguardo. «Questo bastardo ha cercato di rapire Mimmo, il bebè di Carmela Natale, la commerciante delle tende. L’ha preso mentre lei stava parlando con un cliente e ha cominciato a correre; Carmela ha urlato e l’abbiamo fermato. Abbiamo chiamato la polizia, adesso lo porteranno dentro, questo pezzo di merda!». Raffaele e Lucia si scambiarono uno sguardo, allibiti: la vittima della folla era divenuto un carnefice. Non sapevano cosa pensare. «Andiamo via di qua, non mi piace questa ressa» disse Lucia, supplicando il proprio compagno.
28 «Hai ragione, ce ne andiamo via subito». I due fidanzati diedero le spalle alla folla, uscendo dal mercato. Avevano percorso pochi metri quando le volanti della polizia sopraggiunsero sul luogo, con le sirene spiegate; la folla si girò, chiamando i poliziotti e quello fu l’unico momento che ebbe il rapitore per fuggire, divincolandosi nel momento più propizio per scomparire alla vista. Qualcuno cercò di seguirlo, un commerciante gli sbarrò la strada, ma il rapitore fu più veloce, e riuscì a fuggire. Raffaele, a poca distanza da tutto ciò, vide l’uomo infilarsi in un vicolo e la polizia addentrarsi nel mercato: non l’avevano visto. «Lucia, tu aspetta qua, ho visto dove è fuggito quell’uomo, se spiegassi il dove ai poliziotti, lo perderei di vista. Torno subito». Senza aspettare una risposta, Raffaele scattò, percorrendo a grandi falcate la piazza del mercato in linea trasversale, intercettando l’uscita del vicolo nel quale era entrato il mancato rapitore. Fu proprio in quel momento che l’uomo uscì dal vicolo. Si guardò alle spalle, e non vide nessuno, poiché Raffaele si era appiattito contro il muro. Col fiato corto e il volto tumefatto, il rapitore si coprì il volto col cappuccio e si accese una sigaretta, simulando serenità e confondendosi nei passanti; effettuò un percorso a zigzag tra le vie della città, entrando e uscendo dai vicoli, osservandosi più volte alle spalle: Raffaele continuava a osservarlo dalla strada principale, senza inoltrarsi nei vicoli, per non essere scoperto. Infine, vide il rapitore bussare pesantemente a una porta. Il genovese scattò per qualche metro, e si acquattò dietro un bidone della spazzatura a tre metri dal malcapitato rapitore; dalla sua posizione riusciva a vedere le gambe dell’altro, irrequiete, davanti alla porta. Qualcuno aprì da dentro, Raffaele vide solo una parte del pantalone, ma riconobbe la voce.
29 «Che ci fai qui? Perché hai il volto ridotto in quello stato?». Raffaele era sicuro si trattasse di Amurat, il proprietario dell’albergo e, a conti fatti, quella porta doveva essere il retro della hall. «Fammi entrare! Cazzo!» rispose il rapitore. L’anziano non rispose con parole, ma con i fatti: si sentì un sonoro “paf” e il rapitore ruzzolò a terra, col labbro spaccato a sangue. «Idiota! Vattene ora, e crepa da un’altra parte». «Padre, non chiudere» implorò il rapitore, cercando di rialzarsi, ma l’anziano aveva già sbattuto la porta. Dopo un attimo di indecisione, il figlio di Amurat tornò a correre; questa volta Raffaele rimase fermo dietro il cassonetto, indeciso sul da farsi. Infine, decise di tornare da Lucia e raccontarle tutto. «Che razza di gente è questa?» chiese, incredula, Lucia Capraria. «Raffaele, andiamocene subito. È meglio se questa storia finisce qui». «Voglio parlare con la polizia, Lucia, quell’uomo, Amurat, potrebbe sapere qualcosa sul nascondiglio del figlio». «Non invischiamoci ancora di più in questa storia, per piacere. Andiamocene subito e torniamo a Genova. Se proprio sei stanco, possiamo fermarci in un albergo strada facendo, ma qui non voglio rimanerci». Raffaele, innervosito, allargò le braccia in un gesto teatrale: «Va bene! Prendiamo le nostre cose e andiamo via. Al diavolo questo paese e me, che ho avuto l’idea di venire qui giù!». Detto ciò, Raffaele si diresse, a passo spedito, verso l’Isola di Vieste, seguito a breve distanza da Lucia, intenzionati entrambi a ritirare i propri bagagli, con una scusa, e partire il prima possibile. Attraversata la strada, Raffaele rallentò, Lucia lo raggiunse e continuò a procedere verso l’ingresso dell’albergo; alcuni passi dopo, si accorse che Raffaele si era fermato: era piegato in due,
30 con le braccia si teneva lo stomaco e digrignava i denti, sudava, tremava. Lucia gli prese il volto, notando che scottava «Raffaele, cos’hai?». «Crampi». La voce del ragazzo era forzata, sofferente, tesa. Lucia lo prese sotto una spalla e l’aiutò a raggiungere l’ingresso dell’albergo. Nella hall c’era Amurat che venne loro incontro, con aria seria e tesa. «Signor Doria, si sente bene?» chiese il proprietario dell’albergo, in tono cortese. Raffaele non rispose, lo fece Lucia per lui: «per nulla, ha bisogno di stendersi e di bere qualcosa, mi può portare dell’acqua in camera, per piacere?». «Ma certo signorina, ve la mando subito, voi nel frattempo mettetevi comodi. Se lo desiderate vi chiamo un medico, per essere sicuri». «Grazie» rispose Lucia, accompagnando Raffaele verso le scale, «gliene sarei molto grata». )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD