In uscita il 31/3/2017 (14,50 euro) Versione ebook in uscita tra fine mrzo e inizio aprile 2017 ( ,99 euro)
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DONATO RUGGIERO
TUTTO TRANNE IL CANE
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TUTTO TRANNE IL CANE Copyright © 2016 Zerounoundici Edizioni ISBN: 978-88-9370-085-2 Copertina: immagine proposta dall’Autore
Prima edizione Marzo 2017 Stampato da Logo srl Borgoricco – Padova
A Lidia, insostituibile compagna di vita A Giovanni, stimolo continuo e autentico narratore
PRIMA PARTE
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«Prendi, questi sono i tuoi soldi. Con l’organizzazione hai chiuso». «Perché?». «I tuoi spicci ormai non servono più». «Non è giusto! Fatemi parlare con lui». «Fidati, lascia perdere» e così dicendo i due uomini, ben vestiti, ben curati e con occhiali neri, che pochi minuti prima erano giunti senza appuntamento nell’ufficio dell’imprenditore edile Ugo Biallugi, lasciarono quelle stanze. «Ah, nella valigetta c’è anche un regalo, chiamiamola una buonuscita, e un consiglio. Seguilo». Dopo averli osservati oltrepassare la porta, senza la forza di aggiungere altro, Ugo Biallugi si riaccomodò pesantemente sulla sua poltrona dalla quale pochi attimi prima s’era staccato con rabbia. Aperta la valigetta priva di combinazione, diede una fugace occhiata alle numerose mazzette di banconote e volse subito il suo sguardo verso quella piccola busta bianca priva di qualsiasi elemento vergato. L’aprì ed estrasse un piccolo cartoncino, anch’esso bianco. Solo quattro parole e nessun mittente: “Il silenzio è vita”. «Simone! Simone! Dai, che sta facendo buio». Scodinzolando, dopo aver salutato una busta di plastica, sua casuale amica di gioco, il piccolo Simone si avvicinò alla sua padroncina, non proprio felice di rientrare a casa.
8 Erano nati lo stesso giorno. Lei, Simona Belli, nove anni, viso un po’ allungato, di quelli non proprio anonimi, biondina, di quel biondo che tende a scomparire con gli anni, gracilina ma temprata, nonostante la giovanissima età, dalla famiglia, dal quartiere. Lui, Simone, un Dachshund per i tedeschi, un bassotto qui da noi, taglia ovviamente piccola, adeguata a un Dachshund, o a un bassotto, pelo corvino, con quelle caratteristiche macchie marroni che invadevano il muso e le zampe, anche lui temprato dal contesto socio-familiare. Sì, erano nati lo stesso giorno, non tra le stesse mura ma nella stessa famiglia. Il padre, un vero pater familias, aveva già deciso, senza conoscere il sesso del nascituro, che la tradizione del primogenito di famiglia sarebbe proseguita: a ogni Angelo o Angela doveva seguire un Simone o Simona. Da diverse generazioni nella famiglia Belli si usava così, e il nostro Angelo Belli, padre di Simona Belli, non voleva di certo tirarsi indietro. Ma poi un maschio bisognava pur farlo nascere, i Belli non potevano morire. Quartiere Palaschi, periferia. Un termitaio di grigi palazzi e zero verde, o quasi. Fanno eccezione due minuscole piazze con sei esemplari di Populus alba ciascuna, volgarmente detto pioppo bianco, non proprio grandi, non proprio belli a vedersi, e la nuova strada, la “stradina Pancalli” o “Pancallina”, fatta realizzare dal nuovo sindaco, Arturo Pancalli, con i suoi due filari di alberi smorti (anche in questo caso, per non mutare troppo l’abitudine visiva dei residenti, la scelta era ricaduta sul Populus alba). Era qui che la vita dei due Simoni scorreva lenta ma non proprio anonima. Era qui che Angelo Belli, padre di Simona, padrone di Simone, viveva. Era qui che Angelo Belli lavorava. Era qui che Angelo Belli gestiva i suoi affari.
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Lui, Angelo Belli, marito di Livia Cotili, padre di Simona Belli, padrone di Simone il Dachshund, o bassotto, viveva nel quartiere Palaschi da dodici anni e da dodici anni, o quasi, teneva le redini del quartiere, il suo quartiere. Alto un metro e settantasei, fisico robusto ma non proprio muscoloso, capelli scuri, come i suoi occhi, sempre corti e spinosi, barba nera, con quei peli rossicci che spuntavano qui e là, sempre corta e spinosa, e quel difetto all’anulare destro. Era estate, una calda estate, una solita estate. Angelo, Vittorio, entrambi dieci anni, e Arturo, futuro sindaco Arturo Pancalli, due anni più grande, condividevano da alcuni anni buona parte delle loro giornate tra le viuzze e gli spazi del loro piccolo quartiere. E al canale, quel canale scuro e insalubre sulla cui riva destra era sorto quel piccolo quartiere e dove, pochi anni dopo, sulla riva sinistra, sarebbe sorto il quartiere Palaschi, il quartiere di Angelo. Tre erano gli svaghi preferiti dai nostri: tirare calci a un pallone, regalo ricevuto da Vittorio per i suoi otto anni, ormai privo del colore originario; osservare il canale, le varie sfumature che assumeva durante il giorno, dovute agli scarichi misteriosi che vi affluivano, o gli oggetti che spesso apparivano e scomparivano tra le sue acque; fumare, possibilmente prendendo in prestito le sigarette dai genitori o, meglio ancora, dagli avventori del baretto dell’angolo. Soprattutto il terzo era il gioco che più divertiva il trio. Prenderle in casa era piuttosto semplice, una per volta dal pacchetto dei padri così da non creare sospetti. Sì, perché i tre fumavano di nascosto. Il gioco più eccitante, però, era rubarle al baretto. C’era sempre qualcuno che lasciava incustodito il proprio pacchetto sul bancone, mentre sorseggiava il caffè e adulava la bella Sonia, la barista, o sul tavolo, mentre leggeva il giornale. Un particolare importante: era un bar-tabacchi.
10 Era il 6 luglio, data marchiata a fuoco nella mente di Angelo, ed era il suo turno. Come sempre, dal vetro diedero un’occhiata alla situazione e davanti ai loro occhi si presentò l’occasione più ghiotta mai presentata: una stecca di sigarette, integra, lì sola, sul tavolino accanto alla porta. Il proprietario, come spesso accadeva, distratto, badava alla bella Sonia. La tattica solita, o quasi: uno dei tre entra e va al bancone a chiedere qualcosa, il secondo, dal vetro, studia i movimenti dei clienti identificando il proprietario del malloppo, il terzo attende l’ok dal secondo, entra, agisce ed esce. Angelo fu fulmineo. Pochi secondi e la stecca era sotto la sua maglietta, fuori dal baretto. Girato l’angolo, di corsa verso il canale, il posto più sicuro per gustarsi il premio. «Wow, sono quelle col cammello!» disse Arturo. «Che si fa? Non abbiamo mai avuto tanta roba in mano» ribatté Angelo. «Intanto apriamo il paccone, assaggiamone qualcuna e poi le nascondiamo» rispose Arturo. Vittorio parlava poco, ma agiva. Aprì il lungo contenitore, estrasse un pacchetto, rimosse l’involucro e letteralmente estirpò tre sigarette spartendole. Terminato il giro di fumo si ripresentò il problema: dove nasconderle? Non distante vi era un fusto da cinquantacinque galloni in acciaio, nato per contenere carburante, forse un regalo degli americani della seconda guerra mondiale. «Ci sono. Mettiamole lì sotto» disse Arturo indicando il fusto. «Secondo me non ce la faremo mai ad alzarlo» rispose Angelo. «Proviamo» replicò Arturo. In sé, il fusto non doveva pesare poi troppo, anche per tre ragazzi di quell’età, ma al suo interno vi era del liquido, verosimilmente acqua piovana entrata da alcuni fori superficiali circolari, forse il ricordo di proiettili, e il suo peso si faceva sentire nello sforzo dei tre. Vittorio iniziò le operazioni spingendo la parte alta,
11 buttandosi addosso al contenitore a peso morto. Gli altri due, dal basso, tentavano di alzarlo inserendo le mani nello spazio che stava aumentando lentamente tra il bordo del fusto e il terreno. «Ancora un po’! Ci siamo quasi!» urlò Angelo. Riuscirono ad alzarlo il giusto perché ci fosse spazio a sufficienza per inserire l’intero dono. Angelo allora allungò la mano per prendere la stecca non più integra poggiata a terra. Improvvisamente, alle spalle, giunse quella voce: «Ehi voi, cosa fate lì?». La risposta fu un infinito, lancinante grido che colse di sorpresa l’uomo. All’udire della voce adulta, istantaneamente, Arturo e Vittorio reagirono lasciando di scatto il fusto e voltandosi. Angelo no. Fu un attimo. Il pesante fusto piombò, nonostante fosse comunque poca la luce tra il bordo e il terreno, sulle quattro dita della mano destra di Angelo che lo sorreggevano. Le quattro falangi prossimali si spezzarono. Furono sei lunghi mesi. Quella mano bloccata e la causa di quella mano bloccata tennero Angelo in gabbia sino all’inverno successivo. E l’inverno, nella mente di Angelo, tardava ad arrivare ma riuscì a trascorrere quei sei mesi in modo produttivo: imparò a utilizzare la mano sinistra. Nessun medico, intanto, in quei sei mesi fatti di controlli, si accorse della lesione al tendine dell’anulare. Non riuscì più a muovere quel dito in modo corretto e restò mancino. Non fumò mai più. Non rubò mai più. Per il fisco, Angelo Belli era il proprietario di un’agenzia immobiliare, la “Casa e Sogni”, sita al piano terra della palazzina B. Qui, non da lui direttamente ma da suo cugino Pietro Belli e consorte, Maria Lucia, dapprima Costa, ora Belli, venivano affittati e venduti gli appartamenti del quartiere. Sì, perché tutte le abitazioni del quartiere Palaschi erano gestite, teoricamente per
12 conto dell’amministrazione comunale, dalla “Casa e Sogni”, un regalo del vecchio sindaco Cortalli. Un modo legale e onesto per tenere sotto controllo il quartiere, chi vive e chi muore. E per fare guadagni. La vita di Simona scorreva sempre uguale, o quasi. La mattina, se non era domenica, estate o feste comandate, a scuola. “Istituto G. Parini”, un alveare di tre padiglioni, quattro piani ciascuno e innumerevoli classi, rispettivamente per scuola materna, elementari e medie. Raccoglieva tutti i possibili frequentatori dei quattro quartieri posti quasi a quadrato intorno ad essa: il Palaschi, il piccolo vecchio quartiere al di là del canale e i due nuovi quartieri che l’uomo stava plasmando negli ultimi cinque anni, entrambi posti a sud dei precedenti quartieri. La scuola era nata con il quartiere Palaschi, era sulla riva Palaschi. L’Istituto G. Parini distava da casa Belli poche centinaia di metri e Simona vi andava da sola, o meglio, con Flavia, l’amichetta del quarto piano della Palazzina C, la sua palazzina. E con Flavia trascorreva spesso i pomeriggi e la domenica. Compiti, giochi o passeggiate nel quartiere, Simona amava trascorrere il suo tempo con lei. L’ombra di Simona era Simone. Il Dachshund, o bassotto, era legato simbioticamente a lei. E lei a lui. Esclusa la scuola, dove il quadrupede non era ammesso, la restante parte della giornata la trascorrevano insieme. Anche nei momenti condivisi con Flavia Simone c’era. Solo quando era papà Angelo a chiederle di lasciare il cane a lui, lei si staccava da Simone e a malincuore eseguiva il desiderio-ordine paterno. «Io e Simone usciamo». «Va bene, tesoro. Dove andate?» chiese Livia Cotili, madre di Simona.
13 «Giù» fu la risposta secca ma esaustiva di Simona. E “giù” era sotto casa. Nel primo pomeriggio Simona, dopo una mattinata passata a scuola, e dopo il pranzo in famiglia, portava sempre “giù” Simone, il loro primo momento d’intimità della giornata (la mattina, appena sveglia, c’era poco tempo per dedicare il giusto spazio al bassotto di casa). Livia conosceva la riposta ma amava ascoltare quelle tre lettere, g-i-ù, e guardare l’espressione felice degli occhi della sua piccola mentre le pronunciava. Simone e la sua accompagnatrice camminavano lungo le vie che separavano i palazzi e le palazzine. Dopo tante ore trascorse in casa, doveva pur sgranchirsi le corte zampe e adempiere i suoi bisogni fisiologici. Il giro, il solito giro, dopo la sosta alla piazzetta Verde, e la scelta del pioppo bianco da annaffiare o concimare, ogni giorno diverso, terminava sempre con una fugace apparizione nel “dietro” del palazzo. Ogni palazzina aveva un “dietro”. Il “dietro” era uno spazio aperto, pavimentazione priva d’asfalto, posto sul lato opposto all’ingresso, dove s’affacciava l’imbocco ai garage sotterranei e dove i piccoli abitanti delle palazzine si ritrovavano per passare il tempo, ognuno nel suo “dietro”. E anche se i “dietro” di alcuni dei palazzi, a causa del piano progettuale, s’affrontavano, l’illustre architetto Gatti, fiero ideatore del termitaio, aveva deciso, «saggiamente» diceva, di dividerli con dei bei muri in cemento alti tre metri. Tre metri e diciassette centimetri, per essere precisi. A poterli vedere dall’alto, i singoli palazzi si presentavano come dei quadrati grigi. Sì, l’illustre architetto Gatti aveva deciso di creare dei perfetti parallelepipedi a base quadrata, abbracciati su due lati da una “L” scoperta verso l’alto, i due segmenti della lettera erano la viuzza d’accesso ai garage e il più ampio “dietro”.
14 A scuola le carte umane erano mischiate, nel quartiere no. Ogni abitante sotto i dodici-tredici anni conosceva la regola: ognuno nel suo “dietro”. Unico punto d’incontro, maschile, era il torneo di calcetto tra palazzi organizzato con frequenza casuale. Campo da gioco l’enorme spiazzo-parcheggio dell’Istituto G. Parini. E poi c’erano i vialetti che collegavano i vari edifici, con quella cospicua presenza di panchine occupate dai ragazzi più grandi. Essere “più grande” voleva dire avere tredici-quattordici anni, raramente quindici: ormai troppo grandi perché stiano nel “dietro” del proprio palazzo, ma ancora bloccati nel limbo, ancora lontani dall’ottenere un motorino per spostarsi in città, unico mezzo utile per abbandonare quell’umanità. Spesso accadeva che durante il giro Simona s’imbattesse in questi piccoli gruppi di ragazzi, dalle tre alle cinque unità, fermi sulle panchine a parlottare. Erano, appunto, quelli del limbo, quelli che definiremmo prepotenti, sfrontati, bulli, quelli che avevano avuto le prime “storie”, quelli che fumavano e, alcuni, che avevano già fatto un piccolo passo oltre le sigarette. Ma che amavano anche il pallone. «Ecco il cane e la sua cagnolina!». «Lasciala un po’ con noi quella palla di pulci, così ci divertiamo!». «Ma quant’è basso sto topo?!». Lei quasi sempre non badava e andava oltre. Quasi sempre. E Livia era sempre lì, in casa, che aspettava il suo rientro, quello che precedeva la nuova uscita verso casa di Flavia, due piani più su. Livia Cotili, accento sulla “o”, moglie di Angelo Belli, madre di Simona Belli, viso dolce, con quei suoi grandi occhi scuri, capelli castani, una volta biondicci, tagliati a fil di spalle, mediamente alta, mediamente magra, mediamente bella, era la
15 classica moglie di casa. Premurosa, paziente, affettuosa, casalinga. Conosceva Angelo da sempre: stesso quartiere, stesso palazzo, stesso pianerottolo. Una vita trascorsa insieme, da amici, da fidanzati, da coniugi. Lei amava tutto di lui, lui amava tutto di lei. «Buongiorno e benvenuto alla Casa e Sogni». Era la classica frase che Maria Lucia Belli, una volta Costa, pronunciava alla vista del nuovo uomo, solitamente erano uomini, che attraversava la porta a vetri della sua agenzia, l’agenzia di Angelo Belli. «Buongiorno, il mio nome è Dino Luti. Può ben immaginare il motivo della mia visita». Dino Luti, sulla trentina, o poco meno, piuttosto alto, si direbbe almeno un metro e ottanta, capelli corti, viso dall’espressione furba, abbigliamento impeccabile. Uomo per niente timido arrivava subito al dunque, così come accaduto il giorno precedente con sua moglie, o almeno così le aveva fatto credere. «Domani vado in quel quartiere, il Palaschi, e cerco casa. Dicono sia piuttosto tranquillo, con case grandi e abbordabili. C’è anche una scuola, chissà, puoi provare a chiedere il trasferimento lì. Non possiamo continuare a vivere nel tinello dei tuoi» e con tinello indicava quelle due piccole stanze che i suoi suoceri, il signor Buglio e consorte, avevano gentilmente concesso alla propria figlia, Marta Buglio, oggi Luti, e a Dino. Temporaneamente. «Immagino» rispose seccamente Maria Lucia, capelli corvini, occhi scuri e molto grandi, donna filiforme, non molto alta, esteticamente curata. Di tanto in tanto comparivano personaggi del genere alla sua scrivania, sbrigativi e un po’ sfrontati. Ma è il lavoro, si sa, anche se lei preferiva che questo tipo di cliente si
16 presentasse il pomeriggio, quando lei era a casa e suo marito in agenzia. «Ha dunque una casa da propormi o avrò semplicemente buttato una mattinata per raggiungere questo posto?» riprese all’attacco Dino Luti. «Se davvero interessato non avrà buttato la sua mattinata» ribatté risoluta Maria Lucia. «Al momento la nostra disponibilità è di tredici appartamenti. Un attimo e glieli mostro» e sulla spoglia scrivania, oltre a un portadocumenti e un faldone, pieno sì e no la metà, c’era solo qualche penna, il telefono e una foto, in un portafoto d’argento, che ritraeva la sua famiglia, Pietro, Maria Lucia e i due figli Arturo e Michele, sistemò il foglio della planimetria del quartiere Palaschi. A matita, così da poter cancellare senza problemi, erano cerchiati gli appartamenti vuoti, o meglio, era cerchiato il palazzo e accanto erano poste alcune cifre, una per il piano e una per l’interno. «Una premessa: gli appartamenti sono tutti uguali in fatto di metratura e numero di stanze, salvo eccezioni dovute a lavori realizzati dai precedenti occupanti. Ben pochi, in realtà. La scelta, dunque, è piuttosto semplice: mi dica la lettera del palazzo e il numero dell’appartamento e l’accompagno subito a visionarlo». L’illustre architetto Gatti, illuminato progettista del quartiere Palaschi, aveva creato una sorta di centuriazione moderna in cui installare i suoi parallelepipedi a base quadrata chiamati palazzine. Quattro quadrati, cinti da strade, quattro palazzine per quadrato ma non sedici palazzine: diciassette. Sì, perché l’illustre architetto Gatti era fissato con questo numero ma non ne faceva parola con nessuno. Le sue palazzine avevano nove piani, quattro appartamenti per piano, quadrati anch’essi, cento metri quadri ognuno, sette stanze ognuno, appartamenti posti a due a due affrontati e divisi da un corridoio. La parte restante del piano era
17 occupato dalle rampe di scale. La fantasia dell’illustre architetto Gatti, a quanto pare, terminò al momento di assegnare i nomi alle palazzine. Decise dunque per dei semplici nomi alfabetici, dalla A alla S. La palazzina S era la prescelta, la diciassettesima, era quella isolata in fondo alla strada centrale, verso il canale, raggiunta da una Via Trionfale larga lo spazio giusto per il doppio senso stradale e per due marciapiedi con panchine e lampioni. L’ultima, tarda, aggiunta dell’illustre architetto Gatti, le due piazzette circolari esterne, «un ulteriore tocco umano» diceva, chiamate, motivo sconosciuto, piazza Gialla e piazza Verde, posizionate al centro delle strade parallele alla Via Trionfale. Come in una battaglia navale, Dino Luti disse semplicemente «B, 2-6», aveva scelto la palazzina B, secondo piano, interno 6. La stessa palazzina di Maria Lucia Belli. Lei non disse nulla. Estratta la chiave dalla serratura, Maria Lucia accese le luci e invitò il signor Dino Luti a entrare. «Cento metri quadri, sette stanze, cucina, soggiorno, due camere da letto, bagno, sgabuzzino ed eventuale studio o sala per gli ospiti. Guardi pure» disse Maria Lucia. Pochi minuti fatti di sguardi attenti, qualche domanda sulle utenze e pochi altri dettagli. «È perfetta» disse, senza giri di parole, Dino Luti. «Va bene, possiamo tornare in ufficio per i dettagli burocratici allora» rispose prontamente Maria Lucia. «Veniamo subito al dunque. Io non posso pagare tutto in una soluzione, come potrà ben immaginare» dichiarò speditamente Dino Luti. «Nessun problema, la soluzione c’è, come potrà ben immaginare» ribatté Maria Lucia, con altrettanta determinazione. «Le soluzioni sono due: la prima, ovviamente, richiedere un prestito bancario;
18 la seconda richiedere un nostro prestito privato. Non so se si è già informato ma il tasso d’interesse attuale praticato dalle banche, per un mutuo a lunga scadenza, è del dodici percento. Il nostro anche. Le differenze tra le due forme di prestito sono poche ma fondamentali: noi non chiediamo garanzie, la banca sì; noi non siamo fiscali sulle scadenze dei pagamenti, la banca sì». Le parole di Maria Lucia, chiare, senza fronzoli, esplicite, disorientarono il cliente. Dalla sua poltrona, dopo aver perso per qualche secondo la sua sicurezza, Dino Luti si riprese e parlò. «Un vostro prestito privato? È legale?» chiese legittimamente Dino Luti. «Tutto alla luce del sole. Stia tranquillo» rispose serenamente Maria Lucia. «Mmm, sa, forse qualche problemino sulla puntualità potrebbe presentarsi. Credo che accetterò il vostro prestito» disse infine Dino Luti. «Saggia scelta» rispose soddisfatta Maria Luisa. «La pratica per il prestito, però, non la prepariamo qui in sede. Deve recarsi nell’ufficio del nostro direttore. Non è distante, è sempre qui nel quartiere, palazzina S, quella in fondo al viale centrale, interno 34. Ah, il suo nome è Angelo Belli, se vuole, ora lo trova lì» aggiunse. «Va bene, grazie. Vado subito. Arrivederci». «Grazie a lei. Arrivederci». Sì, Angelo Belli prestava soldi. A strozzo, o quasi. Suonò, interno 34. Nessuna risposta, solo il sibilo elettrico dell’apertura del portone. Ascensore, nono piano. Suonò, interno 34. Il buio di quella casa-ufficio lo spiazzò.
19 «Se fossi libero in questo strano mondo sarei senz’altro tra quelli più importanti. Oggi la gente comprende finalmente quanto piacere nasconde la mia arte. Io sono un artista». Sebbene non la conoscesse, seguì la voce di Fabio Celi, alias Antonio Cavallaro, seguì anche l’unica lama di luce che fuoriusciva dall’unica porta aperta su sette, la seconda dell’ala sinistra. In piedi, di spalle alla porta, la mano sulla manopola del volume del suo giradischi, la fonovaligia Lesaphon Sagittario LF380.A, un vecchio regalo di suo padre, mai abbandonato, c’era Angelo Belli. Non spense, attenuò soltanto. «Buongiorno» una sola parola, quel tono deciso, profondo, bastò per far dissolvere la sicurezza in Dino Luti. «Buongiorno, il mio nome è Dino Luti» rispose con voce leggermente tremula, una novità per Dino Luti. «Che appartamento ha scelto?». Amava giungere subito al punto. «Palazzina B, secondo piano, interno 6». «Ottima scelta», la sua risposta solita. «Dovrà solo decidere la modalità di pagamento delle rate: bonifico o contanti. In base alla scelta le indicherò la prassi. Ci pensi. Ci rivediamo tra due giorni». Amava essere diretto. Amava concedere il tempo per pensarci. Amava vedere due volte i volti dei suoi beneficiari. «Va bene, grazie». Dino Luti, così com’era entrato, uscì. Il potere dei Belli era di fresca data. Nasceva con Angelo Belli, padre di Simone Belli, nonno del nostro Angelo Belli, quasi per caso. Erano gli anni del primo dopoguerra, la famiglia Belli viveva in quel piccolo quartiere al di là del canale, poche case e qualche primo, timido accenno di palazzo. Lui, grazie a una piccola eredità e a un buon lavoro, non faceva mancare nulla alla
20 sua famiglia. Quella richiesta, quel vicino in difficoltà che chiedeva soldi in prestito promettendo un rimborso più sostanzioso, aprì un nuovo mondo agli occhi di Angelo Belli. Iniziò a prestare soldi. A strozzo. Il suo giro restò, in verità, piccolo, conoscenti del quartiere, piccole somme, ma buoni utili. Il figlio Simone imparò ben presto il mestiere del padre proseguendo su quella strada, anche lui senza mai rischiare troppo. Si viveva bene restando «un piccolo prestatore», come lui amava definirsi. Angelo, quando fu il suo “turno”, decise di fare il salto. Fisico innanzitutto, conquistare il nuovo grande quartiere sorto negli anni a poche centinaia di metri dal suo quartiere natio, sull’altra sponda del canale. Una piccola città periferica alla grande città. Ci riuscì. «Com’è andata oggi, tesoro?». A casa, palazzina C, secondo piano, interno 7, ogni sera, Livia chiedeva com’era andata la giornata al suo tesoro, ad Angelo. «Abbiamo un nuovo arrivo nella famiglia Palaschi». «Son contenta. Che tipi sono?» chiese ancora. «Lui, a prima vista, una brava persona. Lei non l’ho ancora conosciuta». «E a te, amore? Com’è andato il tuo pomeriggio?» l’attenzione di Livia si spostò su Simona. E Simona raccontò, come ogni giorno, la sua passeggiata con Simone, i suoi incontri, l’incontro. Non tutti i giorni, ma spesso le accadeva di incrociare, davanti alla palazzina D, quel gruppetto, tre ragazzi insolenti. «Non è per me, io mi so difendere» diceva dall’alto dei suoi nove anni, «È per Simone. Delle volte gli tirano delle cose e rischiano di colpirlo. È soprattutto quello scemo di Fabrizio che gli dà fastidio».
21 «Sono degli immaturi. Passerà anche a loro» rispondeva affettuosamente sua mamma. Angelo si limitava ad ascoltare e sorridere. Fabrizio era Fabrizio Assennato, alto, smilzo, capelli neri, lunghi e mossi, sempre sul viso. Fiera guida di quella triade di idioti, alla sua destra Aurelio Casamassimi, alla sua sinistra Piero Citti, godeva nel punzecchiare i due Simoni. Poche volte Angelo era intervenuto in quello scontro, l’ultima volta circa quattro mesi prima. Quel giorno avevano passato il limite: un fucile ad aria compressa era comparso nelle mani del capo-idiota, Simone rischiò di perdere l’uso della zampa anteriore sinistra. Lui intervenne da padre, senza violenza ma solo con le parole («sono le parole che fanno sanguinare gli irrispettosi»). Per un po’ di tempo funzionò. Fabrizio Assennato era il figlio di Michele Assennato, palazzina D, terzo piano, interno 9. Michele Assennato era l’altra faccia della medaglia del potere nel quartiere Palaschi. Se Angelo Belli muoveva i suoi affari all’interno del quartiere, o almeno così era stato, in modo esclusivo, per anni, prima di affacciarsi al nuovo mondo, Michele Assennato da sempre faceva parte di questo mondo esterno, e i loro percorsi, in quegli anni di vicinato, si erano incrociati una sola volta per poi riprendere a essere due rette parallele. I numerosi affari, spesso illegali, portarono ben presto Michele Assennato a guardare al quartiere Palaschi semplicemente come dimora e non come territorio da conquistare. I suoi interlocutori in quel tipo di manovre erano personaggi ben diversi dai semplici inquilini di anonimi appartamenti in anonime palazzine. Viveva lì perché quella casa era il primo regalo fatto a se stesso e alla sua famiglia con i primi guadagni, aveva scelto la periferia perché, si sa, i controlli e la giustizia, lì, hanno le maglie molto più larghe, ma era anche il
22 forte legame affettivo instaurato nel tempo con quelle grigie pareti a tenerlo ancora ancorato al Palaschi. I due giorni passarono in fretta. Dino Luti tornò nel quartiere Palaschi, il suo nuovo quartiere. Palazzina S, suonò, interno 34. Nessuna risposta, solo il sibilo elettrico dell’apertura del portone, ma lui sapeva già. Ascensore, nono piano. Suonò, interno 34. «Qualcuno mi ha insegnato che un buono tra la gente va in paradiso, ma non ha capito niente. E mi ha insegnato pure di andare sempre avanti, di fare a gomitate, ma gli ostacoli son tanti». Questa volta non seguì la voce di Alvaro Fella con i suoi Jumbo ma andò direttamente verso la lama di luce della seconda porta sulla sinistra. Sempre in piedi, sempre di spalle alla porta, sempre con la mano sulla manopola del volume del suo giradischi, c’era Angelo Belli. Non abbassò, questa volta spense. «Bentornato. Deciso?» solito tono determinato, profondo. «Buongiorno. Sì, contanti» rispose leggermente più sicuro di sé, rispetto all’ultimo incontro, Dino Luti. «Perfetto. Passiamo noi. Arrivederci». La scelta era semplice. Nel caso dei contanti, un suo uomo si recava a casa del cliente ogni mese per riscuotere il dovuto, semplicemente. Non era pizzo quello che gli uomini di Angelo incassavano, era la riscossione della rata mensile del prestito, semplicemente. Prima, però, Maria Lucia Belli, della “Casa e Sogni”, avrebbe contattato e incontrato il cliente per quantificare la rateizzazione. Nel caso il cliente non fosse stato in grado di rispettare le scadenze, Angelo Belli avrebbe aspettato, semplicemente. Se la scelta ricadeva sul bonifico, invece, Angelo Belli indicava un numero di conto, variando di volta in volta tra i suoi numerosi conti sparsi ai quattro angoli del mondo,
23 semplicemente. Anche in questo caso seguiva il contatto della “Casa e Sogni”. «Arrivederci». Neanche il tempo di entrare in quella casa-ufficio e Dino Luti era di nuovo in strada, un po’ spiazzato dalla rapidità dell’incontro. Prima di accomiatarsi, però, il suo sguardo attento s’era soffermato su diversi particolari di quella stanza e, uscendo, il suo occhio non aveva potuto far a meno di osservare, per un breve istante, quella prima camera sulla sinistra con la porta socchiusa e quei mobili alle pareti, forse scansie, che di certo non sembravano vuoti. Il Filantropo, così Angelo Belli era conosciuto, così Angelo Belli preferiva essere chiamato. Il Filantropo era filantropo perché generoso, a suo modo, sempre pronto ad aiutare gli altri, a suo modo. Questa sua bontà e quei tassi d’interesse bassi avevano fatto la sua fortuna. Ovviamente non bisognava giocare con la sua pazienza. Fuori dal quartiere lo chiamavano La Banca perché prestava a interessi da banca. La Banca ad Angelo Belli non piaceva. Nel suo quartiere, il suo regno, il suo mondo, era Il Filantropo. Questo sì, a lui piaceva. E grazie al suo essere filantropo non aveva lesinato aiuti nei confronti della sua famiglia: se ai tempi di suo padre, buon’anima, l’economia “girava” solo intorno a Simone Belli e figli, oggi, con Angelo, il giro s’era allargato anche ad altri familiari. Suo fratello Flavio aveva scelto un’altra via. Il quartiere Palaschi, nel progetto dell’illustre architetto Gatti, non si limitava alla sola centuriazione delle palazzine alfabetiche e all’Istituto G. Parini, sì, anche la scuola nasceva dalla penna dell’illustre architetto Gatti. Nel suo disegno illuminato,
24 completato negli anni seguenti da altre mani, vi erano anche la piccola chiesa di San Michele e dei nuovi palazzi, più alti, dodici piani, e più grandi, otto appartamenti per piano, posti ai lati, ai tre lati, dei quattro quadrati della centuriazione alfabetica. Si, l’illustre architetto Gatti aveva previsto l’incremento umano del quartiere. Erano questi i palazzi, non palazzine, cosiddetti nominali: Pirandello, Manzoni, Petrarca…, un buontempone comunale aveva deciso così. E l’illustre architetto Gatti era giunto a quel progetto non per caso. L’illustre architetto Gatti, Umberto Gatti, era il figlio di Girolamo Gatti, armatore e intimo amico degli ultimi due re d’Italia e del duce, nonché grande amico dell’ex sindaco Eugenio Cortalli, professione imprenditore edile. Oltre a essere un grande amico, era anche un grande finanziatore degli appalti, soprattutto i primi in ordine temporale, ottenuti da Cortalli. Tra questi, il primo grande appalto aggiudicato quando già vestiva i panni del sindaco fu quello della costruzione di un grande quartiere residenziale periferico, il futuro quartiere Palaschi. Per ringraziare l’amico armatore, il sindaco Cortalli decise di donare al neoarchitetto, e neopadre, Umberto Gatti, figlio di Girolamo Gatti, la progettazione del nascituro quartiere. Cortalli non visionò mai quel progetto, a lui interessava solo incassare i soldi dell’appalto. Nacque, intanto, in questa occasione l’etichetta “illustre architetto” coniata dai colleghi più maturi. La proprietà immobiliare di Angelo Belli nel quartiere Palaschi non si esauriva con l’appartamento della palazzina C e con l’ufficio della palazzina S, quella posta a meno di venti metri dal canale. Il Filantropo aveva fin da subito preso possesso dell’intero nono piano della palazzina S, interni 33, 34, 35 e 36. E un’ulteriore abitazione, per mostrare ancor più la sua presenza,
25 l’aveva acquistata, o forse no, tempo dopo, nei nuovi palazzi, quelli nominali, al primo piano del Boccaccio, palazzo posto tra l’Istituto G. Parini e la centuriazione alfabetica. E quell’abitazione del palazzo Boccaccio, primo piano, interno 2, era vuota. O meglio, non c’erano inquilini “vivi” ma vi viveva la più grande passione di Angelo Belli: i libri. I libri erano quasi un’ossessione per Angelo Belli, tutte le stanze dell’interno 2 del palazzo Boccaccio straripavano di libri. Ogni sabato e domenica, spesso con tutta la famiglia, era solito frequentare librerie e mercatini e tornare a casa con le mani occupate. Non solo libri ma anche fumetti. Le storie raccontate da quel mondo cartaceo lo attraevano sin da piccolo. In ogni stanza di quella biblioteca personale vi erano un divano e una poltrona in pelle nera, affrontati. I fumetti, più rapidi, li leggeva in poltrona, i libri, più impegnativi, sul divano. Non solo libri e fumetti. Angelo Belli, ogni mattina, nel suo ufficio, leggeva anche il solito quotidiano, da oltre undici anni. Negli ultimi anni, soprattutto, era sorto in lui un forte interesse verso la cronaca giudiziaria, osservare come personaggi ricchi e influenti del mondo della politica e dell’economia tentavano in ogni modo di diventare ancor più ricchi e influenti, rischiando di finire schiacciati dal collasso del proprio castello di carte, l’incuriosiva molto. E poi, molti di quei nomi, lui li conosceva bene. «Luca, i ragazzi sono arrivati?». «Sì, papà. Ti attendono in salotto». «Arrivo. Falli accomodare». Nella sala, assieme a Luca Assennato, figlio maggiore di Michele Assennato, vi era una serie di visi non certo rassicuranti, nove per la precisione. Erano gli uomini di fiducia di Assennato, il braccio
26 di Assennato. Anche Luca faceva parte della squadra, era il numero dieci. «Ciao ragazzi, verrò subito al punto. Come ben sapete, dopo quel tragico quindici marzo, gli affari avevano subito un brusco rallentamento per poi ripartire alla grande poco dopo. Ora ci sono nuovi problemi, grossi, che non riguardano direttamente me, noi, ma che comunque ci toccano. Per un po’, sul fronte “grosso” saremo fermi, fino a nuovo ordine. Per il resto, gli altri affari continueranno. Ovviamente, come sempre, vi chiedo di tenere gli occhi aperti. Non so cosa, ma qualcosa potrebbe accadere. Potete andare». «Ciao Michele, sono Cortalli». Un paio di settimane prima, era sera, Assennato era in casa, la cena in famiglia stava per iniziare quando squillò il telefono. «Ciao Eugenio». «Ci sono problemi. Chiudi le ultime cose e poi fermati. Ti aggiorno io». «Va bene». «Avrei anche un altro favore da chiederti». «Dimmi pure». «Riguarda Angelo Belli». «Non aggiungere altro. Non posso aiutarti. Lo sai». «Sicuro di non voler sapere di cosa si tratta?». «Sicuro». «Va bene. Ci sentiamo». Michele tornò a tavola, la squisita pasta alla Norma di sua moglie aveva atteso fin troppo per essere gustata. «Niente, non possiamo contare su di lui. Avevo sperato di risolvere due problemi in un colpo solo ma ero troppo ottimista. Dovevo immaginarlo. Ci riproveremo in altro modo».
27 «E per il libro, allora?» chiese con un pizzico di ansia l’illustre architetto Gatti. «Rivolgiamoci altrove. Ho già un paio di idee». «Ciao Pietro». Una volta a settimana, il mercoledì, di pomeriggio, Angelo Belli era solito fare un salto presso l’agenzia “Casa e Sogni”. «Ciao Angelo, tutto bene?». Pietro Belli, cugino di Angelo Belli, attendeva la sua solita visita. «Solito. Nuovi vuoti?». Il motivo della sua visita era essere aggiornato, crudamente, sulle morti del quartiere, sui nuovi appartamenti che sarebbero diventati vendibili. Raramente qualcuno lasciava il quartiere da vivo. «No, questa settimana tutto fermo» rispose Pietro dalla sua poltroncina, uno dei pochi pezzi d’arredamento di quell’ufficio che, insieme alla scrivania, a un paio di librerie con una serie di faldoni e alle due sedie imbottite destinate ai clienti, rendeva il tutto piuttosto spartano. «Ok, grazie. Salutami Maria Lucia e i due giovanotti. Ci vediamo». Dieci anni, erano passati dieci anni dalla nascita della “Casa e Sogni”, pensò Angelo uscendo. Undici anni prima, o poco più, quell’incontro, quella richiesta, quell’esito, lo resero ancor più padrone del quartiere Palaschi. «Salve, sono Eugenio Cortalli, il sindaco Eugenio Cortalli. Avrei una richiesta da farle, in privato». «Passi da me domattina, quartiere Palaschi, palazzina S, nono piano, interno 34». «Va bene. A domani».
28 Questo fu il primo rapido contatto telefonico Cortalli-Belli. La richiesta fu scontata, Angelo Belli già immaginava: un prestito. Tre le novità per Angelo Belli in quella richiesta: la prima, l’interlocutore, solitamente prestava a “gente comune” del quartiere; la seconda, la destinazione del prestito, solitamente il denaro era richiesto dagli abitanti del quartiere per far fronte ai mutui o alle spese delle proprie attività; ma soprattutto la terza, la cifra, una cifra decisamente elevata, molto elevata, per i suoi standard. Nessuna delle tre novità spaventò Angelo. «Le farò avere i suoi soldi». «Non dubitavo. Arrivederci». Nonostante il suo operato si svolgesse nel quartiere Palaschi, la sua fama di Filantropo aveva già passato i limiti fisici del quartiere. Ora anche il suo business stava per spiccare il volo oltre quelle mura trasparenti. Come solito, Angelo non chiedeva mai la destinazione dei suoi soldi, solitamente sapeva già. In questo caso, però, non sapeva e non chiese. Due mesi dopo, due mesi era il termine per il rientro del prestito con gli interessi, questa la proposta di Cortalli, quella telefonata: «Sono Cortalli. Ci sono problemi. Mi faccio vivo io». Nessuna parola da parte di Angelo. Era Il Filantropo, sapeva aspettare. Trascorsero altri due mesi, poi Cortalli suonò, palazzina S, interno 34. «Ci sono stati dei problemi, grossi. L’affare è andato in fumo e rischia di andare in fumo anche la mia carriera politica. I suoi soldi non torneranno» disse con la sicurezza dell’uomo politico Cortalli, anche se un velo di paura nelle sue parole, per un orecchio attento come quello di Angelo Belli, si notò. «Quindi?» rispose calmo Angelo.
29 «Le faccio una proposta. Sono ancora il sindaco di questa città, quindi posso farle un enorme regalo. Quanti appartamenti ci sono in questo quartiere?». «Diciassette palazzine di nove piani, quattro appartamenti per piano. Poi ci sono i nuovi palazzi, non tutti pronti, forse ne alzeranno sei, forse otto, da dodici piani e otto appartamenti per piano». «Una marea» rispose secco il sindaco Cortalli, quasi sopraffatto da quelle cifre. La proposta: la gestione diretta degli affitti e delle vendite delle case del quartiere per i prossimi novantanove anni. Guadagni puliti alla luce del sole. Angelo accettò. «La giunta non potrà non approvare. In molti mi devono qualcosa». La giunta approvò. Quell’episodio aprì due nuove strade negli affari di Angelo Belli. La prima, importante: la gestione diretta sulle case del quartiere permetteva di non dover mai prestare fisicamente i soldi ai suoi beneficiari, prima di quel giorno, anche se sempre più di rado, capitavano ancora dei prestiti “fisici”. La seconda, fondamentale: allargare il suo giro d’investimento, fuori dal quartiere. Grandi giri, grandi guadagni. La “Casa e Sogni” diventò il “registro” di quartiere, la sua mente il “registro” fuori dal quartiere. «Ciao Angelo. Come va?». Il flusso di pensieri fu interrotto dal saluto di Italo Montini. Capelli corti brizzolati, occhi scuri, fisico asciutto e piuttosto basso rispetto ad Angelo Belli, Italo Montini era stato il primo collaboratore assoldato dal Filantropo, il primo riscossore, un amico del quartiere natio con cui i contatti non erano mai venuti meno.
30 «Ciao, Italo. Scusa ma non t’avevo proprio visto. Tutto nella norma comunque. Ho fatto un salto da Pietro e ora torno in ufficio. Tu? Come procede il giro odierno?». «Tutto nella norma anche quello. Un altro paio di incontri e per oggi il lavoro può dirsi concluso». «Perfetto. Ah, appena hai un po’ di tempo passa dal mio ufficio. C’è un nuovo arrivo in famiglia». «Ottima notizia. Passo nei prossimi giorni. Oggi pomeriggio non posso, devo portare i piccoli in piscina». L’attenzione di Angelo passò poi alla gigantesca figura che affiancava Italo Montini, la quale rendeva quest’ultimo quasi un nano al confronto. «Ciao, Valentino. È un po’ che non ci vediamo. Come stai?». Valentino era Valentino Betti, detto Colosso, l’ultimo acquisto in casa Belli. «Bene, bene» non era di molte parole. «Come va la convivenza col vecchiaccio?». Da meno di un anno Valentino Betti condivideva quasi tutte le giornate, e il lavoro, con Italo Montini, il quale, per via della sua lunga esperienza e per quei capelli non più neri che gli donavano alcuni anni in più, veniva chiamato amichevolmente “vecchiaccio”. «Lo tengo a bada». «Bravo, bravo» rispose sorridendo Angelo Belli notando l’espressione divertita sul volto dei due. «Con te allora ci vediamo presto» disse Angelo a Italo, e aggiunse: «Buon lavoro ragazzi». Le strade dei tre si divisero, Angelo Belli si diresse verso la palazzina S, Italo Montini e Valentino Betti verso la palazzina A. Italo Montini e Valentino Betti erano solo due di un nutrito gruppo di collaboratori che Angelo Belli aveva creato intorno a sé negli anni per far fronte alla crescita degli affari ma anche per
31 mantenere la quiete nel quartiere. Tra questi vi era anche Aldo Cotili, il cognato, fratello di Livia. )LQH DQWHSULPD &RQWLQXD